Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Gratuitamente: il Regno vicino e la Preghiera Incarnata
(Mt 9,35-10,1.6-8)
Gesù si distingue dai Rabbi del suo tempo, perché non attende che sia la gente spossata e prostrata (v.36) ad andare da lui: la cerca.
E il gruppo dei suoi dev’essere partecipe, sia nelle opere di guarigione che di liberazione - fraternità motivata da disinteresse luminoso.
Entra nelle assemblee di preghiera con ansia pastorale: per insegnare, non per disquisire. Non fa lezioni di analisi logica, ma lascia emergere Chi lo abita.
Proclama un Regno totalmente diverso da come veniva inculcato dai manipolatori delle coscienze (stracolmo di convinzioni dettagliate) - i quali non esercitavano certo in modo gratuito.
Le dottrine antiche e i suoi protagonisti smorzavano ogni dissonanza e producevano il peggio: intima coercizione, anonimato, solitudine, passività.
Inculcavano che fosse decisivo acquisire le loro piatte sicurezze, non certo aprirsi al Mistero personale, al carattere innato - fecondamente non conforme al contesto.
Di fatto, cercavano di disturbare i viaggi dell’anima, che talora vaga per ritrovarsi, e che al solito modo di vedere - paludoso, stagnante - preferisce nuovi scorci.
Non ammettevano che in ciascun fedele potesse dimorare una opzione fondamentale non omologata alla loro ideologia e maniera di scendere in campo.
Tutto della vita altrui doveva funzionare alla perfezione, secondo i loro obbiettivi. Quindi non predicavano turbamenti, ma staticità.
Nulla di nuovo doveva capitare, che potesse mettere in dubbio gli equilibri sociali, il loro influsso autoritario… e i loro proventi.
Nulla di diverso doveva esserci da esplorare e trovare.
Eppure, ieri come oggi, dentro ciascuna donna e uomo risiede un vulcano di energie potenziali - le quali secondo l’ideologia dominante dovevano solo essere soffocate e allineate.
Per tutto questo che ancora si trascina cerchiamo viceversa un Dio da sperimentare, amabile, non costruito “ad arte”… né invisibile o lontano dalla nostra condizione.
Vogliamo Colui che doni respiro, e ci comprenda.
Lo si coglie nitidamente: ciò che coviamo non è una misera illusione, da spegnere in favore di equilibri esterni.
Infatti l’Evangelo (v.35) annuncia Grazia: il volto del Padre - che non vuole nulla per sé, bensì dona tutto per trasmetterci la sua stessa Vita. E lo fa non per mortificare la nostra intima energia.
La Lieta Novella proclama un Amico che Viene, che non costringe a “salire” [in astratto] né imprigiona dentro sensi di colpa, sfiancando le creature già sottomesse - rendendole ancor più desolate di prima.
Qui si rivela un Cielo che fa sentire adeguati, non castiga e neppure impressiona, bensì promuove e mette tutti a proprio agio; un Misericordioso non solo buono: esclusivamente buono.
Il Padre prodigo accoglie le persone come fa il Figlio nei Vangeli - così come sono; non indagando. Piuttosto dilatando.
Anche la sua Parola-evento non solo riattiva: reintegra gli squilibri e li valorizza in prospettiva di percorsi da persona reale - senza giudicare o disperdere, né spezzare nulla.
Per una tale opera di sapiente ricomposizione dell’essere, il Maestro invita alla Preghiera (v.38) - prima forma d’impegno dei discepoli.
L’accesso a diverse sintonie nello Spirito c’insegna a stimolare lo sguardo dell’anima, a valorizzare e capire tutto e tutti.
Quindi - dopo averli resi meno ignari - Gesù invita i suoi a coinvolgersi nell’opera missionaria; non a fare i dotti o lezioni di morale.
Sarebbero sceneggiate senza premure, che fanno sentire i malfermi ancor più sperduti.
La Missione cresce a partire da una dimensione piccola ma sconfinata - quella della percezione intima, che si accorge delle necessità e del mistero d’una Presenza favorevole.
Nuove configurazioni d’intesa, in spirito: scoperte appieno solo nell’orazione profonda (v.38). Preghiera Incarnata.
Essa non vuole distoglierci dalla realizzazione interiore; al contrario, fa da guida, e ricolloca l’anima dispersa nelle tante pratiche comuni da svolgere, al proprio centro.
Ci fa provare lo struggimento del desiderio e del capire la condizione perfetta: il Padre non intende assorbire le nostre attitudini, bensì potenziarle. Perché ciascuno ha un intimo progetto, una Chiamata per Nome, un proprio posto nel mondo.
Sembra paradossale, ma la Chiesa in uscita - quella che non specula, né impegnata in proselitismi di massa per impressionare il mainstream - è anzitutto un problema di formazione e coscienza interna.
Insomma, ci si riconosce e si diventa non ignari delle cose attraverso la Preghiera-presentimento, unitiva.
In Cristo essa non è prestazione o espressione devota, bensì intesa e anzitutto Ascolto del Dio che in mille forme sottili si rivela e chiama.
L’impegno per sanare il mondo non si vince senza consapevolezze di vocazione, né lasciandosi plagiare e andando a casaccio.
Piuttosto, acuendo lo sguardo, e reinvestendo la virtù e il carattere anche dei nostri stessi lati ancora in ombra.
Né poi rimane essenziale valicare sempre ogni confine (Mt 10,5-6) con una logica di fuga.
Perché non di rado - purtroppo - solo chi ama la forza comincia dal troppo scostato da sé [dal tanto remoto e fuori mano].
Le “pecore” perdute e stanche di provare e riprovare - gli esclusi, i considerati persi, gli emarginati - non mancano. Sono a portata di mano, e non c’è urgenza di estraniarsi immediatamente. Quasi per volersi esonerare dai più prossimi.
L’orizzonte si espande da solo, se si è convinti e non si amano maschere o sotterfugi.
Il senso di prossimità a se stessi, agli altri e alla realtà è un portato autentico del Regno che si rivela: quello Vicino.
Intesa la natura delle creature e conformandovisi in modo crescente, tutti vengono ispirati a mutare e completarsi, arricchendo anche la sclerosi culturale, senza forzature alienanti.
Esercitando una pratica di bontà anche con se stessi.
Alcuni fra i più citati aforismi tratti dalla cultura del Tao recitano: “La via del fare è l’essere”; “chi conosce gli altri è sapiente, chi conosce se stesso è illuminato”; “un lungo viaggio di mille miglia inizia da un solo passo”; “il maestro osserva il mondo, ma si fida della sua visione interiore”; “se correggi la mente, il resto della tua vita andrà a posto”; “quando si accetta se stessi, il mondo intero ti accetta”.
Così nella lotta contro le infermità (Mt 9,35-10,1): ci si ristabilisce e si vince acuendo lo sguardo e reinvestendo l’energia e il carattere anche dei nostri stessi lati ancora offuscati.
Tutto il Gratis (Mt 10,8) che potrà scaturirne per edificare la vita in favore dei fratelli, sprizzerà non come puerile contraccambio [isterico] o ingaggio.
Sarà Dialogo d’Amore spontaneo, solido e allietante, perché privo di quegli squilibri che covano sotto la cenere dei condizionamenti di facciata.
Il senso di prossimità (v.7) a se stessi, agli altri e alla realtà sarà un portato autentico - non programmatico, né alienato - del Regno che si rivela: Accanto.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
La Preghiera in Cristo scuote la tua coscienza?
Quale consolazione attendi dal Dio che Viene?
Forse un compenso?
O una gratuità che innesca - qui e ora - il vero Amore-intesa, attento ai richiami di ogni Voce sottile?
Tema: « Le vocazioni al servizio della Chiesa-missione»
Cari fratelli e sorelle!
1. Per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che sarà celebrata il 13 aprile 2008, ho scelto il tema: Le vocazioni al servizio della Chiesa-missione. Agli Apostoli Gesù risorto affidò il mandato: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19), assicurando: “Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). La Chiesa è missionaria nel suo insieme e in ogni suo membro. Se in forza dei sacramenti del Battesimo e della Confermazione ogni cristiano è chiamato a testimoniare e ad annunciare il Vangelo, la dimensione missionaria è specialmente e intimamente legata alla vocazione sacerdotale. Nell’alleanza con Israele, Dio affidò a uomini prescelti, chiamati da Lui ed inviati al popolo in suo nome, la missione di essere profeti e sacerdoti. Così fece, ad esempio, con Mosè: “Ora va’! - gli disse Jahvé - Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo ... quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte” (Es 3,10.12). Ugualmente avvenne con i profeti.
2. Le promesse fatte ai padri si realizzarono appieno in Gesù Cristo. Afferma in proposito il Concilio Vaticano II: “È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale in Lui prima della fondazione del mondo ci ha eletti e ci ha predestinati ad essere adottati come figli ... Perciò Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione” (Cost. dogm. Lumen gentium, 3). E Gesù si scelse, come stretti collaboratori nel ministero messianico, dei discepoli già nella vita pubblica, durante la predicazione in Galilea. Ad esempio, in occasione della moltiplicazione dei pani, quando disse agli Apostoli: “Date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16), stimolandoli così a farsi carico del bisogno delle folle, a cui voleva offrire il cibo per sfamarsi, ma anche rivelare il cibo “che dura per la vita eterna” (Gv 6,27). Era mosso a compassione verso la gente, perché mentre percorreva le città ed i villaggi, incontrava folle stanche e sfinite, “come pecore senza pastore” (cfr Mt 9,36). Da questo sguardo di amore sgorgava il suo invito ai discepoli: “Pregate dunque il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe” (Mt 9,38), e inviò i Dodici prima “alle pecore perdute della casa d’Israele”, con precise istruzioni. Se ci soffermiamo a meditare questa pagina del Vangelo di Matteo, che viene solitamente chiamata “discorso missionario”, notiamo tutti quegli aspetti che caratterizzano l’attività missionaria di una comunità cristiana, che voglia restare fedele all’esempio e all’insegnamento di Gesù. Corrispondere alla chiamata del Signore comporta affrontare con prudenza e semplicità ogni pericolo e persino le persecuzioni, giacché “un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone” (Mt 10,24). Diventati una cosa sola con il Maestro, i discepoli non sono più soli ad annunciare il Regno dei cieli, ma è lo stesso Gesù ad agire in essi: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40). Ed inoltre, come veri testimoni, “rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49), essi predicano “la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,47) a tutte le genti.
3. Proprio perché inviati dal Signore, i Dodici prendono il nome di “apostoli”, destinati a percorrere le vie del mondo annunciando il Vangelo come testimoni della morte e risurrezione di Cristo. Scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: “Noi – cioè gli Apostoli – predichiamo Cristo crocifisso” (1 Cor 1,23). Il Libro degli Atti degli Apostoli attribuisce un ruolo molto importante, in questo processo di evangelizzazione, anche ad altri discepoli, la cui vocazione missionaria scaturisce da circostanze provvidenziali, talvolta dolorose, come l’espulsione dalla propria terra in quanto seguaci di Gesù (cfr 8,1-4). Lo Spirito Santo permette di trasformare questa prova in occasione di grazia, e di trarne spunto perché il nome del Signore sia annunciato ad altre genti e si allarghi in tal modo il cerchio della Comunità cristiana. Si tratta di uomini e donne che, come scrive Luca nel Libro degli Atti, “hanno votato la loro vita al nome del Signore nostro Gesù Cristo” (15,26). Primo tra tutti, chiamato dal Signore stesso sì da essere un vero Apostolo, è senza dubbio Paolo di Tarso. La storia di Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, fa emergere, sotto molti punti di vista, quale sia il nesso tra vocazione e missione. Accusato dai suoi avversari di non essere autorizzato all’apostolato, egli fa appello ripetutamente proprio alla vocazione ricevuta direttamente dal Signore (cfr Rm 1,1; Gal 1,11-12.15-17).
4. All’inizio, come in seguito, a “spingere” gli Apostoli (cfr 2 Cor 5,14) è sempre “l’amore di Cristo”. Quali fedeli servitori della Chiesa, docili all’azione dello Spirito Santo, innumerevoli missionari, nel corso dei secoli, hanno seguito le orme dei primi discepoli. Osserva il Concilio Vaticano II: “Benché l'impegno di diffondere la fede cada su qualsiasi discepolo di Cristo in proporzione delle sue possibilità, Cristo Signore chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, perché siano con lui e per inviarli a predicare alle genti (cfr Mc 3,13-15)” (Decr. Ad gentes, 23). L’amore di Cristo, infatti, va comunicato ai fratelli con gli esempi e le parole; con tutta la vita. “La vocazione speciale dei missionari ad vitam – ebbe a scrivere il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II - conserva tutta la sua validità: essa rappresenta il paradigma dell'impegno missionario della Chiesa, che ha sempre bisogno di donazioni radicali e totali, di impulsi nuovi e arditi” (Enc. Redemptoris missio, 66).
5. Tra le persone che si dedicano totalmente al servizio del Vangelo vi sono in particolar modo sacerdoti chiamati a dispensare la Parola di Dio, amministrare i sacramenti, specialmente l’Eucaristia e la Riconciliazione, votati al servizio dei più piccoli, dei malati, dei sofferenti, dei poveri e di quanti attraversano momenti difficili in regioni della terra dove vi sono, talora, moltitudini che ancora oggi non hanno avuto un vero incontro con Gesù Cristo. Ad esse i missionari recano il primo annuncio del suo amore redentivo. Le statistiche testimoniano che il numero dei battezzati aumenta ogni anno grazie all’azione pastorale di questi sacerdoti, interamente consacrati alla salvezza dei fratelli. In questo contesto, speciale riconoscenza va data “ai presbiteri fidei donum, che con competenza e generosa dedizione edificano la comunità annunciandole la Parola di Dio e spezzando il Pane della vita, senza risparmiare energie nel servizio alla missione della Chiesa. Occorre ringraziare Dio per i tanti sacerdoti che hanno sofferto fino al sacrificio della vita per servire Cristo … Si tratta di testimonianze commoventi che possono ispirare tanti giovani a seguire a loro volta Cristo e a spendere la loro vita per gli altri, trovando proprio così la vita vera” (Esort. ap. Sacramentum caritatis, 26). Attraverso i suoi sacerdoti, Gesù dunque si rende presente fra gli uomini di oggi, sino agli angoli più remoti della terra.
6. Da sempre nella Chiesa ci sono poi non pochi uomini e donne che, mossi dall'azione dello Spirito Santo, scelgono di vivere il Vangelo in modo radicale, professando i voti di castità, povertà ed obbedienza. Questa schiera di religiosi e di religiose, appartenenti a innumerevoli Istituti di vita contemplativa ed attiva, ha “tuttora una parte importantissima nell’evangelizzazione del mondo” (Decr. Ad gentes, 40). Con la loro preghiera continua e comunitaria, i religiosi di vita contemplativa intercedono incessantemente per tutta l’umanità; quelli di vita attiva, con la loro multiforme azione caritativa, recano a tutti la testimonianza viva dell’amore e della misericordia di Dio. Quanto a questi apostoli del nostro tempo, il Servo di Dio Paolo VI ebbe a dire: “Grazie alla loro consacrazione religiosa, essi sono per eccellenza volontari e liberi per lasciare tutto e per andare ad annunziare il Vangelo fino ai confini del mondo. Essi sono intraprendenti, e il loro apostolato è spesso contrassegnato da una originalità, una genialità che costringono all’ammirazione. Sono generosi: li si trova spesso agli avamposti della missione, ed assumono i più grandi rischi per la loro salute e per la loro stessa vita. Sì, veramente, la Chiesa deve molto a loro” (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 69).
7. Inoltre, perché la Chiesa possa continuare a svolgere la missione affidatale da Cristo e non manchino gli evangelizzatori di cui il mondo ha bisogno, è necessario che nelle comunità cristiane non venga mai meno una costante educazione alla fede dei fanciulli e degli adulti; è necessario mantenere vivo nei fedeli un attivo senso di responsabilità missionaria e di partecipazione solidale con i popoli della terra. Il dono della fede chiama tutti i cristiani a cooperare all’evangelizzazione. Questa consapevolezza va alimentata attraverso la predicazione e la catechesi, la liturgia e una costante formazione alla preghiera; va incrementata con l’esercizio dell’accoglienza, della carità, dell’accompagnamento spirituale, della riflessione e del discernimento, come pure con una progettazione pastorale, di cui parte integrante sia l’attenzione alle vocazioni.
8. Solo in un terreno spiritualmente ben coltivato fioriscono le vocazioni al sacerdozio ministeriale ed alla vita consacrata. Infatti, le comunità cristiane, che vivono intensamente la dimensione missionaria del mistero della Chiesa, mai saranno portate a ripiegarsi su se stesse. La missione, come testimonianza dell’amore divino, diviene particolarmente efficace quando è condivisa in modo comunitario, “perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21). Quello delle vocazioni è il dono che la Chiesa invoca ogni giorno dallo Spirito Santo. Come ai suoi inizi, raccolta attorno alla Vergine Maria, Regina degli Apostoli, la Comunità ecclesiale apprende da lei ad implorare dal Signore la fioritura di nuovi apostoli che sappiano vivere in sé quella fede e quell’amore che sono necessari per la missione.
9. Mentre affido questa riflessione a tutte le Comunità ecclesiali, affinché le facciano proprie e soprattutto ne traggano spunto per la preghiera, incoraggio l’impegno di quanti operano con fede e generosità al servizio delle vocazioni e di cuore invio ai formatori, ai catechisti e a tutti, specialmente ai giovani in cammino vocazionale, una speciale Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 3 dicembre 2007
[Papa Benedetto, Messaggio per la XLV Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni]
La Quaresima, occasione provvidenziale di conversione, ci aiuta a contemplare questo stupendo mistero d'amore. Essa costituisce un ritorno alle radici della fede, perché, meditando sul dono di grazia incommensurabile che è la Redenzione, non possiamo non renderci conto che tutto ci è stato dato per amorevole iniziativa divina. Proprio per meditare su questo aspetto del mistero salvifico, ho scelto quale tema del Messaggio quaresimale di quest'anno le parole del Signore: « Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date » (Mt 10, 8).
Sì! Gratuitamente abbiamo ricevuto. La nostra esistenza non è forse tutta segnata dalla benevolenza di Dio? È dono lo sbocciare della vita e il suo prodigioso svilupparsi. E proprio perché è dono, l'esistenza non può essere considerata un possesso o una privata proprietà, anche se le potenzialità, di cui oggi disponiamo per migliorarne la qualità, potrebbero far pensare che l'uomo sia di essa « padrone ». In effetti, le conquiste della medicina e della biotecnologia a volte potrebbero indurre l'uomo a pensarsi creatore di se stesso, e a cedere alla tentazione di manipolare « l'albero della vita » (Gn 3, 24).
È bene anche qui ribadire che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche moralmente lecito. Se ammirevole è lo sforzo della scienza per assicurare una qualità di vita più conforme alla dignità dell'uomo, non deve però essere mai dimenticato che la vita umana è un dono, e che essa rimane un valore anche quando è segnata dalla sofferenza e dal limite. Un dono da accogliere e amare sempre: gratuitamente ricevuto e gratuitamente da porre al servizio degli altri.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Quaresima 2002]
«Servizio» e «gratuità»: sono le due parole chiave attorno alle quali Papa Francesco ha costruito la meditazione della messa celebrata a Santa Marta la mattina di martedì 11 giugno. Sono le caratteristiche fondamentali che devono accompagnare il cristiano «strada facendo», ha detto il Pontefice, lungo quel cammino, quell’«andare» che sempre contraddistingue la vita, «perché un cristiano non può rimanere fermo».
L’insegnamento viene direttamente dal Vangelo: è lì che si ritrovano — come evidenziato dal brano di Matteo proposto dalla liturgia del giorno (10, 7-13) — le indicazioni di Gesù per gli apostoli che vengono inviati. Una missione che, ha detto il Papa, è anche quella «dei successori degli apostoli» e di «ognuno dei cristiani, se inviato». Quindi, innanzi tutto, «la vita cristiana è fare strada, sempre. Non rimanere fermo». E in questo andare, cosa raccomanda il Signore ai suoi? «Guarite gli infermi, predicate dicendo che il regno dei cieli è vicino, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni». Cioè: «una vita di servizio».
Ecco il primo dato fondamentale evidenziato dal Pontefice: «La vita cristiana è per servire». Ed è molto triste, ha aggiunto, vedere «cristiani che all’inizio della loro conversione o della loro consapevolezza di essere cristiani, servono, sono aperti per servire, servono il popolo di Dio», e poi, invece, «finiscono per servirsi del popolo di Dio. Questo fa tanto male, tanto male al popolo di Dio». La vocazione del cristiano quindi è «servire» e mai «servirsi di».
Proseguendo nella riflessione, Francesco è quindi passato a un concetto che, ha sottolineato, «va proprio al nocciolo della salvezza: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. La vita cristiana è una vita di gratuità». Dalla raccomandazione di Gesù agli apostoli inviati si comprende chiaramente che «la salvezza non si compra; la salvezza ci è data gratuitamente. Dio ci ha salvato, ci salva gratis. Non ci fa pagare». Si tratta, ha spiegato il Papa, di un principio «che Dio ha usato con noi» e che noi dobbiamo usare «con gli altri». Ed è «una delle cose più belle» sapere «che il Signore è pieno di doni da darci» e che all’uomo è chiesta solo una cosa: «che il nostro cuore si apra». Come nella preghiera del Padre nostro, dove «preghiamo, apriamo il cuore, perché questa gratuità venga. Non c’è rapporto con Dio fuori dalla gratuità».
Considerando questo caposaldo della vita cristiana, il Pontefice ha quindi evidenziato dei possibili e pericolosi fraintendimenti. Così, ha detto, «delle volte, quando abbiamo bisogno di qualcosa di spirituale o di una grazia, diciamo: “Mah, io adesso farò digiuno, farò una penitenza, farò una novena...”». Tutto ciò va bene, ma «stiamo attenti: questo non è per “pagare “la grazia, per “acquistare” la grazia; questo è per allargare il tuo cuore perché la grazia venga». Sia ben chiaro, infatti: «La grazia è gratuita. Tutti i beni di Dio sono gratuiti. Il problema è che il cuore si rimpiccolisce, si chiude e non è capace di ricevere tanto amore, tanto amore gratuito». Perciò «ogni cosa che noi facciamo per ottenere qualcosa, anche una promessa — “Se io avrò questo, farò quell’altro” — questo è allargare il cuore, non è entrare mercanteggiare con Dio... No. Con Dio non si tratta». Con Dio vale «soltanto il linguaggio dell’amore e del Padre e della gratuità».
E se questo vale nel rapporto con Dio, vale anche per i cristiani — «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» — e, ha sottolineato Francesco, specialmente per i «pastori della Chiesa». La grazia «non si vende» ha ribadito, aggiungendo: «Fa tanto male quando si trovano dei pastori che fanno affari con la grazia di Dio: “Io farò questo, ma questo costa tanto, questo tanto...“. E la grazia di Dio rimane là e la salvezza è un affare». Tutto questo, ha ribadito con forza, «non è il Signore. La grazia del Signore è gratuita e tu devi darla gratuitamente». Purtroppo, ha spiegato, nella vita spirituale c’è «sempre il pericolo di scivolare sul pagamento, sempre, anche parlando con il Signore, come se noi volessimo dare una tangente al Signore». Ma il rapporto con il Signore non può percorrere «quella strada».
Quindi, ha ribadito il Pontefice, no alla dinamiche del tipo: «Signore se tu mi fai questo, io ti darò questo»; ma, eventualmente, sì a una promessa affinché con essa si allarghi il proprio cuore «per ricevere» ciò che «è gratuito per noi». E «questo rapporto di gratuità con Dio è quello che ci aiuterà poi ad averlo con gli altri sia nella testimonianza cristiana sia nel servizio cristiano sia nella vita pastorale di coloro che sono pastori del popolo di Dio».
«Strada facendo»: così il Papa, al termine dell’omelia ha riassunto il suo ragionamento». «La vita cristiana — ha detto — è andare. Predicate, servite, non “servirsi di”. Servite e date gratis quello che gratis avete ricevuto». E ha concluso: «La vita nostra di santità sia questo allargare il cuore, perché la gratuità di Dio, le grazie di Dio che sono lì, gratuite, che Lui vuole donare, possano arrivare al nostro cuore».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 11.06.19]
Illuminatore di ciechi: quale guarigione, Attesa, definitività?
(Mt 9,27-31)
L’enciclica Fratelli Tutti invita a un piglio prospettico che suscita decisione e azione: un occhio nuovo, colmo di Speranza [n.55].
Eppure gli esperti - sicuri di sé - non colgono la dignità (rovesciata) del Mistero di Dio e dell’umanità.
Conoscono le ambizioni, la legge, i dettati altrui, le mode, o le loro idee; non i rivolgimenti dell’anima e della vita.
Quindi ci fanno permanere come in una foresta gelida e dedicata ai forti, sterilizzata o fantasiosa ma paradossalmente selvaggia.
La competizione non manca, anzi ne sarà conseguenza ancor più subdola, come nel caso delle pretese (proprio!) di una ‘coppia di apostoli’ eminenti.
Si tratta dei due figli di Zebedeo, i quali - come gli altri - ambiscono al primato.
La guarigione di coloro che hanno difetti di vista era uno dei beni recati dal Messia atteso (Is 29,18; 35,5).
Tutto sarebbe stato trasformato in meglio.
Ma nei suoi incontri, Gesù opera una guarigione spirituale, non parziale o frivola ed esterna.
L’opera divina nell’uomo è prodigiosa, ma nel senso che si fa molto più profonda di una sanazione fisica.
L’azione di suscitare la Fede e un nuovo acume dell’anima consentono di cogliere lo stesso progetto del Signore.
Ciò rende docili per lasciarlo realizzare da Dio stesso in noi.
L’allusione è alla Casa [Chiesa] in cui tutti i personaggi entrano come fosse cosa normale e in un contesto non polemico (v.28).
Anche il richiamo al fatto che lì si radunano coloro che hanno bisogno di una ‘illuminazione’, induce a leggere in filigrana l’eco di antiche liturgie battesimali.
Intorno a Gesù, ecco illustrato il senso globale dell’incontro del Cristo coi credenti.
L’insegnamento cui anche noi sempre ‘difettosi di vista’ veniamo introdotti dal contatto col Maestro nella comunità riunita è espresso nel passaggio dal titolo figlio di David (v.27) a quello di Signore (v.28).
I ciechi cui viene corretta la miopia sono i capi e i catecumeni, ora credenti.
Nella loro esperienza di Fede essi passano dall’idea di Messia glorioso - somigliante a un sovrano - a quella dell’Amico vicino e Fratello.
Per questo la sua Persona spalanca alla Percezione un panorama che prorompe quale rinascita e capovolgimento dei valori sulla base dei quali s’investe la vita pratica.
Il motivo della fitta oscurità esterna è appunto l’ideologia di potere. Essa deve sparire nella considerazione e nell’universo dei discepoli.
Questo il motivo del cosiddetto silenzio messianico (v.30). E tutto scaturisce «da» un altro sguardo, penetrante.
Tale l’intervento definitivo di Dio che eleva la visione, i sogni, e lo spirito, e in tal guisa attiva percorsi che non sappiamo.
Una nuova maturità sta arrivando.
[Venerdì 1.a sett. Avvento, 6 dicembre 2024]
Illuminatore di ciechi: quale guarigione, Attesa, definitività?
(Mt 9,27-31)
L’enciclica Fratelli Tutti invita a un piglio prospettico che suscita decisione e azione: un occhio nuovo, colmo di Speranza.
Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» [n.55; da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].
Eppure gli esperti - sicuri di sé - non colgono la dignità (rovesciata) del Mistero di Dio e dell’umanità.
Conoscono le ambizioni, la legge, i dettati altrui, le mode, o le loro idee; non i rivolgimenti dell’anima e della vita.
Quindi ci fanno permanere come in una foresta gelida e dedicata ai forti, sterilizzata o fantasiosa ma paradossalmente selvaggia.
La competizione non manca, anzi ne sarà conseguenza ancor più subdola, come nel caso delle pretese (proprio!) di una coppia di apostoli eminenti.
Si tratta dei due figli di Zebedeo, i quali - come gli altri - ambiscono al primato [Mt 20,20-28; Mc 10,35-45 e paralleli Lc 22,24-27; Gv 12,26; 13,3-17].
La guarigione di coloro che hanno difetti di vista era uno dei beni recati dal Messia atteso (Is 29,18; 35,5).
Tutto sarebbe stato trasformato in meglio.
Ma nei suoi incontri, Gesù opera una guarigione spirituale, non parziale o frivola ed esterna.
Malinteso fatale è stato vederlo come operatore di cose strabilianti (v.31).
L’opera divina nell’uomo è prodigiosa, ma nel senso che si fa molto più profonda di una sanazione fisica.
L’azione di suscitare la Fede e un nuovo acume dell’anima consentono di cogliere lo stesso progetto del Signore.
Ciò rende docili per lasciarlo realizzare da Dio stesso in noi.
L’allusione è alla Casa [Chiesa] in cui tutti i personaggi entrano come fosse cosa normale e in un contesto non polemico (v.28).
Anche il richiamo al fatto che lì si radunano coloro che hanno bisogno di una illuminazione, induce a leggere in filigrana l’eco di antiche liturgie battesimali.
Intorno a Gesù, ecco illustrato il senso globale dell’incontro del Cristo coi credenti.
L’insegnamento cui anche noi sempre difettosi di vista veniamo introdotti dal contatto col Maestro nella comunità riunita è espresso nel passaggio dal titolo figlio di David (v.27) a quello di Signore (v.28).
I ciechi cui viene corretta la miopia sono i capi e i catecumeni, ora credenti.
Nella loro esperienza di Fede essi passano dall’idea di Messia glorioso - somigliante a un sovrano - a quella dell’Amico vicino, Fratello di ciascuno, Prossimo ed eminente allo stesso modo [due ciechi].
Per questo la sua Persona spalanca alla percezione un panorama alternativo della mente e del cuore.
In tal guisa, Mt dona i tratti della personalità dell’uomo riuscito secondo Dio, nonché la cifra più intima della comunità.
Il cambiamento del punto di vista normale innesca un’altra vita.
Non si tratta di un dono accessorio, bensì essenziale. Indispensabile non solo per la realizzazione personale, ma anche per la Comunione [Mt 20,24; Mc 10,41; Lc 9,46. 22,24; Gv 13,12-17. 20,4. 21,20-22].
Anche qui, per estrarre perle è opportuno andare oltre la prospettiva conformista e “a posto” - babelica, alla moda o di branco, e banale.
Bisogna imparare a scandagliare meglio la nostra Chiamata e quel che reca, perché esiste un altro equilibrio delle cose - forse ancora tutto da esplorare.
Armonia superiore che sta dentro la vita… ma sotto le facciate: si deve scavare in ogni relazione, vicenda o sensazione; esaminare meglio.
E accorgersi di ciò che si affaccia.
Occhio: anche e soprattutto negli scuotimenti delle bufere.
Talora è d’uopo fare un salto nel buio, per contattare il proprio Seme vocazionale; per guarire lo sguardo dell’anima, e riconoscersi; fiorire.
I disagi vengono per avvisare: ci stiamo allontanando da noi stessi.
Le amarezze oscure diventano qui occasioni di strappo dagli sfondi e dalle rappresentazioni conformiste.
I luoghi comuni ci sono stati inoculati (goccia a goccia) da scorci meschini, nei quali forse siamo già introdotti. E magari interpretiamo con senso di permanenza.
Avendo acquisito altra angolazione, saremo ben contenti di accorgerci da cosa siamo liberati e quali differenti configurazioni attendono la crescita delle nostre stesse risorse innate.
L’esistenza tormentata è spesso come intossicata, ma solo quando non indaga né nota differenti soluzioni all’idea ad es. di dover arricchire con beni materiali, fare carriera, doversi affermare subito e ribattere colpo su colpo, farsi rispettare, apparire a ogni costo - perché no, usando la vita ecclesiale.
Non sarà questa la nostra realizzazione e tranquillità; tutt’altro. Piuttosto, le brame, gli intimismi, e altre situazioni che conosciamo, non sono che una fuga dalla propria essenza.
Il nostro nucleo intimo prende respiro e slancio - si attiva - paradossalmente dai traumi e dai lati in ombra.
Tutto ciò accade assecondando i segnali della Provvidenza naturale.
Tale onda vitale si esprime con “parole” o scorci (appunto) dell’inconscio che si esprime, contestandoci.
Il motivo della fitta oscurità esterna è qui l’ideologia di potere che trae la propria realizzazione sociale dalle tenebre reali.
Essa deve sparire nella considerazione e nell’universo dei discepoli.
Questo il motivo del cosiddetto silenzio messianico (v.30) imposto da Gesù - anche se non di rado i seguaci di ogni tempo poi ci ricascano e annunciano il Figlio di Dio al contrario (v.31).
Nel Messaggio dei famigliari «illuminati» la saggezza del cuore nuovo prorompe quale rigenerazione, rinascita e capovolgimento dei valori sulla base dei quali s’investe la vita pratica.
Adesso però non proclamiamo Cristo come forsennati (v.27), perché il nostro “dire” è tutto «da» un altro sguardo, penetrante.
I testimoni cui è stata corretta la Visione, la lettura delle cose, e i sogni, non sono chiamati a entrare con violenza e ri-proclamare il vecchio piccolo mondo di mode istrioniche, di nebbie procurate, o malversazioni ambigue, di aggressività poco radiose, e angosce subdole.
Piuttosto essi correggono gli errori e cercano di spalancare pertugi per dissipare il buio, operando brecce e allargando fessure di luce.
Non perché abbiamo un’attitudine “positiva” - come si dice oggi - ma perché intendiamo noi stessi: perché cogliamo il senso delle cose nei solchi della storia, e per Grazia siamo abilitati a leggere il segno dei tempi.
Uscire da schemi e meccanismi convenzionali consentirà di correggere le convinzioni, di fare Esodo dalle amarezze di superficie.
Non: facendo finta di nulla, bensì rigenerando insieme ad esse - dall’interno.
Per questo nella Fede evitiamo di farci trascinare da tensioni inutili, dannose, perché devianti la nostra Vocazione.
Ma queste eccentricità le penetriamo, affinché da esse possano partire altri Sogni, diverse Attese, Immagini uniche (davvero vicine a noi).
Questa la Venuta che svela l’essenziale, e supera il vuoto.
Presenza che ci aiuta a dare un’eccentricità di Raggio - e spazio anche disarmonico. Senza il solito serbatoio di fissazioni conformiste, idolatriche, personali, o di club [che fanno impallidire gli orizzonti].
Tale l’intervento definitivo di Dio nel tempo, che eleva la visione e lo spirito, e in tal guisa attiva percorsi che non sappiamo.
Una nuova maturità sta arrivando.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Durante il tempo d’Avvento, cosa attendi dalla Venuta divina, e quale intervento “definitivo” desideri?
La Chiesa stessa ha sempre bisogno di essere evangelizzata
LEGAMI RECIPROCI TRA LA CHIESA E L'EVANGELIZZAZIONE
15. Chiunque rilegge, nel Nuovo Testamento, le origini della Chiesa, seguendo passo passo la sua storia e considerandola nel suo vivere e agire, scorge che è legata all'evangelizzazione da ciò che essa ha di più intimo: - La Chiesa nasce dall'azione evangelizzatrice di Gesù e dei Dodici. Ne è il frutto normale, voluto, più immediato e più visibile: «Andate dunque, fate dei discepoli in tutte le nazioni». Ora, «coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e circa tremila si unirono ad essi . . . E il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati».
- Nata, di conseguenza, della missione, la Chiesa è, a sua volta, inviata da Gesù. La Chiesa resta nel mondo, mentre il Signore della gloria ritorna al Padre. Essa resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova presenza di Gesù, della sua dipartita e della sua permanenza. Essa la prolunga e lo continua. Ed è appunto la sua missione e la sua condizione di evangelizzatore che, anzitutto, è chiamata a continuare. Infatti la comunità dei cristiani non è mai chiusa in se stessa. In essa la vita intima - la vita di preghiera, l'ascolto della Parola e dell'insegnamento degli Apostoli, la carità fraterna vissuta, il pane spezzato - non acquista tutto il suo significato se non quando essa diventa testimonianza, provoca l'ammirazione e la conversione, si fa predicazione e annuncio della Buona Novella. Così tutta la Chiesa riceve la missione di evangelizzare, e l'opera di ciascuno è importante per il tutto.
- Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l'evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d'amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell'amore. Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare «le grandi opere di Dio», che l'hanno convertita al Signore, e d'essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d'essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo. Il Concilio Vaticano II ha ricordato e il Sinodo del 1974 ha fortemente ripreso questo tema della Chiesa che si evangelizza mediante una conversione e un rinnovamento costanti, per evangelizzare il mondo con credibilità.
- La Chiesa è depositaria della Buona Novella che si deve annunziare. Le promesse della Nuova Alleanza in Gesù Cristo, l'insegnamento del Signore e degli Apostoli, la Parola di vita, le fonti della grazia e della benignità di Dio, il cammino della salvezza: tutto ciò le è stato affidato. Il contenuto del Vangelo, e quindi dell'evangelizzazione, essa lo conserva come un deposito vivente e prezioso, non per tenerlo nascosto, ma per comunicarlo.
[Papa Paolo VI, Evangelii Nuntiandi]
Il profeta Isaia (35,4-7) incoraggia gli “smarriti di cuore” e annuncia questa stupenda novità, che l’esperienza conferma: quando il Signore è presente si riaprono gli occhi del cieco, si schiudono gli orecchi del sordo, lo zoppo “salta” come un cervo. Tutto rinasce e tutto rivive perché acque benefiche irrigano il deserto. Il “deserto”, nel suo linguaggio simbolico, può evocare gli eventi drammatici, le situazioni difficili e la solitudine che segna non raramente la vita; il deserto più profondo è il cuore umano, quando perde la capacità di ascoltare, di parlare, di comunicare con Dio e con gli altri. Si diventa allora ciechi perché incapaci di vedere la realtà; si chiudono gli orecchi per non ascoltare il grido di chi implora aiuto; si indurisce il cuore nell’indifferenza e nell’egoismo. Ma ora – annuncia il Profeta – tutto è destinato a cambiare; questa “terra arida” di un core chiuso sarà irrigata da una nuova linfa divina. E quando il Signore viene, agli smarriti di cuore di ogni epoca dice con autorità: “Coraggio, non temete”! ( v. 4).
[Papa Benedetto, omelia Valle Faul Viterbo 6 settembre 2009]
5. Gesù sottolinea più di una volta che il miracolo da lui compiuto è legato alla fede. “La tua fede ti ha guarita”, dice alla donna che soffriva d’emorragia da dodici anni e che, accostatasi alle sue spalle, gli aveva toccato il lembo del mantello ed era stata risanata (cf. Mt 9, 20-22; Lc 8, 48; Mc 5, 34).
Parole simili Gesù pronunzia mentre guarisce il cieco Bartimeo, che all’uscita da Gerico con insistenza chiedeva il suo aiuto gridando: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” (cf. Mc 10, 46-52). Secondo Marco: “Va’, la tua fede ti ha salvato”, gli risponde Gesù. E Luca precisa la risposta: “Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato” (Lc 18, 42).
Un’identica dichiarazione fa al samaritano guarito dalla lebbra (Lc 17, 19). Mentre ad altri due ciechi che invocano il riacquisto della vista, Gesù chiede: “Credete voi che io possa fare questo?”. “Sì, o Signore!” . . . “Sia fatto a voi, secondo la vostra fede” (Mt 9, 28-29).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 16 dicembre 1987]
Non cadere dalla tentazione di seguire Gesù per interesse. Nella consueta Messa mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Martahe, Papa Francesco mette in luce la tentazione di seguire Gesù per interesse, e che poi dalla tentazione del potere all’ipocrisia il passo è molto breve. E conclude: “Che il Signore ci dia questa grazia dello stupore dell’incontro e anche ci aiuti a non cadere nello spirito di mondanità, cioè quello spirito che dietro o sotto una vernice di cristianesimo ci porterà a vivere come pagani.”
Il passo del Vangelo del giorno parla della folla che segue Gesù dopo che questi ha moltiplicato i pani e i pesci, e “non per lo stupore religioso che ti porta ad adorare Dio,” ma per “interesse materiale,” e che questo è un atteggiamento che si ripete nei Vangeli, dove sono in “tanti che seguono Gesù per interesse.”
Ricorda il Papa che anche tra i suoi apostoli c’erano i “figli di Zebedeo che volevano essere primo ministro e l’altro ministro dell’economia, avere il potere. Quella unzione di portare ai poveri il lieto annuncio, la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi, la libertà agli oppressi e annunciare un anno di grazia, come diviene scura, si perde e si trasforma in qualcosa di potere”.
Si tratta della tentazione, sempre presente, di “passare dallo stupore religioso che Gesù ci dà nell’incontro con noi, a profittarne,” la stessa proposta nelle tentazioni del diavolo a Gesù nel deserto. “Una sul pane, proprio – ricorda il Papa - L’altra sullo spettacolo: ‘Ma facciamo un bello spettacolo così tutta la gente crederà in te’. E la terza, l’apostasia: cioè, l’adorazione degli idoli.”
È la tentazione del potere mondano, che non è la tentazione del potere in sé, è un qualcosa che ti fa cadere in quel “tepore religioso al quale ti porta la mondanità, quel tepore che finisce, quando cresce, cresce, cresce, in quell’atteggiamento che Gesù chiama ipocrisia.”
C’è insomma il rischio di diventare “cristiano di nome, di atteggiamento esterno, ma il cuore è nell’interesse”, come dice Gesù: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. È una tentazione che fa indebolire “la fede e la missione,” e in una parola che fa indebolire la Chiesa.
La testimonianza dei santi e dei martiri ci aiuta a non cadere in quella tentazione, che “ogni giorno ci annunciano che andare sulla strada di Gesù è quella della sua missione: annunciare l’anno di grazia. La gente capisce il rimprovero di Gesù e gli dice: ‘Ma cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?’. Gesù rispose loro: ‘Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che Egli ha mandato’, cioè la fede in Lui, soltanto in Lui, la fiducia in Lui e non nelle altre cose che ci porteranno alla fine lontano da Lui. Questa è l’opera di Dio: che crediate in Colui che Egli ha mandato, in Lui”.
Da qui la preghiera del Papa, di non cadere nello spirito di mondanità che “dietro o sotto una vernice di cristianesimo ci porterà a vivere come pagani”.
[Da acistampa.com. https://www.acistampa.com/story/papa-francesco-non-usate-lincontro-con-gesu-per-il-potere-0305]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Ecco un breve commento alle letture della prossima domenica [1° Dicembre 2024]
Prima Lettura: Geremia 33, 14 – 16.
*Il linguaggio della speranza
“Ecco, verranno giorni in cui realizzerò la promessa di felicità che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda”. Troviamo queste parole nella prima lettura tratta dal libro di Geremia (33, 14-16); sono però considerate posteriori rispetto all’epoca del profeta e ritenute un’aggiunta alla versione dei Settanta che risale a circa il 250 a.C.; l’autore sarebbe probabilmente un discepolo, figlio spirituale di Geremia. Chi parla non è dunque Geremia, ma questo suo figlio spirituale che, in un periodo in cui regna disperazione per il futuro del popolo di Dio, ricorda le parole del profeta Geremia, vissuto alcuni secoli prima. Geremia aveva allora così profetizzato: “Farò nascere per Davide un Germoglio di giustizia”(23,5; 33,15). In questa profezia ci sono due simboli: il germoglio e il nome del nuovo re legato a ”giustizia”. Il germoglio è un simbolo che suggerisce un inizio del tutto gratuito da parte di Dio e si riferisce alla nascita di un nuovo re, discendente di Davide a Gerusalemme. In quel tempo era difficile credere a questa promessa annunciata da Geremia perché, dopo la morte di Davide, la sua dinastia si era praticamente estinta. C’era poi stata la deportazione babilonese, Gerusalemme occupata, il Tempio distrutto, il paese devastato e la popolazione decimata. Tra i superstiti quasi tutti furono fatti prigionieri ed esiliati a Babilonia, così che la piccola colonia giudaica sembrava destinata a morire lontano dalla propria terra. Sorgevano tante inquietudini: Israele scomparirà dalla carta geografica e dove finiranno le promesse dei profeti? Non aveva il profeta Natan annunciato a Davide e alla sua discendenza un regno eterno con un re che avrebbe instaurato sicurezza, pace e giustizia per tutti? Molti erano i problemi legati alla distruzione della monarchia davidica, ed erano nate divisioni e contrasti per cui poca gente era rimasta fedele alla Torah. Dinanzi a così tante angustie occorreva infondere speranza e questa è la ragione per cui s’insisteva nel sottolineare la fedeltà di Dio alle sue promesse, che è il fondamento della speranza. Alle tante persone scoraggiate che temevano che Israele non avanzasse verso il Regno di Dio, il profeta rispondeva: Abbiate fede, credete, perché è proprio nei momenti di oscurità che la fede deve restare salda. Ed è così nella nostra vita. Mai cedere allo scoraggiamento perché quando Dio promette, realizza sempre i suoi disegni di salvezza. Non sappiamo né quando né come, ma Dio interviene sempre. Il linguaggio della speranza è una sfida alla ragione e un atto di fede, una grande lezione di fiducia e un bell’esempio di parola profetica, che annuncia la luce anche e soprattutto nei giorni più bui. Tutti siamo a rischio quando ci lasciamo dominare dall’ansia dello scoramento di fronte alle difficoltà e in queste situazioni ci lasciamo assalire da pensieri del tipo: se Dio esiste perché non interviene per portare la pace, l’armonia e la fraternità nel mondo? Perché il Regno di Dio tarda a realizzarsi? Allora, come in ogni tempo, occorre continuare a sperare e poggiare Il linguaggio della speranza su due verità invincibili: anzitutto la certezza che Dio non viene mai meno alle promesse e in secondo luogo che Dio sempre porta a compimento i suoi progetti malgrado tutti gli ostacoli. L’altro simbolo è il nome che è nella frase a chiusura del brano: “Il Signore è la nostra giustizia” (Sedeq Yah), che è il nome del re Sedecìa “giustizia di Dio”. Quest’ultimo re di Giuda fu deportato in Babilonia, gli uccisero i suoi figli e lo accecarono con crudeltà e si pensava che tutto questo avvenne perché non aveva onorato la sua missione e non aveva ascoltato il profeta Geremia. Il testo profetico ribalta qui il significato del nome Sedecia che significa Giustizia di Dio espresso con la frase “Il Signore è la nostra giustizia”, per indicare che invece sorgerà il vero Re che incarnerà la giustizia biblica concernente la salvezza integrale dell’uomo e dell’umanità e la offrirà al popolo deluso, sofferente e stanco: sarà fedele, grande e duratura.
Salmo Responsoriale 24 (25), 4-5, 8-9, 10. 14
*Ritrovare la propria strada
“Il Signore indica ai peccatori la via giusta” (v.8). Questo versetto ci introduce nel contesto del salmo 24/25: si è in una celebrazione penitenziale al Tempio di Gerusalemme e il linguaggio del cammino è tipico dei salmi penitenziali, perché il peccato è una strada sbagliata e la conversione richiede un autentico dietrofront. Nel libro del Deuteronomio Mosè invitava a camminare in tutto e per tutto per la via che il Signore ha prescritto (5, 32-33). Chi si pente riconosce di aver preso strade sbagliate e supplica Dio di ricondurlo sulla giusta via. Ma cos’è la via giusta? E’ l’osservanza della Legge di Dio e per rimarcarlo questo salmo è stato composto in un modo molto particolare. E’ infatti un salmo alfabetico, intenzionalmente strutturato come un acrostico e, controllando la colonna delle lettere, forma l’intero alfabeto ebraico dall’alto in basso. Questo modo di comporre i salmi, detti alfabetici, è in pratica una professione di fede e ruota sempre attorno allo stesso tema: l’amore di Israele per la Torah, l’amore di e per Dio è l’unica strada verso la felicità: l’amore per la Torah è “l’alfabeto della felicità”. Per l’ebreo credente la Legge non è un comando ma un dono di Dio, segno della sua tenerezza verso l’intera umanità. Il termine Legge (Torah) non deriva infatti da una radice che significa “prescrivere”, ma dal verbo “insegnare” e il tema “insegnami le tue vie” è molto presente in questo salmo. Se Dio ci ha dato la Legge è per la nostra felicità. La legge è il manuale di istruzioni della nostra libertà per essere felici, il codice della strada che ci porta alla felicità: “Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti” (v.10). “Signore insegnami i tuoi sentieri” (v.4). Il metodo alfabetico è un modo per confermare l’attaccamento alla Legge e il vero desiderio di seguirla; una professione di fede e nel contempo una risoluzione. Soprattutto dopo il ritorno da Babilonia, nella celebrazione penitenziale il popolo riconosceva la sua infedeltà all’Alleanza; era consapevole che le disgrazie sopravvenute ne erano la conseguenza e chiedeva perdono. Allo stesso tempo, aveva la certezza che la fedeltà è possibile in futuro solo con l’aiuto di Dio ed esprimeva quasi angoscia di non riuscirci chiedendo per questo aiuto, come leggiamo nell’ultimo versetto del salmo: “O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce”.(v.22). Non si dimentichi che per gli ebrei il peccato più grande è l’idolatria e la prima conversione consiste nel rinnegare gli idoli per tornare all’unico Dio vivente. Sollecitati dal salmo 24/25 anche noi, all’inizio dell’Avvento, decidiamo di percorrere un cammino penitenziale che sia propedeutico alla vera gioia; gioia che la celebrazione del Natale ci farà pregustare.
Seconda Lettura: dalla Prima Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi 3,12-4,2
*L’Avvento è un’occasione per rimettere la nostra vita nella giusta prospettiva
Quando circa vent’anni dopo la risurrezione di Cristo, Paolo arrivò a Tessalonica, porto commerciale e capitale della provincia di Macedonia sotto il dominio romano, vi erano molti stranieri e una nutrita comunità ebraica. La sua predicazione ottenne successo come leggiamo negli Atti degli Apostoli (At 17, 3-4) con gli ebrei e con i pagani che invitò a rigettare gli idoli. Quest’ultimo successo suscitò però l’ira dei Giudei ostili a Gesù, al punto da costringere Paolo a fuggire. Prevedendo che sarebbe sopravvenuta una persecuzione da parte dei Giudei, qualche tempo dopo Paolo inviò Timoteo alla comunità cristiana nascente di Tessalonica per sostenerne la fede perché nessuno vacillasse e Timoteo tornò con la “buona notizia” della loro perseveranza nella fede e del loro amore. I versetti dell’odierno brano della lettera parlano della commozione di Paolo quando apprese le notizie riportategli, dopo di che invita i tessalonicesi a continuare sulla strada giusta fino al giorno del ritorno di Cristo e precisa: “Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù” (3,12-4,2,), come dire: sapete come camminare e quindi camminate così. Ieri come oggi la sfida cristiana consiste nell’orientare l’intera esistenza nella prospettiva dell’attesa del ritorno di Cristo, il giorno in cui il Signore Gesù verrà con tutti i suoi santi. Quest’esortazione di Paolo risulta attuale in una società come la nostra, che sembra aver smarrito la direzione della sua marcia. Il cristiano, secondo l’insegnamento dell’apostolo, non resta a fissare il passato, ma guarda a Colui che è il nostro avvenire e che da senso al presente: “Il Signore vi faccia crescere nell’amore per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità davanti a Dio Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo con tutti i suoi santi” (3,13). E questo perché conoscere Dio significa in verità amare. Come scrive san Giovanni, Dio è amore e lui solo è capace di renderci santi nell’amore (1 Gv 4, 8).
Vangelo secondo Luca ( 21, 25-28, 34-36)
*Lo stile apocalittico
L’anno liturgico B si è chiuso domenica scorsa con il genere letterario apocalittico e si apre il nuovo anno C con il medesimo stile. Il discorso apocalittico spaventa e il termine “apocalisse” ha una pessima reputazione essendo sinonimo di orrore, mentre in verità, nel contesto biblico, esprime il contrario. Occorre allora tener conto di quest’osservazione previa ricordando che il racconto non va mai preso alla lettera. Il verbo greco apocaluptô vuol dire “sollevare il velo” e in latino si traduce con “revelare” cioè rivelare. Può essere utile una breve riflessione su questo genere letterario di cui evidenziamo almeno quattro caratteristiche particolari:
1.Il genere apocalittico tratta di scritti di angoscia, guerre, occupazione da parte di stranieri, di persecuzione come nel libro di Daniele (II secolo a.C.). Presenta nemici e persecutori come mostri terribili ed è naturale che, per tale ragione, “apocalisse” diventa sinonimo di eventi spaventosi.
2.L’Apocalisse presenta pure parole e scritti di consolazione per rafforzare la fedeltà dei credenti e incoraggiarli a sperare e resistere di fronte al martirio poiché siamo in tempi di dure persecuzioni.
3.Apocalisse assume inoltre un significato diverso nei testi biblici perché rivelano il lato nascosto della storia annunciando la vittoria finale di Dio e in questa luce invitano a guardare al futuro con fiducia. Le descrizioni di cambiamenti cosmici sono infatti immagini simboliche del capovolgimento delle situazioni con un unico messaggio: in ogni situazione Dio ha sempre l’ultima parola.
4.Infine, lo stile apocalittico riveste in ogni testo un invito alla vigilanza attiva rigettando l’attesa passiva e inerte, per cui occorre vivere ogni giorno alla luce della speranza.
Queste quattro tipologie sono tutte presenti nel vangelo di oggi.
1. Vediamo descritti tempi di angoscia con segni spaventosi per indicare che il mondo presente sta passando (vv. 25-26);
2. emerge una parola di consolazione, che invita a resistere: “La vostra liberazione è vicina (v.28)
3. La parola di Cristo rivela il senso occulto della storia annunciando la venuta del Figlio dell’uomo (v.27). L’espressione “Figlio dell’uomo” indica ciò che Daniele chiama “il popolo dei santi di Dio” (Dn 7,12). Dopo la risurrezione i discepoli compresero che il titolo di Figlio dell’uomo che Gesù si attribuisce è perché lui è insieme uomo e Dio, il primogenito della nuova umanità, il Capo che fa di noi un unico Corpo. Alla fine della storia, saremo tutti come “un solo uomo, innestati in lui e quindi “il popolo dei santi dell’Altissimo”.
4. Apocalisse infine vuol dire anche che è indispensabile una vigilanza attiva: “Risollevatevi e alzate il capo … state attenti a voi stessi …vegliate in ogni momento pregando”(v.36).
Nel vangelo sono evidenziati due modi di vivere: chi non crede si rassegna a un destino inevitabile e purtroppo alcuni vivono praticamente così; il credente/fedele invece non si lascia sorprendere perché conosce il senso ultimo della storia, ed è certo che è ormai vicina la liberazione e il male sarà sconfitto per sempre. E questa è la sfida cristiana, testimonianza/martirio richiesta a chi vuole essere discepolo di Cristo crocifisso e risorto. All’inizio dell’Avvento questi testi biblici ci spronano a iniziare con vigile attesa un nuovo anno liturgico e ad accompagnarci sarà san Luca, l’evangelista della misericordia, della gioia, dell’universalità della salvezza, con un’attenzione peculiare alla figura di Maria, alla preghiera e all’azione dello Spirito Santo.
Buon avvio dell’Avvento!
+Giovanni D’Ercole
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses
don Giuseppe Nespeca
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