Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Incarnazione. La Sicurezza è nella insicurezza: Venuta, Preghiera e svolta, tra fragore di flutti.
(Lc 21,25-28.34-36)
Che tipo di Venuta è?
E per quale motivo vogliamo che il Signore si renda presente nella nostra vita?
Attendiamo una scorciatoia - un atto di potenza - che pareggi il mare grosso in tempesta?
Infatti non sembra nello stile d’una Buona Notizia parlare di «fragore del mare e dei flutti» o ribadire: «vegliate sui cuori appesantiti».
Ma c’è un modo sapiente per intendere queste espressioni, che non è quello già collocato nel paradigma morale delle culture religiose.
Nella tradizione osservante di tutti i popoli, l’insicurezza è percepita come uno svantaggio.
Secondo luoghi comuni, i maestri spirituali constatano il progresso quando un’anima dall’esistenza mescolata e disordinata supera i suoi parapiglia in favore dell’ordine e della tranquillità.
Ma l’esperienza nello Spirito è più intimamente inquieta che palese. Né è lo stesso di generica “vita spirituale” animata da un senso devoto che si distacca da istanze trasversali, per un ideale di “calma coerente”.
Così condizionati da un indottrinamento omologato al saper “stare in società”, attendiamo d’incontrare piamente nostro Signore nei momenti bui, ma affinché ridoni fortuna.
Lo aspettiamo nel tempo dei problemi economici, perché ci renda vantaggio con una vincita; nelle vicende umilianti, per farci risalire la china.
Nella solitudine, perché faccia incontrare la persona giusta.
Nei pericoli… desiderando che almeno Lui trasmetta forza per ribaltare la situazione.
E nella malattia immaginiamo ridoni vigore giovanile.
Così nella babele, che (infine, almeno) comunichi relax - meglio, trionfo.
Nei Vangeli Gesù cerca di far capire ai suoi dove e quando incontrare autenticamente Dio.
Ma nell’attesa delle sue «Promesse» - e che si manifesti addirittura come «nostra-Giustizia» [prima Lettura] - facciamo difficoltà a procedere oltre l’esteriore.
Proiettiamo le nostre idee anche in religione - però la Fede se ne distacca. Valuta con mentalità opposta.
Ad esempio, capita di non riuscire a incontrare un amico perché sbagliamo tempi e luoghi dell’appuntamento.
Succede anche con Dio.
L’insicurezza proclamata dai Vangeli somiglia proprio a un «fragore del mare e dei flutti» (v.25)… ma si tratta di Lieta Novella!
Sebbene tendiamo a dare un senso di permanenza a ciò che abbiamo vissuto e credevamo di “essere”, ripetutamente sperimentiamo che le nostre certezze mutano - proprio come i flutti.
Gesù insegna che la vera dubbiosità sorge paradossalmente da un qualche nostro identificativo che tenta (comicamente) di pareggiare le onde della vita.
Invece l’essenza di ciascuno sgorga da una Sorgente vivace, che tutti i giorni fa quel che deve.
Abitudini, visuali, modi di essere rassicuranti di stare con le persone e affrontare situazioni, tagliano fuori la ricchezza delle nostre sfumature preziose; buona parte dei nostri stessi volti.
E nascite e ringiovanimenti che ci appartengono.
L’impatto interiore delle molte sollecitazioni di questo Nucleo cosmico [e personale] insinua uno squilibrio inevitabile e fecondo, che rischiamo però d’interpretare in modo negativo; appunto, come fastidio.
Nella mente dell’uomo che schiva le oscillazioni, quel genere di «onda» che viene per farci ragionare sulle cose antiche è subito identificata come pericolo identitario.
La stessa Provvidenza - l’«onda» che vede avanti - è forse bollata d’inquietudine, anche da chi ci consiglia.
Nell’uomo ideale come cesellato dai moralismi normalizzanti, l’«acqua» paludosa delle pulsioni è quella che sporca e trascina a terra. E il Cielo sarebbe sempre limpido e netto “sopra” la terra.
Invece spesso è il pensiero, un’identificazione culturale a monte, che produce insicurezza e tormento.
Il pregiudizio ci vessa ben più della realtà oggettiva, che scende in campo per rinfrescare la nostra anima e renderla lieve come la «spuma del mare» crudamente incarnata.
Per una evoluzione verso il miglioramento, Gesù vuole un discepolo permeabile alle Novità che scuotono l’antico «status».
La mancanza di dubbio che il Signore intende trasmettere non fa rima con il meccanismo delle abitudini.
La certezza che desidera donarci non è quella falsa - dell’immutabilità pigra di cose sempre uguali.
Lo stato di difesa e “prevenzione” sarà forse caratteristica d’una vita trascorsa nel ripiegamento interessato, che dribbla gli scossoni - non cifra della Vita nello Spirito.
Il Vangelo di oggi augura ai credenti di essere fortemente critici, e pure insicuri: non dice «tu devi essere così», né «tu sei questo» - «noi ce l’abbiamo fatta, perché non tu?».
[L’identità di s. Benedetto non è quella di s. Francesco, sebbene siano entrambe figure radicate a fondo (come le circostanze) nella medesima Sorgente; Fonte originaria, però di Acqua zampillante].
Bisogna tuffarsi nei «flutti», bisogna conoscere queste «onde»; perché il nostro punto fermo non è nelle cose esterne o che lasciamo notare in vetrina, ma alla Scaturigine dell’Essere.
La scorza delle apparenze condanna alla peggiore fluttuazione, alla meno vantaggiosa delle insicurezze: credere che mantenendo (ad es.) i livelli economici o il prestigio, raggiungendo quel traguardo, scalando il tabellone dei titoli, così via, eviteremo frustrazioni, scanseremo angosce, saremo finalmente senza contrasti e persino felici.
Ma in tal guisa la nostra anima non si rafforza, né vola verso territori ancora sconosciuti; piuttosto, si posa nel recinto dell’aia più omologante.
Invece siamo vivi, e la giovinezza che conquista il Regno viene dal caos dei sommovimenti.
I missionari sono animati da questa sola sicurezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» dove nessuna onda somiglia alle altre.
Insomma, sulla base della Parola di Dio, forse anche il colore liturgico viola dovrebbe assumere una reinterpretazione - assai più vitale, graffiante e profonda di quella che pensavamo di aver capito.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Avvento: per quale motivo vuoi che il Signore Venga e si renda Presente nella tua vita?
Oggi la Chiesa inizia un nuovo Anno liturgico, un cammino che viene ulteriormente arricchito dall’Anno della fede, a 50 anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il primo Tempo di questo itinerario è l’Avvento, formato, nel Rito Romano, dalle quattro settimane che precedono il Natale del Signore, cioè il mistero dell’Incarnazione. La parola «avvento» significa «venuta» o «presenza». Nel mondo antico indicava la visita del re o dell’imperatore in una provincia; nel linguaggio cristiano è riferita alla venuta di Dio, alla sua presenza nel mondo; un mistero che avvolge interamente il cosmo e la storia, ma che conosce due momenti culminanti: la prima e la seconda venuta di Gesù Cristo. La prima è proprio l’Incarnazione; la seconda è il ritorno glorioso alla fine dei tempi. Questi due momenti, che cronologicamente sono distanti – e non ci è dato sapere quanto –, in profondità si toccano, perché con la sua morte e risurrezione Gesù ha già realizzato quella trasformazione dell’uomo e del cosmo che è la meta finale della creazione. Ma prima della fine, è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni, dice Gesù nel Vangelo di san Marco (cfr Mc 13,10). La venuta del Signore continua, il mondo deve essere penetrato dalla sua presenza. E questa venuta permanente del Signore nell’annuncio del Vangelo richiede continuamente la nostra collaborazione; e la Chiesa, che è come la Fidanzata, la promessa Sposa dell’Agnello di Dio crocifisso e risorto (cfr Ap 21,9), in comunione con il suo Signore collabora in questa venuta del Signore, nella quale già comincia il suo ritorno glorioso.
A questo ci richiama oggi la Parola di Dio, tracciando la linea di condotta da seguire per essere pronti alla venuta del Signore. Nel Vangelo di Luca, Gesù dice ai discepoli: «I vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita … vegliate in ogni momento pregando» (Lc 21,34.36). Dunque, sobrietà e preghiera. E l’apostolo Paolo aggiunge l’invito a «crescere e sovrabbondare nell’amore» tra noi e verso tutti, per rendere saldi i nostri cuori e irreprensibili nella santità (cfr 1 Ts 3,12-13). In mezzo agli sconvolgimenti del mondo, o ai deserti dell’indifferenza e del materialismo, i cristiani accolgono da Dio la salvezza e la testimoniano con un diverso modo di vivere, come una città posta sopra un monte. «In quei giorni – annuncia il profeta Geremia – Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia» (33,16). La comunità dei credenti è segno dell’amore di Dio, della sua giustizia che è già presente e operante nella storia ma che non è ancora pienamente realizzata, e pertanto va sempre attesa, invocata, ricercata con pazienza e coraggio.
La Vergine Maria incarna perfettamente lo spirito dell’Avvento, fatto di ascolto di Dio, di desiderio profondo di fare la sua volontà, di gioioso servizio al prossimo. Lasciamoci guidare da lei, perché il Dio che viene non ci trovi chiusi o distratti, ma possa, in ognuno di noi, estendere un po’ il suo regno di amore, di giustizia e di pace.
[Papa Benedetto, Angelus 2 dicembre 2012]
1."Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza . . . di comparire davanti al Figlio dell'uomo" (Lc 21, 36).
Le parole di Cristo, riportate dal Vangelo di Luca, ci introducono nel significato profondo della Liturgia che stiamo celebrando. In questa prima domenica di Avvento, che segna l'inizio del secondo anno di preparazione immediata al Giubileo del Duemila, risuona quanto mai viva ed attuale l'esortazione a vegliare e pregare, per essere pronti all'incontro col Signore.
Il pensiero va innanzitutto all'incontro del prossimo Natale, quando ancora una volta ci inginocchieremo davanti alla culla del neonato Salvatore. Ma la mente corre anche verso la grande data del Duemila, nella quale la Chiesa intera rivivrà con intensità del tutto particolare il mistero dell'Incarnazione del Verbo. Verso quel traguardo siamo invitati ad accelerare il passo, facendoci guidare, soprattutto durante il presente anno liturgico, dalla luce dello Spirito Santo. Rientra, infatti, "negli impegni primari di preparazione al Giubileo la riscoperta della presenza e dell'azione dello Spirito, che agisce nella Chiesa" (Tertio millennio adveniente, 45).
In questa prospettiva, il Comitato del Grande Giubileo continua a svolgere il suo lavoro con lodevole impegno. Il suo prezioso servizio ecclesiale merita di essere incoraggiato, specialmente in questa fase ormai tanto prossima alla storica scadenza. Grazie alle iniziative di animazione e di coordinamento poste in atto da tale organismo centrale, potrà essere sempre meglio orientato e stimolato il cammino che condurrà il Popolo di Dio a varcare la soglia del terzo millennio.
6. "Ecco, verranno giorni . . . nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto" (Ger 33, 14). Mediante l'azione dello Spirito, il Signore conduce la storia della salvezza attraverso i secoli fino al suo supremo compimento.
"Manda il tuo Spirito e rinnova la faccia della terra!". Come su Maria, Vergine dell'Avvento, manda su di noi il tuo Spirito. Manda il tuo Spirito, o Signore, sulla città di Roma e rinnova il suo volto! Manda il tuo Spirito sul mondo intero che si prepara ad entrare nel terzo millennio dell'era cristiana.
Aiutaci ad accogliere, come Maria, il dono della tua divina presenza e della tua protezione. Aiutaci ad essere docili ai suggerimenti dello Spirito, affinché possiamo annunciare con coraggio ed ardore apostolico il Verbo che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi: Gesù Cristo, il Dio fatto Uomo, che ci ha redenti con la sua morte e risurrezione. Amen!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 30 novembre 1997]
Il Vangelo della Liturgia di oggi, prima domenica di Avvento, cioè la prima domenica di preparazione al Natale, ci parla della venuta del Signore alla fine dei tempi. Gesù annuncia eventi desolanti e tribolazioni, ma proprio a questo punto ci invita a non avere paura. Perché? Perché andrà tutto bene? No, ma perché Egli verrà. Gesù tornerà, Gesù verrà, lo ha promesso. Dice così: «Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). È bello ascoltare questa Parola di incoraggiamento: risollevarci e alzare il capo perché proprio nei momenti in cui tutto sembra finito il Signore viene a salvarci; attenderlo con gioia anche nel cuore delle tribolazioni, nelle crisi della vita e nei drammi della storia. Attendere il Signore. Ma come si fa ad alzare il capo, a non farci assorbire dalle difficoltà, dalle sofferenze, dalle sconfitte? Gesù ci indica la via con un richiamo forte: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano […]. Vegliate in ogni momento pregando» (vv. 34.36).
“Vegliate”, la vigilanza. Fermiamoci su questo aspetto importante della vita cristiana. Dalle parole di Cristo vediamo che la vigilanza è legata all’attenzione: state attenti, vigilate, non distraetevi, cioè restate svegli! Vigilare significa questo: non permettere che il cuore si impigrisca e che la vita spirituale si ammorbidisca nella mediocrità. Fare attenzione perché si può essere “cristiani addormentati” – e noi sappiamo: ce ne sono tanti di cristiani addormentati, cristiani anestetizzati dalle mondanità spirituali – cristiani senza slancio spirituale, senza ardore nel pregare – pregano come dei pappagalli – senza entusiasmo per la missione, senza passione per il Vangelo. Cristiani che guardano sempre dentro, incapaci di guardare all’orizzonte. E questo porta a “sonnecchiare”: tirare avanti le cose per inerzia, a cadere nell’apatia, indifferenti a tutto tranne che a quello che ci fa comodo. E questa è una vita triste, andare avanti così… non c’è felicità lì.
Abbiamo bisogno di vigilare per non trascinare le giornate nell’abitudine, per non farci appesantire – dice Gesù – dagli affanni della vita (cfr v. 34). Gli affanni della vita ci appesantiscono. Oggi, dunque, è una buona occasione per chiederci: che cosa appesantisce il mio cuore? Che cosa appesantisce il mio spirito? Che cosa mi fa accomodare sulla poltrona della pigrizia? È triste vedere i cristiani “in poltrona”! Quali sono le mediocrità che mi paralizzano, i vizi, quali sono i vizi che mi schiacciano a terra e mi impediscono di alzare il capo? E riguardo ai pesi che gravano sulle spalle dei fratelli, sono attento o indifferente? Queste domande ci fanno bene, perché aiutano a custodire il cuore dall’accidia. Ma, padre, ci dica: cosa è l’accidia? È un grande nemico della vita spirituale, anche della vita cristiana. L’accidia è quella pigrizia che fa precipitare, scivolare nella tristezza, che toglie il gusto di vivere e la voglia di fare. È uno spirito negativo, è uno spirito cattivo che inchioda l’anima nel torpore, rubandole la gioia. Si incomincia con quella tristezza, si scivola, si scivola, e niente gioia. Il Libro dei Proverbi dice: «Custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita» (Pr 4,23). Custodire il cuore: questo significa vigilare, vegliare! Siate svegli, custodisci il tuo cuore.
E aggiungiamo un ingrediente essenziale: il segreto per essere vigilanti è la preghiera. Gesù infatti dice: «Vegliate in ogni momento pregando» (Lc 21,36). È la preghiera che tiene accesa la lampada del cuore. Specialmente quando sentiamo che l’entusiasmo si raffredda, la preghiera lo riaccende, perché ci riporta a Dio, al centro delle cose. La preghiera risveglia l’anima dal sonno e la focalizza su quello che conta, sul fine dell’esistenza. Anche nelle giornate più piene, non tralasciamo la preghiera. Adesso stavo vedendo, nel programma “A sua immagine”, una bella riflessione sulla preghiera: ci aiuterà, guardarla ci farà bene. Può esserci di aiuto la preghiera del cuore, ripetere spesso brevi invocazioni. In Avvento, abituarci a dire, ad esempio: “Vieni, Signore Gesù”. Soltanto questo, ma dirlo: “Vieni, Signore Gesù”. Questo tempo di preparazione al Natale è bello: pensiamo al presepio, pensiamo al Natale, e diciamo dal cuore: “Vieni, Signore Gesù, vieni”. Ripetiamo questa preghiera lungo tutta la giornata, e l’animo resterà vigile! “Vieni, Signore Gesù”: è una preghiera che possiamo dire tre volte, tutti insieme. “Vieni, Signore Gesù”, “Vieni, Signore Gesù”, “Vieni, Signore Gesù”.
E ora preghiamo la Madonna: lei, che ha atteso il Signore con cuore vigilante, ci accompagni nel cammino dell’Avvento.
[Papa Francesco, Angelus 28 novembre 2021]
La Chiamata dei pescatori
(Mt 4,18-22)
Non è la chiamata del capo, ma l’invito dell’Amico, che vive in prima persona ciò che predica, esponendosi.
Ad Abramo Dio dice «Va’ nella terra che ti indicherò». Gesù non dice «Andate», bensì «Venite»: è Lui che rischia e precede avanti, porgendosi come Agnello.
Abramo è solo un inviato; il discepolo di Cristo in cammino ripropone una Persona in relazione e tutta la sua vicenda.
«Pescatori di uomini»: il senso dell’espressione è più chiaro in Lc 5,10 [testo greco]: la nostra missione è sollevare alla vita coloro che non respirano più, soffocano, avvolti da onde impetuose, da forze di negatività.
Tirarli fuori da gorghi inquinati dove si vive in modo disumanizzante. Collocare tutti in un’acqua trasparente, con valori che non sono più quelli della società ripiegata e corrotta degli astuti.
Il Figlio di Dio chiama per invitarci a tagliar via ciò che degrada l’esperienza della pienezza personale. Egli promuove in ciascuno il dna del Dio che non crea competizione, bensì comunione.
Fondamentale è abbandonare le «reti»: ciò che avviluppa e impedisce, blocca. Anche la «barca», ossia il modo di gestire il lavoro.
Persino il «padre», che in famiglia trasmetteva la tradizione, le consuetudini (che rischiavano di offuscare la Luce nuova).
Tutte maglie da spezzare. Significa: un nuovo approccio, anche se si continua a svolgere la vita precedente.
I valori non sono più statici e banali [ricerca del consenso, sistemarsi...]: sfavillii fatui, che inculcano idoli esteriori, regolanti e uniformanti.
Per dare questi nuovi impulsi Gesù sorvola i palazzi di corte, dai quali non sarebbe nato nulla.
Neppure designa qualcuno col titolo che spetta a Lui solo: «Pastore».
Abbiamo bisogno di attenzione, non di direttori e capi che giudicano, o binari che non ci riguardano; né di modelli mentali inutili.
La donna e l’uomo d’ogni tempo hanno necessità solo di sostegno sapiente; compagni di viaggio che aiutano a scoprire i propri lati nascosti, incogniti, segreti, che possono fiorire.
La dimensione Persona è essenziale.
Certo, bisogna distrarre la mente dal conosciuto, e intraprendere la Via del ‘più in là’: nessuna scorciatoia priva d’incognite.
Strada percorsa a piedi, che cambia la propria e altrui atmosfera mentale; che sorvola il modo usato, qualunquista, esterno, di vedere le cose.
Qui, stando nella nostra Chiamata e naturalezza, saremo noi stessi a tutto tondo. E ci sorprenderemo.
Ciò nell’azzardo dell’Amore imprevedibile: solo così in grado di contattare i propri stati profondi, conoscersi; quindi realizzare sogni inattesi di vita aperta e completa, attivare energie sopite.
E come Gesù, in grado di mettere in azione chiunque s’incontra - recuperando i lati opposti e le eccentricità, per un ideale totale.
[S. Andrea Apostolo, 30 novembre 2024]
La Chiamata dei pescatori
(Mt 4,18-22)
Non è la chiamata del capo, ma l’invito dell’Amico, che vive in prima persona ciò che predica, esponendosi.
Ad Abramo Dio dice «Va’ nella terra che ti indicherò». Gesù non dice «Andate», bensì «Venite»: è Lui che rischia e precede avanti, porgendosi come Agnello.
Non si mette seduto a fare lezione e insegnare dottrine.
Abramo è solo un inviato; il discepolo di Cristo in cammino ripropone una Persona in relazione e tutta la sua vicenda.
«Pescatori di uomini»: il senso dell’espressione è più chiaro in Lc 5,10 [testo greco]: la nostra missione è sollevare alla vita coloro che non respirano più, soffocano, avvolti da onde impetuose, da forze di negatività.
Tirarli fuori da gorghi inquinati dove si vive in modo disumanizzante. Collocare tutti in un’acqua trasparente, con valori che non sono più quelli della società ripiegata e corrotta degli astuti.
Il Figlio di Dio chiama per invitarci a tagliar via ciò che degrada l’esperienza della pienezza personale. Egli promuove in ciascuno il dna del Dio che non crea competizione, bensì comunione.
Fondamentale è abbandonare le «reti»: ciò che avviluppa e impedisce, blocca. Anche la «barca», ossia il modo di gestire il lavoro.
Persino il «padre», che in famiglia trasmetteva la tradizione, le consuetudini (che rischiavano di offuscare la Luce nuova).
Tutte maglie da spezzare. Significa: un nuovo approccio, anche se si continua a svolgere la vita precedente.
I valori non sono più statici e banali [ricerca del consenso, sistemarsi...]: sfavillii fatui, che inculcano idoli esteriori, regolanti e uniformanti.
Per dare questi nuovi impulsi Gesù non sceglie ambienti sacrali e persone (forse devote) che non saprebbero rigenerare nessuno.
Il Signore sorvola i palazzi di corte, dai quali non sarebbe nato nulla.
Neppure designa qualcuno col titolo che spetta a Lui solo: «Pastore» [e non si capisce perché tutte le tradizioni denominazionali si sono poi immediatamente riempite di “pastori”...].
Abbiamo bisogno di attenzione, non di direttori e capi che giudicano, o binari che non ci riguardano; né di modelli mentali inutili.
La donna e l’uomo d’ogni tempo hanno necessità solo di sostegno sapiente; compagni di viaggio che aiutano a scoprire i propri lati nascosti, incogniti, segreti, che possono fiorire.
La dimensione Persona è essenziale, ma per la realizzazione di se stessi e del Regno di Dio è forse impossibile restare soli e vedersela a quattr’occhi col Cielo.
Certo, bisogna distrarre la mente dal conosciuto, e intraprendere la Via pur pericolosa del “più in là”: nessuna scorciatoia priva d’incognite.
Strada percorsa a piedi, che cambia la propria e altrui atmosfera mentale; che sorvola il modo usato, qualunquista, esterno, di vedere le cose.
Qui, stando nella nostra Chiamata e naturalezza, saremo noi stessi a tutto tondo. E ci sorprenderemo.
Ciò nell’azzardo dell’Amore imprevedibile: solo così in grado di contattare i propri stati profondi, conoscersi; quindi realizzare sogni inattesi di vita aperta e completa, attivare energie sopite.
E come Gesù, in grado di mettere in azione chiunque s’incontra - recuperando i lati opposti e le eccentricità, per un ideale totale.
Dice il Tao Tê Ching (LXV):
«In antico chi ben praticava la Via, con essa non rendeva perspicace il popolo, ma con essa si sforzava di renderlo ottuso».
Il maestro Wang Pi precisa: «Perspicace qui significa che offusca la propria semplicità, mettendo in mostra astuzie e falsità. Ottuso significa che non si conforma alla spontaneità, nulla sapendo e mantenendosi genuino».
E commentando il medesimo passo del Tao, il maestro Ho-shang Kung aggiunge:
«L’uomo che possiede la misteriosa virtù è contrapposto e diverso dalle creature: queste vogliono accrescere se stesse, la misteriosa virtù conferisce agli altri».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quali certezze devi ancora lasciare alle spalle?
Coltivi aperture vitali?
Se incontrassi Gesù che cammina, percorre, va oltre: come e secondo quali inclinazioni pensi che la tua sterilità potrebbe diventare feconda?
Andrea, il Protoclito
Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime due catechesi abbiamo parlato della figura di san Pietro. Adesso vogliamo, per quanto le fonti permettono, conoscere un po’ più da vicino anche gli altri undici Apostoli. Pertanto parliamo oggi del fratello di Simon Pietro, sant’Andrea, anch'egli uno dei Dodici. La prima caratteristica che colpisce in Andrea è il nome: non è ebraico, come ci si sarebbe aspettato, ma greco, segno non trascurabile di una certa apertura culturale della sua famiglia. Siamo in Galilea, dove la lingua e la cultura greche sono abbastanza presenti. Nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10,1-4) e in Luca (6,13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1,13-14). In ogni caso, egli godeva sicuramente di grande prestigio all'interno delle prime comunità cristiane.
Il legame di sangue tra Pietro e Andrea, come anche la comune chiamata rivolta loro da Gesù, emergono esplicitamente nei Vangeli. Vi si legge: “Mentre Gesù camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini»” (Mt 4,18-19; Mc 1,16-17). Dal Quarto Vangelo raccogliamo un altro particolare importante: in un primo momento, Andrea era discepolo di Giovanni Battista; e questo ci mostra che era un uomo che cercava, che condivideva la speranza d’Israele, che voleva conoscere più da vicino la parola del Signore, la realtà del Signore presente. Era veramente un uomo di fede e di speranza; e da Giovanni Battista un giorno sentì proclamare Gesù come “l’agnello di Dio” (Gv 1,36); egli allora si mosse e, insieme a un altro discepolo innominato, seguì Gesù, Colui che era chiamato da Giovanni “agnello di Dio”. L’evangelista riferisce: essi “videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui” (Gv 1,37-39). Andrea quindi godette di preziosi momenti d’intimità con Gesù. Il racconto prosegue con un’annotazione significativa: “Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo», e lo condusse a Gesù” (Gv 1,40-43), dimostrando subito un non comune spirito apostolico. Andrea, dunque, fu il primo degli Apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù. Proprio su questa base la liturgia della Chiesa Bizantina lo onora con l'appellativo di Protóklitos, che significa appunto “primo chiamato”. Ed è certo che anche per il rapporto fraterno tra Pietro e Andrea la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli si sentono tra loro in modo speciale Chiese sorelle. Per sottolineare questo rapporto, il mio predecessore Papa Paolo VI, nel 1964, restituì l’insigne reliquia di sant’Andrea, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, al Vescovo metropolita ortodosso della città di Patrasso in Grecia, dove secondo la tradizione l'Apostolo fu crocifisso.
Le tradizioni evangeliche rammentano particolarmente il nome di Andrea in altre tre occasioni che ci fanno conoscere un po’ di più quest’uomo. La prima è quella della moltiplicazione dei pani in Galilea. In quel frangente, fu Andrea a segnalare a Gesù la presenza di un ragazzo che aveva con sé cinque pani d'orzo e due pesci: ben poca cosa - egli rilevò - per tutta la gente convenuta in quel luogo (cfr Gv 6,8-9). Merita di essere sottolineato, nel caso, il realismo di Andrea: egli notò il ragazzo – quindi aveva già posto la domanda: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (ivi) - e si rese conto della insufficienza delle sue poche risorse. Gesù tuttavia seppe farle bastare per la moltitudine di persone venute ad ascoltarlo. La seconda occasione fu a Gerusalemme. Uscendo dalla città, un discepolo fece notare a Gesù lo spettacolo delle poderose mura che sorreggevano il Tempio. La risposta del Maestro fu sorprendente: disse che di quelle mura non sarebbe rimasta pietra su pietra. Andrea allora, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, lo interrogò: “Dicci quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi” (Mc 13,1-4). Per rispondere a questa domanda Gesù pronunciò un importante discorso sulla distruzione di Gerusalemme e sulla fine del mondo, invitando i suoi discepoli a leggere con accortezza i segni del tempo e a restare sempre vigilanti. Dalla vicenda possiamo dedurre che non dobbiamo temere di porre domande a Gesù, ma al tempo stesso dobbiamo essere pronti ad accogliere gli insegnamenti, anche sorprendenti e difficili, che Egli ci offre.
Nei Vangeli è, infine, registrata una terza iniziativa di Andrea. Lo scenario è ancora Gerusalemme, poco prima della Passione. Per la festa di Pasqua - racconta Giovanni - erano venuti nella città santa anche alcuni Greci, probabilmente proseliti o timorati di Dio, venuti per adorare il Dio di Israele nella festa della Pasqua. Andrea e Filippo, i due apostoli con nomi greci, servono come interpreti e mediatori di questo piccolo gruppo di Greci presso Gesù. La risposta del Signore alla loro domanda appare – come spesso nel Vangelo di Giovanni – enigmatica, ma proprio così si rivela ricca di significato. Gesù dice ai due discepoli e, per loro tramite, al mondo greco: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,23-24). Che cosa significano queste parole in questo contesto? Gesù vuole dire: Sì, l’incontro tra me ed i Greci avrà luogo, ma non come semplice e breve colloquio tra me ed alcune persone, spinte soprattutto dalla curiosità. Con la mia morte, paragonabile alla caduta in terra di un chicco di grano, giungerà l’ora della mia glorificazione. Dalla mia morte sulla croce verrà la grande fecondità: il “chicco di grano morto” – simbolo di me crocifisso – diventerà nella risurrezione pane di vita per il mondo; sarà luce per i popoli e le culture. Sì, l’incontro con l’anima greca, col mondo greco, si realizzerà a quella profondità a cui allude la vicenda del chicco di grano che attira a sé le forze della terra e del cielo e diventa pane. In altre parole, Gesù profetizza la Chiesa dei greci, la Chiesa dei pagani, la Chiesa del mondo come frutto della sua Pasqua.
Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.
Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant'Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato Passione di Andrea: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati. Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te ... O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! ... Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”. Come si vede, c'è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al Chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.
L'apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Mt 4,20; Mc 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 14 giugno 2006]
Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime due catechesi abbiamo parlato della figura di san Pietro. Adesso vogliamo, per quanto le fonti permettono, conoscere un po’ più da vicino anche gli altri undici Apostoli. Pertanto parliamo oggi del fratello di Simon Pietro, sant’Andrea, anch'egli uno dei Dodici. La prima caratteristica che colpisce in Andrea è il nome: non è ebraico, come ci si sarebbe aspettato, ma greco, segno non trascurabile di una certa apertura culturale della sua famiglia. Siamo in Galilea, dove la lingua e la cultura greche sono abbastanza presenti. Nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10,1-4) e in Luca (6,13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1,13-14). In ogni caso, egli godeva sicuramente di grande prestigio all'interno delle prime comunità cristiane.
Il legame di sangue tra Pietro e Andrea, come anche la comune chiamata rivolta loro da Gesù, emergono esplicitamente nei Vangeli. Vi si legge: “Mentre Gesù camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini»” (Mt 4,18-19; Mc 1,16-17). Dal Quarto Vangelo raccogliamo un altro particolare importante: in un primo momento, Andrea era discepolo di Giovanni Battista; e questo ci mostra che era un uomo che cercava, che condivideva la speranza d’Israele, che voleva conoscere più da vicino la parola del Signore, la realtà del Signore presente. Era veramente un uomo di fede e di speranza; e da Giovanni Battista un giorno sentì proclamare Gesù come “l’agnello di Dio” (Gv 1,36); egli allora si mosse e, insieme a un altro discepolo innominato, seguì Gesù, Colui che era chiamato da Giovanni “agnello di Dio”. L’evangelista riferisce: essi “videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui” (Gv 1,37-39). Andrea quindi godette di preziosi momenti d’intimità con Gesù. Il racconto prosegue con un’annotazione significativa: “Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo», e lo condusse a Gesù” (Gv 1,40-43), dimostrando subito un non comune spirito apostolico. Andrea, dunque, fu il primo degli Apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù. Proprio su questa base la liturgia della Chiesa Bizantina lo onora con l'appellativo di Protóklitos, che significa appunto “primo chiamato”. Ed è certo che anche per il rapporto fraterno tra Pietro e Andrea la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli si sentono tra loro in modo speciale Chiese sorelle. Per sottolineare questo rapporto, il mio predecessore Papa Paolo VI, nel 1964, restituì l’insigne reliquia di sant’Andrea, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, al Vescovo metropolita ortodosso della città di Patrasso in Grecia, dove secondo la tradizione l'Apostolo fu crocifisso.
Le tradizioni evangeliche rammentano particolarmente il nome di Andrea in altre tre occasioni che ci fanno conoscere un po’ di più quest’uomo. La prima è quella della moltiplicazione dei pani in Galilea. In quel frangente, fu Andrea a segnalare a Gesù la presenza di un ragazzo che aveva con sé cinque pani d'orzo e due pesci: ben poca cosa - egli rilevò - per tutta la gente convenuta in quel luogo (cfr Gv 6,8-9). Merita di essere sottolineato, nel caso, il realismo di Andrea: egli notò il ragazzo – quindi aveva già posto la domanda: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (ivi) - e si rese conto della insufficienza delle sue poche risorse. Gesù tuttavia seppe farle bastare per la moltitudine di persone venute ad ascoltarlo. La seconda occasione fu a Gerusalemme. Uscendo dalla città, un discepolo fece notare a Gesù lo spettacolo delle poderose mura che sorreggevano il Tempio. La risposta del Maestro fu sorprendente: disse che di quelle mura non sarebbe rimasta pietra su pietra. Andrea allora, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, lo interrogò: “Dicci quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi” (Mc 13,1-4). Per rispondere a questa domanda Gesù pronunciò un importante discorso sulla distruzione di Gerusalemme e sulla fine del mondo, invitando i suoi discepoli a leggere con accortezza i segni del tempo e a restare sempre vigilanti. Dalla vicenda possiamo dedurre che non dobbiamo temere di porre domande a Gesù, ma al tempo stesso dobbiamo essere pronti ad accogliere gli insegnamenti, anche sorprendenti e difficili, che Egli ci offre.
Nei Vangeli è, infine, registrata una terza iniziativa di Andrea. Lo scenario è ancora Gerusalemme, poco prima della Passione. Per la festa di Pasqua - racconta Giovanni - erano venuti nella città santa anche alcuni Greci, probabilmente proseliti o timorati di Dio, venuti per adorare il Dio di Israele nella festa della Pasqua. Andrea e Filippo, i due apostoli con nomi greci, servono come interpreti e mediatori di questo piccolo gruppo di Greci presso Gesù. La risposta del Signore alla loro domanda appare – come spesso nel Vangelo di Giovanni – enigmatica, ma proprio così si rivela ricca di significato. Gesù dice ai due discepoli e, per loro tramite, al mondo greco: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,23-24). Che cosa significano queste parole in questo contesto? Gesù vuole dire: Sì, l’incontro tra me ed i Greci avrà luogo, ma non come semplice e breve colloquio tra me ed alcune persone, spinte soprattutto dalla curiosità. Con la mia morte, paragonabile alla caduta in terra di un chicco di grano, giungerà l’ora della mia glorificazione. Dalla mia morte sulla croce verrà la grande fecondità: il “chicco di grano morto” – simbolo di me crocifisso – diventerà nella risurrezione pane di vita per il mondo; sarà luce per i popoli e le culture. Sì, l’incontro con l’anima greca, col mondo greco, si realizzerà a quella profondità a cui allude la vicenda del chicco di grano che attira a sé le forze della terra e del cielo e diventa pane. In altre parole, Gesù profetizza la Chiesa dei greci, la Chiesa dei pagani, la Chiesa del mondo come frutto della sua Pasqua.
Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.
Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant'Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato Passione di Andrea: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati. Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te ... O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! ... Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”. Come si vede, c'è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al Chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.
L'apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Mt 4,20; Mc 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 14 giugno 2006]
Cristo, che ha comandato di pregare per gli operai della messe, li ha anche personalmente chiamati. Le sue parole di chiamata sono conservate nel tesoro del Vangelo: «Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini» (Mt 4, 19). «Vieni e seguimi» (Mt 19, 21). «Se uno mi vuol servire, mi segua» (Gv 12, 26). Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi.
Gli ammirevoli programmi pastorali delle singole Chiese, le Opere delle vocazioni che, secondo il Concilio, devono disporre e promuovere tutta l'attività pastorale per le vocazioni (cfr. Optatam Totius, 2) aprono la strada, preparano il buon terreno alla grazia del Signore. Dio è sempre libero di chiamare chi vuole e quando vuole, secondo la «straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù» (Ef 2, 7). Ma ordinariamente egli chiama per mezzo delle nostre persone e della nostra parola. Dunque, non abbiate paura di chiamare. Scendete in mezzo ai vostri giovani. Andate personalmente incontro ad essi e chiamate. I cuori di molti giovani, e meno giovani, sono predisposti ad ascoltarvi. Molti di essi cercano uno scopo per cui vivere; sono in attesa di scoprire una missione che vale, per consacrare ad essa la vita. Cristo li ha sintonizzati sul suo e sul vostro appello. Noi dobbiamo chiamare. Il resto lo farà il Signore, che offre a ciascuno il suo dono particolare, secondo la grazia che gli è stata data (cfr. 1 Cor 7, 7; Rm 12, 6).
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XVI Giornata Mondiale per le Vocazioni]
«Oggi, in questa messa, ci faremo vicini alla Chiesa di Costantinopoli, la Chiesa di Andrea, pregheremo per la Chiesa, per l’unità delle Chiese». Con queste parole, all’inizio della celebrazione di venerdì 30 a Santa Marta, Papa Francesco ha voluto ricordare la festa liturgica di sant’Andrea. E la vocazione di «Pietro e Andrea» è stata richiamata dal Pontefice con le parole dell’antifona d’ingresso: «Sulle sponde del mare di Galilea il Signore vide due fratelli, Pietro ed Andrea, e li chiamò: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” (cfr. Matteo 4, 18-19)». L’annuncio del Vangelo, ha poi affermato il Papa, è «testimonianza» e «coerenza» fino al martirio: è una missione che prevede «il biglietto di sola andata». E non ha nulla a che vedere con il «proselitismo» e la «logica del marketing».
Nell’omelia il Pontefice ha anzitutto ripreso i contenuti dalla lettera di Paolo ai Romani (10, 9-18) proposta come prima lettura. L’apostolo, ha spiegato, «dice ai romani che è importante l’annuncio del Vangelo: portare questo annuncio, che Cristo ci ha salvato, che Cristo è morto, risorto per noi». Ma l’apostolo dice anche «come questa gente deve invocare il nome del Signore per essere salvata: “come invocheranno colui nel quale non hanno creduto?”». Perché «senza fede non si può invocare». E ancora, ha proseguito il Papa ripetendo le parole di Paolo, «come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: “Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!”».
«L’annunzio di Gesù Cristo è portare, sì, una notizia, ma non una notizia semplice, comune: la buona notizia» ha spiegato Francesco, aggiungendo che in realtà non si tratta «neppure di una buona notizia» ma della notizia, «l’unica grande buona notizia».
E «questo annunciare Gesù Cristo per i discepoli dei primi tempi e anche di questo tempo — ha detto il Pontefice — non è un lavoro di pubblicità: fare pubblicità per una persona molto buona, che ha fatto del bene, ha guarito tanta gente e ci ha insegnato cose belle». L’annuncio, ha insistito, «non è pubblicità, neppure è proselitismo». Tanto che «se qualcuno va a parlare di Gesù Cristo, a predicare Gesù Cristo per fare proselitismo, no, questo non è annuncio di Cristo: questo è un lavoro di predicatore, retto dalla logica del marketing».
Dunque, si è chiesto il Papa, «che cosa è l’annuncio di Cristo, che non è né proselitismo, né pubblicità, né marketing e come descriverlo?». Si tratta, ha risposto, «prima di tutto, di essere inviato, ma non come il capo di una ditta a cercare nuovi soci», bensì come «inviato alla missione». E «il segnale proprio, che uno è inviato alla missione» è «quando entra in gioco la propria vita: l’apostolo, l’inviato, che porta avanti l’annuncio di Gesù Cristo lo fa a condizione che metta in gioco la propria vita, il proprio tempo, i propri interessi, la propria carne». E «c’è un detto che può spiegare, un detto comune detto da gente semplice della mia terra, che dice: “per fare questo ci vuole mettere la propria carne sulla griglia”». La questione, ha ripetuto Francesco, è «mettersi in gioco e questo viaggio di andare all’annuncio rischiando la vita — perché io mi gioco la mia vita, la mia carne — ha soltanto il biglietto di andata, non del ritorno». Perché «ritornare è apostasia».
«Annuncio di Gesù Cristo con la testimonianza» dunque. E «testimonianza vuol dire mettere in gioco la propria vita: quello che io dico lo faccio» ha ribadito il Pontefice. Del resto, «Gesù rimproverava i dottori della legge di quel tempo che dicevano tante cose belle, ma facevano il contrario». Non a caso, «il consiglio che Gesù dava alla gente era: “Fate tutto quello che loro dicono, ma non imitate quello che fanno”». Infatti, ha aggiunto, «la parola per essere annuncio deve essere testimonianza».
Ma «quanto scandalo diamo noi cristiani quando diciamo di essere cristiani e poi viviamo come pagani, come non credenti, come se non avessimo fede» ha riconosciuto il Papa, invitando ad avere «coerenza tra la parola e la propria vita: questo si chiama testimonianza». E così «l’apostolo, quello che porta, l’annunciatore, quello che porta la parola di Dio, è un testimone che gioca la propria vita fino alla fine». Ed «è anche un martire».
A questo punto, ha suggerito Francesco, «qualcuno può domandarsi chi ha inventato questo metodo di far conoscere una persona come Gesù: è un metodo proprio del cristianesimo. Chi lo ha inventato? Forse san Pietro o sant’Andrea? No, Dio Padre, perché è stato il proprio metodo per farsi conoscere: inviare il suo Figlio in carne, rischiando la propria vita».
Infatti, ha fatto presente il Pontefice, «il primo atto di fede è: “Io credo che il Figlio si è incarnato”». E anche questa affermazione «scandalizzava tanto e continua a scandalizzare: Dio si è fatto uno di noi». Anche questo «è stato un viaggio — ha affermato Francesco — con biglietto soltanto di andata: il diavolo ha cercato di convincerlo a prendere un’altra strada e lui non ha voluto, ha fatto la volontà del Padre fino alla fine». Ma il suo «annuncio deve andare per la stessa strada, la testimonianza, perché lui è stato il testimone del Padre fatto carne». E anche «noi dobbiamo farci carne, cioè farci testimoni: fare, fare quello che diciamo, e questo è l’annuncio di Cristo».
«I martiri sono coloro che dimostrano che l’annuncio è stato vero» ha spiegato il Papa. Sono «uomini e donne che hanno dato la vita — gli apostoli hanno dato la vita — con il sangue». Ma sono «anche tanti uomini e donne nascosti nella nostra società e nelle nostre famiglie, che danno testimonianza tutti i giorni in silenzio di Gesù Cristo, ma con la propria vita, con quella coerenza di fare quello che dicono».
«Tutti noi siamo battezzati e abbiamo con il battesimo la missione di annunciare Gesù Cristo» ha rilanciato il Pontefice. Perciò «se noi viviamo come Gesù ci ha insegnato a vivere, viviamo in armonia con quello che predichiamo, l’annuncio sarà fruttuoso». Ma «se noi viviamo senza coerenza, dicendo una cosa e facendone un’altra contraria, il risultato sarà lo scandalo; e lo scandalo dei cristiani fa tanto male, tanto male al popolo di Dio».
«Chiediamo al Signore la grazia» — ha concluso Francesco — di fare «come Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni che hanno lasciato barca, rete, padre, famiglia: lasciare tutto quello che ci impedisce di andare avanti nell’annuncio della testimonianza». Perché «tutti noi abbiamo qualcosa da lasciare dentro, tutti. Cerchiamo cosa? Lasciamo. Quell’atteggiamento, quel peccato, quel vizio: ognuno sa la sua». Per questo, ha ripetuto, chiediamo «la grazia di lasciare per essere più coerenti e annunciare Gesù Cristo, perché la gente creda con la nostra testimonianza».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 01/12/2018]
XXXIV Domenica Tempo Ordinario (anno B) [24 Novembre 2024]
Prima lettura Dn 7,13-14
*Una scena di incoronazione
Il profeta Daniele descrive una scena di incoronazione “nelle nubi del cielo”, ovvero nel mondo di Dio con un “figlio d’uomo” (in ebraico significa semplicemente un essere umano) che si avvicina al Vegliardo, che pochi versetti prima (v.9) descrive seduto su un trono: si comprende che è Dio. Il Figlio d’uomo avanza per essere consacrato re: “gli furono dati potere, gloria e regno…il suo è un potere eterno che non finirà mai”, regalità universale ed eterna che però non conquista con la forza e, come precisa Daniele, non si avvicina verso il trono di Dio di sua iniziativa. Questa domenica si ferma qui la lettura, ma per meglio capire occorre andare un po’ oltre e si comprende che questo “figlio d’uomo” non è un individuo bensì un popolo: “Io, Daniele, mi sentii agitato nell'animo..mi accostai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede questa spiegazione: "Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra; ma i santi dell'Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, in eterno"(vv15-18). In alcuni versetti più avanti ripete: “Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno" (v27). Questo figlio d’uomo è dunque “il popolo dei santi dell’Altissimo” che, nel linguaggio biblico, significa Israele e nell’epoca delle persecuzioni, è il piccolo resto fedele. Siamo nel momento più doloroso della persecuzione di Antioco Epifane intorno al 165 a.C. quando restò veramente solo un piccolo gruppo. Quando Daniele afferma che il popolo dei santi dell’Altissimo riceverà il regno, intende incoraggiarlo a resistere perché presto avverrà la liberazione definitiva e, dato che poco dopo Antioco Epifane fu cacciato, la sua profezia venne interpretata da alcuni Giudei riferita al Messia- Re atteso, che non sarebbe stato un individuo particolare, bensì un popolo. Quando secoli dopo nacque Gesù, pur se tutti in Israele attendevano il Messia, non tutti lo immaginavano allo stesso modo: alcuni attendevano un uomo, altri un Messia collettivo chiamato appunto “il piccolo Resto d’Israele” (espressione del profeta Amos 9.11-15), o “il figlio d’uomo” in riferimento al profeta Daniele. Gesù è il solo (nessun altro lo fa) a utilizzare più di 80 volte nei vangeli l’espressione “Figlio dell’uomo” che viene sulle nubi del cielo riferendola a sé stesso, ma i suoi contemporanei non potevano riconoscere nel Gesù di Nazareth, il carpentiere, il Messia cioè “il popolo dei santi dell’Altissimo”. Inoltre, Gesù modifica in maniera sostanziale la definizione perché rifacendosi a Daniele afferma: “Allora…si vedrà il Figlio dell’uomo venire, circondato da nubi, nella pienezza della potenza e della gloria” (Mc 13, 26), e sempre nel vangelo di Marco aggiunge:“Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9, 31). Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che il titolo di Figlio dell’uomo sulle nubi del cielo si attribuisce a Gesù, perché lui è insieme uomo e Dio, il primogenito della nuova umanità, il Capo che fa di noi un unico Corpo e, alla fine della storia, saremo come “un solo uomo, innestati in lui e quindi “il popolo dei santi dell’Altissimo”. Mentre Daniele diceva un “Figlio d’uomo” Gesù lo modifica in “Figlio dell’uomo””: figlio d’uomo significava “un uomo”, mentre figlio dell’uomo indica “l’Umanità” e dunque “Figlio dell’Uomo” significa l’Umanità. Attribuendo a sé stesso questo titolo, Cristo si rivela il portatore del destino di tutta l’umanità realizzando il progetto della creazione divina, fare cioè dell’umanità un solo popolo: “Dio creò l'uomo a sua immagine…maschio e femmina li creò… disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn 1, 27-28). Per san Paolo Gesù è il nuovo Adamo: ”Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm5,12-21; 1Cor. 15,21-22, 45-49), mentre nel IV vangelo colpisce sempre la frase di Piato “Ecce homo, Ecco l’uomo” (19,5).
*Salmo responsoriale 92/93 (1,2,5)
*Noi proclamiamo Dio nostro Re
Proclamando Cristo Re affermiamo la nostra fede/speranza con il coraggio di realizzare il suo regno, certi che risorgendo ha sconfitto la morte e perdonando gli uccisori ha distrutto l’odio. Mentre però osiamo dire che Cristo è già re, tutto nel mondo sembra andare al contrario: la morte uccide, l’odio dilaga in tutte le sue forme di violenza e di ingiustizia. Il salmo 92/93 proclama la vittoria di Dio sul mondo malgrado le apparenze e anche gli Ebrei celebrano Dio Re avendo la stessa fede e speranza nell’attesa del “Giorno” di Dio. Nel proclamare però la sua vittoria sulle forze del Male si basano sull’esperienza dell’Esodo adorando Dio che liberando Israele ha offerto la sua Alleanza, mentre noi cristiani poggiandoci sulla risurrezione di Cristo. Per cantare la regalità di Dio questo salmo guarda al modello dell’incoronazione dei re: nella sala del trono il nuovo re, investito del mantello regale, sedeva sul trono e, firmata la carta d’intronizzazione, entrava in possesso del palazzo reale. A questo punto il popolo gridava “Viva il Re,” acclamazione che in ebraico si chiama «térouah» ed era all’origine un grido di vittoria contro il nemico. In questo salmo il re acclamato è Dio e più di altri merita la terouah perché ha sconfitto le forze del male: “Il Signore regna, si riveste di maestà, si cinge di forza”: questi sono gli abiti del Creatore. L’espressione ebraica: “Ha cinto la sua forza” evoca lil gesto di legarsi un vestito ai fianchi, come fa il vasaio con il grembiule per lavorare l’argilla”. Cantando che il suo trono “é stabile da sempre, dall’eternità tu sei “il salmo accenna per contrasto agli idoli che sono alla portata di tutti ed evoca la fragilità dei regni terreni, in particolare dei re di Israele, alcuni dei quali hanno regnato pochi anni, persino pochi giorni. Nell’intero salmo Dio è proclamato Re dal creato perché domina le forze delle acque spesso indomabili per l’uomo: “più del fragore di acque impetuose, più potente dei flutti del mare, potente nell’alto è il Signore” (v.4). I flutti del mare richiamano il Mar dei Giunchi (in ebraico Yam Suf, e suf significa canna o giunco)) identificato con il Mar Rosso, che Dio fece attraversare dal suo popolo. Da allora la fedeltà del Signore non si è mai spenta come ben esprime il versetto 5: “Degni di fede tutti i tuoi insegnamenti”. L’espressione: “degni di fede” in altre versioni viene resa con “immutabili”, parola che ha la stessa radice di Amen ed evoca fedeltà, stabilità, verità, immutabilità, fermezza. Questa é la fedeltà di Dio verso il suo popolo, di cui era simbolo il Tempio di Gerusalemme, icona della presenza di Dio e riflesso della sua santità: “La santità si addice alla tua casa”. Nabucodosonor II conquistò Gerusalemme e abbatté il Tempio di Salomone deportando gran parte della popolazione in Babilonia, e distrutto il regno di Giuda nel 586 a.C., non ci furono più re in Israele perché l’ultimo fu Sedecia catturato, accecato e portato in esilio. Da quel momento l’espressione: “La santità si addice alla tua casa” celebrava la sovranità di Dio nell’attesa del Re-Messia, immagine fedele di Dio. Ogni anno, durante la Festa delle Capanne (in autunno), questo salmo veniva ripreso per celebrare in anticipo il compimento di tutta la storia, l’Alleanza definitiva, le Nozze tra Dio e l’Umanità: infatti Israele con l’intera umanità condivideranno un giorno la regalità del Messia, come la Regina siede accanto al Re.
Seconda Lettura Ap. 1,5-8
*Colui che è, che era e che viene
“Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti, il sovrano dei re della terra”: le frasi di questo breve testo, che è l’inizio dell’Apocalisse, sono dense ed evocano tutto il mistero di Cristo e ogni parola ne rivela un aspetto. “Gesù” è il nome di un uomo di Nazaret e significa “Dio salva”; “Cristo” indica il Messia ricolmo dello Spirito di Dio; “il testimone fedele” si collega alle parole di Gesù a Pilato che oggi ascoltiamo nel vangelo: “Io sono nato e venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità”. L’affermazione: “il primogenito dei morti” racchiude la fede dei primi cristiani che vedevano in Gesù, uomo mortale come tutti, il primogenito di una lunga serie, risuscitato da Dio per guidare tutti i suoi fratelli e la frase: “il lsovrano dei re della terra ”rafforza il concetto di Messia che ha posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, come canta il Salmo 109/110. Dato che nell’Apocalisse i numeri sono simbolici e le espressioni ternarie sono riservate a Dio, le tre qualifiche: “testimone fedele, primogenito dei morti, sovrano dei re della terra” attribuite a Gesù affermano che egli è Dio. La seconda frase riprende e amplifica la prima: “A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”. Ci sono qui i tradizionali principi della fede: l’amore di Cristo per tutti gli uomini; il dono della sua vita significato dall’espressione “sangue versato” per riscattarci dal male mentre l’affermazione: “Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” indica che in Cristo si è compiuta la promessa “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” contenuta nel libro dell’Esodo (19, 6). Nella terza frase: “Ecco, egli viene con le nubi” è il Figlio dell’uomo, di cui parla Daniele nella prima lettura, che avanza verso il trono di Dio per ricevere la regalità universale. La prima dimensione della sua regalità è il trionfo. La seconda dimensione è quella della sofferenza: ”Ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto ”, chiara allusione alla croce e al colpo di lancia del soldato (Gv.19,33-34). Qui san Giovanni fa riferimento alla profezia di Zaccaria: “io riverserò sulla casa di Davide e Gerusalemme uno spirito di benevolenza … volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto...faranno lutto per lui, come per un figlio unico…. lo piangeranno come un primogenito… una sorgente sgorgherà…come rimedio al peccato e all’impurità”. ( Zc 12, 10; 13, 1). Con lo spirito di benevolenza Dio trasformerà il cuore umano e volgendo lo sguardo verso colui che hanno trafitto, gli uomini vedranno un innocente ucciso ingiustamente in evidente contrasto con le autorità religiose dell’epoca. Osservando il Messia crocifisso d’improvviso gli occhi e i cuori si apriranno e, quando il cuore di tutti gli uomini sarà trasformato, Cristo sarà Re perché è l’apertura del cuore a introdurci nella grazia e nella pace dell’eternità in Dio: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo” (Mt 25, 34). Infine, l’’espressione finale della seconda lettura: “Colui che è, che era e che viene” (v. 8) è una delle traduzioni del nome di Dio (YHVH, Es 3, 14) nei commenti giudaici (Targum di Gerusalemme).
Vangelo Gv. 18, 33b-37
*Dunque tu sei re?
Il vangelo di Giovanni è l’unico a riferire il lungo dialogo tra Pilato e Gesù, un testo di notevole interesse per la Festa di Cristo Re perché rare sono nei vangeli le affermazioni sulla regalità di Cristo e soltanto durante la sua passione Gesù dichiara apertamente di essere re. Durante la vita pubblica ogni volta che volevano farlo re si ritirava, quando pubblicizzavano i suoi miracoli imponeva il silenzio e questo persino dopo la Trasfigurazione. Solo ora che è incatenato e condannato a morte afferma di essere re, ossia nel momento meno indicato secondo i calcoli umani. Indubbiamente ha un modo alternativo di concepire la regalità e lo ha spiegato ai discepoli: i capi dominano sulle nazioni, ma così non deve avvenire per voi; se qualcuno vuole essere grande sia vostro servitore, se vuole essere il primo sia il servo di tutti, imitando il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto (cioè liberazione) per la moltitudine (cf. Mc 10, 42-45). E’ durante l’interrogatorio di Pilato che egli si dichiara il re dell’umanità, proprio quindi nel momento in cui dà la sua vita per noi mostrando che sua unica ambizione regale è il servizio. A ben vedere nel dialogo tra Pilato, alto rappresentante dell’impero romano e un condannato a morte si capovolgono le parti: non è Pilato a giudicarlo ma è Cristo a giudicare il mondo e il potere romano finirà per riconoscere Cristo vero re. Gesù è stato catturato perché i capi religiosi, impauriti dal suo successo, agirono con menzogna paventando la loro distruzione con l’arrivo dei romani: “Se lo lasciamo fare verranno i romani e ci distruggeranno”. E’ un assassinio che nasce dalla volontà della regnante casta sacerdotale mentre per Pilato Gesù non rappresentava alcun pericolo. Oggi leggiamo nel vangelo di Giovanni il primo interrogatorio di Pilato: “Sei tu il re dei Giudei?” In questo processo non è il giudice a fare domande all’imputato ma l’inverso e la sentenza sarà emessa dall’imputato. Infatti Gesù non risponde, ma domanda. “Dici questo da te oppure altri ti hanno parlato di me?”. E Pilato: “Che cosa hai fatto? Gesù replica: “Il mio regno non è di questo mondo”. Pilato insiste: “Dunque tu sei re?” e Gesù: “Tu lo dici” nel senso che se tu lo stai affermando (su legeis) hai capito bene e quindi lo proclami. Si tratta però di un regno diverso da tutti quelli terreni difesi da soldati e basati sul potere, sul dominio e sulla menzogna. Il mio invece è il regno della verità che non conta su nessun’altra difesa che la verità: “Per questo io sono nato e sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” e aggiunge: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità”. E conclude: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Non dice: “Chi ha la verità”, ma “chi è dalla verità” poiché la verità non è una dottrina da possedere bensì lo stile di vita del credente. Nella seconda lettura tratta dall’Apocalisse, Giovanni afferma che Gesù è il “testimone fedele”, il “Figlio unigenito pieno di grazia e verità, come già leggiamo nel Prologo del suo Vangelo (Gv1,14). Se Pilato, figlio del mondo greco-romano, pone la domanda “Che cos’è la verità?” (Gv18,38), gli ebrei, invece, sapevano fin dall’inizio dell’Alleanza con Dio che la verità è Dio stesso. La verità nella Bibbia significa “salda fedeltà” di Dio ed ha in ebraico la stessa radice di “Amen” che significa stabile, fedele, vero, come appare oggi nel Salmo responsoriale 92/93. La Verità è Dio stesso per cui nessuno può pretendere di possederla ma è indispensabile ascoltarla e lasciarsi istruire da essa (cf. Gv 8, 47). Solo Dio può dirci “Ascolta”, come nella Torah ripete continuamente: “Shema Israël”.
Qualche a Testimonianza su Cristo Re dell’universo:
*Sant’Agostino, nel sermone sul Salmo 2, scrive: “Cristo non ha regno temporale, ma regna nei cuori degli uomini. Il suo trono è la croce, il suo scettro è l’amore, e la sua corona è fatta di spine. È un re che non conquista con le armi, ma con la verità e la giustizia.”
*A san Nicola Cabasilas ortodosso (XIV secolo) si attribuisce questa frase: “Cristo regna perché ha conquistato il nostro cuore, non con la violenza, ma con il sacrificio. La sua croce è il suo trono, e dalla croce egli giudica il mondo con amore, offrendo la vita eterna a chi si sottomette alla sua volontà divina.”
*Santa Caterina da Siena, nella sua opera “Il Dialogo della Divina Provvidenza” scrive:
“Cristo è dolce re, perché il suo regno non è fondato sull’orgoglio né sulla forza, ma sull’amore e sull’umiltà. Egli ha fatto della sua carne un ponte tra cielo e terra, perché l’uomo potesse attraversarlo e giungere al regno eterno. La sua corona è di spine, segno dell’amore con cui ha preso su di sé le pene dei suoi sudditi; il suo trono è la croce, da cui ha governato con misericordia e giustizia.”
*Dietrich Bonhoeffer pastore protestante nel suo libro “Discepolato” scrive: “Cristo è il Re che porta la croce, e il suo regno è il regno della croce. Chi lo segue entra nella sua signoria non con potenza o gloria, ma con l’umiltà di colui che accetta il peso del proprio giogo. Cristo regna su di noi perché ha scelto di morire per noi, e in questo è la nostra vera libertà.”
*G.K. Chesterton nel suo libro “Ortodossia” scrive: “Cristo non solo è un re, ma il re dei paradossi. La sua corona è fatta di spine, eppure è la più gloriosa; il suo trono è la croce, eppure è il più elevato; il suo potere si manifesta nella resa, eppure nessuno ha mai regnato con maggiore autorità. Egli è il re che trasforma il dolore in gioia e la morte in vita.”
Buona solennità di Cristo Re dell’universo a voi tutti !
+ Giovanni D’Ercole
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athinagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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