Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Il brano del Vangelo […] si compone di due parti: una in cui si descrive come non devono essere i seguaci di Cristo; l’altra in cui viene proposto un ideale esemplare di cristiano.
Cominciamo dalla prima: cosa non dobbiamo fare. Nella prima parte Gesù addebita agli scribi, maestri della legge, tre difetti che si manifestano nel loro stile di vita: superbia, avidità e ipocrisia. A loro – dice Gesù - piace «ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti» (Mc 12,38-39). Ma sotto apparenze così solenni si nascondono falsità e ingiustizia. Mentre si pavoneggiano in pubblico, usano la loro autorità per “divorare le case delle vedove” (cfr v. 40), che erano considerate, insieme agli orfani e agli stranieri, le persone più indifese e meno protette. Infine, gli scribi «pregano a lungo per farsi vedere» (v. 40). Anche oggi esiste il rischio di assumere questi atteggiamenti. Ad esempio, quando si separa la preghiera dalla giustizia, perché non si può rendere culto a Dio e causare danno ai poveri. O quando si dice di amare Dio, e invece si antepone a Lui la propria vanagloria, il proprio tornaconto.
E in questa linea si colloca la seconda parte del Vangelo di oggi. La scena è ambientata nel tempio di Gerusalemme, precisamente nel luogo dove la gente gettava le monete come offerta. Ci sono molti ricchi che versano tante monete, e c’è una povera donna, vedova, che mette appena due spiccioli, due monetine. Gesù osserva attentamente quella donna e richiama l’attenzione dei discepoli sul contrasto netto della scena. I ricchi hanno dato, con grande ostentazione, ciò che per loro era superfluo, mentre la vedova, con discrezione e umiltà, ha dato «tutto quanto aveva per vivere» (v. 44); per questo – dice Gesù – lei ha dato più di tutti. A motivo della sua estrema povertà, avrebbe potuto offrire una sola moneta per il tempio e tenere l’altra per sé. Ma lei non vuole fare a metà con Dio: si priva di tutto. Nella sua povertà ha compreso che, avendo Dio, ha tutto; si sente amata totalmente da Lui e a sua volta Lo ama totalmente. Che bell’esempio quella vecchietta!
Gesù, oggi, dice anche a noi che il metro di giudizio non è la quantità, ma la pienezza. C’è una differenza fra quantità e pienezza. Tu puoi avere tanti soldi, ma essere vuoto: non c’è pienezza nel tuo cuore. Pensate, in questa settimana, alla differenza che c’è fra quantità e pienezza. Non è questione di portafoglio, ma di cuore. C’è differenza fra portafoglio e cuore… Ci sono malattie cardiache, che fanno abbassare il cuore al portafoglio… E questo non va bene! Amare Dio “con tutto il cuore” significa fidarsi di Lui, della sua provvidenza, e servirlo nei fratelli più poveri senza attenderci nulla in cambio.
Mi permetto di raccontarvi un aneddoto, che è successo nella mia diocesi precedente. Erano a tavola una mamma con i tre figli; il papà era al lavoro; stavano mangiando cotolette alla milanese… In quel momento bussano alla porta e uno dei figli – piccoli, 5, 6 anni, 7 anni il più grande - viene e dice: “Mamma, c’è un mendicante che chiede da mangiare”. E la mamma, una buona cristiana, domando loro: “Cosa facciamo?” – “Diamogli, mamma…” – “Va bene”. Prende la forchetta e il coltello e toglie metà ad ognuna delle cotolette. “Ah no, mamma, no! Così no! Prendi dal frigo” – “No! facciamo tre panini così!”. E i figli hanno imparato che la vera carità si dà, si fa non da quello che ci avanza, ma da quello ci è necessario. Sono sicuro che quel pomeriggio hanno avuto un po’ di fame… Ma così si fa!
Di fronte ai bisogni del prossimo, siamo chiamati a privarci – come questi bambini, della metà delle cotolette – di qualcosa di indispensabile, non solo del superfluo; siamo chiamati a dare il tempo necessario, non solo quello che ci avanza; siamo chiamati a dare subito e senza riserve qualche nostro talento, non dopo averlo utilizzato per i nostri scopi personali o di gruppo.
Chiediamo al Signore di ammetterci alla scuola di questa povera vedova, che Gesù, tra lo sconcerto dei discepoli, fa salire in cattedra e presenta come maestra di Vangelo vivo. Per l’intercessione di Maria, la donna povera che ha dato tutta la sua vita a Dio per noi, chiediamo il dono di un cuore povero, ma ricco di una generosità lieta e gratuita.
[Papa Francesco, Angelus 8 novembre 2015]
Dio ti benedica! Da qualche settimana ho scelto di offrire non un’omelia ma un servizio a coloro che desiderano: presento le letture bibliche della domenica per aiutare la comprensione del testo biblico con breve commento a partire sempre dalla parola di Dio. Spero possa esserti utile: se lo desideri fammelo sapere e ti ringrazio per l’attenzione. « La Parola di Dio è un sentiero in salita, più ci si impegna, più si avanza verso la luce » (parafrasi da san Giovanni della Croce) « Ogni versetto della Bibbia è come un gradino: leggerlo è facile, viverlo è la vera sfida della fede (parafrasi da «la Scala del Paradiso » di san Giovanni Climaco). Ogni settimana manderò il testo il mercoledìì sera o il giovedì mattina per aver il tempo di leggere e meditare.
Ecco quello di domenica prossima.
XXXIII Domenica Tempo Ordinario (anno B)
Commento delle letture [17 Novembre 2024]
*Prima Lettura dal Libro del Profeta Daniele 12, 1-3
*Nella tormenta della persecuzione nasce la fede nella risurrezione
Il libro di Daniele prende il nome non dall’autore ma dal protagonista, il profeta Daniele vissuto in Babilonia durante gli anni degli ultimi re dell’impero neobabilonese ed è stato scritto durante la rivoluzione dei Maccabei (II secolo a.C.). Nel testo odierno ci sono almeno due importanti affermazioni. Prima di tutto, Daniele conforta i suoi contemporanei che attraversavano un periodo difficile. Quando dice: “Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai”, parla al futuro, ma è solo in apparenza perché si era sotto occupazione e persecuzione. Non potevano circolare libri di opposizione e quindi finge di parlare del passato o del futuro, ma in verità del presente e i lettori capiscono e traggono il conforto di cui hanno bisogno. A regnare, dopo le conquiste di Alessandro Magno e i primi successori piuttosto tolleranti, è Antioco Epifane, tristemente celebre per la terribile persecuzione contro gli ebrei. Si pose al centro del Tempio come un dio e gli ebrei dovevano scegliere: sottomettersi o restare fedeli alla propria fede, affrontando la tortura e la morte. Alcuni si piegarono, ma molti rimasero fedeli e furono uccisi. Daniele dice loro che Michele, il capo degli Angeli, veglia su di loro e se ora stanno vivendo la sconfitta e l’orrore del terrore, sono però vincitori in una battaglia che si svolge sia sulla terra che in cielo: l’esercito celeste ha già vinto. La storia umana è una gigantesca lotta di cui già si conosce il vincitore, e questo concerne in particolare il popolo dell’Alleanza.
Al messaggio di conforto per i vivi Daniele unisce un riferimento a chi si è sacrificato per non tradire il Dio vivente. Siccome Dio non abbandona chi muore per lui, chi muore così risorgerà. La parola “resurrezione”, che oggi fa parte del nostro vocabolario, allora era praticamente sconosciuta. Per secoli, la questione della resurrezione individuale non si poneva essendo l’interesse rivolto al popolo e non all’individuo, al presente e al futuro del popolo e non al destino dell’individuo. Nella storia d’Israele l’interesse per il destino della persona è emerso come conquista e progresso durante l’esilio collegato all’idea di responsabilità individuale. Occorre sempre ricordare che la fede nel Dio fedele matura con gli eventi della storia e Israele comprende sempre più che Dio desidera il bene dell’uomo e mai lo abbandona. L’esperienza dell’Alleanza ha dunque alimentato la fede d’Israele e si è compreso che, se Dio vuole l’uomo libero da ogni schiavitù, non può lasciarlo nelle catene della morte. Verità esplosa quando alcuni credenti hanno sacrificato la vita per Dio e la loro morte è diventata fonte di fede nella vita eterna. Si comprese così che i martiri risorgeranno per la vita eterna: “Molti di coloro che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni per la vita eterna e gi altri alla vergogna e per l’infamia eterna”. Il libro di Daniele considera la resurrezione solo per i giusti, ma in seguito si giungerà a capire che la resurrezione è promessa a tutta l’umanità composta di essere umani buoni e cattivi e anzi nessuno è totalmente buono o cattivo. Infine solo quando ci si lascia illuminare dalla certezza che Dio ci ama, possiamo capire che vivremo per sempre.
Salmo responsoriale 15 (16), 5.8, 9-10, 11
*Il grande impegno a immagine del levita
Nel salmo 15(16), di cui oggi meditiamo solo alcuni versetti, appare tutto semplice quando ci si rifugia in Dio perché solo in lui è il nostro bene. Al versetto 5 leggiamo: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” e continua “la mia eredità è stupenda” (v.6) per poi affermare che “per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa sicuro perché non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele vedrà la fossa” (v.8,9,10). In realtà, sotto apparenze assai semplici, il salmo 15/16 traduce la lotta terribile della fedeltà alla vera fede: esattamente lo stesso invito di Daniele a non rinnegare la fede nonostante la persecuzione del re Antioco Epifane. La lotta per la fedeltà segna Israele fin dall’inizio, da quando Mosè durante l’esodo percepì il rischio dell’idolatria: si pensi all’episodio del vitello d’oro quando il popolo convinse Aronne a costruirlo (Es. 32). Entrati poi nella terra di Canaan (tra il XV e il XIII secolo a.C.), restò il pericolo dell’idolatria nel vedere che tutto andava male. La guerra, la carestia, l’epidemia suscitarono la voglia di contare su due sicurezze: Il Signore e Baal perché, nelle difficoltà si è tentati di ricorrere a ogni dio possibile e immaginabile. Lo fece il re Acaz, nell’VIII secolo sacrificando suo figlio agli idoli, e suo nipote Manasse cinquant’anni dopo. Per questo i profeti hanno lottano contro l’idolatria che è la peggiore delle schiavitù. Questo salmo traduce dunque sotto forma di preghiera la predicazione dei profeti: vi risuona l’invito ai credenti a seguire la predicazione, e nel contempo è supplica a Dio affinché aiuti tutti a resistere nel tempo della prova. Utile sarebbe leggere anche i versetti non presenti in questa domenica (vv.1-4) dove tra l’altro si dice che “agli idoli del paese, agli dei potenti andava tutto il mio favore. Moltiplicarono le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero” per poi affermare “Io non spanderò le loro libagioni di sangue, né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. Insomma, occorre rivolgersi solo al Dio dell’Alleanza essendo l’unico in grado di guidare il suo popolo nel difficile cammino della libertà. Con i secoli si è compreso che il Dio d’Israele è l’unico Dio per l’intera umanità. Se c’è un’esclusività per Israele è perché egli l’ha scelto gratuitamente e gli si è rivelato come l’unico vero Signore. Tocca a Israele rispondere a questa vocazione legandosi esclusivamente a lui e, così facendo, adempirà la sua missione di testimone dell’unico Dio di fronte alle altre nazioni. Per esprimere tale missione, Israele in questo salmo si paragona a un levita: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita” (v.5). Si allude alla singolare condizione dei leviti che, al tempo della spartizione della Terra Promessa tra le tribù dei discendenti di Giacobbe, i membri della tribù di Levi non avevano ricevuto parte del territorio e quindi la loro parte era la Casa di Dio (il Tempio), il servizio di Dio. Tutta la loro vita era consacrata al servizio del culto; il loro sostentamento era garantito dalle decime e da una parte dei raccolti e delle carni offerte in sacrificio. Israele è nel cuore dell’umanità come i leviti sono il cuore d’Israele, entrambi chiamati al diretto servizio del Signore, fonte di gioia. Tenendo presente la prima lettura che parla della risurrezione dei corpi (Dn 12), si comprende che l’eternità di cui si parla in questo salmo non riguarda la risurrezione individuale perché il vero soggetto di tutti i salmi non è mai un individuo ma l’intero Israele sicuro di sopravvivere essendo l’eletto del Dio vivente. E il versetto 10: “Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele veda la fossa” non esprime la fede nella risurrezione individuale, ma è un appello alla sopravvivenza del popolo. Certamente quando il profeta Daniele (prima lettura) annunciava la fede nella risurrezione dei morti, questo versetto aveva tale senso; in seguito Gesù ed ora tutti noi possiamo dire fiduciosi che il nostro cuore esulta e l’anima è in festa perché il Signore non ci abbandona alla morte, ma anzi alla sua destra, ci attende un’eternità di gioia.
*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei 10, 11-14. 18
Gesù libera l’umanità dalla fatalità del peccato
La lettera agli Ebrei, come e più degli altri testi del Nuovo Testamento, mira a far capire che Gesù è l’atteso Messia-sacerdote per cui di conseguenza il sacerdozio ebraico è superato. Terminato il ruolo dei sacerdoti dell’Antica Alleanza, nella Nuova Alleanza l’unico sacerdote è Cristo. Ma quali sono le caratteristiche dei sacerdoti dell’A.T. confrontandole con Cristo? L’autore focalizza due punti: la liturgia dei sacerdoti dell’Antico Testamento era quotidiana e offrivano sempre gli stessi sacrifici; Gesù, invece, ha offerto un sacrificio unico. Il culto dei sacerdoti ebrei era inefficace, poiché i sacrifici non avevano il potere di eliminare i peccati, mentre, con l’unico suo sacrificio, Gesù ha eliminato una volta per tutte il peccato del mondo. Ci sono qui affermazioni che per l’ambiente giudaico-cristiano dell’epoca erano importanti come ad esempio l’espressione “eliminare i peccati” perché la parola “peccato” torna più volte in questo testo. L’esperienza dice che dopo la morte/risurrezione di Cristo continuano a esistere i peccati nel mondo per cui affermare che Gesù ha tolto il peccato del mondo significa far rimarcare che il peccato non costituisce più una fatalità perché, grazie al dono dello Spirito Santo, possiamo vincerlo. Inoltre leggendo che “con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” occorre capire che il termine “perfetto” non riveste un significato morale, ma esprime compimento, completamento. Siamo stati cioè condotti da Cristo al nostro compimento; grazie a lui siamo diventati uomini e donne liberi: liberi di non ricadere nell’odio, nella violenza, nella gelosia; liberi di vivere come figli e figlie di Dio e come fratelli e sorelle. Nella celebrazione eucaristica continuiamo a dire “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Questo fa pensare al profeta Geremia (31, 31-33) che profetizza: “Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore – nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova… porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”, oppure a Ezechiele (36, 26-27): “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi”. I primi cristiani sapevano che bisogna lasciarsi condurre dallo Spirito Santo, ma condizione essenziale è restare uniti a Cristo come i tralci alla vite. Leggiamo ancora nel testo: “Cristo…si è assiso per sempre alla destra di Dio e attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi” (vv12-14). L’espressione “assiso alla destra di Dio” in Israele era da secoli un titolo regale. Il giorno dell’incoronazione, quando prendeva possesso del suo trono, il nuovo re si sedeva alla destra di Dio e in questo contesto dire che “Gesù Cristo si è assiso per sempre alla destra di Dio” vuol dire che Gesù è il vero Re-Messia atteso. Tale concetto è rafforzato da ciò che segue: “Egli attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi”. La tradizione era che sui gradini dei troni dei re s’incidevano o scolpivano figure di uomini incatenati che rappresentavano i nemici del regno e il re salendo i gradini del trono li calpestava, schiacciando simbolicamente i suoi nemici e questo non era gratuita crudeltà bensì garanzia di sicurezza per i sudditi. Si trovano segni di queste figure nei troni di Tutankhamon (scoperti nel 1922 dall’archeologo Howard Carter nella Valle dei Re in Egitto) mentre in Israele, resta, come sola traccia citata nel Salmo 109/110, ciò che il profeta pronunciava da parte di Dio per il re nel rito dell’incoronazione: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi”. Se Cristo è davvero il Messia, l’atteso re eterno discendente di Davide, il vecchio mondo è ormai finito. Un’ultima precisazione: perché si dice: “il sacrificio della messa”? Nella Lettera agli Ebrei leggiamo: “Ora, dove c’è il perdono non c’è più offerta (il sacrificio) per il peccato”. Il termine sacrificio resta anche se, con Cristo, il suo significato è cambiato: per lui, “sacrificare” (sacrum facere, compiere un atto sacro) non significa uccidere uno o mille animali, ma vivere nell’amore e dare la vita per i fratelli, come già nell’VIII secolo a.C. affermava il profeta Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.» (6, 6).
*Vangelo secondo san Marco (13, 24-32)
Gesù usa qui lo stile apocalittico
Nel vangelo di Marco Gesù ora cambia stile e si avvicina nei suoi discorsi alla letteratura della divinazione che allora era molto in voga. Tutte le religioni si ponevano gli stessi interrogativi: L’umanità andrà irrimediabilmente in rovina oppure trionferà il Bene? Come sarà la fine del mondo e chi sarà il vincitore? Si utilizzavano le stesse immagini di sconvolgimenti cosmici, eclissi di sole o di luna, personaggi celesti, angeli o demoni. Gli ebrei prima e poi i cristiani presero in prestito questo stile inserendovi però il messaggio evangelico, cioè la rivelazione divina. Per questo, nella Bibbia, questo stile letterario viene chiamato “apocalittico” perché porta una “rivelazione” da parte di Dio: letteralmente il verbo greco apocaliptõ significa rivelare, nel senso di “sollevare il velo che copre la storia dell’umanità”. All’epoca era come un linguaggio cifrato, in codice: si parla di sole, stelle, luna e di come tutto ciò sarà sconvolto anche se poi si vuol dire tutt’altro. E’ la vittoria di Dio e dei suoi figli nel grande combattimento contro il male che portano avanti fin dall’origine del mondo. Ecco la specificità della fede giudeo-cristiana per cui è un errore usare il termine apocalisse per parlare di eventi spaventosi perché nel linguaggio della fede ebraica e cristiana è esattamente il contrario. Rivelare il mistero di Dio non tende a spaventare l’umanità, bensì a incoraggiare gli uomini ad affrontare ogni crisi della storia sollevando l’angolo del velo che copre la storia per tenere salda la speranza. Già i profeti nell’A.T., per annunciare il giorno della vittoria definitiva di Dio contro ogni forza del male, utilizzavano le medesime immagini. Troviamo in Gioele (2, 10-11): “La terra trema, il cielo si scuote, il sole e la luna si oscurano e le stelle cessano di brillare. Il Signore fa udire la sua voce dinanzi alla sua schiera. Molto grande è il suo esercito, potente nell’eseguire i suoi ordini. Grande è il giorno del Signore, davvero terribile: chi potrà sostenerlo?”. Consiglio di leggere anche questi altri del profeta Gioele (3, 1-5 e 4, 15-16) e di Isaia (12, 1-2). Non sono racconti per incutere terrore, ma per annunciare la vittoria del Dio che ci ama. Il messaggio è sempre questo: Dio avrà l’ultima parola perché, come scrive Isaia, il male sarà distrutto e il Signore punirà i malvagi per i loro crimini (cf.13, 10); è lo stesso Isaia che, qualche versetto prima (cap.12,2), annunciava la salvezza dei figli di Dio: “Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, non avrò timore, perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza.” Queste parole, nelle quali risuona lode e fede in Dio come Salvatore insieme a un profondo senso di sicurezza e fiducia nella protezione divina, fanno parte di un canto di ringraziamento che celebra la liberazione e il sostegno che Dio offre al suo popolo. Nello stile apocalittico, annunciare la fede è assicurare che Dio è il padrone della storia e un giorno il male scomparirà. Per questo, più che “fine del mondo”, sarebbe meglio “trasformazione del mondo” o meglio “rinnovamento del mondo”. Tutto questo emerge nel vangelo di Marco di questa domenica con una precisazione: la vittoria definitiva di Dio contro il male, avviene solo in Gesù Cristo. Nel vangelo si è a pochi giorni dalla Pasqua e Gesù ricorre a questo linguaggio perché il combattimento tra lui e le forze del male è ormai al suo culmine. Per capire il messaggio di Gesù, possiamo ricorrere al vangelo di Giovanni, quando alla conclusione del suo lungo discorso agli apostoli afferma: ”Vi ho detto queste parole perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33). E la parabola del fico che mette le foglie, ben s’inserisce in questo messaggio, tenendo presente che la chiave per capire è l’aggettivo “vicino”, “vicina”: i segni preannunciano solo la vicinanza della fine, quindi attenti ai falsi profeti che vedono ora la fine del mondo. Occorre invece vigilare e pregare perché la vicinanza della fine è per ogni generazione - e quest’invito è presente in tutto il Vangelo.
Buona Domenica a tutti!
+Giovanni D’Ercole
Il Re dell’Universo: forse il meno dotato?
(Dn 7,13-14; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37)
Tutti i regni che si sono susseguiti prima di Gesù erano ispirati al medesimo brutale principio: la competizione [prima Lettura].
Il forte ha soggiogato il debole, il ricco si è imposto al povero, il più svelto ha asservito il meno dotato.
Nuovi dominatori si sono installati al posto dei predecessori, senza rendere più umana la convivenza dei popoli o la vita quotidiana.
Pensieri e sentimenti rimanevano identici: voracità, crudeltà, sopraffazione.
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori ponendo al vertice non il potere ma la Comunione.
Ha introdotto un criterio nuovo, quello del cuore di uomo - opposto dell’istinto crudele di belve.
Ma Pilato ha in mente solo le caratteristiche dei regni «da» (v.36) questo mondo.
Domini portati avanti per ambizione. Realtà basate sull'uso della forza e la persuasione del denaro.
Gesù non uccide: va lui a morire, non comanda ma obbedisce; non si allea e non cerca grandi e potenti ma si mette dalla parte di chi non conta nulla.
Possedere, conquistare, sterminare, ostentare, non sono perentori segni di forza, ma di sconfitta: ‘grande’ è chi serve.
Purtroppo il copione della regalità che viene «da» questo mondo non è recitato solo dai capi: piace anche alle folle.
Sul colle Palatino, vicino al Circo Massimo, un graffito che risale al 200 circa raffigura una persona in adorazione del Crocifisso ritratto con una testa d’asino.
Verità di Dio, regalità dell’uomo - e viceversa.
Nel passo di Vangelo Gv pennella un quadro sulle perplessità di fondo che anche oggi affliggono l’Annuncio.
Gesù chiede al Procuratore di ragionare con la sua testa; di pensare non come figura dominante.
[Il Signore aveva fatto un identico richiamo di senso alla guardia che gli aveva mollato uno schiaffo].
Contro di Lui si sono rivoltati tutti, ha scontentato persino la sua gente.
Forse la massa vede nella proposta del Signore una minaccia alle finte sicurezze che il potere tutto sommato è in grado di assicurare.
Mai intaccare la piccineria degli ozi derivanti da uno status assodato, persino dimesso o fasullo - purché non allarmante.
Talora, tristemente, i copioni della regalità e dei subalterni s’intersecano e sostengono a vicenda.
Verità e Regalità.
Presso tutti i popoli l’ideale di “personaggio” riuscito è il Sovrano: ricco potente libero dominatore.
A Pilato, perfettamente inserito nella gerarchia di potere, il Maestro produce una sorta di sgretolamento mentale.
È l’opera singolare - davvero Sacerdotale - del cammino di Fede personale: l’invito a interrogarsi.
Ognuno di noi, da Re che non si lascia intimare i medesimi vecchi lati dall’esterno, bensì esige una vita piena, propria.
Gesù al termine della sua vicenda terrena è piuttosto silente. Egli attende che ciascuno si pronunci e scelga.
[34.a Domenica (anno B), 24 novembre 2024]
Il Re dell’Universo: forse il meno dotato?
(Dn 7,13-14; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37)
Tutti i regni che si sono susseguiti prima di Gesù erano ispirati al medesimo brutale principio: la competizione (prima Lettura).
Il forte ha soggiogato il debole, il ricco si è imposto al povero, il più svelto ha asservito il meno dotato.
Nuovi dominatori si sono installati al posto dei predecessori, senza rendere più umana la convivenza dei popoli o la vita quotidiana.
Pensieri e sentimenti rimanevano identici: voracità, crudeltà, sopraffazione.
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori ponendo al vertice non il potere ma la Comunione.
Ha introdotto un criterio nuovo, quello del cuore di uomo - opposto dell’istinto crudele di belve.
Seconda Lettura: da una minuscola isola dell’Egeo, Patmos, un cristiano esiliato scrive a sette Chiese dell’Asia minore scosse dalla persecuzione scatenata dall’imperatore, esortandole alla perseveranza nella fede.
Cristo è definito «sovrano dei re della terra» per invitarci a valutare con occhi nuovi la storia del mondo.
Tutti guardavano a Domiziano come arbitro dei destini, l'uomo onnipotente che (storicamente, a Roma per difendersi dalle congiure di senatori e aristocrazia, ma soprattutto in oriente) si spacciava per “dio” e riempiva l'impero delle sue statue.
Non era lui a reggere le sorti del mondo.
Certo la potenza d’un impero si valutava dalle dimensioni del territorio su cui si estendeva. Ma il Regno alternativo non occupa spazio, non si basa su clamorose dimostrazioni di forza.
I suoi membri non sono gendarmi, né schiavi o sudditi, bensì «sacerdoti».
Unico ordine e segno di tale sacerdozio genuino è l’esser chiamati a offrire gesti di amore.
«Coraggio - sembra dire l'autore - la storia del mondo è una vicenda intermedia: tutto parte da Dio, e a Lui torna».
Se acquisiamo i Suoi occhi, l’interludio dei dominatori diverrà breve.
Pilato conosce unicamente l’immenso territorio su cui Tiberio estende il suo dominio, ha in mente solo le caratteristiche dei regni «da» (v.36) questo mondo.
Domini portati avanti per ambizione. Realtà basate sull'uso della forza e la persuasione del denaro.
Gesù non uccide: va lui a morire, non comanda ma obbedisce; non si allea e non cerca grandi e potenti ma si mette dalla parte di chi non conta nulla.
Possedere, conquistare, sterminare, ostentare, non sono perentori segni di forza, ma di sconfitta: grande è chi serve.
Purtroppo il copione della regalità che viene «da» questo mondo non è recitato solo dai capi: piace anche alle folle.
Sul colle Palatino, vicino al Circo Massimo, un graffito che risale al 200 circa raffigura una persona in adorazione del Crocifisso ritratto con una testa d’asino.
Verità di Dio, regalità dell’uomo - e viceversa.
Nel passo di Vangelo Gv pennella un quadro sulle perplessità di fondo che anche oggi affliggono l’Annuncio.
Citando Gesù: «Da te stesso tu dici questo oppure altri te l’hanno detto di me?» - nonché la risposta di Pilato: «La tua nazione e i gran sacerdoti ti hanno consegnato a me».
Gesù chiede al Procuratore di ragionare con la sua testa; di pensare non come figura dominante. (Il Signore aveva fatto un identico richiamo di senso alla guardia che gli aveva mollato uno schiaffo).
Contro di Lui si sono rivoltati tutti: ha scontentato non solo i titolati cui aveva toccato il sacchetto del commercio religioso, ma persino la sua gente - sebbene tosata e munta dalle autorità.
Insomma, la vittoria dell’ideologia di potere è certo assicurata da chi è detentore di cariche, ma paradossalmente anche dai sottomessi.
Forse la massa vede nella proposta del Signore un attentato alle piccole tranquillità che si ritaglia…
Una minaccia alle finte sicurezze che il potere tutto sommato è in grado di assicurare, compresa un’esistenza di piccolo cabotaggio - ma di scarsa responsabilità.
Mai intaccare la piccineria degli ozi derivanti da uno status assodato, persino dimesso o fasullo - purché non allarmante.
Nel tempo delle scelte quotidiane, la riconoscibilità di un posto - fisso - anche asservito, è sempre utile per appaltare a qualcuno la propria Libertà.
Così scansare l’abnorme fatica di rimettere in discussione le grandi linee della storia e della cronaca, cui si è assuefatti.
Talora i copioni della “regalità” e dei subalterni s’intersecano, sostenendosi a vicenda.
Con esito omologante, caratteristico di alcune agenzie “culturali” settarie, o di aree di condizionamento unilaterale.
Da ciò deriva un cumulo di difficoltà educative e pastorali… in un mondo contentabile dal “poco” immediato e facile - purtroppo anche in ambito di proposta spirituale.
E infatti nella comunità cristiana quali sono i segni del Regno di Dio? Oppure anch’essa ripete lo spartito della regalità che viene «da» questo mondo?
Forse saranno i variegati sfaldamenti di oggi - avviati da tutti coloro che non si accontentano di mansioni titolate o del parere d’un gruppo di pressione - a risolvere i veri problemi e rimettere le cose a posto.
Verità e Regalità.
Presso tutti i popoli l’ideale di “personaggio” riuscito è il Sovrano: ricco potente libero dominatore.
A Pilato, perfettamente inserito nella gerarchia di potere, il Maestro produce una sorta di sgretolamento mentale.
È l’opera singolare - davvero Sacerdotale - del cammino di Fede personale: l’invito a interrogarsi.
Ognuno di noi, da Re che non si lascia intimare i medesimi vecchi lati dall’esterno, bensì esige una vita piena, propria.
Gesù al termine della sua vicenda terrena è piuttosto silente. Egli attende che ciascuno si pronunci e scelga.
Regalità dell’uomo
Nuovo cielo, nuova terra,
mediante la testimonianza alla verità
1. Oggi la Basilica di San Pietro risuona della liturgia di una solennità insolita. Nel calendario liturgico postconciliare la solennità di nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo è stata collegata con l’ultima domenica dell’anno ecclesiastico. Ed è bene così. Infatti le verità della fede che vogliamo manifestare, il mistero che vogliamo vivere racchiudono, in un certo senso, ogni dimensione della storia, ogni tappa del tempo umano e aprono, insieme, la prospettiva “di un nuovo cielo e di una nuova terra” (Ap 21,1), la prospettiva di un regno, che “non è di questo mondo” (Gv 18,36). È possibile che si capisca erroneamente il significato delle parole sul “Regno”, pronunciate da Cristo davanti a Pilato, sul regno cioè che non è di questo mondo. Tuttavia il contesto singolare dell’avvenimento, nell’ambito del quale esse sono state pronunciate, non permette di comprenderle così. Dobbiamo ammettere che il regno di Cristo, grazie al quale si aprono davanti all’uomo le prospettive extraterrestri, le prospettive dell’eternità (Gv 18,37), si forma nel mondo e nella temporalità. Esso, quindi, si forma nell’uomo stesso mediante “la testimonianza alla verità” che Cristo ha reso in quel momento drammatico della sua Missione messianica: davanti a Pilato, davanti alla morte sulla croce, chiesta al giudice dai suoi accusatori. Così dunque la nostra attenzione deve essere attirata non solo dal momento liturgico della solennità d’oggi, ma anche dalla sorprendente sintesi di verità, che questa solennità esprime e proclama. Perciò mi sono permesso, insieme al Cardinale Vicario di Roma, di invitare oggi gli appartenenti ai vari settori dell’apostolato dei laici di tutte le parrocchie della nostra Città, tutti coloro cioè che insieme al Vescovo di Roma e ai pastori delle anime di ogni parrocchia accettano di far propria la testimonianza di Cristo Re e cercano di far posto al suo regno nei loro cuori e di diffonderlo tra gli uomini.
2. Gesù Cristo è “il testimone fedele” (cf. Ap 1,5), come dice l’Autore dell’Apocalisse. È “il testimone fedele” della signoria di Dio nella creazione e soprattutto nella storia dell’uomo. Dio infatti ha formato l’uomo dall’inizio come creatore e nello stesso tempo come Padre. Egli quindi, come Creatore e come Padre, è sempre presente nella sua storia. È diventato non solo l’inizio e il termine di tutto il creato, ma è diventato anche il Signore della storia e il Dio dell’alleanza: “Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’“Onnipotente”” (Ap 1,8).
Gesù Cristo – “testimone fedele” – è venuto al mondo proprio per rendere testimonianza di questo. La sua venuta nel tempo! quanto concretamente e in modo suggestivo l’aveva preannunciata il profeta Daniele nella sua visione messianica, parlando della venuta di “un figlio di uomo” (Dn 7,13) e delineando la dimensione spirituale del suo regno in questi termini: “Gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,14). Così il profeta Daniele, probabilmente nel II secolo, vide il regno di Cristo prima che egli venisse al mondo.
3. Quel che successe davanti a Pilato il venerdì prima di Pasqua ci permette di liberare l’immagine profetica di Daniele da ogni associazione impropria. Ecco infatti che lo stesso “Figlio dell’uomo” risponde alla domanda fattagli dal governatore romano. Questa risposta suona così: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
Pilato, rappresentante del potere esercitato a nome della potente Roma sul territorio della Palestina, l’uomo che pensa secondo categorie temporali e politiche, non capisce tale risposta. Quindi domanda per la seconda volta: “Dunque tu sei re?” (Gv 18,37).
Anche Cristo risponde per la seconda volta. Come la prima volta ha spiegato in quale senso egli non è re, così adesso, per rispondere pienamente alla domanda di Pilato e nello stesso tempo alla domanda di tutta la storia dell’umanità, di tutti i regnanti e di tutti i politici, risponde così: “Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (cf. Gv 18,37).
Questa risposta, in collegamento con la prima, esprime tutta la verità sul suo regno; tutta la verità su Cristo-Re.
4. In questa verità sono racchiuse anche quelle parole ulteriori dell’Apocalisse, con le quali il Discepolo prediletto completa, in certo qual modo, alla luce del colloquio che ha avuto luogo il Venerdì Santo nella residenza gerosolimitana di Pilato, ciò che, un tempo, aveva scritto il profeta Daniele. San Giovanni annota: “Ecco, viene sulle nubi (così si era già espresso Daniele) e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero... Sì. Amen!” (Ap 1,7).
Appunto: Amen. Questa unica parola sigilla, per così dire, la verità su Cristo Re. Egli è non soltanto “il testimone fedele”, ma anche “il primogenito dei morti” (Ap 1,5). E se è il principe della terra e di quelli che la governano (“il principe dei re della terra” [Ap 1,5]) lo è per questo, soprattutto per questo, e definitivamente per questo, perché “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6).
5. Ecco la piena definizione di quel regno, ecco tutta la verità su Cristo Re. Siamo convenuti oggi in questa Basilica per accettare queste verità ancora una volta, con gli occhi della fede largamente aperti e col cuore pronto a dare la risposta. Poiché questa è verità che esige in modo particolare una risposta. Non soltanto la comprensione. Non soltanto l’accettazione da parte dell’intelletto, ma una risposta che emerge da tutta la vita.
Quella risposta è stata pronunciata in modo splendido, dall’Episcopato della Chiesa contemporanea nel Concilio Vaticano II. Verrebbe perfino, in questo momento, la voglia di stendere la mano a quei testi della Costituzione Lumen Gentium che abbagliano con la semplice profondità della verità, ai testi carichi della pienezza della “praxis” cristiana contenuti nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, e ai tanti altri documenti che traggono da quelli fondamentali le conclusioni concrete per i vari campi della vita ecclesiale. Penso in particolare al decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici. Se qualcosa chiedo al laicato di Roma e del mondo, è che si tengano sempre d’occhio questi splendidi documenti dell’insegnamento della Chiesa contemporanea. Essi definiscono il senso più profondo dell’essere cristiani. Questi documenti meritano ben più che d’essere semplicemente studiati e meditati; se non si cerca in essi l’appoggio, è quasi impossibile capire e realizzare la nostra vocazione e, in specie, la vocazione dei laici, il loro particolare apporto alla costruzione di quel regno, che, pur non essendo “di questo mondo” (Gv 18,36), esiste tuttavia quaggiù, perché è in noi. E, in particolare, è in voi: laici!
6. Cristo è salito sulla croce come un Re singolare: come l’eterno testimone della verità. “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Questa testimonianza è la misura delle nostre opere. La misura della vita. La verità per la quale Cristo ha dato la vita – che ha confermato con la risurrezione – è la fondamentale sorgente della dignità dell’uomo. Il regno di Cristo si manifesta, come insegna il Concilio, nella “regalità” dell’uomo. Bisogna che noi sappiamo, in questa luce, partecipare a ogni sfera della vita contemporanea e formarla. Non mancano infatti, nei nostri tempi, le proposte indirizzate all’uomo, non mancano i programmi che si invocano per il suo bene. Sappiamo rileggerli nella dimensione della piena verità sull’uomo, della verità confermata con le parole e con la croce di Cristo!
(…)
Cristo, in un certo senso, sta sempre davanti al tribunale delle coscienze umane, come una volta si trovò davanti al tribunale di Pilato. Egli ci rivela sempre la verità del suo regno. E sempre s’incontra, da tante parti, con la replica “che cos’è la verità” (Gv 18,38).
Per questo sia egli ancora più vicino a noi. Sia il suo regno sempre più in noi. Ricambiamolo con l’amore al quale ci ha chiamati, e in lui amiamo sempre di più la dignità di ogni uomo!
Allora saremo veramente partecipi della sua missione. Diventeremo apostoli del suo regno.
(Papa Giovanni Paolo II, omelia 25 novembre 1979)
In quest’ultima domenica dell’Anno liturgico celebriamo la solennità di Gesù Cristo Re dell’universo, una festa di istituzione relativamente recente, che però ha profonde radici bibliche e teologiche. Il titolo di “re”, riferito a Gesù, è molto importante nei Vangeli e permette di dare una lettura completa della sua figura e della sua missione di salvezza. Si può notare a questo proposito una progressione: si parte dall’espressione “re dei Giudei” e si giunge a quella di re universale, Signore del cosmo e della storia, dunque molto al di là delle attese dello stesso popolo ebraico. Al centro di questo percorso di rivelazione della regalità di Gesù Cristo sta ancora una volta il mistero della sua morte e risurrezione. Quando Gesù viene messo in croce, i capi dei Giudei lo deridono dicendo: “E’ il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui” (Mt 27,42). In realtà, proprio in quanto è il Figlio di Dio Gesù si è consegnato liberamente alla sua passione, e la croce è il segno paradossale della sua regalità, che consiste nella vittoria della volontà d’amore di Dio Padre sulla disobbedienza del peccato. E’ proprio offrendo se stesso nel sacrificio di espiazione che Gesù diventa il Re universale, come dichiarerà Egli stesso apparendo agli Apostoli dopo la risurrezione: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18).
Ma in che cosa consiste il “potere” regale di Gesù? Non è quello dei re e dei grandi di questo mondo; è il potere divino di dare la vita eterna, di liberare dal male, di sconfiggere il dominio della morte. È il potere dell’Amore, che sa ricavare il bene dal male, intenerire un cuore indurito, portare pace nel conflitto più aspro, accendere la speranza nel buio più fitto. Questo Regno della Grazia non si impone mai, e rispetta sempre la nostra libertà. Cristo è venuto a “rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37) – come dichiarò di fronte a Pilato –: chi accoglie la sua testimonianza, si pone sotto la sua “bandiera”, secondo l’immagine cara a sant’Ignazio di Loyola. Ad ogni coscienza, dunque, si rende necessaria – questo sì – una scelta: chi voglio seguire? Dio o il maligno? La verità o la menzogna? Scegliere per Cristo non garantisce il successo secondo i criteri del mondo, ma assicura quella pace e quella gioia che solo Lui può dare. Lo dimostra, in ogni epoca, l’esperienza di tanti uomini e donne che, in nome di Cristo, in nome della verità e della giustizia, hanno saputo opporsi alle lusinghe dei poteri terreni con le loro diverse maschere, sino a sigillare con il martirio questa loro fedeltà.
Cari fratelli e sorelle, quando l’Angelo Gabriele portò l’annuncio a Maria, Le preannunciò che il suo Figlio avrebbe ereditato il trono di Davide e regnato per sempre (cfr Lc 1,32-33). E la Vergine Santa credette ancor prima di donarLo al mondo. Dovette, poi, senz’altro domandarsi quale nuovo genere di regalità fosse quella di Gesù, e lo comprese ascoltando le sue parole e soprattutto partecipando intimamente al mistero della sua morte di croce e della sua risurrezione. Chiediamo a Maria di aiutare anche noi a seguire Gesù, nostro Re, come ha fatto Lei, e a renderGli testimonianza con tutta la nostra esistenza.
[Papa Benedetto, Angelus 22 novembre 2009]
1. Oggi la Basilica di San Pietro risuona della liturgia di una solennità insolita. Nel calendario liturgico postconciliare la solennità di nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo è stata collegata con l’ultima domenica dell’anno ecclesiastico. Ed è bene così. Infatti le verità della fede che vogliamo manifestare, il mistero che vogliamo vivere racchiudono, in un certo senso, ogni dimensione della storia, ogni tappa del tempo umano e aprono, insieme, la prospettiva “di un nuovo cielo e di una nuova terra” (Ap 21,1), la prospettiva di un regno, che “non è di questo mondo” (Gv 18,36). È possibile che si capisca erroneamente il significato delle parole sul “Regno”, pronunciate da Cristo davanti a Pilato, sul regno cioè che non è di questo mondo. Tuttavia il contesto singolare dell’avvenimento, nell’ambito del quale esse sono state pronunciate, non permette di comprenderle così. Dobbiamo ammettere che il regno di Cristo, grazie al quale si aprono davanti all’uomo le prospettive extraterrestri, le prospettive dell’eternità (Gv 18,37), si forma nel mondo e nella temporalità. Esso, quindi, si forma nell’uomo stesso mediante “la testimonianza alla verità” che Cristo ha reso in quel momento drammatico della sua Missione messianica: davanti a Pilato, davanti alla morte sulla croce, chiesta al giudice dai suoi accusatori. Così dunque la nostra attenzione deve essere attirata non solo dal momento liturgico della solennità d’oggi, ma anche dalla sorprendente sintesi di verità, che questa solennità esprime e proclama. Perciò mi sono permesso, insieme al Cardinale Vicario di Roma, di invitare oggi gli appartenenti ai vari settori dell’apostolato dei laici di tutte le parrocchie della nostra Città, tutti coloro cioè che insieme al Vescovo di Roma e ai pastori delle anime di ogni parrocchia accettano di far propria la testimonianza di Cristo Re e cercano di far posto al suo regno nei loro cuori e di diffonderlo tra gli uomini.
2. Gesù Cristo è “il testimone fedele” (cf. Ap 1,5), come dice l’Autore dell’Apocalisse. È “il testimone fedele” della signoria di Dio nella creazione e soprattutto nella storia dell’uomo. Dio infatti ha formato l’uomo dall’inizio come creatore e nello stesso tempo come Padre. Egli quindi, come Creatore e come Padre, è sempre presente nella sua storia. È diventato non solo l’inizio e il termine di tutto il creato, ma è diventato anche il Signore della storia e il Dio dell’alleanza: “Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’“Onnipotente”” (Ap 1,8).
Gesù Cristo – “testimone fedele” – è venuto al mondo proprio per rendere testimonianza di questo. La sua venuta nel tempo! quanto concretamente e in modo suggestivo l’aveva preannunciata il profeta Daniele nella sua visione messianica, parlando della venuta di “un figlio di uomo” (Dn 7,13) e delineando la dimensione spirituale del suo regno in questi termini: “Gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,14). Così il profeta Daniele, probabilmente nel II secolo, vide il regno di Cristo prima che egli venisse al mondo.
3. Quel che successe davanti a Pilato il venerdì prima di Pasqua ci permette di liberare l’immagine profetica di Daniele da ogni associazione impropria. Ecco infatti che lo stesso “Figlio dell’uomo” risponde alla domanda fattagli dal governatore romano. Questa risposta suona così: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
Pilato, rappresentante del potere esercitato a nome della potente Roma sul territorio della Palestina, l’uomo che pensa secondo categorie temporali e politiche, non capisce tale risposta. Quindi domanda per la seconda volta: “Dunque tu sei re?” (Gv 18,37).
Anche Cristo risponde per la seconda volta. Come la prima volta ha spiegato in quale senso egli non è re, così adesso, per rispondere pienamente alla domanda di Pilato e nello stesso tempo alla domanda di tutta la storia dell’umanità, di tutti i regnanti e di tutti i politici, risponde così: “Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (cf. Gv 18,37).
Questa risposta, in collegamento con la prima, esprime tutta la verità sul suo regno; tutta la verità su Cristo-Re.
4. In questa verità sono racchiuse anche quelle parole ulteriori dell’Apocalisse, con le quali il Discepolo prediletto completa, in certo qual modo, alla luce del colloquio che ha avuto luogo il Venerdì Santo nella residenza gerosolimitana di Pilato, ciò che, un tempo, aveva scritto il profeta Daniele. San Giovanni annota: “Ecco, viene sulle nubi (così si era già espresso Daniele) e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero... Sì. Amen!” (Ap 1,7).
Appunto: Amen. Questa unica parola sigilla, per così dire, la verità su Cristo Re. Egli è non soltanto “il testimone fedele”, ma anche “il primogenito dei morti” (Ap 1,5). E se è il principe della terra e di quelli che la governano (“il principe dei re della terra” [Ap 1,5]) lo è per questo, soprattutto per questo, e definitivamente per questo, perché “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6).
5. Ecco la piena definizione di quel regno, ecco tutta la verità su Cristo Re. Siamo convenuti oggi in questa Basilica per accettare queste verità ancora una volta, con gli occhi della fede largamente aperti e col cuore pronto a dare la risposta. Poiché questa è verità che esige in modo particolare una risposta. Non soltanto la comprensione. Non soltanto l’accettazione da parte dell’intelletto, ma una risposta che emerge da tutta la vita.
Quella risposta è stata pronunciata in modo splendido, dall’Episcopato della Chiesa contemporanea nel Concilio Vaticano II. Verrebbe perfino, in questo momento, la voglia di stendere la mano a quei testi della Costituzione Lumen Gentium che abbagliano con la semplice profondità della verità, ai testi carichi della pienezza della “praxis” cristiana contenuti nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, e ai tanti altri documenti che traggono da quelli fondamentali le conclusioni concrete per i vari campi della vita ecclesiale. Penso in particolare al decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici. Se qualcosa chiedo al laicato di Roma e del mondo, è che si tengano sempre d’occhio questi splendidi documenti dell’insegnamento della Chiesa contemporanea. Essi definiscono il senso più profondo dell’essere cristiani. Questi documenti meritano ben più che d’essere semplicemente studiati e meditati; se non si cerca in essi l’appoggio, è quasi impossibile capire e realizzare la nostra vocazione e, in specie, la vocazione dei laici, il loro particolare apporto alla costruzione di quel regno, che, pur non essendo “di questo mondo” (Gv 18,36), esiste tuttavia quaggiù, perché è in noi. E, in particolare, è in voi: laici!
6. Cristo è salito sulla croce come un Re singolare: come l’eterno testimone della verità. “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Questa testimonianza è la misura delle nostre opere. La misura della vita. La verità per la quale Cristo ha dato la vita – che ha confermato con la risurrezione – è la fondamentale sorgente della dignità dell’uomo. Il regno di Cristo si manifesta, come insegna il Concilio, nella “regalità” dell’uomo. Bisogna che noi sappiamo, in questa luce, partecipare a ogni sfera della vita contemporanea e formarla. Non mancano infatti, nei nostri tempi, le proposte indirizzate all’uomo, non mancano i programmi che si invocano per il suo bene. Sappiamo rileggerli nella dimensione della piena verità sull’uomo, della verità confermata con le parole e con la croce di Cristo!
Sappiamo discernerli bene! Quel che dichiarano si esprime con la misura della vera dignità dell’uomo? La libertà che proclamano serve la regalità dell’essere creato a immagine di Dio, oppure al contrario prepara la privazione o costrizione di essa? Per esempio: servono la vera libertà dell’uomo o esprimono la sua dignità l’infedeltà coniugale, anche se sanzionata dal divorzio, o la mancanza di responsabilità per la vita concepita, anche se la tecnica moderna insegna come sbarazzarsi di essa? Certamente tutto il permissivismo morale non si basa sulla dignità dell’uomo e non educa l’uomo ad essa.
Come non richiamare, qui, la diagnosi che del contesto socio-religioso della nostra città ha fatto il Signor Cardinale Vicario alla vostra assemblea del 10 novembre scorso? Egli ha indicato le principali “sofferenze” che angustiano la città di Roma: l’insicurezza sociale delle famiglie per la casa, il lavoro, l’educazione dei figli; lo smarrimento spirituale e sociale degli immigrati dalle zone rurali; l’incomunicabilità tra le famiglie, che vivono nei grandi condomini popolari senza conoscersi e senza il coraggio di solidarizzare; la delinquenza organizzata, particolarmente al servizio della droga; la violenza pazza e immotivata e il terrorismo politico, a cui vanno aggiunte le molteplici manifestazioni di immoralità e di irreligiosità nella vita personale e sociale.
Di questi mali erano individuate le cause, fra l’altro, nel calo d’interesse ai problemi dell’educazione e della scuola lasciata sempre più in balia di forze minoritarie, ma fortemente turbative; e nella disgregazione della famiglia, sottoposta all’azione corrosiva di molteplici fattori ambientali e di costume. La radice più profonda di esse va posta, però, come ha detto il Signor Cardinale, “nel costante deprezzamento della persona umana, della sua dignità, dei suoi diritti e doveri” e del senso religioso e morale della vita. Il Cardinale Vicario ha anche sollecitato da voi tutti una coraggiosa assunzione di responsabilità, ponendovi dinanzi alcune “prospettive concrete di impegno”, ed esattamente: la costruzione di una vera comunità cristiana capace di annunciare il Vangelo in modo credibile; l’impegno culturale di ricerca e di discernimento critico, in costante fedeltà al Magistero, in ordine a un corretto dialogo tra Chiesa e mondo, l’impegno di contribuire all’incremento del senso della responsabilità sociale, stimolando nel clero e nei fedeli la solidarietà per il bene comune sia della Comunità ecclesiale che di quella civile; l’impegno, infine, nella pastorale vocazionale, oggi particolarmente urgente, ed in quella delle comunicazioni sociali.
Ecco, sorelle e fratelli carissimi, stanno davanti a voi alcune precise linee d’azione pastorale, sulle quali ognuno è invitato a misurarsi, in adesione coerente e coraggiosa alle esigenze poste dal Battesimo e dalla Confermazione e confermate dalla partecipazione all’Eucaristia. Chiedo a tutti e a ciascuno di non tirarsi indietro di fronte alle proprie responsabilità. Lo chiedo nella Solennità liturgica di Cristo Re.
Cristo, in un certo senso, sta sempre davanti al tribunale delle coscienze umane, come una volta si trovò davanti al tribunale di Pilato. Egli ci rivela sempre la verità del suo regno. E sempre s’incontra, da tante parti, con la replica “che cos’è la verità” (Gv 18,38).
Per questo sia egli ancora più vicino a noi. Sia il suo regno sempre più in noi. Ricambiamolo con l’amore al quale ci ha chiamati, e in lui amiamo sempre di più la dignità di ogni uomo!
Allora saremo veramente partecipi della sua missione. Diventeremo apostoli del suo regno.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 25 novembre 1979]
In questa ultima domenica dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di Cristo Re. E il Vangelo di oggi ci fa contemplare Gesù mentre si presenta a Pilato come re di un regno che «non è di questo mondo» (Gv 18,36). Questo non significa che Cristo sia re di un altro mondo, ma che è re in un altro modo, eppure è re in questo mondo. Si tratta di una contrapposizione tra due logiche. La logica mondana poggia sull’ambizione, sulla competizione, combatte con le armi della paura, del ricatto e della manipolazione delle coscienze. La logica del Vangelo, cioè la logica di Gesù, invece si esprime nell’umiltà e nella gratuità, si afferma silenziosamente ma efficacemente con la forza della verità. I regni di questo mondo a volte si reggono su prepotenze, rivalità, oppressioni; il regno di Cristo è un «regno di giustizia, di amore e di pace» (Prefazio).
Gesù si è rivelato re quando? Nell’evento della Croce! Chi guarda la Croce di Cristo non può non vedere la sorprendente gratuità dell’amore. Qualcuno di voi può dire: “Ma, Padre, questo è stato un fallimento!”. E’ proprio nel fallimento del peccato - il peccato è un fallimento - nel fallimento delle ambizioni umane, lì c’è il trionfo della Croce, c’è la gratuità dell’amore. Nel fallimento della Croce si vede l’amore, questo amore che è gratuito, che Gesù ci dà. Parlare di potenza e di forza, per il cristiano, significa fare riferimento alla potenza della Croce e alla forza dell’amore di Gesù: un amore che rimane saldo e integro, anche di fronte al rifiuto, e che appare come il compimento di una vita spesa nella totale offerta di sé in favore dell’umanità. Sul Calvario, i passanti e i capi deridono Gesù inchiodato alla croce, e gli lanciano la sfida: «Salva te stesso scendendo dalla croce!» (Mc 15,30). “Salva te stesso!”. Ma paradossalmente la verità di Gesù è proprio quella che in tono di scherno gli scagliano addosso i suoi avversari: «Non può salvare sé stesso!» (v. 31). Se Gesù fosse sceso dalla croce, avrebbe ceduto alla tentazione del principe di questo mondo; invece Lui non può salvare sé stesso proprio per poter salvare gli altri, proprio perché ha dato la sua vita per noi, per ognuno di noi. Dire: “Gesù ha dato la vita per il mondo” è vero, ma è più bello dire: “Gesù ha dato la sua vita per me”. E oggi in piazza, ognuno di noi, dica nel suo cuore: “Ha dato la sua vita per me”, per poter salvare ognuno di noi dai nostri peccati.
E questo chi lo ha capito? Lo ha capito bene uno dei due malfattori che sono crocifissi con Lui, detto il “buon ladrone”, che Lo supplica: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Ma questo era un malfattore, era un corrotto ed era lì condannato a morte proprio per tutte le brutalità che aveva fatto nella sua vita. Ma ha visto nell’atteggiamento di Gesù, nella mitezza di Gesù l’amore. E questa è la forza del regno di Cristo: è l’amore. Per questo la regalità di Gesù non ci opprime, ma ci libera dalle nostre debolezze e miserie, incoraggiandoci a percorrere le strade del bene, della riconciliazione e del perdono. Guardiamo la Croce di Gesù, guardiamo il buon ladrone e diciamo tutti insieme quello che ha detto il buon ladrone: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Tutti insieme: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Chiedere a Gesù, quando noi ci vediamo deboli, peccatori, sconfitti, di guardarci e dire: “Tu sei lì. Non ti dimenticare di me!”.
Di fronte alle tante lacerazioni nel mondo e alle troppe ferite nella carne degli uomini, chiediamo alla Vergine Maria di sostenerci nel nostro impegno di imitare Gesù, nostro re, rendendo presente il suo regno con gesti di tenerezza, di comprensione e di misericordia.
[Papa Francesco, Angelus 22 novembre 2015]
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà.
Ma se Dio ci crea e chiama incessantemente per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai farisei e - sembra - anche a Gesù.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita, e nella Torah pareva loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
In effetti i Farisei credevano alla risuscitazione dei morti in senso molto banale: una sorta di miglioramento e sublimazione delle (medesime) condizioni di essere naturale.
Per loro la vita dell’aldilà non era che un prolungamento accentuato, nobilitato e imbellito di questa nostra forma d’esistere.
Invece la vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta. Paragonabile all’immediatezza dell’amore.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
‘Risurrezione della carne’ designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste forme di vita: (traslitterando) Bìos e Zoe Aiònios [Vita dell’Eterno] che non ha a che vedere con la realtà solo biologica [v.36: «uguali agli angeli»].
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di ‘comunicazione diretta’.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un ‘essere-con e per’ gli altri; prontamente, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù. Egli ammutolisce pure i Sadducei facendoli riflettere; e trae il fondamento della Risurrezione (ma come la intende Lui) proprio da Esodo.
Così mostra che già nella Legge c’è una presentazione di Dio incompatibile con un destino d’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi. Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica l’Altissimo prendeva nome dalla regione o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi, non della polvere o del nulla.
Questo il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”.
[Sabato 33.a sett. T.O. 23 novembre 2024]
E Dio che lega il suo cuore all’umanità
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà, infondendo disorientamento e angoscia di pensieri sul senso della vita, sul motivo per cui ciascuno di noi esiste.
Se Dio ci crea e chiama incessantemente, per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai Farisei e - sembra - anche a Gesù.
Egli però riteneva che il Padre era ben altro che un Vivente… il quale infine si metteva a risuscitare cadaveri!
[È il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”].
Nella mentalità semitica la norma del ‘levirato’ era specchio di un’idea fiacca dell’esistenza dopo la morte - relegata alla semplice continuità del nome.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita: predicavano la religione che serviva a ottenere benedizioni per esistere su questa terra in modo agiato - e tanto loro bastava.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
I sadducei il loro “paradiso” se l’erano già costruito in città e fuori.
Le loro ampie ville con corte interna e piscina privata per le abluzioni erano proprio sulla collina dirimpetto al Tempio di Gerusalemme, dalla parte opposta del Monte degli Ulivi (ossia verso ovest).
Le loro seconde case - dove passavano l’inverno - erano a Gerico.
Anche per interesse diretto nell’attività sacrificale che svolgevano, ritenevano comunque che i testi profetici non avessero dignità di Scrittura sacra: solo la Legge rispecchiava la volontà di Dio.
E nella Torah sembrava loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione dei morti.
Così tentano d’incastrare anche Gesù, con un paradosso costruito ad arte, per evidenziare le contraddizioni di questa credenza - apparsa solo dal 2° sec. a.C. nel libro di Daniele e in Maccabei.
Essi la ritenevano assurda - quindi intendevano screditare il «Maestro» [termine con cui lo designano per metterlo in ridicolo: v.28].
In effetti l’appiglio c’era, perché i Farisei credevano alla risuscitazione nel senso banale. Una sorta di accentuazione, miglioramento o sublimazione delle (medesime) condizioni di vita - e legami - naturali.
Quindi non una forma definitiva, senza confini, qualitativamente indistruttibile.
In sostanza, nel ‘mondo di là’ ognuno avrebbe goduto completamente degli affetti famigliari e di clan della precedente forma di vita - e così via.
‘L’aldilà’ non doveva essere che un prolungamento sublimato, nobilitato e imbellito di questo nostro modo di esistere; senza malattie, sofferenze, problemi vari.
[Insomma, vita solo progredita; forse come ci è stata un tempo trasmessa da catechisti volenterosi... ma poco attenti alla Parola di Dio].
Così appunto i sadducei - conservatori - che accettavano unicamente il Pentateuco - ove sostenevano appunto che non si accenna a un’altra vita, ulteriore.
In tal guisa, essi avevano gioco facile a smascherare la fragilità di quella credenza popolare, cui i leaders del fariseismo erano viceversa legati.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
Nell’ambiente latino, tuttora, il modo d’intendere la Risurrezione risente non poco delle modalità rappresentative della tradizione pittorica.
Leggendo le raffigurazioni cui siamo abituati… notiamo che subito il Risorto mette a terra i gendarmi e spaventa tutti.
Esce dal sepolcro con il vessillo di vittoria, forte e muscoloso. Irrompe come tornando di qua per battere gli avversari.
Pretese descrittive e naturalistiche che non rendono merito alla Fede e quasi ridicolizzano i Vangeli.
Viceversa, nelle icone orientali la Risurrezione è intesa e figurata in modo sostanziale, misterico: la Discesa agli Inferi.
Non è un trionfo di Dio, che s’impone al mondo. Egli non ne ha bisogno alcuno.
Piuttosto l’evento teologico resta a sostegno della vittoria dei suoi figli, i quali ricevono vita direttamente dal Padre.
Ecco il riscatto della donna e dell’uomo qualunque [Adamo ed Eva] che vengono tratti dai sepolcri dalla forza divina - non naturale - del Cristo Risorto.
Il mondo definitivo stravolge l’idea dello Sheôl e lo scardina totalmente, sgombrando il buio - e quel grande dramma dell’umanità.
Si entra nel mondo di Dio; non si torna di qua - magari per vivere meglio: ringiovaniti e sani invece che malati, in villa con giardino piuttosto che in monolocale.
La vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta.
Paragonabile all’immediatezza dell’amore: un essere-con e per gli altri. Collimante al modo di esistere degli Angeli (v.36): essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
“Risurrezione della carne” designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, all’intimità stessa di Dio - nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Ovviamente non si può credere di venire introdotti nella Condizione Divina se durante il corso terreno non abbiamo sperimentato un costante vettore esistenziale morte-risurrezione.
È l’esperienza del guadagno nella sconfitta; in particolare, la scoperta di una vita impensabile, che ci ha fatto trasalire di Felicità. Per lo Stupore: nella provvidenziale trasmutazione dei nostri lati deboli e oscuri, da fiacche parvenze a punti di forza.
Diventati evolutivi, forse il meglio di noi.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste due forme di essere: (traslitterando dal greco) Bìos, e Zoè Aiònios.
La Zoe, Vita stessa dell’Eterno, è acutamente relazionale e sperimentabile - ma non ha a che vedere con l’esistenza biologica e la nostra carcassa [«uguali agli angeli» v.36].
Ciò che non muore non è il dna del corpo, bensì il dna celeste, che abbiamo ricevuto in dono dal Padre.
L’Oro divino ci abita e - se vogliamo - può affiorare già, in un’esistenza piena, di realizzazione della propria Vocazione, in clima di Comunione.
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di comunicazione diretta.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un essere-con e per gli altri; con prontezza, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma appunto da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù.
Egli ammutolisce pure i sadducei, facendoli riflettere, trattandoli da incompetenti.
Trae infatti il fondamento della “dottrina” della Risurrezione [ma come la intende Lui] proprio dal libro dell’Esodo.
Così mostra che sin dai rotoli della Legge c’è una presentazione dell’Eterno incompatibile col destino di un’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi.
Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica ogni santuario prendeva nome dalla divinità, specificata dal suo territorio o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Un brutto vizio pagano che purtroppo abbiamo ereditato.
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».
Ai tre Patriarchi era stato possibile avere discendenza, non per concatenazione naturale.
In quella mentalità, unica possibilità di perpetuare la vita di generazione in generazione era di poter trasmettere il proprio nome al primogenito maschio.
Ciò era accaduto invece per intervento dall’alto, mentre le mogli erano sterili [matriarche infertili: Sara, Rebecca, Rachele, a lungo senza eredi].
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi - non di morti (della polvere, dell’inconsistenza, del nulla).
I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr Mt 22,31-32). Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano il nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi; i vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio. E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il Suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.
Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio; in un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.
[Papa Benedetto, Lectio 11 giugno 2012]
Herod is a figure we dislike, whom we instinctively judge negatively because of his brutality. Yet we should ask ourselves: is there perhaps something of Herod also in us? Might we too sometimes see God as a sort of rival? Might we too be blind to his signs and deaf to his words because we think he is setting limits on our life and does not allow us to dispose of our existence as we please? (Pope Benedict)
Erode è un personaggio che non ci è simpatico e che istintivamente giudichiamo in modo negativo per la sua brutalità. Ma dovremmo chiederci: forse c’è qualcosa di Erode anche in noi? Forse anche noi, a volte, vediamo Dio come una sorta di rivale? Forse anche noi siamo ciechi davanti ai suoi segni, sordi alle sue parole, perché pensiamo che ponga limiti alla nostra vita e non ci permetta di disporre dell’esistenza a nostro piacimento? (Papa Benedetto)i
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athinagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
don Giuseppe Nespeca
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