don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XXVIII Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [12 Ottobre 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Riflettere sulla gratitudine che è più facile notare fra coloro che sono lontani è un invito a rivedere la nostra personale relazione con Dio.

 

Prima Lettura dal secondo libro dei Re (5, 14-17)

La lettura di questa domenica comincia nel momento in cui il generale Naaman, apparentemente docile come un agnello, si immerge nell’acqua del Giordano, su ordine del profeta Eliseo; ma ci manca l’inizio della storia: ve lo racconto. Naaman è un generale siriano molto stimato dal re di Aram (l’attuale Damasco). Ovviamente, per il popolo di Israele, egli è uno straniero e in certi periodi addirittura un nemico e soprattutto essendo un pagano non appartiene al popolo eletto. Ancora più grave: è lebbroso, il che significa che presto tutti lo eviteranno e per lui è una vera maledizione. Fortunatamente per lui, sua moglie ha una schiava israelita la quale dice alla padrona: “A Samaria c’è un grande profeta che potrebbe sicuramente guarire Naaman”. La padrona lo riferisce al marito Naaman, il quale lo dice al re di Aram: il profeta di Samaria può guarirmi. E poiché Naaman gode di grande favore, il re scrive una lettera di presentazione al re di Samaria raccomandando Naaman  affetto da lebbra perché vada dal  profeta Eliseo. Il re di Israele non sa che il profeta Eliseo può guarire anzi è nel panico perché pensa che il re di Siria sta cercando un pretesto per fargli guerra. Eliseo viene a sapere e chiede di venire Naaman che arriva con tutta la sua scorta e i bagagli pieni di doni per il guaritore. In realtà, solamente un servo socchiude la porta e si limita a dirgli che il suo padrone gli ordina di immergersi sette volte nel Giordano per essere purificato.  Naaman ritiene questo offensivo e a che serve tuffarsi nel Giordano dato che in Siria ci sono fiumi ben più belli del Giordano. Infuriato riprende la strada verso Damasco, ma fortunatamente i suoi servi gli dicono: Ti aspettavi che il profeta ti chiedesse cose straordinarie per guarirti e le avresti fatte. Ora ti ordina una cosa ordinaria perché non puoi farla? Naaman  si lascia convincere e comincia da questo punto la lettura di oggi. Naaman obbedisce a un ordine semplice immergendosi sette volte nel Giordano ed  è guarito. A noi sembra semplice, ma per un grande generale di un esercito straniero è proprio questa obbedienza che non è affatto semplice! Il seguito del testo lo dimostra. Naaman è guarito e torna da Eliseo per dirgli due cose. La prima: “Ora so che non c’è Dio, su tutta la terra, se non in Israele” e aggiungerà dopo che tornato nel suo paese, gli offrirà sacrifici. L’autore di questo passo approfitta per dire agli Ebrei: voi avete da secoli la protezione dell’unico Dio e ora vedete che Dio è anche per gli stranieri, mentre voi continuate a lasciarvi tentare dall’idolatria. Questo straniero, invece ha capito in fretta da dove gli viene la guarigione. Inoltre Naaman dice a Eliseo che vuole dargli un dono per ringraziarlo, ma il profeta rifiuta energicamente: i doni di Dio non si comprano.. Infine perché Naaman vuol portare con sé un po’ di terra d’Israele? Egli motiva la richiesta perché non vuole offrire  olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma solo al Dio d’Israele. Questo fa capire che, al tempo del profeta Eliseo, tutti i popoli vicini a Israele credevano che le divinità regnassero su territori specifici e per offrire sacrifici al Dio d’Israele, Naaman crede dunque di dover portare con sé della terra sulla quale regna questo Dio.

 

Salmo Responsoriale (97/98, 1-4)

Nella prima lettura Naaman, generale siriano quindi un pagano, viene guarito dal profeta Eliseo e, grazie a questo, scopre il Dio d’Israele. Naaman è dunque del tutto adatto a cantare questo salmo, nel quale si parla dell’amore di Dio sia per i pagani, quelli che la Bibbia chiama le nazioni (o le genti), sia per Israele. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2) e subito dopo (v 3): “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele”, che è l’espressione consacrata per ricordare l’elezione d’Israele, la relazione del tutto privilegiata che lega questo piccolo popolo al Dio dell’universo. Le semplici parole “la sua fedeltà”, “il suo amore” sono il richiamo all’Alleanza: è attraverso queste parole che, nel deserto, Dio si è fatto conoscere al popolo che ha scelto. La frase “Dio di amore e di fedeltà” indica che Israele è il popolo eletto ma la frase precedente ricorda che, se Israele è stato scelto, non è per godere egoisticamente del privilegio, non per considerarsi figlio unico, ma per comportarsi come fratello maggiore e il suo ruolo è annunciare l’amore di Dio per tutti gli uomini, così da integrare a poco a poco tutta l’umanità nell’Alleanza. In questo salmo, questa certezza segna perfino la composizione del testo; se lo si guarda più da vicino, si nota la costruzione in inclusione dei versetti 2 e 3. Ricordo che l’inclusione è un procedimento letterario che si trova spesso nella Bibbia. È un po’ come un riquadro in un giornale o in una rivista; ovviamente, lo scopo è mettere in evidenza il testo scritto all’interno del riquadro. Nella Bibbia, funziona allo stesso modo: il testo centrale viene messo in risalto, incorniciato da due frasi identiche, una prima e una dopo. Qui, la frase centrale parla di Israele, il popolo eletto, ed è incorniciata da due frasi che parlano delle nazioni: la prima frase “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” e la seconda riguarda Israele: “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele” e la terza: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Qui non compare il termine “le genti” ma è sostituito dall’espressione “tutti i confini della terra”. Il che significa che l’elezione d’Israele è centrale, ma non bisogna dimenticare che deve irradiare su tutta l’umanità. Una seconda sottolineatura di questo salmo è la proclamazione molto marcata della regalità di Dio. Per esempio, nel Tempio di Gerusalemme si canta: “Acclamate il Signore, terra intera, acclamate il vostro re”. Questo salmo è un grido di vittoria, il grido che si innalza sul campo di battaglia dopo il trionfo, la teru‘ah in onore del vincitore. La vittoria di Dio, di cui qui si parla, è duplice: è innanzitutto la vittoria della liberazione dall’Egitto e poi la vittoria attesa per la fine dei tempi, la vittoria definitiva di Dio contro tutte le forze del male. E già allora si acclamava Dio come un tempo si acclamava il nuovo re nel giorno della sua incoronazione, con grida di vittoria al suono delle trombe, dei corni e tra gli applausi della folla. Ma mentre con i re della terra si andava sempre verso la delusione, questa volta si sa che non si sarà delusi; ecco perché stavolta la teru‘ah deve essere particolarmente vibrante! I cristiani acclamano Dio con ancora più forza, perché hanno visto con i loro occhi il re del mondo: dall’Incarnazione del Figlio, essi sanno e affermano, contro ogni evento apparentemente contrario, che il Regno di Dio, cioè dell’amore, è già cominciato.

 

Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 8 – 13)

Il canto «Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti; egli è la nostra salvezza, la nostra gloria eterna» si trova nel suo contesto originale nella seconda lettera a Timoteo, dove Paolo scrive: «Ricordati di Gesù Cristo, discendente di Davide». In ambiente ebraico era essenziale affermare che Gesù fosse davvero della stirpe di Davide per essere riconosciuto come Messia. Paolo aggiunge: «Egli è risorto dai morti: questo è il mio Vangelo». La questione è radicale: o Gesù è risorto, o non lo è. Paolo, inizialmente convinto che fosse un’invenzione, aveva cercato di impedire la diffusione di tale annuncio. Ma, dopo l’esperienza sulla via di Damasco, ha visto il Risorto e ne è diventato testimone. Gesù è vincitore della morte e del male, e con lui nasce il mondo nuovo, a cui i credenti devono partecipare con tutta la loro vita. Per questo Paolo si consacra all’annuncio del Vangelo e invita Timoteo a fare lo stesso, preparandolo alle opposizioni e incoraggiandolo a combattere la buona battaglia con coraggio, dolcezza e fiducia nello Spirito ricevuto. La risurrezione è il cuore della fede cristiana. Se per molti Ebrei la risurrezione della carne era credibile, per i Greci era difficile da accogliere, come mostra il fallimento della predicazione di Paolo ad Atene. Proprio per l’annuncio della risurrezione Paolo ha conosciuto più volte il carcere: «Cristo è risorto dai morti, questo è il mio Vangelo. Per lui soffro, fino a essere incatenato come un malfattore». Anche Timoteo, ammonisce Paolo, dovrà soffrire per il Vangelo. Le catene di Paolo non fermano la verità: «Sono incatenato, ma la Parola di Dio non è incatenata». Gesù stesso aveva detto che se taceranno loro, grideranno le pietre perché nulla può fermare la verità. Paolo aggiunge che sopporta tutto per gli eletti, affinché ottengano anch’essi la salvezza che è in Cristo Gesù, con la gloria eterna. Qui riecheggia il canto iniziale e .segue probabilmente un antico inno battesimale introdotto con la formula: Ecco una parola degna di fede:Se siamo morti con lui, con lui vivremo; se perseveriamo, con lui regnerem». È il mistero del Battesimo, già spiegato in Romani 6: con esso siamo immersi nella morte e risurrezione di Cristo, uniti a lui in modo inseparabile. Passione, morte e risurrezione costituiscono un unico evento che ha inaugurato una nuova epoca per l’umanità. Le ultime frasi mettono in luce la tensione tra libertà umana e fedeltà di Dio perché se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà: Dio rispetta il nostro rifiuto consapevole. Se manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso dato che Dio resta sempre fedele anche di fronte alle nostre fragilità.

 

Dal Vangelo secondo Luca (17, 11-19)

Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attendono passione, morte e risurrezione. Luca sottolinea l’itinerario perché ciò che narra è legato al mistero della salvezza. Durante il viaggio, incontra dieci lebbrosi che, costretti a restare a distanza secondo la Legge, gridano verso di lui chiamandolo “Maestro”: è segno insieme della loro debolezza e della fiducia che ripongono in lui. Diversamente da un altro episodio (Lc 5,12), questa volta Gesù non li tocca, ma ordina soltanto di andare a presentarvi ai sacerdoti, passo necessario per il riconoscimento ufficiale della guarigione. L’ordine è già promessa di salvezza. Il racconto richiama l’episodio di Naaman e del profeta Eliseo (2Re 5) della prima lettura perché mentre i dieci si mettono in cammino, la loro lebbra scompare: la loro fiducia li salva. La malattia li aveva uniti, ma la guarigione rivela la differenza dei cuori: nove Giudei vanno verso i sacerdoti, uno solo,- un Samaritano, considerato eretico — torna indietro. Egli riconosce che la vita e la guarigione vengono da Dio, glorifica Dio a gran voce, si prostra ai piedi di Gesù rendendogli grazie: un atteggiamento riservato a Dio. Così riconosce il Messia e comprende che il vero luogo per rendere gloria a Dio non è più il Tempio di Gerusalemme, ma Gesù stesso. Il suo ritorno è conversione, e Gesù lo proclama: “Àlzati e va’: la tua fede ti ha salvato”. Degli altri nove, Gesù chiede conto: hanno incontrato il Messia ma non lo hanno riconosciuto, scegliendo di correre subito verso il Tempio per compiere la Legge senza fermarsi a ringraziare. Il Vangelo sottolinea così un tema ricorrente: la salvezza è per tutti, ma spesso non sono i più vicini a Dio ad accoglierla: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno riconosciuto”. Già l’Antico Testamento affermava l’universalità della salvezza (cf. Sal 97/98). La prima lettura ricorda la conversione di Naaman, straniero, e  Gesù aveva rimproverato a Nazaret, citando l’esempio del Siro guarito mentre molti lebbrosi in Israele non lo furono (Lc 4,27), suscitando la collera della sinagoga. Negli Atti, Luca mostrerà ancora il contrasto tra il rifiuto di parte d’Israele e l’accoglienza dei pagani. Questa questione era viva nelle prime comunità cristiane: bisognava essere Giudei per ricevere il battesimo, o anche i pagani potevano essere accolti? Il racconto del Samaritano convertito ricorda tre verità: la salvezza portata da Cristo con passione, morte e risurrezione è per tutti; il rendimento di grazie è spesso compiuto meglio dagli stranieri o dagli eretici; i poveri sono i più disponibili a incontrare Dio. In conclusione, sul cammino verso Gerusalemme, cioè verso la salvezza, Gesù conduce tutti gli uomini disposti a convertirsi, qualunque sia la loro origine o religione.

+ Giovanni D’Ercole

Servire se stessi e “il pubblico”

(Lc 11,42-46)

 

Il conflitto tra Gesù e le autorità religiose assume tratti violentissimi.

La scelta ideologica o devota può perdersi nel formalismo di chi discute senza fine di minuzie e dimentica le mète dell’impegno interiore, in favore di una sorta di spettacolo circense (v.43).

Quando i notabili disdegnano il servizio e scelgono gli onori, il semplice passar loro accanto fa contrarre la medesima impurità dell’anima: vita media e normale, corruzione interna.

Insomma, la Legge divina è stata talmente appesantita da rendere la prassi devota asfissiante, preoccupata di quisquillie.

Per chi ce la fa a sopportare le trafile, poi, la perfezione nelle cose esteriori può nutrire la superbia anche nelle relazioni interumane. E la Grazia che arricchisce non detterà più la condotta.

La disponibilità a edificare Chiesa in Cristo impone di essere autentici e semplici, non disumanizzati; segno di Alleanza, non odiosi.

C’è una contro-testimonianza che soffoca il crescere della vita e coarta la libertà di chi è animato dallo Spirito di Dio.

Fra l’altro, proprio i leaders e i giuristi lasciano ben volentieri la loro privacy fuori dalle disposizioni che impongono agli altri (v.46).

Insomma, la cura di dettagli e inezie è buona e propulsiva (v.42) solo se si unisce all’intima scoperta della propria Missione e Chiamata, carattere promotore di crescita e nostro avvenire.

 

Mentre Mt 23,27 parla di tombe imbiancate, Lc parla di sepolcri nascosti, che non si vedono (v.44).

Le persone semplici, ingenue, pure, le quali vi si accostano, non si rendono conto d’insistere su idoli morti.

Nella mentalità semitica, toccare o calpestare un sepolcro significava contrarre impurità.

Gesù vuol dire che bisogna stare molto molto attenti a queste persone pericolosissime, che ghermiscono e plagiano le anime, allontanandole da Dio in nome di Dio.

Guide manipolatrici, che distolgono dal senso della Lieta Notizia a nostro favore, inoculando una mentalità che annienta la crescita.

In ogni tempo la recita della santità disincarnata, schematica, fuori scala o confusionaria e vuota conserva apparenze devianti.

Ma i propugnatori della morte dell’anima si riconoscono immediatamente: son coloro che insistono su visioni del mondo sofisticate, su idee astratte; sulle bagatelle dei vezzi, o di apparenze disciplinari - e dimenticano gli obbiettivi del Regno.

Il tema è cruciale:

«Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione» (FT n.276).

Opera decisiva, ottenuta in modo laborioso e «artigianale» (n.217).

 

Al pari delle mode, l’attenzione al troppo grande o ai nonnulla disincarnati avvicina la gente agli scheletri.

Aiutiamoci dunque a riportare il Verbo dentro, affinché diventi il nostro volto fattivo, senza doppiezze, dalla speranza larga, separato dalla scena presente e da qualsiasi bottega narcisistica.

 

 

[Mercoledì 28.a sett. T.O.  15 ottobre 2025]

Servire se stessi e “il pubblico”

(Lc 11,42-46)

 

Il conflitto tra Gesù e le autorità religiose assume tratti violentissimi, perché i poltronisti si appiccicano ai dettagli e trascurano l’essenziale.

In particolare, gli esperti disdegnano l’esperienza della Comunione - che è sì progetto, ma al contrario di una assicurazione sulla vita [munita, con potere e privilegi].

Secondo il giovane Rabbi, la stessa scelta religiosa può essere pesante e intollerabile.

Non di rado purtroppo l’opzione devota si perde nel formalismo di chi discute senza fine di piccoli precetti e dimentica le mète dell’impegno interiore, in favore di una sorta di spettacolo circense (v.43).

Non mancano infatti i notabili ufficiali che disdegnano il servizio e scelgono gli onori, così che il semplice passar loro accanto fa contrarre la medesima impurità dell’anima: vita media e normale, corruzione interna.

Insomma, la Legge divina è stata talmente appesantita da rendere la prassi sacrale tutta artificiosa, asfissiante, fuori scala o preoccupata di minuzie.

Per chi ce la fa a sopportare le trafile, poi, la perfezione nelle cose esteriori può nutrire la superbia anche nelle relazioni interumane.

Gli antichi padri spirituali dicevano che l’orgoglio è ladro, perché in caso di buona azione l’amor proprio ruba la gratuità e nutre la supponenza. Così la Grazia che ci arricchisce non detta più la condotta.

La nostra disponibilità a edificare Chiesa in Cristo chiede di essere autentici e semplici, non disumanizzati; segno di Alleanza, non odiosi.

C’è una contro-testimonianza che soffoca il crescere della vita e coarta la libertà di chi è animato dallo Spirito di Dio: quella dei leaders popolari [farisei] e dei giuristi [scribi] duri e puri.

Non per nulla essi ben volentieri lasciano la privacy fuori dalle disposizioni che impongono agli altri (v.46).

 

L’esperienza dell’Amore è “legge”, non per fare corpo, branco, cordate d’interessi, ma per una ricca convivialità delle differenze.

Questa la “norma”, il “canone” - se vogliamo - però non per costruire il bene impersonale del gruppo di pressione, e da esso farsi proteggere.

Sebbene garantisca prestigio in società - anche ecclesiale - diverrebbe un’imposizione tentacolare e invadente.

Lo sguardo astratto, troppo cerebrale, ideologico o fantasioso, e le mummie bigotte, fanno arido l’ambiente, disperdono le energie, rendono vacuo il vissuto della fede.

Insistono su adempimenti, modelli, disegni e penitenze o viceversa dissipazioni che allontanano l’amore, e scoraggiano i tentativi di leggere dal di dentro se stessi e le disposizioni.

Forse in ogni religione le osservanze - o le “grandi idee” - hanno creato quell’ipnotismo “antico” dei meccanismi abitudinari e delle atmosfere avvolgenti che fanno di Dio un totem rassicurante, un sacralizzatore di posizioni già consolidate.

È un tarlo corrosivo, punitore della passione, che rovina le persone e il destino del popolo intero.

 

Si tratta allora di correre il massimo rischio uniti a Cristo - non per cedere alla tentazione sempre in agguato di sentirsi migliori: in favore d’una lunga avventura interiore; per toccare quegli spazi ove l’Appello per Nome non assomiglia a nessun altro.

È nell’intimo e nella relazione schietta che incontriamo la nostra Chiamata profonda, i talenti inespressi, la firma d’Autore divina.

Nell’unicità di carattere, dal Nucleo, il Seme che non mente guida la vocazione; il Risorto presente si svela comprensivo, delicato, attento, assolutamente genuino, personale.

La cura di dettagli e inezie è buona e propulsiva (v.42) solo se si unisce all’intima scoperta della propria singolare Missione e Chiamata, carattere promotore di crescita, e nostro avvenire.

Qui il richiamo ai valori che non invecchiano, sostanziali - attenti alle situazioni - non comporta disprezzo e noncuranza per ciò che può sembrare secondario (ma è irripetibile): riconoscere la donna e l’uomo concreti.

Altrimenti il movente delle nostre azioni resterebbe la preoccupazione della propria fama fittizia. Ciò renderebbe meschino e screditato il vissuto di Fede che ci attiva ad esplorare, a fare Esodo.

Quando la Legge non evolve dentro di noi e con noi, nell’interiorità e personalità senza misura, essa troverà il modo d’imporsi, martoriarci e rallentare l’esperienza della vita, o contaminarla e devastarla.

 

Mentre Mt 23,27 parla di tombe imbiancate, Lc parla di sepolcri nascosti, che non si vedono (v.44).

Le persone semplici, ingenue, pure, le quali vi si accostano, non si rendono conto d’insistere su idoli morti.

Anche i falsi maestri codificano tutto, e vorrebbero normalizzare perfino il credere e le sue espressioni.

Nella mentalità semitica, toccare o calpestare un sepolcro significava contrarre impurità.

Gesù vuol dire che bisogna stare molto molto attenti a queste persone pericolosissime.

Anche nelle comunità cristiane primitive esse ghermivano e plagiavano le anime, allontanandole da Dio in nome di Dio.

Guide manipolatrici, che distoglievano dal senso della Lieta Notizia a nostro favore, inoculando goccia a goccia una mentalità che annientava la crescita.

La recita della santità disincarnata, confusionaria, ristretta e vuota (folkloristica e di sottobosco), conserva tuttora apparenze devianti.

Ma i propugnatori della morte dell’anima si riconoscono immediatamente: son coloro che insistono su visioni del mondo sofisticate, su idee astratte; sulle quisquillie dei vezzi, o di apparenze disciplinari - e dimenticano gli obbiettivi del Regno.

Il tema è cruciale.

Come ha ribadito Papa Francesco nell’enciclica Fratelli Tutti citando una sua omelia (a Santiago di Cuba):

«Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione» (n.276).

Opera decisiva, ottenuta in modo laborioso e «artigianale» (n.217).

 

Anche fra i suoi oggi il Risorto non ha peli sulla lingua, e si rivolge con decisione contro certe malattie insopprimibili - le visioni del mondo astratte [troppo grandi] o l’attenzione ai nonnulla - che avvicinano la gente agli scheletri.

Cristo vivo colpisce d’invettive il formalismo delle dottrine e delle pratiche esteriori, le quali s’illudono di estrarre e cesellare situazioni terrene elevate, occupandosi ossessivamente solo di se stesse.

L’unica cosa che Gesù condanna senz’appello è qui l’ambizione vanitosa nell’esercizio della finta autorità - da pompa - considerandola una bottega narcisistica (da istrioni lavativi).

Aiutiamoci dunque a riportare il Verbo dentro, affinché diventi il nostro volto fattivo, senza doppiezze, dalla speranza larga, separato dalla scena presente.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai rinunciato alla legge di morte, di maniera e quisquillie, preferendo la legge di vita?

O servi te stesso e “il pubblico”?

«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro» (Mt 6,1). Gesù, nel Vangelo di oggi, rilegge le tre opere fondamentali di pietà previste dalla legge mosaica. L’elemosina, la preghiera e il digiuno caratterizzano l’ebreo osservante della legge. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità. Gesù mette in evidenza in queste tre opere di pietà una tentazione comune. Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi. Nel riproporre queste prescrizioni, il Signore Gesù non chiede un rispetto formale ad una legge estranea all'uomo, imposta da un legislatore severo come fardello pesante, ma invita a riscoprire queste tre opere di pietà vivendole in modo più profondo, non per amore proprio, ma per amore di Dio, come mezzi nel cammino di conversione a Lui. Elemosina, preghiera e digiuno: è il tracciato della pedagogia divina che ci accompagna, non solo in Quaresima, verso l’incontro con il Signore Risorto; un tracciato da percorrere senza ostentazione, nella certezza che il Padre celeste sa leggere e vedere anche nel segreto del nostro cuore.

[Papa Benedetto, omelia delle Ceneri 9 marzo 2011]

2. La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia.

15. Eleviamo le nostre suppliche, guidati dalla fede, dalla speranza, dalla carità che Cristo ha innestato nei nostri cuori. Questo atteggiamento è parimenti amore verso Dio, che l'uomo contemporaneo a volte ha molto allontanato da sé, reso estraneo a se stesso, proclamando in vari modi che gli è «superfluo». Questo è quindi amore verso Dio, la cui offesa ripulsa da parte dell'uomo contemporaneo sentiamo profondamente, pronti a gridare con Cristo in croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Questo è, al tempo stesso, amore verso gli uomini, verso tutti gli uomini senza eccezione e divisione alcuna: senza differenza di razza, di cultura, di lingua, di concezione del mondo, senza distinzione tra amici e nemici. Questo è amore verso gli uomini - e desidera ogni vero bene per ciascuno di essi e per ogni comunità umana, per ogni famiglia, ogni nazione, ogni gruppo sociale, per i giovani, gli adulti, i genitori, gli anziani, gli ammalati - verso tutti senza eccezione. Questo è amore, ossia premurosa sollecitudine per garantire a ciascuno ogni autentico bene ed allontanare e scongiurare qualsiasi male.

[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia]

Quando, di qualcuno, si dice che è una persona dalla doppia vita, non è per farle un complimento. Anzi. Sono quelle persone che irritano, fanno indignare, o che spesso anche causano disgusto con comportamenti che contraddicono le cose che, invece, sostengono a parole. Che si tratti di un politico o di un vicino di casa fa poca differenza: scoprire, per così dire, una “doppia vita”, è un qualcosa che fa sempre male. E non parliamo della disillusione che può generare, soprattutto nei giovani.

Ma se il predicare bene e il razzolare male è sempre una cosa irritante, quando a farlo è un prete la cosa è ancora più intollerabile. Perché c'è in ballo qualche cosa di più. Papa Francesco l'ha detto molto chiaramente, e come sempre con uno stile molto diretto ed efficace, qualche giorno fa. Quando, nella omelia della Messa mattutina a Santa Marta, ha sottolineato come «è brutto vedere pastori di doppia vita», anzi è una vera e propria «ferita nella Chiesa». Per il Papa sono «pastori ammalati, che hanno perso l'autorità e vanno avanti in questa doppia vita»; e, ha aggiunto, «ci sono tanti modi di portare avanti la doppia vita: ma è doppia ... E Gesù è molto forte con loro. Non solo dice alla gente di non ascoltarli ma di non fare quello che fanno, ma a loro cosa dice? “Voi siete sepolcri imbiancati”: bellissimi nella dottrina, da fuori. Ma dentro, putredine. Questa è la fine del pastore che non ha vicinanza con Dio nella preghiera e con la gente nella compassione».

Perché è questo appunto che fa la differenza. Francesco lo ribadisce con fermezza: «Quello che a un pastore dà autorità o risveglia l'autorità che è data dal Padre, è la vicinanza: vicinanza a Dio nella preghiera e la vicinanza alla gente. Il pastore staccato dalla gente non arriva alla gente con il messaggio. Vicinanza, questa doppia vicinanza. Questa è l'unzione del pastore che si commuove davanti al dono di Dio nella preghiera, e si può commuovere davanti ai peccati, al problema, alle malattie della gente: lascia commuovere il pastore. Gli scribi... avevano perso la “capacità” di commuoversi proprio perché “non erano vicini né alla gente né a Dio”". E senza questa vicinanza, o quando per qualsivoglia motivo la si perde, «il pastore finisce nell'incoerenza di vita».

Sembra di rileggere le parole che Giovanni Paolo II, nella lettera del giovedì santo indirizzata ai sacerdoti di tutto il mondo nel 1986, dedicò al Santo curato d'Ars tornando a indicarlo, nel secondo centenario della nascita, come esempio per tutti i preti. «Non si tratta certo di dimenticare – ha scritto a sua volta Benedetto XVI, sempre a proposito di San Giovanni Maria Vianney, nella lettera di indizione dell'Anno sacerdotale del 2009 – che l'efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall'incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d'Ars iniziò subito quest'umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell'aurora e non ne usciva che dopo l'Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia». Coerenza, dunque. Non doppiezza. Perché di tutto il popolo di Dio ha bisogno, tranne che di sepolcri imbiancati.

[Papa Francesco, s. Marta; Salvatore Mazza in Avvenire 13 gennaio 2018]

Fede e senso religioso

(Lc 11,37-41)

 

Le abluzioni prima del pasto (v.38) erano un obbligo religioso imposto.

Ma il banchetto eucaristico [che si legge in filigrana] non celebra distacchi, né risente d’idolatrie puriste.

Lo spirito severo - da “tintoria” - ancora oggi dà una mano di calce bianca alla realtà del Padre.

Invero l’impurità non procede da carenze di forma (come nella religiosità di facciata), ma dal comportamento che denuncia un vuoto sostanziale.

Ciò che macchia è tutto dentro, e cova malgrado le belle petizioni di principio, o le buone maniere - le quali coprono pessime abitudini.

Insomma, è puro ciò che viene offerto; impuro quel che si trattiene (v.41).

In ottica spirituale, sono senza macchia solo colei e colui che si donano; impuri quanti pensano unicamente a se stessi in modo banale, o si rivolgono al prossimo per manipolarlo.

Così, spesso le norme esterne o le idee degli uomini non vanno sino alla radice: fossilizzano.

Non strappano né integrano dal di dentro i contenuti maligni, i desideri iniqui - i veri obbiettivi.

Non di rado le osservanze stesse creano competizione spirituale.

In tal guisa esse annientano lo spirito di carità e ospitalità - compendio della Legge - da cui quegli stessi antichi segni sono nati, nelle prime assemblee di fede. 

Certo, la Giustizia ha un ruolo decisivo, ma è un impegno esistenziale.

La ‘giusta posizione’ è per la vita, non per rimettere le cose “a posto” [cose morte, o sofisticate e astratte che siano].

 

Per i Vangeli, non bisogna confondere Dio coi precetti o con le ideologie di futuro, se schematiche e disincarnate.

Il Signore vuole entrare nella nostra esistenza concreta - e l’eccesso di minuzie o fantasie può farci smarrire l’orientamento fondamentale della sua Chiamata, corrompendo la sensibilità ai segnali in cui si Rivela.

Il legalismo, l’abitudine, o le mode astruse e d’importazione, possono renderci incapaci di corrispondere alla Vocazione missionaria.

Essi diventano cappe che impediscono di servire le singole libertà dei malfermi.

Ci rendono impacciati nell’accompagnare le persone, affinché incrementino la loro capacità di vita e carattere.

Qui Gesù invita i farisei di ritorno nella sua Chiesa a capire la libertà di Dio e non trasformare la Fede in un credo devoto, astuto, o astratto (senza spina dorsale) qualsiasi.

Non è la supposta incontaminatezza o il “pensiero giusto” che abilita al suo cospetto e che ci fa procedere su vie sterminate.

Lo sperimentiamo, nella crisi globale.

È incontrarLo che consacra e rende adeguati, puri, realizzati, già completi.

‘Perfetti’ - per il tipo di Seme che siamo chiamati a piantare nel mondo.

 

Basta preoccupazioni in aggiunta, che lasciano tutti nel tarlo, nel tormento, e senza via d’uscita.

Come se anche nel Popolo dei figli fosse lecito imporre e vedere ovunque gabbie, corsie, visioni del mondo obbligate, e lucchetti.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è stato il momento chiave in cui ti sei sentito perdonato e puro? Copiando qualcuno?

 

 

[Martedì 28.a sett. T.O.  14 ottobre 2025]

L’interno e la società dell’esterno

(Lc 11,37-41)

 

«Adesso voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del vassoio, ma il vostro interno è pieno di rapina e di malvagità» (Lc 11,39).

 

Le abluzioni prima del pasto (v.38) erano un obbligo religioso imposto.

Ma il banchetto eucaristico [che si legge in filigrana] non celebra distacchi, né risente d’idolatrie puriste.

Lo spirito severo, da “tintoria” - come direbbe Papa Francesco - ancora oggi dà una mano di calce bianca alla realtà del Padre [a quel tempo, serviva anche per tutelare lo spirito di rapina dei veterani: v.39].

Invero l’impurità non procede da carenze di forma (come nella religiosità di facciata), ma dal comportamento che denuncia un vuoto sostanziale.

Ciò che macchia è tutto dentro, e cova malgrado le belle petizioni di principio, o le buone maniere - le quali coprono pessime abitudini.

Insomma, è puro ciò che viene offerto; impuro quel che si trattiene (v.41).

 

In ottica spirituale, sono senza macchia solo colei e colui che si donano; impuri quanti pensano unicamente a se stessi in modo banale, o si rivolgono al prossimo per manipolarlo.

Così, spesso le norme esterne o le idee degli uomini non vanno sino alla radice: fossilizzano.

Non strappano né integrano dal di dentro i contenuti maligni, i desideri iniqui - i veri obbiettivi.

Le disposizioni prive d’intimo convincimento costruiscono al massimo persone apparentemente ineccepibili, nonché un mondo ritualista che (guarda caso) volge alla corruzione più degradante.

Lo si denota in tutti i centri di potere - anche qui - tutti ben coperti da forme teatrali fatue, e passerelle esagerate.

 

Insomma, per non interrompere il nostro filo di vita non possiamo più stare lì su regole studiate e ben pensate, credendo di aver risolto.

Il maquillage non coglie il Nucleo.

Infatti anche la giurisdizione impeccabile, o la ragione e l’intelligenza, non preservano dall’avvilimento, dall’umiliazione, dalla solitudine - da ciò che è autentico e continuamente affiora.

Quelle forme di contratto - così subdole o appariscenti - non ristabiliscono un sano equilibrio, né raggiungono la vita della gente normale.

Sembrava fosse pedagogia, ma non lo è: lo vediamo.

 

La religione comune stessa vive talora di segni esteriori - spesso quasi indecifrabili o in sé privi di significato, quando ostentano, mascherando piramidi, e ormai sempre più palesi ipocrisie.

Non di rado le osservanze stesse creano competizione spirituale.

In tal guisa esse annientano lo spirito di carità e ospitalità - compendio della Legge - da cui quegli stessi antichi segni sono nati, nelle prime assemblee di fede. 

Certo, la Giustizia ha un ruolo decisivo, ma è un impegno esistenziale, non cultuale o scenografico.

La “giusta posizione” è per la vita, non per rimettere le cose a posto [cose morte, o sofisticate e astratte che siano].

 

Per i Vangeli, non bisogna confondere Dio coi precetti o con le ideologie di futuro, se schematiche e disincarnate.

Il Signore vuole entrare nella nostra esistenza concreta - e l’eccesso di minuzie o fantasie può farci smarrire l’orientamento fondamentale della sua Chiamata, corrompendo la sensibilità ai segnali in cui si Rivela.

Il legalismo, l’abitudine, o le mode astruse e d’importazione, possono renderci incapaci di corrispondere alla Vocazione missionaria.

Essi diventano cappe che impediscono di servire le singole libertà dei malfermi.

Ci rendono impacciati nell’accompagnare le persone, affinché incrementino la loro capacità di vita e carattere.

 

Perché la vittoria del Cristo è il suo Popolo?

Solo lo spirito di ospitalità dei Figli in rapporto di cura vicendevole, sensibile, in grado di percepire, crea l’ambiente vivo che consente di mettere in migliore comunicazione la nostra anima e il Mistero del Re nascosto, il grande Senso dei nostri desideri e delle Sue “intenzioni”.

 

Qui Gesù invita i farisei di ritorno nella sua Chiesa a capire la libertà di Dio e non trasformare la Fede in un credo devoto, astuto, o astratto (senza spina dorsale) qualsiasi.

Non è la supposta incontaminatezza o il pensiero “giusto” che abilita al suo cospetto e che ci fa procedere su vie sterminate.

Lo sperimentiamo, nella crisi globale.

È incontrarLo che consacra e rende adeguati, puri, realizzati, già completi.

“Perfetti” - per il tipo di Seme che siamo chiamati a piantare nel mondo.

Basta preoccupazioni in aggiunta, che lasciano tutti nel tarlo, nel tormento, e senza via d’uscita.

Come se anche nel Popolo dei figli fosse lecito imporre e vedere ovunque gabbie, corsie, visioni del mondo obbligate, e lucchetti.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è stato il momento chiave in cui ti sei sentito perdonato e puro? Copiando qualcuno?

In un’occasione in cui hai sperimentato totale gratuità, o te lo sei meritato?

In un’occasione in cui sei stato vero con te stesso, o tutto proiettato sull’esterno?

 

 

Santità travisate: non vi è sacro e profano in sé

 

Tradizioni ipocrite e ordine ideale: purezza dell’avvantaggiare

 

(Mc 7,1-8.14-15.21-23)

 

Sotto la dinastia degli Erode il senso del clan e della comunità si stavano sgretolando.

Causa problemi di sopravvivenza, le famiglie erano costrette a chiudersi in se stesse, allentare i legami, pensare a proprie necessità.

Tale chiusura era rafforzata dalla religione dell’epoca sotto ogni aspetto. Ai vv.10-12 ne vediamo un esempio incredibile: chi dedicava la propria eredità al Tempio poteva lasciare i genitori privi d’aiuto!

Offesa e offerta: ingiustizia e comportamento normativo - strano legame, nell’apparente forma dall’accento esemplare.

 

L’osservanza delle norme di purità era fattore di ordinaria emarginazione per molte persone.

Proprio i miseri venivano considerati in specie ignoranti e maledetti, perché impossibilitati agli adempimenti; di conseguenza manchevoli a ricevere la consolante benedizione promessa ad Abramo.

Uno stillicidio quotidiano che minava il significato profondo dell’esistere assieme.

In particolare, le abluzioni erano una sorta di rito durante il quale si celebrava un’appagante divaricazione tra sacro e profano - nel distacco da persone e situazioni considerate impure.

Stando fuori dalle supposte sozzure, mai nessuno dei malfermi poteva essere risollevato.

Quindi le norme non erano fonte di pace, ma di schiavitù. Porgere una mano caritatevole sarebbe stato perfino sacrilego.

Insomma, si anteponevano inezie disumane alla stessa Legge, vanificandone lo spirito comprensivo (fraternità che avrebbe avvantaggiato l’entusiasmo di esistere).

Gesù non sopporta che il mondo chiuso della religiosità conformista venga piegato e usato per appurare l’esistenza altrui con giudizio, dividere e discriminare - annientare i rapporti.

Per questo al controllo dei farisei si oppone la libertà dei discepoli (v.2), che rifiutano di obbedire a ciò che non ha senso per la vita concreta - dove passa l’amore visibile che alimenta l’amore ideale.

 

Nelle culture antiche la visione religiosa e mitica del mondo portava la gente ad apprezzare qualsiasi realtà partendo dalla categoria della santità come distacco e separatezza, persino inaccessibilità.

Le leggi sulla purezza indicavano le condizioni necessarie per mettersi davanti a Dio.

All’epoca di Mc alcuni giudei convertiti ritenevano di poter abbandonare gli antichi costumi e avvicinarsi ai pagani; altri erano di opinione opposta: effettivamente, sarebbe stato come rigettare parti consistenti  della Torah (es: Lv 11-16 e 17ss).

Infatti il Vangelo sottolinea che il problema è «in Casa» (v.17 testo greco: «dentro casa») ossia nella Chiesa e fra i suoi membri.

Cristo deve insistere nell’insegnamento, ora non rivolto a degli estranei, ma proprio agli habitué, incapaci - al contrario delle folle - di «comprendere» (v.14) l’abc delle cose spirituali.

Non vi è sacro e profano in sé.

Per educare i testardi ancora «privi d’intelletto» (v.18) che si ritengono maestri, il Signore non si dirige in una dimora qualsiasi - bensì nel posto dove purtroppo si coltivano aspettative lontane dal popolo (vv.14.17).

Insomma, solo Gesù in Persona libera la folla dei senza voce e smarriti dall’ossessione di tormenti e timori, dallo stare sempre sulla difensiva.

E anche se qualche dirigente accusa, impariamo a non provare sgomento per il fatto che non siamo religiosamente “riusciti” - bensì Primizia!

4. Invitandoci a considerare l’elemosina con uno sguardo più profondo, che trascenda la dimensione puramente materiale, la Scrittura ci insegna che c’è più gioia nel dare che nel ricevere (cfr At 20,35). Quando agiamo con amore esprimiamo la verità del nostro essere: siamo stati infatti creati non per noi stessi, ma per Dio e per i fratelli (cfr 2 Cor 5,15). Ogni volta che per amore di Dio condividiamo i nostri beni con il prossimo bisognoso, sperimentiamo che la pienezza di vita viene dall’amore e tutto ci ritorna come benedizione in forma di pace, di interiore soddisfazione e di gioia. Il Padre celeste ricompensa le nostre elemosine con la sua gioia. E c’è di più: san Pietro cita tra i frutti spirituali dell’elemosina il perdono dei peccati. “La carità - egli scrive - copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8). Come spesso ripete la liturgia quaresimale, Iddio offre a noi peccatori la possibilità di essere perdonati. Il fatto di condividere con i poveri ciò che possediamo ci dispone a ricevere tale dono. Penso, in questo momento, a quanti avvertono il peso del male compiuto e, proprio per questo, si sentono lontani da Dio, timorosi e quasi incapaci di ricorrere a Lui. L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli.

5. L’elemosina educa alla generosità dell’amore. San Giuseppe Benedetto Cottolengo soleva raccomandare: “Non contate mai le monete che date, perché io dico sempre così: se nel fare l’elemosina la mano sinistra non ha da sapere ciò che fa la destra, anche la destra non ha da sapere ciò che fa essa medesima” (Detti e pensieri, Edilibri, n. 201). Al riguardo, è quanto mai significativo l’episodio evangelico della vedova che, nella sua miseria, getta nel tesoro del tempio “tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,44). La sua piccola e insignificante moneta diviene un simbolo eloquente: questa vedova dona a Dio non del suo superfluo, non tanto ciò che ha, ma quello che è. Tutta se stessa.

Questo episodio commovente si trova inserito nella descrizione dei giorni che precedono immediatamente la passione e morte di Gesù, il quale, come nota san Paolo, si è fatto povero per arricchirci della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9); ha dato tutto se stesso per noi. La Quaresima, anche attraverso la pratica dell’elemosina ci spinge a seguire il suo esempio. Alla sua scuola possiamo imparare a fare della nostra vita un dono totale; imitandolo riusciamo a renderci disponibili, non tanto a dare qualcosa di ciò che possediamo, bensì noi stessi. L’intero Vangelo non si riassume forse nell’unico comandamento della carità? La pratica quaresimale dell’elemosina diviene pertanto un mezzo per approfondire la nostra vocazione cristiana. Quando gratuitamente offre se stesso, il cristiano testimonia che non è la ricchezza materiale a dettare le leggi dell’esistenza, ma l’amore. Ciò che dà valore all’elemosina è dunque l’amore, che ispira forme diverse di dono, secondo le possibilità e le condizioni di ciascuno.

[Papa Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2008]

Ott 6, 2025

Elemosina

Pubblicato in Angolo dell'ottimista

Nell’ascoltare la parola “elemosina”, la vostra sensibilità di giovani amanti della giustizia e desiderosi di un’equa distribuzione della ricchezza potrebbe sentirsi ferita e offesa. Mi sembra di poterlo intuire. D’altra parte, non crediate di essere soli nell’avvertire una simile reazione interiore; essa è in sintonia con l’innata fame e sete di giustizia che ogni uomo reca con sé. Anche i profeti dell’Antico Testamento, quando rivolgono al Popolo d’Israele l’invito alla conversione ed alla vera religione indicano la riparazione delle ingiustizie verso i deboli e gli indifesi, quale via maestra per il ripristino di un genuino rapporto con Dio (cf. Is 58,6-7). Eppure la pratica dell’elemosina viene raccomandata in tutto il testo sacro, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento: dal Pentateuco ai Libri Sapienziali, dal libro degli Atti alle Lettere Apostoliche. Ebbene, attraverso uno studio dell’evoluzione semantica della parola, sulla quale si sono formate incrostazioni meno genuine, noi dobbiamo ritrovare il significato vero dell’elemosina e soprattutto la volontà e la gioia di fare l’elemosina.

Parola greca, elemosina significa etimologicamente compassione e misericordia. Diverse circostanze e influssi di una mentalità riduttiva hanno svisato e sconsacrato in certo modo il suo primigenio significato, riducendolo talvolta a quello di un atto senza spirito e senza amore.

Ma l’elemosina, in se stessa, va intesa essenzialmente come atteggiamento dell’uomo che avverte il bisogno degli altri, che vuol partecipare agli altri il proprio bene. Chi vorrà dire che non ci sarà sempre un altro, che abbia bisogno di aiuto, anzitutto spirituale, di sostegno, di conforto, di fraternità, di amore? Il mondo è sempre troppo povero di amore.

Così definita, l’elemosina è atto di altissimo valore positivo, della cui bontà non è permesso dubitare, e che deve trovare in noi una disponibilità fondamentalmente di cuore e di spirito, senza della quale non esiste vera conversione a Dio.

Anche se non disponiamo di ricchezze e di capacità concrete per sovvenire ai bisogni del prossimo, non possiamo sentirci dispensati dall’aprire il nostro animo alle sue necessità e dall’alleviarle nella misura del possibile. Ricordatevi dell’obolo della vedova, che gettò nel tesoro del tempio solo due spiccioli, ma insieme tutto il suo grande amore: “Essa, infatti, nella sua miseria aveva dato tutto quanto aveva per vivere” (Lc 21,4).

[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai ragazzi 28 marzo 1979]

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However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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