Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.
(Lc 24,46-53; At 1,1-11)
Luca 24:46 «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno
Luca 24:47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.
Luca 24:48 Di questo voi siete testimoni.
Luca 24:49 E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».
Luca 24:50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.
Luca 24:51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo.
Atti 1:4 Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre «quella, disse, che voi avete udito da me:
Atti 1:5 Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni».
Atti 1:8 ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra».
Da Gerusalemme, in modo espansivo, si diffonde l'annuncio della salvezza, che abbraccia l'intera umanità. La centralità di Gerusalemme è evidente in Luca fin dagli inizi del suo Vangelo, che si apre nel cuore stesso di Gerusalemme, il Tempio, e nel momento più sacro, quello del culto, e attorno alla quale gira l'intera infanzia di Gesù. Ora, con il v. 48 vi è l'investitura dell'intero gruppo apostolico a testimone ufficiale degli eventi della salvezza, di cui essi sono costituiti depositari. In altri termini, il gruppo apostolico riceve il mandato per la sua missione, venendo costituito in autorità dal Risorto stesso. Una investitura da cui si genera non solo la missione, ma funge anche da fondamento costitutivo della Chiesa stessa, che trae origine proprio dal mandato del Risorto.
A fronte dell'affidamento della missione, posta a fondamento della Chiesa, costituendola in autorità presso Dio e presso gli uomini, il v. 49 preannuncia come tale missione assumerà piena efficacia con l'unzione dello Spirito Santo: “E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso”. Gesù non accenna allo Spirito Santo, ma soltanto alla “promessa del Padre mio”.
Luca definisce lo Spirito Santo quale “promessa del Padre”, benché da nessuna parte nel Vangelo di Luca compaia in termini espliciti una simile promessa. Per poter comprendere a quale promessa Luca faccia riferimento e dove questa sia stata menzionata nel suo Vangelo, è necessario proseguire la ricerca in At 1,4-5 dove dice che “Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”. Il riferimento qui è a Lc 3,16: “Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Una promessa, che vedrà il suo attuarsi in At 1,8 dove si parla dell'investitura dello Spirito Santo sui discepoli.
La fine del Vangelo di Luca sta qui toccando gli inizi degli Atti degli Apostoli e congiungendosi con questi. Gli estremi, quindi, si toccano tra loro e tra loro si congiungono, creando una sorta di vasi comunicanti in cui l'evento Gesù, ora Risorto, travasa se stesso nella Chiesa, continuando in essa la sua azione salvifica.
Alla promessa del Padre - il dono dello Spirito Santo - segue la raccomandazione: “restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto”. La città di cui si parla è chiaramente Gerusalemme, il luogo del compiersi del mistero della salvezza, attuatosi nella morte-risurrezione di Gesù, ma la cui efficacia trova il suo pieno compimento soltanto nel dono dello Spirito Santo, che è potenza di Dio che opera in coloro che credono.
Luca chiude il suo Vangelo in modo inconsueto rispetto alla tradizione evangelica, raccontando dell'ascensione di Gesù al cielo. Unico tra gli evangelisti che ne faccia una trattazione specifica a parte.
L'ascensione mette fine all'attività di Gesù a Gerusalemme, per lasciarla in eredità ai suoi. Per questo Gesù compie un'azione benedicente (v. 50), il cui senso è trasmettere la sua eredità spirituale sulla comunità apostolica, che dovrà proseguire la sua missione, proprio partendo da Gerusalemme. La benedizione posta sul gruppo apostolico richiama da vicino l'immagine genesiaca della creazione dell'uomo, sul quale Dio pose la sua benedizione, accompagnata dal comando di essere fecondi e di moltiplicarsi, riempendo tutta la terra. È questa la missione di cui è stato investito l'intero gruppo apostolico, e la benedizione non va intesa quindi come un semplice e commovente gesto di saluto, ma imprime su quel gruppo germinale della chiesa nascente il segno della fecondità divina. Il termine benedizione in ebraico è, infatti, “berakah”, che deriva da “berek”, che significa “ginocchio”, un eufemismo per indicare gli organi genitali, che sono gli organi preposti alla generazione e quindi, per loro natura e funzione, sinonimi di fecondità.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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6a Domenica di Pasqua (anno C)
Ap 21,10-14.22-23
Apocalisse 21:10 L'angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.
Apocalisse 21:11 Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.
Apocalisse 21:12 La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d'Israele.
Un angelo conduce Giovanni a contemplare in visione la sposa, la moglie dell'Agnello, su di un alto monte, per poter ammirare dall'alto la città, sottolineando l'importanza e il carattere trascendente della sposa. Per poter contemplare questa rivelazione, occorre un influsso particolare dello Spirito, che spinga verso l'alto, in direzione del divino. Il monte grande e alto è infatti il luogo della rivelazione di Dio, si veda per esempio Mosè che sale sul monte Nebo da dove Dio gli mostra la terra di Canaan.
La città santa, la Gerusalemme celeste, scende dal cielo, “risplendente della gloria di Dio”. La prima indicazione che l'angelo ci dà non potrebbe essere più elevata. Provenendo da Dio, la città-sposa ne possiede la "gloria". Cristo risorto, unico portatore adeguato della gloria del Padre, ha comunicato questa gloria alla sua città-sposa. Risulta particolarmente illuminante un richiamo al quarto Vangelo, dove, riferendosi a tutti quelli che crederanno in lui, Gesù si esprime così: "E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola" (Gv 17,22).
Dio ha rivestito Gerusalemme della sua gloria, e la gloria di Dio è la sua divinità. Gerusalemme è stata come divinizzata da Dio, ammantata della sua luce, ammantata della redenzione di Cristo luce del mondo.
È importante conoscere il concetto di città. Parlare della città significa parlare della dinamica che ha sostenuto la storia umana, a partire dalla costruzione della prima città al tempo di Caino, che "divenne costruttore di una città" (Gn 4,17). La storia dell'umanità può essere raffigurata come la storia della costruzione di una città che, da Caino in poi, assume caratteristiche preoccupanti. Caino, dopo aver ucciso il fratello mette in piedi una realtà che ha sì il suo fascino, in quanto luogo ove si sviluppa una civiltà, ma porta in sé un seme di violenza, che per quanto nascosto, al momento opportuno esplode immancabilmente. L'Apocalisse parla anche della caduta Babilonia, nella quale "fu trovato il sangue... di tutti coloro che furono uccisi sulla terra" (Ap 18,24); il sangue di tutti gli uccisi da Abele in poi, il sangue di tutti i fratelli rifiutati: la città, da Caino in poi, è costruita su un fondamento impregnato di quel sangue. Adesso, viene mostrata la nuova Gerusalemme, che nel nome ricorda l'antica Gerusalemme, città che nella storia della salvezza ha visto versare il sangue di Cristo, ma che portava in sé un valore sacramentale, una promessa: Dio vuole manifestarsi e portare a compimento le sue intenzioni nuziali con l'umanità.
L'illuminazione della nuova città viene messa in rapporto di corrispondenza con il riflesso di una gemma preziosa, di cui viene sottolineata la straordinaria qualità – "preziosissima" – e il suo splendore. Ciò che raffigura quanto c'è di più bello, viene usato per descrivere la magnificenza di Gerusalemme. Cosa c'è di più bello di una gemma preziosissima e di una pietra di diaspro cristallino? Niente. Cosa c'è di più bello di Dio? Niente. Dio è la stessa bellezza, è l'autore di ogni bellezza. Gerusalemme è vestita della stessa bellezza di Dio.
"Come pietra di diaspro cristallino": Il diaspro è una pietra bellissima, preziosa, di diversa coloritura, per lo più rossiccia, talvolta verde, bruna, azzurra, gialla e bianca, che comunica un senso di bellezza e di gioia. La città è edificata in modo tale da attrarre, e questo dipende proprio dal fatto che la gloria di Dio abita in essa.
Il confronto inevitabile è con la "vecchia" Gerusalemme che, con la monarchia, il tempio e il sacerdozio era divenuta il simbolo del popolo, dell'alleanza con Dio e della stessa dimora divina tra gli uomini. Il rinnovamento della città significa il rinnovamento dell'alleanza. Giovanni, con i simboli biblici e in linguaggio apocalittico, annuncia la novità dell'alleanza, ovvero il nuovo rapporto con Dio.
Il muro grande e alto indica delimitazione e nello stesso tempo stabilità, sicurezza e protezione, ma non chiusura; giacché dodici, tre per ogni punto cardinale, sono le aperture che collegano la città con il resto del mondo.
I dodici angeli indicano la protezione angelica, essi stanno a guardia delle dodici porte come delle sentinelle. Poiché la città è di origine celeste deve avere dei guardiani celesti. Secondo Gn 3,24 i cherubini erano i guardiani dell'Eden, il giardino di Dio, e poiché la nuova Gerusalemme è la controparte escatologica dell'Eden, le guardie angeliche alle sue porte sono decisamente appropriate. Il muro, le porte, le guardie, servivano alla protezione e alla difesa delle città; qui dove non c'è più da temere i nemici, tutto ciò sta a rappresentare l'idea della perfetta pace e sicurezza di cui godono i salvati, perché niente di pericoloso potrà mai entrare nella santa città.
Le dodici porte hanno i nomi scritti delle dodici tribù dei figli di Israele, sebbene non vi siano specificati i nomi, perché Giovanni è interessato al significato simbolico del numero dodici e non alle singole tribù. Le tante porte stanno a sottolineare l'importanza dell'accesso alla città. L'associazione dei nomi delle dodici tribù d'Israele con le porte della nuova Gerusalemme, sta a significare che l'Antico Testamento è la porta necessaria per entrare nella fede in Cristo, ma sta anche a significare che Dio non ha rinnegato il suo popolo, esso è parte integrante della nuova Gerusalemme. Giovanni allude alla continuità perfetta tra il popolo di Dio dell'Antico Testamento e la Chiesa del Nuovo Testamento.
Nella città di Dio si entra attraverso la porta della rivelazione che Dio ha dato ai patriarchi d'Israele. Culmine di questa rivelazione è Gesù Cristo. Antico e Nuovo Testamento sono l'unica e sola rivelazione di Dio, l'unica e sola Parola del Signore, l'unica e sola via di salvezza e di redenzione per tutto il genere umano.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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5a Domenica di Pasqua (anno C)
(Ap 21,1-5a)
Apocalisse 21:1 Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più.
Apocalisse 21:2 Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Giovanni contempla il compimento della profezia di Isaia: "Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra" (Is 65,17; 66,22). Dio aveva già manifestato la sua volontà di fare un nuovo cielo e una nuova terra nel contesto del ritorno degli Israeliti dall'esilio babilonese, celebrando un nuovo splendore per Gerusalemme come la gioia di una sposa che si prepara per le nozze. L'Apocalisse ne riprende le immagini per annunciare il compimento: l'abitazione dell'umanità peccatrice deve subire una trasformazione che la renda adatta ad essere la dimora di una umanità rinnovata e santa. Il concetto apocalittico della ri-creazione del cielo e della terra trova un'applicazione antropologica con l'apostolo Paolo, che parla dei cristiani come di una "nuova creazione" (2 Cor 5,17; Gal 6,15).
Giovanni dice anche che “il mare non c'era più”, ossia non c'è più la presenza del negativo e del male, sinonimo del demoniaco. Il mare rappresenta i pericoli, il caos. Ricordiamo l'abisso primigenio di Gn 1,2 ("le tenebre ricoprivano l'abisso") e le acque del diluvio di Gn 7,11 ("eruppero tutte le sorgenti del grande abisso"). Scomparirà la caotica e inquietante potenza da cui era emersa la bestia satanica (Ap 13,1). Il mare, inoltre, separa e tiene lontani i popoli gli uni dagli altri, mentre la futura umanità formerà una sola famiglia.
In questo nuovo cielo e nuova terra, anche Gerusalemme, la città di Dio, la sua dimora sulla terra, sarà nuova. Con l'aggettivo greco "kainēn" non si vuole indicare una novità cronologica, bensì una novità qualitativa: una cosa mai esistita prima. Gerusalemme, scende dal nuovo cielo sulla nuova terra, adorna come una sposa che attende il suo sposo per celebrare le nozze. Giovanni ricapitola tutto lo svolgimento della storia umana al modo di una fidanzata che esce dalla casa paterna per andare incontro al suo sposo. L'immagine della sposa indica che il rapporto con Dio è fondato sull'amore e sul servizio, e non più sulle leggi e sui riti.
La sposa non è Israele, un popolo che considerava il Regno come una conquista umana fondata sui meriti religiosi, ma è la nuova umanità che possiede lo Spirito, ricreata da Gesù. La nuova Gerusalemme sono tutti i giusti, i santi, i martiri; è la società gloriosa dei risorti nella gloria, che salita trionfalmente al cielo, scende per celebrare le nozze eterne con l'Agnello e prendere possesso della creazione nuova. La nuova Gerusalemme è la Chiesa gloriosa in ognuno dei suoi figli. Gloriosa nell'anima, ma anche nel corpo, che è stato risuscitato e creato nuovo in tutto simile al corpo glorioso di Cristo. La Sposa (nymphēn) è pronta per lo Sposo perché la consumazione delle nozze si ha nella gloria della risurrezione.
Per i santi del Signore non vi sarà più alcuna possibilità di caduta nella disubbidienza, in quanto fatti uno in Cristo, e questa unità tra Dio e le sue creature avviene attraverso la celebrazione di un eterno matrimonio, di cui quello terreno è solo immagine. Non ha più importanza essere uomo o donna, il matrimonio avviene non a livello del singolo ma a livello del genere umano. Potremmo chiederci quale senso può avere nell'eternità essere ancora uomo o donna fatti non l'uno per l'altra ma entrambi per il Signore. La risposta ci è data da Gesù stesso allorché dice che nel regno dei cieli non ci sarà né chi sposa né chi è sposato ma saremo tutti come angeli. Riguardo agli angeli va però compreso che vi è una diversità spirituale che li vuole distinti in gruppi e anche in gerarchie, di cui la Scrittura ci dà alcuni nomi: principati, potestà, dominazioni, troni, ecc. Pertanto, se pur vi è un unico modo di rapportarsi a Cristo, la relazione che ne discende non può essere uniforme e indifferenziata.
La nuova Gerusalemme indica sia il popolo di Dio nella sua pienezza di gloria, sia l'ambiente nuovo in cui esso si trova. Così quella che sulla terra era la "città santa", resa tale dall'appartenenza a Dio e dalla presenza del tempio, diventa adesso la nuova Gerusalemme. La Gerusalemme terrestre è superata, la "nuova" Gerusalemme, infatti, non ha, come la prima, una origine terrestre: proviene direttamente dal "cielo". Mentre Gerusalemme era il centro del regno di Dio sulla terra, la nuova Gerusalemme è il centro del nuovo regno di Dio nei cieli nuovi e nella terra nuova. Nuovi sono i cieli, nuova è la terra, nuovo è il regno, nuova è la città capitale del regno. Nuovo è tutto ciò che appartiene a questo regno e a questa creazione.
La nuova Gerusalemme, per il fatto che discende dal cielo, è di origine divina: Dio è l'architetto e il costruttore della città. È "santa" perché è consacrata a Dio. Anche S. Paolo parla della Gerusalemme di lassù e la chiama la nostra madre, indicando come per la comunità cristiana la nuova creazione abbia già avuto inizio.
La nuova Gerusalemme non rimane in cielo, nella trascendenza, è vista "scendente", e la discesa indica un movimento verso l'immanenza. Ma l'immanenza non è più quella di prima; ora è adeguata ad accogliere il divino. Giovanni vede questa Gerusalemme che scende dal cielo con un'azione continuata (“katabainousan” è un participio presente), in altre parole, la nuova Gerusalemme non è creata dal nulla e all'istante. Inoltre, all'azione propria di Dio si affianca in parallelo un'azione propria del popolo di Dio - la "sposa" dell'Agnello - che durante il corso della storia confeziona il suo abito nuziale per prepararsi alle nozze.
Il simbolismo della nuova Gerusalemme è complesso. Simboleggia i santi, ma nello stesso tempo è distinta dai santi: la città è "come" una sposa; se è come una sposa non è la sposa o almeno non è solo sposa. Essa è nel contempo città e sposa; città in quanto rappresenta l'abitazione o lo stato glorioso del salvati dopo il giudizio finale; sposa in quanto personifica gli abitanti della città celeste, oggetti di un amore ineffabile e uniti per sempre al loro Salvatore in un rapporto sponsale.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Ap 7,9.14b-17)
4a Domenica di Pasqua (anno C)
Apocalisse 7:9 Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani.
Apocalisse 7:14 ...E lui: «Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello.
Apocalisse 7:15 Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Una moltitudine immensa proveniente da tutti i popoli e nazioni sta davanti al trono di Dio e dell'Agnello. Da chi è costituita? Il gruppo è composto da cristiani perché, secondo il v. 14, essi "hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello". La moltitudine immensa dei salvati è di provenienza universale.
Le vesti candide (en leukois, "in bianco") simboleggiano la dignità di appartenere al cielo. Il bianco s'indossava durante le occasioni festive perché si credeva fosse il colore di cui si vestivano gli esseri celesti, incluso Dio stesso.
La palma è il segno della vittoria. Anche nel mondo greco ai vincitori degli antichi giochi si dava spesso una palma. In tutto il mondo mediterraneo la palma significava "vittoria". Quando la folla accolse Gesù a Gerusalemme agitando rami di palma, era in occasione della festa di Pasqua.
Il popolo dei credenti è ormai introdotto nella gloria del Dio vivente e partecipa alla liturgia celeste; una liturgia grandiosa, stupenda, che viene celebrata davanti al trono e all'Agnello. Stanno di fronte al trono (una circonlocuzione per il nome di Dio), ma anche di fronte all'Agnello, di cui sono stati imitatori, riportando la palma della vittoria.
Lo stare in piedi, secondo il simbolismo di questa posizione, significa essere in uno stato di risurrezione. Essi partecipano della stessa vita di Dio e dell'Agnello. Questo è il popolo dei credenti nel suo aspetto glorioso, ovvero la Chiesa trionfante che in cielo partecipa della vittoria di Cristo. Sono coloro che hanno portato a termine il viaggio, coloro che già condividono la vittoria piena e definitiva dell'Agnello.
"Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello". La presentazione dei salvati sottolinea la loro provenienza e li definisce con un participio presente: "coloro che vengono" (hoi erchomenoi), strettamente affine alla formula divina "ho erchomenos" ("Colui che viene"). Ormai sono una sola cosa con l'Agnello perché hanno realizzato, attraverso la loro tribolazione, la chiamata ad immergersi nella morte e nella risurrezione del Figlio di Dio.
La grande tribolazione è la persecuzione, il martirio. La grande tribolazione alludeva storicamente alle persecuzioni subite dai cristiani, di cui quella di Nerone fu il prototipo, ma si riferisce in maniera particolare alla grande tribolazione che precederà il giudizio finale.
Questa tribolazione viene chiamata «grande» perché supererà in intensità tutte le precedenti, sarà la più terribile di tutte, è quella che si estenderà ai credenti del mondo intero e in cui Satana si servirà dei suoi più potenti strumenti e metterà in opera i mezzi più efficaci per abbattere la fede cristiana. La Chiesa è sempre perseguitata, ma negli ultimi tempi lo sarà ancora di più, e ogni vero cristiano deve aspettarsi una parte più o meno grande di tribolazione.
Poiché la moltitudine immensa viene dalla grande tribolazione, è ragionevole dedurre che essi, o almeno la maggioranza di essi, siano martiri.
“Hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello”. Notiamo una cosa interessante: il testo non dice che hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il versamento del proprio sangue, ma con il sangue dell'Agnello. Costoro hanno lavato le loro vesti (gr.: stolàs) nel sangue dell'Agnello, ossia si sono santificati e hanno purificato la loro anima (stola) mediante i meriti di Gesù al quale si sono avvicinati con fede. È implicito, nel loro «hanno lavato», che le stole/vesti erano sporche, cioè che essi erano peccatori. Se ora possono comparire in vesti bianche alla presenza di Dio, ciò non è dovuto ai loro meriti, ma alla virtù espiatrice e purificatrice del sangue di Cristo.
Con questa immagine paradossale del sangue dell'Agnello che rende bianche le vesti dei credenti, si vuol dire che essi partecipano al valore salvifico della morte espiatrice di Gesù, in virtù della quale sono stati preservati dal soccombere nella prova. Non sono dunque solo i martiri, ma tutti i membri della Chiesa che sono rimasti fedeli nella persecuzione. Infatti, ripetiamo ancora una volta: non è scritto che hanno lavato le loro vesti nel loro stesso sangue, bensì in quello dell'Agnello. Il "sangue" è simbolo della morte di Cristo e dell'efficacia della sua opera salvifica. Il greco ha "en tō" ("nel sangue"), formula che probabilmente deriva dalla liturgia eucaristica (1 Cor 11,25 "nel mio sangue").
I cristiani non sono giustificati per una qualsiasi osservanza della Legge o per adempienza di tutti quei riti che fanno da corollario alla fede, ma per la loro assimilazione alla croce di Cristo.
"Per questo stanno davanti al trono di Dio". "Per questo", non per altro: dovrebbe farci riflettere seriamente. In un tempo in cui si parla molto di ecumenismo, va ribadita la centralità del Cristo crocifisso come conditio sine qua non per la salvezza.
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3a Domenica di Pasqua (anno C)
(Ap 5,11-14)
Apocalisse 5:11 Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia
Apocalisse 5:12 e dicevano a gran voce: «L'Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione».
Apocalisse 5:13 Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all'Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».
Apocalisse 5:14 E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E i vegliardi si prostrarono in adorazione.
Questo brano rivela la grandezza del nostro Dio. Il nostro Dio è il Creatore di una moltitudine immensa di angeli (v. 11). Questi angeli proclamano la grandezza, la gloria del loro Dio e Signore, testimoni di un'opera di redenzione che non riguarda loro ma l'umanità. Gli angeli del cielo sono preposti per la nostra salvezza. Essi sono a servizio del sacerdozio di ogni fedele discepolo di Gesù. Questo è il loro ministero. Gli angeli proclamano il sacerdozio di Cristo in cielo, aiutano a vivere il nostro sacerdozio sulla terra. Questi angeli, che sono l'esercito celeste di Dio, le sue schiere, potrebbero annientare tutto l'universo in un solo istante, se solo Dio lo volesse.
«L'Agnello che fu immolato» (= Gesù Cristo crocifisso e risorto) è collocato sullo stesso piano di Dio: «Potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione», sono sette qualità che appartengono a Dio. Dagli angeli, Gesù Cristo è proclamato degno di ricevere gli stessi titoli di Dio, degno di essere rivestito della sua stessa gloria, senza alcuna differenza. Le creature angeliche, nella loro moltitudine incalcolabile, proclamano la divinità dell'Agnello. Gli abitanti del cielo proclamano chi è Gesù in cielo: è l'Agnello immolato che viene posto accanto a Dio, è l'Agnello immolato che viene proclamato Dio. Cristo è nostro Dio, questa è la verità da affermare.
L'adorazione nel v. 13 si estende a tutte le creature del cielo e della terra. Tutto il creato è chiamato all'adorazione, è una lode cosmica. Non solo gli angeli, innumerevoli, proclamano la verità di Cristo, ma tutte le creature, dalle più piccole alle più grandi, fanno la stessa confessione di fede: l'Agnello è uguale a Dio. L'inno di gloria già cantato in onore di Dio, è cantato in onore dell'Agnello. Dio e l'Agnello sono accomunati. Se qualcuno nega questa verità commette un gravissimo peccato.
Questa verità è confermata dai quattro esseri viventi (v. 14). Il loro "Amen", il loro "sì", attesta che l'universo intero dice la verità su Dio e su Cristo. Essi sono i rappresentanti delle creature dotate di vita. Sono quattro, è l'universalità che dice "amen". I «vegliardi», simbolo dell'antico e del nuovo popolo di Dio, prostrandosi in adorazione dinanzi all'Agnello riconoscono la sua divinità. Nei vegliardi, il popolo di Dio fa silenzio e contempla in adorazione il Dio vivente.
Cielo e terra, antica e nuova alleanza, tempo ed eternità, sono concordi nella professione di una sola fede: Gesù, l'Agnello immolato, è Dio. Giovanni in questa visione contempla la posizione e la dignità immensa di Cristo, ottenute mediante la sua morte e risurrezione. L'Apocalisse contempla il significato profondo di tutta la storia, riconducendola a due misteri: quello della creazione e quello della redenzione. Ciò che viene preannunciato nel capitolo 4 e appare come realizzato nel capitolo 5 è la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo, fine e senso di tutta la storia, attraverso l'opera di redenzione da Lui stesso compiuta con il suo sacrificio.
Attraverso un cambiamento di prospettiva, l'Apocalisse opera una trasposizione: quello che sulla terra si attua nei segni, in cielo – presso Dio – si attua nella realtà; in altre parole, quello che in terra si contempla mediante la fede e i segni sacramentali, in cielo si contempla mediante la visione, la partecipazione, nella realtà. In particolare:
• Se in terra il luogo della celebrazione è un edificio, con al centro un altare, in cielo il luogo della liturgia è lo stesso cielo, con al centro il trono di Dio.
• Se in terra l'assemblea liturgica è costituita dai (soli) fedeli, in cielo essa è costituita da ogni essere che esiste (vivente), la cui lode coinvolge progressivamente tutto l'universo.
• Se in terra il mistero dell'Agnello si percepisce, si celebra, e si comunica attraverso i segni sacramentali, in cielo esso si percepisce e si celebra in se stesso, ossia nella realtà della visione e della comunione. L'Apocalisse dunque ‘trasferisce’ in cielo la liturgia terrena; questo, conseguentemente, non fa altro che rendere presente e autenticare la stessa liturgia celeste sulla terra, conferendo significato e contenuto a quanto in quest'ultima si celebra. In terra, cioè, si compie, attraverso i segni liturgici e sacramentali, ciò che in cielo si celebra nella realtà. Allo stesso tempo, mediante i segni sacramentali e liturgici, la liturgia celeste si trasmette e coinvolge la terra.
Celebrando la liturgia terrena il lettore, così come ogni credente, contempla la liturgia celeste e, mediante questa contemplazione è in grado di cogliere il senso e il contenuto della prima. Secondo la prospettiva dell'Apocalisse, dunque, l'evento di salvezza, storicamente avvenuto in terra e perciò passato, permane perennemente in cielo, raggiungendo e operando sulla terra mediante i segni sacramentali e i gesti liturgici.
Va da sé che la liturgia terrena che meglio si identifica con la liturgia celeste, è quella della Messa solenne “Vetus Ordo”: il decoro degli abiti e del portamento dei sacerdoti, la presenza invasiva dei profumi d'incenso, il silenzio composto dei fedeli, la musica spianata dell'organo, le voci dei cantori che intonano il gregoriano, uomini e donne inginocchiati e silenti; austerità, fila ai confessionali, ecc. ecc.
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(Ap 1,9-11a.12-13.17-19)
Apocalisse 1:9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù.
Chi scrive è Giovanni. Come molti scritti profetici dell'Antico Testamento cominciano con il racconto della chiamata dei loro autori, così anche Giovanni colloca all'inizio del suo libro il compito che gli è stato affidato e che lo autorizza a scrivere. È lui che riceve la rivelazione di Dio, e prende direttamente la parola in prima persona. Giovanni è "fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù". È “fratello” perché in Cristo è una cosa sola insieme agli altri discepoli. In Cristo siamo tutti figli dell'unico Dio e quindi tutti fratelli gli uni degli altri. È il corpo di Cristo che ci costituisce una cosa sola in Lui. Con ciò viene presentato il contesto in cui il messaggio è nato: l'Apocalisse è in sostanza un messaggio riguardo la tribolazione, ed è un messaggio di speranza rivolto a una comunità perseguitata.
Giovanni è “compagno”, cioè è in comunione con loro, “nella tribolazione”, perché anche lui è perseguitato come loro, insieme a loro. Lui non scrive da fuori della persecuzione, da uomo libero, scrive da dentro la persecuzione. Secondo una tradizione, Giovanni uscì sano e salvo da una botte piena di olio bollente senza la benché minima ustione, e così fu relegato in esilio dall'Imperatore Domiziano, successore di Tito e suo fratello germano.
È compagno “nel regno”, la "basileia", la regalità. C'è una fierezza, una dignità, una regalità che è strutturale nella vita cristiana. Anche Giovanni come loro appartiene a quel regno di sacerdoti costituito da Dio. Tribolazione e regalità sembrano contraddirsi. Non siamo trionfanti eppure ci riconosciamo nell'essere dignitosi, fieri, liberi anche nelle vicende più drammatiche. Giovanni addita la regalità della vita cristiana come un modo di stare dentro a tutte le situazioni più disperate con regalità di vita.
È compagno “nella costanza in Gesù”, perché vuole perseverare sino alla fine come Gesù. Lui di Gesù è il discepolo amato. Lui ha accompagnato Gesù fino alla croce. Ora Giovanni sta amando Gesù nella persecuzione, nel dolore e nella sofferenza. Lo sta amando nella costanza, cioè nella perseveranza sino alla fine. La costanza è la capacità di tener duro, di star sotto ai pesi, di sostenere il carico, la capacità di perseverare anche là dove il carico diventa gravoso. In attesa del glorioso evento della manifestazione del regno, la paziente sopportazione è la virtù specifica dei perseguitati. Incorporati in Cristo per mezzo del battesimo, i cristiani diventano partecipi della sua passione, ma in attesa di partecipare alla sua stessa gloria.
Giovanni è in esilio. Il luogo del suo esilio è l'isola chiamata Patmos. È un'isola rocciosa di circa 26 km quadrati, a circa 100 Km a sud di Efeso, facente parte delle Sporadi. Nell'isola si mostra ancora oggi una grotta dove si dice che l'apostolo abbia ricevuto queste rivelazioni. Eusebio, lo storico della chiesa, scrive che dopo la morte di Domiziano, il senato romano aveva richiamato tutti quelli che erano stati esiliati, e Giovanni da Patmos andò a Efeso. Egli dice anche che Giovanni sopravvisse fino al regno di Traiano. Infatti, l'uso del tempo passato, "mi trovavo nell'isola" suggerisce che lui non si trovava più a Patmos quando ha messo per iscritto le sue visioni. L'isola è una bella figura della Chiesa di Cristo. Come un'isola è continuamente sbattuta dalle onde del mare, così la Chiesa è afflitta dalle persecuzioni. L'apostolo è esiliato in questo luogo di pena “a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù”. Giovanni si presenta come un testimone di Gesù. Lui è il testimone di Gesù che trasmette coraggio a tutti gli altri testimoni di Gesù, perché perseverino nella loro testimonianza sino alla fine.
La parola "testimonianza" evoca l'atmosfera di un processo o di un pubblico dibattito: si testimonia un fatto accaduto e una realtà vissuta personalmente. Non è valida una testimonianza per sentito dire. La testimonianza cristiana è inoltre legata alla sofferenza, al pagare di persona: testimonianza vuol dire martirio. Decidendo di porsi dalla parte di Cristo, il testimone deve sapere che sarà coinvolto nel suo rifiuto da parte del mondo incredulo. È questo l'aspetto che l'Apocalisse sottolinea maggiormente. Giovanni sa che solo chi avrà avuto la forza di andare fino in fondo, come Gesù Cristo, entrerà nel suo regno. Per questo non si risparmia dall'aiutare i suoi fratelli. Il discepolo di Gesù può essere perseguitato per una sola ragione: "a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù", cioè, può essere perseguitato solo perché vero, autentico, fedele discepolo di Gesù. Chi fa questa scelta, dal mondo sarà sempre avversato. È questa, però, la scelta della vita eterna.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(1Cor 5,6b-8)
1Corinzi 5:6 Non sapete che un pò di lievito fa fermentare tutta la pasta?
1Corinzi 5:7 Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
1Corinzi 5:8 Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità.
Attenzione perché un po' di lievito, cioè aprire uno spiraglio al male, è come aprire una diga e si viene travolti: un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta! Il peccato è come il lievito. Una volta che lo si mette nella pasta santa della comunità, a poco a poco riesce a fermentarla tutta, cioè a trasformarla in pasta di peccato e non più di santità e di verità. Questa è la vera potenza del peccato. Non solo riesce a rovinare un’anima, ma un’anima rovinata riesce a rovinare altre anime in un processo contagioso.
Bisogna togliere il lievito vecchio perché noi siamo una pasta nuova, una pasta che non deve essere lievitata, siamo pasta azzima. Il riferimento è alla celebrazione pasquale con l’immolazione dell’agnello a ricordo dell’Esodo, e dei pani azzimi che venivano mangiati in quella circostanza. L’agnello poteva essere mangiato solo con pane azzimo. In quella notte tutto ciò che apparteneva al passato, al vecchio mondo, doveva scomparire dalla casa. Bisognava iniziare una vita nuova, verso un futuro nuovo, verso un paese nuovo.
Dice Paolo: Togliete via il lievito vecchio, cioè via quella logica sbagliata che vi fa diventare appartenenti al mondo e non più appartenenti a Cristo. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Voi siete azzimi. Nel senso che non avete un vostro lievito e nel caso l’aveste fa parte del mondo, perché nel battesimo il vecchio lievito è stato tolto di mezzo, siamo stati rigenerati in Gesù Cristo e in lui siamo stati fatti una nuova pasta, azzima, senza il lievito del peccato. Questa è ora la nostra realtà.
Bisogna mangiare l’agnello pasquale, e il nostro Agnello pasquale è Gesù Cristo che è stato già immolato, è giù sulla tavola. Come lo si mangia? Con la pasta nuova, ma la pasta nuova siamo noi, allora dobbiamo mangiarlo da pasta nuova, non lo possiamo mangiare da pasta lievitata dal peccato. Questo è il motivo per cui bisogna togliere il peccato, cioè il vecchio lievito, dal nostro cuore. Praticamente Paolo fa notare che Cristo, la nostra Pasqua, è già stato sacrificato: la festa è cominciata, eppure il vecchio lievito è ancora nella casa – che contraddizione!
Per difendersi dal pericolo di essere corrotta, la chiesa deve fare quello che si faceva in ogni casa israelita alla vigilia della Pasqua. Si faceva scomparire con molta scrupolosità tutto il pane con lievito. Il vecchio lievito di cui si deve purificare la chiesa è il principio corruttore dell’uomo vecchio. Ricordiamoci che il nostro agnello pasquale, Gesù Cristo, è già stato immolato una volta, e la sua immolazione non si ripete, e quindi la Pasqua che celebriamo dura sempre, e quindi sempre dobbiamo essere senza lievito. La vita cristiana può paragonarsi ad una festa pasquale continua (il «celebriamo» del v. 8 è presente, indica un’azione continua nel tempo). Se la vita cristiana è paragonata a una continua Pasqua; allora i credenti devono continuamente eliminare il lievito dalla propria vita e dalla comunità.
Se non mangiamo Cristo, non possiamo lasciare la terra di schiavitù. Rimaniamo prigionieri del nostro peccato. Se non possiamo mangiare Lui, Cristo non serve alla nostra vita. Se Cristo non ci serve, a che serve che noi siamo cristiani? A nulla.
Per Paolo ci sono tre modi di mangiare Cristo, di celebrare la nostra cena pasquale con Lui. Il primo modo è quello di celebrarla con il lievito vecchio, cioè in uno stato di peccato. Questo modo non è secondo Dio. Questo modo non ci consente di mangiare la Pasqua. Se la mangiamo diviene per noi motivo di condanna. È peccato grave mangiare Cristo, nostra Pasqua, con il lievito vecchio, cioè con il peccato grave nel cuore, senza pentimento, senza volontà di abbandonare questo lievito, senza aver deciso di liberarci di esso.
Il secondo modo è di celebrarla con lievito di malizia e di malvagità. La malizia e la malvagità sono malattie del cuore che non cerca Dio, che non lo desidera, e tuttavia convive con il Vangelo. La malizia toglie il bene dal cuore e vi mette il male, la persona pensa, vuole, e giudica tutto secondo questo criterio di male con il quale convive. Anche questo modo non è secondo Dio.
Il terzo modo di celebrarla, quello giusto, è con gli azzimi della sincerità e della verità. Con la sincerità e la verità nel cuore si inizia quel cammino che deve portarci al conseguimento della nostra meta spirituale che è il raggiungimento del regno dei cieli, in attesa della risurrezione gloriosa del nostro corpo in Cristo, con Cristo e per Cristo.
Per molti, la sincerità significa semplicemente avere sulle labbra ciò che c’è nel cuore, e secondo questi sentimenti agire. Questa sincerità spesso convive con il peccato; la persona sincera commette il peccato apertamente, senza neanche quel pudore che è il segno che ancora vive in noi un poco di timor di Dio. Questa sincerità è deplorevole, perché è una sincerità che scusa il male e chi lo commette. La sincerità che raccomanda Paolo, invece, è la purezza delle motivazioni, la purezza di un cuore sincero senza l’aggiunta di sostanze estranee, intese qui come il peccato, che adulterano le motivazioni pure e le opere dei santi. La vita sincera è una vita che può sostenere l’esame più accurato, una vita le cui caratteristiche sono l’onestà intellettuale e la sincerità morale.
La Pasqua antica era soltanto l’immagine di una festa di molto superiore per significato e per importanza. Il sacrificio dell’agnello che inaugurava la Pasqua era l’ombra dell’unico sacrificio veramente efficace ed eterno dell’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. La liberazione dall’Egitto ricordata dalla Pasqua ebraica, era la figura della liberazione dalla servitù del peccato e della morte eterna, liberazione procurata da Cristo per tutti i credenti, che per la fede in lui ora sono costituiti in popolo di Dio. Il modo di celebrazione della Pasqua (senza azzimi) era l’emblema della vita di riconoscenza e santità che deve condurre la chiesa.
Celebriamo dunque la festa, dice Paolo, la festa del vero passaggio, del vero esodo, con azzimi di sincerità e di verità.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Lc 22,14 - 23,56)
Luca 22:14 Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui,
Luca 22:15 e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione,
Luca 22:16 poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio».
Luca 22:17 E preso un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi,
Luca 22:18 poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio».
Luca 22:19 Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me».
Luca 22:20 Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi».
Luca 22:39 Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono.
Il v. 14 funge da cornice al racconto della cena pasquale al cui interno si colloca l'istituzione dell'eucaristia. Un versetto molto denso, scandito in tre parti. La prima è una nota temporale molto significativa, che introduce il racconto pasquale: “Quando fu l'ora”. L'ora è giunta. È la cena pasquale. Qui avviene l'incontro e il completamento-sostituzione di due eventi salvifici, che vengono strettamente legati alla passione-morte-risurrezione di Gesù: la celebrazione della pasqua ebraica, l'evento della liberazione di Israele. L'altro evento, complementare e sostitutivo del primo, sono il pane e il vino, elementi essenziali e propri della pasqua ebraica, ma che qui, in questa “ora”, vengono risignificati, perché rappresentativi di una nuova liberazione, che ha come fondamento un pane-corpo spezzato e un vino-sangue versato “per voi”, dove in quel “per voi” si ritrova chiunque abbia deciso la propria vita per quel pane spezzato e per quel vino versato. Si tratta, dunque, di un'ora che costituisce il vertice della storia della salvezza, dove tutto ciò che è stato prefigurato trova in quest'ora il suo compimento, che ritualizza in quel pane-corpo spezzato e in quel vino-sangue versato l'evento salvifico che si fa offerta di salvezza per chiunque lo accolga nella propria vita.
La seconda parte del v. 14 presenta un Gesù che prende posto a tavola. Non si parla di sedersi, ma di reclinarsi, adagiarsi, sdraiarsi, distendersi (greco: “anepesen”), alla maniera propria del mondo greco-romano, ma che aveva assunto per l'ebreo il significato di una posizione che qualificava l'uomo libero; mentre la terza parte del v. 14 afferma “gli apostoli con lui”. Gli apostoli sono quelli che Gesù ha chiamato con sé perché condividessero la sua sorte, il ceppo fondativo della chiesa. Ed è proprio in questa prospettiva che l'evangelista attesta che anche gli apostoli si adagiano con Gesù a quella tavola del pane-corpo spezzato e del vino-sangue versato, condividendone in tal modo la sorte. Si tratta - lo sdraiarsi alla mensa con Gesù in cui viene ritualizzata la sua morte - di una vera e propria sequela che in qualche modo riecheggia, anticipandolo, il v. 39 in cui si racconta che Gesù “uscito, se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono”.
Il v. 15 apre la pericope relativa alla pasqua ebraica che qui, in quel “prima della mia passione”, viene legata alla passione e morte di Gesù; ma si intuisce anche come in quel “prima” questa pasqua ebraica sia anche l'ultima. Si comprende in tal modo l'esprimersi di Gesù (“ho desiderato ardentemente”), per dire la sua grande attesa per questa pasqua, posta alle soglie del suo patire e morire. Una pasqua di addio, quindi, ma non di abbandono, poiché saranno proprio i vv. 19-20, che nel riprendere la gestualità della pasqua ebraica la riscatteranno, divenendone riferimento perpetuo (“in memoria di me”), in cui si ritrova una nuova presenza di Gesù sotto forma di pane e di vino e che ha il suo compimento in lui, vero agnello pasquale immolato.
Luca, nel rilevare il grande desiderio e la grande attesa di Gesù per questa pasqua, l'ultima che egli avrebbe celebrato con i suoi, focalizza l'espressione “mangiare questa pasqua con voi”, così che in qualche modo, in quella pasqua, i discepoli sono coinvolti nei destini di Gesù. Una pasqua che, tuttavia, ha la sua compiutezza soltanto nel Regno di Dio, denunciandone in tal modo la sua incompiutezza e, quindi, tutta la sua inconsistenza e fragilità. In altri termini, una pasqua (quella ebraica) che ha liberato, ma non è più liberante.
La questione del valore salvifico di questa pasqua è qui affrontata da Luca nella contrapposizione tra i verbi “mangiare” e “non mangiare” del v. 16, verbo quest'ultimo, come il “non bere” del v. 18, posto al futuro; come dire ‘mai più mangerò e mai più berrò’, togliendo a questa pasqua il senso di “celebrazione liberante”: “finché essa non si compia nel regno di Dio”, assegnandole in tal modo una dimensione escatologica.
Il presente della pasqua ebraica, infatti, che celebra la liberazione di Israele dall'oppressione egiziana, ha in se stessa un senso incompiuto, che era racchiuso in un memoriale ripetitivo che non trova sbocchi nella storia se non in un ricordo glorioso, che simile al muro del pianto, ricorda la grandiosità delle gesta di Yahweh. Una pasqua, quindi, sterile - che non apre Israele al futuro, ma lo rinchiude nel suo passato attraverso una ritualità che non gli consente sbocchi, così che la liberazione in essa celebrata diventa una liberazione incompiuta. Per questo Gesù e con lui i suoi non ne mangeranno più e non solo perché egli verrà ucciso da lì a poco. Liberazione che, tuttavia, ritroverà il suo senso e la sua compiutezza in quel Regno di Dio, che Gesù è venuto a rivelare e a fondare, e che quella pasqua in qualche modo prefigurava, celebrando una liberazione che in realtà ne prefigurava un'altra e nella quale troverà la sua compiutezza, divenendo pasqua liberante.
Gesù, dunque, non mangerà più di questa pasqua, e con lui i suoi discepoli, perché questa è stata trasferita in una nuova pasqua e da questa sostituita, in un nuovo esodo dalla schiavitù alla libertà, significato nel passaggio dalla morte alla vita di Gesù, che incide sulla vita di ogni singolo credente nel suo oggi, il quale mangiando di questa nuova pasqua, annuncia nella testimonianza della propria vita questo passaggio dalla morte alla vita - nell'attesa del suo ritorno. Viene a crearsi in tal modo una forte tensione escatologica tra il ‘già e il non ancora’; orientando l'intera umanità credente verso una meta che va al di là dello spazio e del tempo, dove l'oggi incompiuto trova la sua compiutezza e il suo senso e dove il tempo incompiuto diventa eternità compiuta.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Gv 8,1-11)
Giovanni 8:1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi.
Giovanni 8:2 Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.
Giovanni 8:3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo,
Giovanni 8:4 gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Giovanni 8:5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?».
Giovanni 8:6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.
Giovanni 8:7 E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».
Giovanni 8:8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.
Giovanni 8:9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo.
Giovanni 8:10 Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Giovanni 8:11 Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; và e d'ora in poi non peccare più».
Significativo è il verbo che Giovanni usa per indicare che Gesù si reca al tempio: “paraginomai”. Il verbo è composto dalla preposizione “para”, che significa “presso, verso” e dal verbo “gignomai”, che significa “diventare”. L'andare di Gesù al tempio dunque è un farsi vicino e un diventare sempre più quel tempio che non solo è la casa del Padre suo, ma anche figura del suo nuovo corpo, in cui si celebrerà un nuovo culto gradito a Dio.
Il contesto in cui si inserisce il racconto è quello del tempio e più precisamente, come sottolinea con estrema precisione il v. 20, il “luogo del tesoro” che era detto anche cortile delle donne, perché segnava il confine al di là del quale le donne non potevano accedere. Quando dunque gli scribi e i farisei conducono la donna colta in flagranza di adulterio da Gesù, questi stava insegnando nell'atrio delle donne o tesoreria. Il racconto dell'adultera dunque si inserisce all'interno dell'attività di insegnamento di Gesù, e in qualche modo ne fa parte.
Gli scribi e i farisei conducono da Gesù una donna. Essa viene posta in mezzo. Non si dice esattamente dove, ma l'idea che ne viene è che essa sia posta in mezzo alle due parti, tra Gesù e le autorità religiose. Ci si trova dunque tra due schieramenti contrapposti in mezzo ai quali viene posto l'oggetto del contendere, non tanto la donna, spogliata di ogni identità e di ogni dignità, ma quello che lei rappresenta: un caso di violazione della Torah. La questione dunque si sposta subito dalla donna alla Legge mosaica, che la condanna alla lapidazione. Un confronto che diviene più evidente al v. 5 dove si oppone Mosè a Gesù: “Mosè ci ha comandato… Tu che ne dici”?
“Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo”. Sotto processo quindi non c'è soltanto la donna, ma con lei anche Gesù, il quale si trova di fronte ad un aut aut: mettersi contro Mosè, sostenendo la sua posizione critica nei confronti del modo di intendere la Torah; o dare ragione a Mosè, rinnegando la sua posizione. Ma Gesù trova una terza via: per due volte, al v. 6 e al v. 8, viene evidenziato che Gesù “si mise a scrivere col dito per terra”. Giovanni, quindi, sembra voler attrarre l'attenzione sul bizzarro comportamento di Gesù. Ci si è chiesti che cosa Gesù stesse scrivendo per terra con il dito e fiumi d'inchiostro sono stati versati nelle più disparate ipotesi, che, a giochi fatti, tali sono rimaste. Ma qui il problema non è il contenuto, cioè ciò che Gesù stava scrivendo, ma lo scrivere stesso di Gesù; è questo gesto che l'evangelista indica al suo lettore e non ciò che Gesù ha scritto: “chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra”. Del resto, non va dimenticato, Gesù stava scrivendo sul pavimento dell'atrio delle donne, che era di pietra. Ciò che scriveva con il dito quindi non poteva rimanere impresso e pertanto non poteva neppure essere letto.
Per capire il comportamento di Gesù è necessario leggere con attenzione: “chinatosi”; è l'atteggiamento di chi si avvicina dall'alto verso il basso, quasi andando incontro a qualcosa o a qualcuno, che si trova più in basso di sé. A questo punto Gesù “si mise a scrivere col dito per terra”. Ecco ciò che conta: “lo scrivere con il dito” sulla terra, che sappiamo essere però “pietra”. Gesù dunque, chinatosi scriveva con il dito sulla pietra. A rafforzare questo concetto c'è lo stesso verbo scrivere che, diversamente da quello contenuto al v. 8, è qui reso con una forma verbale particolare: “katégraphen”, il cui significato primario non è scrivere, bensì incidere, graffiare, sottolineando più l'azione di uno scalpellino che quella di uno scriba. Ed è esattamente ciò che Es 31,18 dice: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, TAVOLE DI PIETRA, SCRITTE DAL DITO DI DIO”. Anche Dio quindi è sceso giù sul monte Sinai e lì con il suo dito ha scritto la sua Legge sulla pietra. Il comportamento di Gesù dunque riproduce esattamente quello di Dio sul Sinai. Gesù quindi sta qui riscrivendo la Legge mosaica con l'autorità stessa di Dio, riproducendone il comportamento, dichiarando in tal modo superata non tanto la Torah, quanto la modalità di approcciarsi ad essa e di intenderla, secondo la logica della lettera, soffocandone lo spirito di cui era portatrice.
Il giudaismo non riusciva a trascendere la fisicità della Legge espressa nella lettera. I suoi avversari infatti “insistevano nell'interrogarlo” (v. 7). Così, Gesù li sfida, ribaltando l'accusa mossa all'adultera su di loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Alla loro insistenza Gesù, dunque, risponde invitandoli a riflettere sulla loro comune condizione di peccatori, poiché nessuno di fronte a Dio può ritenersi in qualche modo giusto e santo. La Torah dunque va riletta e ricompresa dalla prospettiva di Dio e non dell'uomo; per questo Gesù sta riscrivendo la Torah secondo le logiche e il sentire di Dio e ne ha tutta l'autorità e il potere.
Il v. 9 rileva come tutti se ne andarono, denunciando in tal modo la loro incapacità di giudizio, perché un peccatore non può ergersi a giudice verso un altro peccatore. Il giudaismo con il suo mondo della lettera che accusa e condanna è scomparso, lasciando posto ad una nuova realtà, quella dell'amore del Padre che si è donato all'uomo nel Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio in Gesù sta dunque riscrivendo la sua Legge secondo le logiche non più della lettera, ma dello spirito che la vivifica. Il giudizio pertanto si dovrà espletare nel perdono e nella misericordia.
Il racconto dell'adultera si chiude con una constatazione: nessun verdetto è stato emesso; nessun giudizio si è compiuto. Il processo che si era instaurato nei confronti di Gesù e della donna si è disciolto, poiché questo è il tempo della misericordia e della salvezza e non del giudizio. La Legge mosaica perde il suo volto duro di giudice che condanna senza appello per confluire nell'economia dell'amore e della grazia. Per questo i rappresentanti e i sostenitori della Legge sono scomparsi ed è rimasto solo Gesù, il nuovo Mosè che sta riscrivendo con il dito di Dio una nuova legge, quella fondata sullo spirito che dona la vita e non la toglie.
Il v. 11 si chiude con l'esortazione a riprendere e a proseguire quel cammino di rigenerazione che è iniziato con l'incontro con Gesù espresso con quel “da ora in poi” che segna una netta cesura tra il prima e il dopo; inizia un cammino nuovo: “da ora in poi non peccare più”. Nel nostro normale intendere, il non peccare significa non commettere dei peccati, cioè non commettere delle violazioni, per cui il peccare è un fare o non fare ciò che la Legge divina ci comanda. Ma l'espressione in questione va ben oltre questa visione riduttiva. Infatti il verbo “amartánō” (peccare) in prima battuta non significa peccare, bensì deviare, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, non raggiungere l'obiettivo, fallire; quindi, in seconda battuta, anche peccare, il cui significato però va compreso all'interno di quei significati da cui deriva. Di conseguenza l'invito di Gesù “a non peccare” non è un invito a non violare più la Legge mosaica, bensì a prendere atto come la donna, dall'incontro avuto con Gesù sia stata generata a nuova vita (“da ora in poi”) e in questa novità di vita deve guardarsi dal deviare e dall'abbandonarla, non tanto perché qualcuno la potrebbe condannare nuovamente, ma perché “da ora” l'abbandonarla contiene già in sé il senso del fallire quell'obiettivo ultimo verso cui si è incamminati: Dio, della cui vita siamo stati resi partecipi fin d'ora in Cristo.
A tal punto più nessuno, né la Legge né Dio, ci condannerà, perché noi stessi ci condanneremmo e Dio non può più fare nulla, perché, parafrasando s. Agostino, quel Dio che ci ha creati senza di noi, non può salvarci senza di noi. In altri termini, ora la salvezza è un dono che è stato posto nelle nostre mani; spetta a noi aderirvi esistenzialmente o meno. E qui non si tratta di osservare qualche comandamento o meno, un modo banale quanto ingannevole di sentirci a posto con Dio, ma di mantenere saldo il nostro orientamento esistenziale verso di Lui, che solo la Parola può alimentare e sorreggere, evitandoci di peccare, cioè di fallire il nostro obiettivo primo ed ultimo: Dio! E questo va ben al di là dell'osservanza o meno di qualche precetto.
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(2Cor 5,17-21)
4a Domenica di Quaresima (anno C)
2Corinzi 5:17 Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.
2Corinzi 5:18 Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione.
2Corinzi 5:19 È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.
2Corinzi 5:20 Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
2Corinzi 5:21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.
«Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». Paolo dà un saggio della sua visione secondo la fede. Letteralmente dal greco è: “Se uno in Cristo nuova creazione”, senza verbo. Non dice: “se uno crede in Cristo...”, ma dice «Se uno in Cristo»; non adopera il verbo essere. Se uno è inserito in Cristo, cioè se c'è questa identificazione con Cristo, allora è un'altra realtà, una creatura nuova. Quella che si è venuta a creare con la risurrezione di Cristo è una realtà nuova.
La fede ci fa una cosa sola con Cristo, perché ci fa un solo corpo in Cristo. Cristo è la novità di Dio. Cristo è l’uomo nuovo venuto a fare nuove tutte le cose. Se noi siamo in Cristo, partecipiamo della sua novità di amore e di verità. Qual è la conseguenza di questa novità? L’abbandono delle cose vecchie. Vecchio, per Paolo, è tutto il passato vissuto senza Cristo o nell’attesa di lui.
Altra conseguenza è questa: le cose vecchie in Cristo non esistono più; se le facciamo esistere, allora noi non siamo più vitalmente uniti a Cristo; siamo in Cristo in ragione del nostro battesimo, ma non lo siamo in quanto partecipazione alla sua grazia e alla sua verità.
Anche questo è un altro grande principio dell’antropologia paolina, che è poi antropologia cristiana. L’essere divenuti in Cristo nuove creature obbliga a vivere come tali. Obbliga a vivere in novità di vita, e la novità di vita per Paolo è una sola: riproporre la vita di Cristo nelle nostre membra, perché noi siamo suo corpo.
La Chiesa non ha solo l’obbligo di annunciare Cristo, ha anche quello di aiutare ogni membro di Cristo a sviluppare tutta la novità che Cristo ha creato in lui mediante il suo santo Spirito. La Chiesa deve essere maestra e guida perché ogni suo figlio manifesti Cristo nelle opere e nei pensieri. Per questo, oltre che missionaria, deve essere anche formatrice di quanti già credono in Cristo. Senza quest’opera di formazione, la stessa missione svanisce. Non può svolgere la missione cristiana se non chi vive di Cristo, in Cristo e per Cristo. È compito della Chiesa impegnare ogni sua energia affinché il popolo di Dio cresca nella verità, nella grazia, nella santità, in spiritualità.
La Chiesa non potrà fare questo se perde di vista di essere luce in mezzo agli uomini. Una luce che si affievolisce non è vista più da nessuno; mentre una luce che cresce e si ingrandisce sempre più, può attrarre uomini da molto lontano. Questa è la via della Chiesa: la formazione spirituale, dottrinale, sapienziale dei suoi figli.
«Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione». Eccoci arrivati al grande tema della riconciliazione. Perché Paolo scrive questa lettera? Per riconciliarsi con i Corinzi. Quindi arriva al vertice mettendo in evidenza l'amore di Cristo che ha dato se stesso; questa è la causa che riconcilia, che rimette insieme. La riconciliazione è mediante Cristo, ma su questo iniziano le divergenze, o meglio iniziano le falsità. Da tutti si afferma la redenzione mediante Cristo, ma non la redenzione alla creazione in noi della novità che è Cristo. Non si può affermare che l’uomo è stato fatto nuova creatura in Cristo senza affermare che è chiamato a vivere questa vita nuova.
Una redenzione concepita solo come salvezza finale, senza la novità che Cristo ha prodotto in noi, è una redenzione protestante, non è redenzione biblica, non è cattolica, perché non è questa la redenzione che Gesù Cristo è venuto ad operare in mezzo a noi.
«È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo». Paolo ora spiega in che cosa consiste la riconciliazione. Con il peccato l’uomo ha contratto una colpa dinanzi a Lui. Questa colpa merita una pena, che è la morte eterna dell’uomo. Dio, per il sacrificio di Cristo offerto sulla croce, per la sua obbedienza fino alla morte e alla morte di croce, non imputa più questa colpa. Quindi l'azione importante l'ha fatta il Cristo e ha affidato agli apostoli il ministero della riconciliazione. C'è una lite, tra Dio e l'uomo; è evidente che ha ragione Dio e l'uomo ha torto. A questo punto, per arrivare alla riconciliazione, che si fa? Nel mondo chi ha torto paga! C'è la pena e ci sono le spese del processo: chi ha torto paga; dopo di che ci si rimette a posto e ci si riconcilia. Qui invece la riconciliazione avviene non facendo pagare a chi aveva torto, e questo annunzio dell'avvenuta riconciliazione senza il pagamento della pena e delle spese, è affidata agli apostoli.
Da precisare che la riconciliazione cristiana non è solo la non imputazione delle colpe contratte a causa dei peccati commessi. Questa è solo una parte della riconciliazione. La riconciliazione cristiana da un lato confessa il perdono dei peccati, dall’altro essa è incorporazione in Cristo, è essere stati fatti in Cristo creature nuove. Tutti questi aspetti della riconciliazione sono essenziali e devono essere insegnati, altrimenti si può anche ridurre la riconciliazione ad un fatto puramente giuridico. Il Signore non ci imputa il peccato, ma noi rimaniamo così come siamo. Questa non è la verità cristiana della riconciliazione, ma è la dottrina calvinista.
«Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio». L'insegnamento ora si trasforma in un invito accorato ad accogliere il dono di Dio. Non è sufficiente che Dio abbia riconciliato il mondo in Cristo: è urgente che ognuno si lasci riconciliare in Cristo da Dio e si ci lasci riconciliare accogliendo nel proprio cuore la parola del vangelo, la verità di Cristo. Lasciarsi riconciliare con Dio, invitare ogni uomo ad accogliere la parola della salvezza, è l’invito sempre nuovo che la Chiesa deve fare ad ogni uomo. È questa la via della salvezza. Altre non esistono.
L’azione missionaria della Chiesa inizia con un invito forte alla conversione. L’invito alla conversione, alla riconciliazione deve essere esplicito, chiaro, evidente. Non può essere presunto, né fatto per mezze frasi o per allusioni. Questo non è il metodo di Gesù Cristo, non è lo stile di Paolo, non è la via dei santi.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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The Magnificat is the hymn of praise which rises from humanity redeemed by divine mercy, it rises from all the People of God; at the same time, it is a hymn that denounces the illusion of those who think they are lords of history and masters of their own destiny (Pope Benedict)
Il Magnificat è il canto di lode che sale dall’umanità redenta dalla divina misericordia, sale da tutto il popolo di Dio; in pari tempo è l’inno che denuncia l’illusione di coloro che si credono signori della storia e arbitri del loro destino (Papa Benedetto)
This unknown “thing” is the true “hope” which drives us, and at the same time the fact that it is unknown is the cause of all forms of despair and also of all efforts, whether positive or destructive, directed towards worldly authenticity and human authenticity (Spe Salvi n.12)
Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo (Spe Salvi n.12)
«When the servant of God is troubled, as it happens, by something, he must get up immediately to pray, and persevere before the Supreme Father until he restores to him the joy of his salvation. Because if it remains in sadness, that Babylonian evil will grow and, in the end, will generate in the heart an indelible rust, if it is not removed with tears» (St Francis of Assisi, FS 709)
«Il servo di Dio quando è turbato, come capita, da qualcosa, deve alzarsi subito per pregare, e perseverare davanti al Padre Sommo sino a che gli restituisca la gioia della sua salvezza. Perché se permane nella tristezza, crescerà quel male babilonese e, alla fine, genererà nel cuore una ruggine indelebile, se non verrà tolta con le lacrime» (san Francesco d’Assisi, FF 709)
Wherever people want to set themselves up as God they cannot but set themselves against each other. Instead, wherever they place themselves in the Lord’s truth they are open to the action of his Spirit who sustains and unites them (Pope Benedict)
Dove gli uomini vogliono farsi Dio, possono solo mettersi l’uno contro l’altro. Dove invece si pongono nella verità del Signore, si aprono all’azione del suo Spirito che li sostiene e li unisce (Papa Benedetto)
But our understanding is limited: thus, the Spirit's mission is to introduce the Church, in an ever new way from generation to generation, into the greatness of Christ's mystery. The Spirit places nothing different or new beside Christ; no pneumatic revelation comes with the revelation of Christ - as some say -, no second level of Revelation (Pope Benedict)
Ma la nostra capacità di comprendere è limitata; perciò la missione dello Spirito è di introdurre la Chiesa in modo sempre nuovo, di generazione in generazione, nella grandezza del mistero di Cristo. Lo Spirito non pone nulla di diverso e di nuovo accanto a Cristo; non c’è nessuna rivelazione pneumatica accanto a quella di Cristo - come alcuni credono - nessun secondo livello di Rivelazione (Papa Benedetto)
Who touched Lydia's heart? The answer is: «the Holy Spirit». It’s He who made this woman feel that Jesus was Lord; He made this woman feel that salvation was in Paul's words; He made this woman feel a testimony (Pope Francis)
Chi ha toccato il cuore di Lidia? La risposta è: «lo Spirito Santo». È lui che ha fatto sentire a questa donna che Gesù era il Signore; ha fatto sentire a questa donna che la salvezza era nelle parole di Paolo; ha fatto sentire a questa donna una testimonianza (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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