Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.
(Mc 10,35-45)
Marco 10:35 E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo».
Marco 10:36 Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero:
Marco 10:37 «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Marco 10:38 Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo».
Marco 10:39 E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete.
Marco 10:40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
il v. 35 si apre presentando i protagonisti di questo episodio e la loro richiesta, che viene accostata narrativamente all'annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, creando in tal modo uno stridente contrasto tra gli interessi di Gesù, che sta parlando in termini drammatici della sua fine imminente, e quelli dei due fratelli, che pensano, invece, di accaparrarsi i primi posti.
Giacomo e Giovanni, due figure eminenti, chiedono: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È la richiesta di una investitura e di un potere che loro vogliono condividere con Gesù. Quel “sedere nella tua gloria” si riferisce non tanto alla risurrezione, il cui significato era loro sostanzialmente ignoto. La gloria a cui i due pensavano era la costituzione del nuovo Regno di Israele in termini storici da parte di Gesù. Una speranza questa che essi nutrirono fino all'ultimo. Il “sedere” indica la posizione di privilegio rispetto agli altri. Quello che qui viene richiesto, in buona sostanza, è che Gesù riconosca loro due quali eredi del suo potere e, quindi, l'essere suoi successori. Un riconoscimento ufficiale e diretto da parte di Gesù davanti a tutti avrebbe tolto di mezzo ogni discussione su “chi è il più grande”. Da qui lo sdegnarsi degli altri dieci apostoli, che si vedono portar via da sotto il naso l'oggetto dei loro desideri: “All'udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni”.
La risposta di Gesù è scandita in due parti. Essa si apre sottolineando la loro non conoscenza: “Voi non sapete ciò che domandate” (v. 38). La richiesta che i due fratelli avevano fatto a Gesù riguardava il potere temporale. Una richiesta che dà a vedere come essi ancora non avevano capito veramente che cosa significasse che Gesù è “il Cristo”, né che cosa significasse “Figlio di Dio” e che cosa tutto ciò comportasse. Tutto era riparametrato alla loro capacità di comprensione, che non riusciva a trascendere il livello orizzontale della missione di Gesù e della figura stessa di Gesù.
La risposta, quindi, prosegue nella sua seconda parte, riconducendo il tutto alla drammatica realtà che si stava per compiere e che diviene centrale in questa sezione: “Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gesù, dunque, non rifiuta la loro richiesta, ma pone quale “conditio sine qua non” per raggiungere la gloria a cui essi aspirano, la via della croce. Il “bere il calice” e “l'essere battezzati con il battesimo con cui sarò battezzato”, sono due espressioni metaforiche che alludono a degli eventi a cui Gesù deve essere sottoposto per raggiungere quella gloria che lui non si arroga per se stesso, ma che il Padre gli dona, in quanto ha compiuto pienamente la sua volontà.
La risposta dei due fratelli lascia esterrefatti, perché ancora una volta dà a vedere come essi non abbiano capito di che cosa Gesù stia parlando; e quasi come fosse un gioco rispondono: “Lo possiamo” (v. 38).
Anche qui la risposta di Gesù è duplice. Nella prima parte della risposta (v. 39) viene attestato loro che anch'essi verranno associati alla sorte del loro Maestro. Marco riporta le due espressioni del calice e del battesimo, riferite dapprima a Gesù e ora a Giacomo e Giovanni, lasciando intendere che anche i due [ma con loro tutti i Dodici e in comunione con loro tutti i credenti] saranno associati ai medesimi destini di Gesù, poiché “non c'è servo più grande del suo signore”.
La seconda parte della risposta (v. 40) lascia intravvedere come la gloria di Gesù non dipende da Gesù, ma tutto è rimandato al Padre. Una gloria che è destinata “per coloro per i quali è stata preparata”. Sono quelli che hanno scelto la via della croce e sono stati associati alla morte di Gesù e, per questo, anche alla sua risurrezione.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Mc 10,17-30)
Marco 10:17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
Marco 10:18 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Marco 10:19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».
Marco 10:20 Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Marco 10:21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Marco 10:22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
“Mentre usciva per mettersi in viaggio”. Marco ricorda ai suoi lettori che questo è il viaggio che conduce a Gerusalemme. Ed è proprio su questo viaggio che abbiamo la cornice e la chiave di lettura del racconto.
L'evangelista vuole sottolineare l'importanza del fidarsi di Gesù e del confidare in lui e non nelle proprie ricchezze e, quindi, in se stessi. L'incontro di questo personaggio alla ricerca della via perfetta, lo descrive molto bene: egli corre verso Gesù e si inginocchia davanti a lui, esprimendo in tal modo il suo desiderio di incontro con il Maestro (gli corse incontro) e il suo affidarsi a lui (si getta in ginocchio davanti a Gesù). Si tenga presente che qui tutto avviene sulla strada che porta a Gerusalemme e da lì al Golgota. È questa la via perfetta, la strada maestra che porta alla vita eterna, incomprensibile per chi ripone la fiducia in se stesso e nei propri beni: il fare la volontà del Padre. Da qui la necessità di spogliarsi di se stessi e seguire Gesù, perché è lui la Via che porta al Padre, alla vita eterna, e su questa Via è impressa l'impronta della croce.
La questione su cui gira l'intero racconto è data da una domanda: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù è definito “Maestro buono”, in cui il termine “Maestro” definisce il rapporto che intercorre tra Gesù e questo tale, che si pone in un atteggiamento di discepolo e, quindi, ben disposto ad accogliere l'insegnamento di Gesù, che qui, in modo certamente anomalo nel definire un maestro, viene chiamato “buono”. Un maestro lo si può definire saggio, illuminato, dotto, sapiente, tutti attributi che evidenziano la sua posizione di maestro e ne definiscono la qualità. Non ha molto senso che Gesù venga definito “buono” e Gesù lo rileverà subito come a lui inappropriato, poiché, da buon giudeo, Gesù sa che questo attributo va riferito e riconosciuto pubblicamente soltanto a Dio. Gesù, dunque, rimanda la ricerca di questo ricco a Dio stesso. La chiave che apre alla “vita eterna” appartiene al Padre, ma Gesù può indicare la via maestra dei comandamenti, in cui si rispecchia la volontà stessa di Dio e sono posti a sigillo dell'Alleanza, che sta alla base dell'identità stessa del popolo d'Israele.
La questione posta dal ricco è “che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. La questione fa parte del dibattito rabbinico, che va alla continua ricerca di una sofisticata via di perfezione o di un qualche comandamento tale che possa in qualche modo riassumere la foltissima schiera di tutti gli altri comandamenti della Torah, ben 613, che scandivano e tuttora scandiscono il vivere del pio ebreo. La religione ebraica è concepita come una sorta di prassi religiosa, una mera esecuzione di ordini e comandi divini. La Torah, infatti, era colta come espressione della volontà divina, che come tale andava soltanto eseguita e non discussa. A fronte della corretta esecuzione, Dio era tenuto a dare al suo fedele la ricompensa promessa. Si trattava, quindi, di una sorta di rapporto contrattuale, che il pio ebreo aveva stipulato con Dio nell'ambito dell'Alleanza. Entro queste logiche si comprende la richiesta del ricco “cosa devo fare per avere”. Siamo, dunque, ancora nell'ambito di una logica contrattualistica, quella del fare per avere, ma nel contempo lascia intuire il desiderio profondo di aprirsi ad un nuovo rapporto con Dio, capace di superare i vecchi schemi. Ed è proprio questa esigenza di un rinnovamento interiore e di crescita spirituale, che ha indirizzato questo tale verso Gesù.
Con il v. 19 Gesù indica la via maestra, aperta ad ogni pio ebreo e a tutti gli uomini di buona volontà, poiché i comandamenti altro non sono che una legge che è inscritta nella natura stessa dell'uomo e gli indica il cammino da percorre. I comandamenti che Gesù elenca riguardano il solo rapporto con gli altri, omettendo, invece, la prima parte del Decalogo riguardante il rapporto con Dio. Questa scelta di campo operata da Gesù, tuttavia, non esclude i rapporti con Dio, ma li va a completare e ne costituisce la “conditio sine qua non”. Non si può, infatti, amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede. L'amore per Dio passa attraverso quello per il prossimo.
Nell'elencazione dei comandamenti, Marco aggiunge un “Mē aposterēsēs” (non frodare), che di fatto non esiste tra i comandamenti, ma che in realtà sintetizza Es 20,17: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”. Il verbo “aposterēō” (frodare), che qui Marco usa al posto del “Non desiderare”, significa oltre che frodare, anche “privare, spogliare, portar via, defraudare, non dare quello che si deve”. Il senso che Marco qui vuole attribuire a quel “non desiderare” originario, è quello di un sottrarre in modo subdolo e ingannevole un bene che appartiene al prossimo. Il perché di questa scelta da parte di Marco, cioè di sostituire il “non desiderare” con “non frodare”, va capita per la platea di lettori a cui Marco destina il suo vangelo: la comunità di Roma, per la quale “desiderare” è un semplice moto dell'animo, mentre per la mentalità e la cultura ebraica il “desiderare” assume aspetti molto più concreti, che è il mettere in atto un comportamento tale da poter sottrarre all'altro, in modo subdolo e ingannevole, il bene “desiderato”. Un concetto che per i Romani meglio si esprimeva con “frodare”.
Il v. 20 riporta la risposta del ricco, che attesta di osservare tali cose fin dalla sua giovinezza. Il riferimento qui è probabilmente al “bar mitzvah” (figlio del comandamento), una cerimonia che viene celebrata all'età di 13 anni per il maschio. È questo il momento in cui il giovane, ormai alle soglie dell'adolescenza, fa la sua entrata ufficiale nella comunità civile e religiosa, assumendo le sue prime responsabilità, partecipando attivamente alla vita religiosa e sociale. Egli può da questo momento essere conteggiato nel “Minian”, il numero minimo di dieci persone perché la preghiera pubblica in sinagoga abbia valenza comunitaria.
La risposta di Gesù si articola in tre momenti che costituiscono una sorta di graduale cammino verso la perfezione spirituale: a) la constatazione che la semplice osservanza della Torah, per quanto perfetta, non soddisfa adeguatamente il bisogno di spiritualità di questo tale: “Una cosa sola ti manca”. Segno evidente che la Legge mosaica non era in grado di dare quella perfezione spirituale capace di creare un'adeguata comunione tra il credente e Dio. b) Il secondo momento crea la condizione per accedere a questa perfezione: liberarsi da ogni vincolo materiale, che lega chi lo possiede al terrestre, impedendogli ogni elevazione spirituale: “vendi quanto hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo”. Non si tratta di un semplice ripudio dei beni terreni, ma di una “distribuzione” degli stessi a chi ne ha bisogno e, quindi, di una sorta di condivisione, che si fa comunione di vita, trasformando in tal modo questa ricchezza materiale e deperibile in una spirituale ed eterna. c) Il terzo elemento, che costituisce la risposta di Gesù, è la sequela: “poi vieni e seguimi”. Il verbo qui usato è “akolouthei”, ed esprime una sequela che si pone a servizio di Gesù. Un verbo tecnico questo, proprio degli gli evangelisti, per definire il rapporto che intercorre tra il discepolo che ha deciso la propria vita per Gesù e Gesù stesso.
Quello della sequela, pertanto, è un percorso graduale, che nasce dal bisogno di perfezione spirituale, per dare un senso più profondo e più vero alla propria vita; da qui la necessità di liberarsi dai vincoli materiali che possono condizionare il cammino di crescita spirituale; ed infine la sequela di Gesù, quale momento culminante di questo percorso di spiritualità, che ha inizio proprio dalla spoliazione di se stessi.
Il v. 22 chiude il racconto sul ricco alla ricerca della via di perfezione con una nota di tristezza che lascia molto amaro in bocca: “rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto”, perché, commenta l'evangelista, “aveva molti beni”. Una tristezza, dunque, che è legata ai beni, perché sono proprio questi che gli impediscono di accedere a quella perfezione a cui tanto aspirava. Una tristezza che indica la frustrazione di un grande desiderio di Dio. Perché la sequela sia efficace, necessita che il proprio cuore sia completamente libero dalla materialità del vivere, poiché essa non è un percorso di potere e di affermazione personale, ma di spiritualità, che trascendendo la materialità evolve il discepolo verso Dio e lo conduce a lui attraverso il servizio agli altri.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Gen 2,18-24)
Genesi 2:18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile».
Genesi 2:19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Genesi 2:20 Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Genesi 2:21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.
La vita dell'uomo è segnata da un senso di solitudine, che mal si accorda con la sua natura di essere ad immagine di Dio. La creatura non si sente appagata dal suo Creatore. La vera comunicazione è possibile soltanto tra pari. Dio è ben consapevole di questo limite di Adamo, e subito pensa di mettergli accanto un altro essere, non solo simile al Creatore, ma simile anche alla sua creatura. Adamo doveva trovare e vedere la propria somiglianza con Dio, non solo in se stesso, nella sua dimensione interiore, ma anche fuori di se stesso, in rapporto alla creatura. L'idea della creazione della donna è quella di dare un aiuto all'uomo, un qualcosa di più, per facilitare il cammino verso il Creatore.
Ma prima di creare la donna, Dio conduce ad Adamo gli animali. Essi rappresentano un arricchimento per la vita dell'uomo, sia perché sono oggetto di conoscenza, sia perché ricercano la sua compagnia. È un istinto impresso da Dio, quello che spinge gli animali a cercare l'uomo, per stargli vicino e fargli da corona, come fosse il loro padrone o, meglio, il loro signore e il loro re.
Dio vuol vedere come Adamo chiama gli animali per gioire con lui, far festa insieme a lui per il dono che gli ha fatto. Come quando un padre vuol vedere come il figlio accoglie il suo dono.
Dare il nome significa avere signoria sull’animale. Dio costituisce l’uomo signore del regno animale, e rispetta le sue decisioni di signore. Infatti lascia immutato il nome agli animali. È un passaggio importante questo: Dio non pone l’uomo alla pari degli animali. Lo pone su un piedistallo superiore. Lo pone come loro signore. E come “dio” degli animali, l'uomo non potrà essere un “dio” arbitrario, dispotico, ma un “dio” che deve manifestare nel regno animale la volontà del suo Creatore.
Per relazionarsi agli animali bisogna chiamarli con un nome o un suono. Ecco che l'uomo diventa creatore delle parole. Gli animali che rispondono alla parola non rispondono con la parola. Obbediscono al richiamo dell'uomo in modo automatico, per un istinto creato da Dio. È un'obbedienza priva di intelligenza logica: procede per schemi prestabiliti, incapace di porsi sullo stesso piano di colui che chiama.
Come può Adamo trovare un aiuto nella sua crescita e nel suo cammino spirituale in creature che non sono pari a lui? Il Signore sta per fargli un grande dono, ma vuole farglielo desiderare. L'esperienza del chiamare con la parola crea il desiderio di comunicare con la parola. Nessun animale è simile all’uomo. Tra la natura degli animali e la natura dell’uomo vi è una differenza abissale. Vi è un vero salto ontologico. Trovare nell’animale un aiuto che sia capace di rompere la solitudine dell'essere, significa due cose: che l’uomo ha elevato l’animale ad un livello superiore, oppure che l'uomo ha degradato se stesso e guarda se stesso come un animale.
«Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò». Il modo in cui si regala qualcosa a qualcuno che si ama è commisurato all'importanza del dono. Si dona a volte in modo semplice, senza confezioni, ma per un dono particolare si cerca un modo diverso di donare. Cosa c'è di più bello e di più gioioso per un figlio trovare, al proprio risveglio, proprio quel dono tanto desiderato? Ma c'è un altro significato del sonno dell'uomo: non deve assistere all’opera di Dio, questa deve rimanere mistero per l’uomo. La donna è data da Dio all’uomo e come dono di Dio la si deve accogliere.
Nel dono si deve sempre rispettare la volontà di Colui che dona e Colui che dona ha dato la donna perché fosse per l’uomo un aiuto. Ogni uomo, che si unisce in matrimonio, deve trovare nella donna la sua stessa vita e come tale rispettarla, amarla, onorarla. Onorando la donna, si onora Dio che l’ha data.
Qui però si deve entrare in uno spirito di fede, ed è proprio la fede che manca ai nostri giorni. L’uomo si pensa da se stesso, vede la donna come un oggetto, una cosa. L’uomo si vede senza mistero. Di conseguenza vede la donna senza alcun mistero in sé. È compito del cristiano entrare nel mistero e mostrarne la bellezza.
La sposa di Adamo fu formata da una delle costole che Dio prese all’uomo quando questi si addormentò. Analogamente, la Sposa di Cristo fu tratta dal fianco del Salvatore, allorché Gesù diede la propria vita, e da cui scaturì sangue e acqua.
Questo non è un lavoro fatto per antipatia verso il protestantesimo, o per rancori verso gli evangelici, ma per difendere la vera fede, senza aspirazioni belliche. Ho passato molto tempo della mia vita nel mondo protestante, e in tarda età ho scoperto che non conoscevo affatto quella Chiesa cattolica che criticavo, ed è questa ignoranza che porta molti cattolici a lasciarsi convincere o influenzare dai protestanti.
Questi sono divisi in una miriade di denominazioni, alcune delle quali non gradiscono essere chiamate "protestanti", ma vorrebbero essere indicate solamente come "cristiane". Sappiamo anche che per i protestanti, i cattolici non sono cristiani, ma idolatri e pagani; ne consegue che gli evangelici nel loro voler essere chiamati solamente "cristiani" aspirano all'implicito riconoscimento di essere i soli "veri cristiani".
Il problema è che solo pochissimi protestanti conosco la storia della Chiesa; moltissimi accusano solo per sentito dire, ma non hanno mai aperto un libro riguardante la storia cristiana nei secoli. È sufficiente quello che dice il pastore di turno, qualche opuscolo, e internet per formare la loro "cultura" anti-cattolica.
Moltissimi protestanti e/o evangelici, piuttosto che vergognarsi per la propria ignoranza sul cristianesimo, ne vanno fieri, dicendo la classica frase "a me interessa solo la Bibbia", frase che è già tutto un programma. L'ignoranza storico-biblica delle persone è fondamentale per poterle pilotare. Un protestante serio che si mettesse a studiare la storia del cristianesimo, avrebbe buone probabilità di smettere di essere protestante.
In tutto il protestantesimo vige una fede fai da te! Lo Spirito Santo ci guida a capire bene la Bibbia, è vero, ma nel mondo protestante si usa questo pretesto per coprire una presunzione senza freni e per certi versi arrogante, che porta ogni pastore a diventare una sorta di "papa" infallibile nel dare insegnamenti alle persone.
Presunzione e arroganza non si vedono subito - nessuno mostra questi difetti tanto facilmente. Sembrano tutti timorati di Dio, osservanti della Parola e pieni d'amore per il prossimo. Peccato che il loro prossimo nella maggior parte dei casi è chi ascolta passivamente e non contrasta i loro insegnamenti biblici. Chi si permette di dissentire, allora non viene più amato, spesso non viene più salutato, e alcune volte diffamato.
Per lungo tempo, grazie a Lutero, il papa è stato considerato l'anticristo, quindi odiato e accusato, e così tutti i vescovi e i preti cattolici. In questo clima rientrano anche i singoli cattolici osservanti.
I protestanti criticano l'infallibilità papale, ma di fatto si comportano come infallibili; ognuno nella propria comunità, liberi di inventarsi quello che vogliono, tirando la giacca allo Spirito Santo, a garanzia delle loro dottrine! Il risultato? Una miriade di denominazioni con dottrine che spesso si contrastano pesantemente tra loro.
Il problema sta nella grande ignoranza mista a presunzione, che moltissimi protestanti e/o evangelici hanno. I cattolici sono meno ignoranti? No, la maggior parte dei cattolici, purtroppo, è assai ignorante in materia biblica, ma almeno essi non si mettono a fare i maestri verso chiunque gli capiti a tiro. Il cattolico medio è cosciente della propria ignoranza, il protestante medio invece è assai presuntuoso in campo biblico.
Un protestante che amasse veramente, come dice, la verità, andrebbe a verificare di persona cosa scrivevano e come vivevano i primi cristiani, nostri antenati nella fede, per capire se e come la Chiesa cattolica sbaglia, oppure dove sbagliano i protestanti a interpretare la Bibbia.
Per logica, piuttosto che fidarsi di un pastore che spiega la Bibbia a 2000 anni di distanza, sarebbe meglio fidarsi dei primi padri, che appresero direttamente dalla voce degli apostoli l'insegnamento cristiano. Purtroppo molti protestanti non fanno uso della logica, ma solo di ideologie anti-cattoliche, coltivando un'antipatia viscerale verso tutto ciò che è cattolico, perché scartano a priori le prove di come vivevano i primissimi cristiani, vissuti dopo gli apostoli ma prima di Costantino.
La fede cristiana è una, perché lo Spirito di Dio è uno! Quindi molti sbagliano strada, e abbiamo il dovere di capire chi è in quella giusta e chi in quella sbagliata. L'unità è la coesione degli elementi, delle parti che compongono un ente (per esempio, la coesione tra le parti di un'automobile come la carrozzeria, le ruote, il motore, ecc.) come già diceva Plotino; se viene meno l'unità viene meno anche quell'ente e ne possono risultare altri, ma non più quello di prima [se viene meno la coesione della carrozzeria, ruote e motore, non c’è più l'ente auto, bensì gli enti carrozzeria, ruote, motore]. Ecco, il protestantesimo somiglia tanto al mucchio di lamiere che una volta era una macchina. Si critica tanto la Chiesa cattolica, ma quanti sanno, per esempio, che Bultmann, celebre teologo ed esegeta protestante luterano, ridusse la risurrezione a un simbolo teologico? Non riteneva infatti possibile che fisicamente Gesù fosse risorto. Per confrontare le diverse interpretazioni bibliche bisogna avere il più possibile la mente sgombra da ideologie e preconcetti. Bisogna essere aperti a qualsiasi ipotesi se correttamente motivata e dimostrata. Se ci basiamo su pregiudizi ideologici che ci legano alle nostre convinzioni dottrinali, possiamo fare a meno di leggere o ascoltare qualsiasi testo o persona; tanto è inutile. Il nostro orgoglio ci impedirà di apprendere verità diverse dalla "nostra". Spesso difendiamo il nostro errore biblico con un guscio impenetrabile, ci teniamo la nostra verità, rifiutando qualsiasi altra, che sbatte sul guscio e scivola via. Appena si tocca il piano religioso/spirituale, stranamente è come se molti staccassero l'interruttore dalla propria mente, o almeno ad una parte di essa. Quando i protestanti dialogano con un cattolico, per esempio, non ricevono alcuna informazione, solo suoni che scivolano sui loro timpani, ma non arrivano al cervello. Non ascoltano.
La storia del cristianesimo per loro non conta nulla, non riveste alcuna importanza, se non nelle vicende da rinfacciare - vedi crociate, inquisizioni ecc. - senza conoscere la vera storia di questi fatti, e senza sapere che anche i protestanti hanno avuto le loro guerre, e hanno pure fatto le loro inquisizioni, assai più sanguinose di quelle cattoliche.
Dicono di essere guidati dallo Spirito Santo, ma stranamente ci sono molti gruppi che ricevono informazioni diverse e contraddittorie dal medesimo Spirito Santo, perdendo inesorabilmente di credibilità.
Mi rendo conto che la Chiesa cattolica ha trascurato il problema del proselitismo protestante. Gli evangelici hanno riscosso successo non perché hanno ragione, ma semplicemente perché trovano il popolo cattolico molto ignorante in materia biblica, incapace di difendere in maniera opportuna la propria fede, rifugiandosi dietro al classico "non ho tempo da perdere"; magari poi perdono pure la fede… il tempo però non si tocca.
Molti cattolici dicono di aver fede in Gesù Cristo, ma questa loro fede si vede solo nei momenti di bisogno: quando tutto scorre liscio Gesù viene dimenticato, e la Bibbia non interessa a nessuno leggerla. In contesti come questi gli evangelici trovano un popolo che deve veramente essere evangelizzato, da loro. Molti cattolici non oppongono resistenza a questo proselitismo perché non hanno risposte bibliche da dare, ma solo ignoranza da nascondere. In terreni simili la conquista protestante è facile, ed è come se affrontassero un esercito disarmato.
Ma chi studia la Bibbia e si impegna ad approfondire il significato della parola di Dio, si rende conto che in realtà i protestanti non sono affatto quei maestri biblici che sembrano, ma sono dei profondi ignoranti storici e biblici, plagiati dalla loro setta di appartenenza. Chiamandoli ignoranti non voglio offenderli, perché altrimenti li chiamerei "falsi e bugiardi". Chiamandoli ignoranti gli riconosco la buona fede, credono in alcune dottrine sbagliate, non accorgendosi di sbagliare.
Il punto è che lo Spirito Santo non può contraddire se stesso, e quindi certamente le interpretazioni contrastanti delle diverse denominazioni non possono essere tutte vere, né tutte ispirate. È evidente che non è possibile che lo stesso Spirito suggerisca a ciascuno dottrine diverse. In questo modo si creano dei compartimenti stagni, ogni gruppo protestante crede di essere nella verità più degli altri, isolandosi e predicando un vangelo personalizzato. Per esempio, secondo gli Avventisti tutte le altre chiese cristiane hanno abolito il comandamento del sabato, celebrando il culto alla domenica, e quindi tranne loro tutti sono destinati all'inferno se non aboliscono la domenica come giorno del Signore. Ovviamente essi motivano queste loro accuse con alcuni versetti biblici, interpretandoli a modo proprio. Ecco, è questo il punto che sfugge a tutti i protestanti, classici e moderni: la Bibbia non può essere interpretata soggettivamente, perché la Verità non è affatto soggettiva.
Ma essendo divisi in compartimenti stagni, non comunicanti gli uni con gli altri, è difficile che qualcuno di loro si accorga delle differenze dottrinali con gli altri protestanti. Se qualcuno se ne accorge, fa finta di niente, o non gli dà il giusto peso, tanto, basta credere in Gesù come nostro personale salvatore. Le loro attenzioni vengono rivolte solo verso la Chiesa cattolica, il nemico da sconfiggere! È fin troppo comodo affermare orgogliosamente che "Io capisco quello che c'è scritto nella Bibbia perché lo Spirito Santo mi guida. Dio ha nascosto la verità ai sapienti e l'ha rivelata agli umili". Ecco, ogni buon protestante usa frasi del genere per rifiutare l'autorità interpretativa dei padri e dei dottori della Chiesa.
In questo contesto si assiste a scene nelle quali qualsiasi protestante, di qualsiasi grado di cultura, schernisce gli scritti di Ireneo, Agostino, Tommaso d'Aquino, e lo fa in maniera disinvolta, perché nell'interpretare la Bibbia si sente tanto umile da essere guidato direttamente da Dio, ma allo stesso tempo è abbastanza cieco da non accorgersi che troppi "umili" protestanti professano poi dottrine assai diverse tra loro. Disprezzano il cattolico ma eleggono un "fai-da-te" che inorgoglisce e dice: "Non ho bisogno di leggere gli scritti dei padri della Chiesa, mi basta la sola Bibbia", quindi i maestri di cui parla l'apostolo Paolo non servirebbero a nulla: "È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (Ef 4,11).
Basterebbe leggere la storia delle eresie che hanno colpito il cristianesimo lungo i secoli, per rendersi conto che gli eretici basavano e basano sempre le loro tesi sulla Bibbia, spiegandola a modo loro. Difficilmente le persone andranno a spulciare intrecciate questioni dottrinali e teologiche. È più facile trovare un prete che abbia commesso qualche errore umano e sceglierlo come bersaglio, al fine di avvalorare le tesi anticattoliche e considerare la Chiesa cattolica nemica del cristianesimo e della verità, alleata con satana per sviare le anime e portarle all'inferno. Nemmeno l'arcangelo Michele ostentava una tale sicurezza nel bollare o giudicare il diavolo, eppure si trattava del diavolo (Gd 1,9):
L'arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore!
La verità è che l'accusatore per eccellenza è proprio Satana, i santi non accusano nessuno, non per rispetto, ma perché si rimettono al giudizio di Dio. Per un protestante invece è normale dire che i cattolici vanno all'inferno perché sono idolatri. Si ergono a giudici, credendo di conoscere i cuori, e fraintendono il concetto di adorazione. Qualsiasi cristiano si dovrebbe porre delle domande, a verifica di ciò in cui crede, e dovrebbe saper discernere se le proprie convinzioni in materia di fede sono solo frutto di autosuggestione, fantasie indotte, oppure se trovano conferma nella storia del cristianesimo e nella Bibbia.
Argentino Quintavalle
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1Ts 5,16-24
1Tessalonicesi 5:16 State sempre lieti,
1Tessalonicesi 5:17 pregate incessantemente,
1Tessalonicesi 5:18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
1Tessalonicesi 5:19 Non spegnete lo Spirito,
«State sempre lieti». Il tema della gioia è il clima spirituale della comunità cristiana. Il cristianesimo è gioia, letizia spirituale, gaudio del cuore, serenità della mente. «Sempre» significa in ogni circostanza. Da un punto di vista esteriore c’era ben poco per cui i credenti a quei tempi potessero rallegrarsi. Ma la gioia è un frutto dello Spirito, non è qualcosa che il cristiano possa procurarsi traendola fuori dalle proprie risorse.
Il cristiano è chiamato ad essere sempre lieto. Questa qualità del suo nuovo essere è possibile ad una sola condizione: che vi sia nel cuore una fede così forte da pensare in ogni momento che tutto ciò che avviene, avviene per un bene più grande per noi. Chi non possiede questa fede, si perde, perché la tribolazione, senza la fede, non genera speranza, ma delusione, tristezza, lacrime e ogni altra sorta di amarezza.
La letizia matura solo sull’albero della fede e chi cade dalla fede cade anche dalla letizia e precipita nella tristezza. Sapendo che il male fisico o morale permesso da Dio deve generare in noi la santificazione, il cristiano lo accoglie nella fede e lo vive nella preghiera.
Infatti l'apostolo aggiunge: «pregate incessantemente». In questa brevissima esortazione è nascosto il segreto della vita del cristiano. La preghiera deve scandire la vita della comunità e dei singoli; un’attitudine continua. Non è la preghierina fatta ogni tanto, ma è una preghiera regolare, fatta secondo un ritmo costante. Se si fa questo possiamo andare anche oltre, e cioè vivere in uno spirito di preghiera, consci della presenza di Dio con noi ovunque siamo.
È perso quel momento che è senza preghiera. È un momento affidato solo alla nostra volontà, razionalità, è un momento perso perché non fatto secondo la volontà di Dio ma secondo la nostra. È perso quell’attimo vissuto, ma non affidato a Dio nella preghiera. È perso quel momento fatto da noi stessi, ma non fatto come un dono di Dio per noi e per gli altri. Questa è la verità della nostra vita.
Poiché oggi non si prega più, o si prega solo per alcuni interessi personali, tanta parte della nostra vita viene sciupata, è persa, non è vissuta né per il nostro bene, né per il bene dei nostri fratelli. Imparare a pregare è la cosa più necessaria per un uomo. Insegnare a farlo è l’opera primaria del sacerdote, o di chi guida la comunità.
«In ogni cosa rendete grazie», è il modo di vivere in un clima gioioso e orante. Abbiamo il verbo eucharistein («rendere grazie»). In ogni situazione rendere grazie, perché anche nelle nostre difficoltà e nelle nostre prove Dio ci insegna lezioni preziose. Non è facile vedere il lato positivo di una prova, ma se Dio è sopra ogni cosa, allora è sovrano anche nella prova.
Perché di tutto si faccia un rendimento di grazie, occorre che il cuore si rivesta di umiltà. È proprio dell’umiltà riconoscere quanto il Signore ha fatto e fa per noi. Ma è proprio della preghiera innalzare al Signore l’inno per il rendimento di grazie, per la benedizione, per la glorificazione del suo nome che è potente sulla terra e nei cieli.
Chi non rende grazie è un idolatra. Pensa che tutto sia da lui, dalle sue capacità, e quindi si attribuisce ciò che è semplicemente e puramente un dono del Signore. Esempio di come si ringrazi il Signore, lo si benedica, lo si esalti e lo si magnifichi è la Vergine Maria. Il suo Magnificat è quotidianamente recitato dalla Chiesa. Bisogna che non solo venga recitato, quanto imitato, pregato, fatto propria vita.
A chiusura di questa triade di imperativi sulla vita spirituale, si dà una motivazione che abbraccia tutte e tre le esortazioni: «questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi». In questo contesto l’espressione «volontà di Dio» implica uno stile di vita corrispondente al progetto di salvezza rivelato in Gesù Cristo. La volontà di Dio viene fatta conoscere in Cristo, e in Cristo ci viene data la motivazione e la forza per cui ci è possibile fare quella volontà.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Mc 1,1-8
Marco 1:1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.
Marco 1:2 Come è scritto nel profeta Isaia:
Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,
egli ti preparerà la strada.
Marco 1:3 Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri,
Il racconto di Marco inizia in un modo insolito e apparentemente banale, dicendo al lettore che quello che sta leggendo è l'inizio del vangelo di Gesù. Un'affermazione questa che lascia perplessi, dato che tutti i libri cominciano dal loro inizio e non è il caso che si sprechi un versetto per dirlo. Ma evidentemente quel “archē” (inizio) assume per l'evangelista un significato del tutto particolare. L'inizio di cui si parla non è soltanto l'inizio di un racconto, ma un "arché", cioè un principio da cui tutto discende. Il termine greco "arché" ci riporta alle origini della creazione: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1) e fu proprio in questo principio, assoluto e unico, che risuonò la parola creatrice. Marco, quindi, vede in Gesù l'inizio di una nuova creazione.
L'inizio di cui si parla è quello di un "vangelo", cioè l'inizio di un lieto annuncio, il cui contenuto è Gesù stesso: «di Gesù Cristo, Figlio di Dio», cioè appartiene a Gesù e si origina da lui. Marco fin da subito mette in chiaro chi è l'eroe del suo racconto e, quindi, come va letta e compresa la sua figura e, di conseguenza, la sua missione. Il suo personaggio è innanzitutto chiamato Gesù, dichiarandone, in tal modo, la dimensione storico-umana: egli è un vero uomo, che si muove ed opera in mezzo agli uomini. Gesù, dunque, non è una realtà metafisica, piovuta dal cielo chissà in quale modo, ma ha profonde radici umane ed è, grazie alla sua umanità, incardinato nella storia, che condivide con il resto degli uomini. In ciò Gesù dimostra tutta la sua solidarietà con il genere umano. In tale nome, poi, è racchiuso il senso più vero e profondo della sua missione. In ebraico, infatti, il nome Gesù (Yeshua) significa "Dio salva"; il lettore, pertanto, è invitato a cogliere in questo uomo l'azione salvifica di Dio stesso.
Ed ecco, quindi, che accanto al nome Gesù compare subito l'attributo "Cristo". Il profeta Natan aveva promesso a Davide una discendenza, che avrebbe reso stabile il suo regno. Da quel momento il popolo ebreo attendeva questa "discendenza", questo "Unto del Signore", a lui consacrato. Nell'immaginario del popolo le attese erano rivolte ad una sorta di super uomo, politico, militare e religioso, che avrebbe dato lustro, splendore e stabilità ad Israele sopra tutti gli altri popoli, e che avrebbe fondato sulla terra il regno di Dio. Marco vede in Gesù il realizzarsi di questa antica profezia, che supera, però, le ristrette visioni storiche e terrene del popolo. Certo, Gesù è il vero Messia atteso, ma la sua messianicità non è così come è sempre stata pensata dagli uomini, ma è posta al servizio di Dio e si rivelerà gradualmente nel doloroso cammino verso la croce, che lascerà sbigottiti, increduli e riluttanti i suoi stessi discepoli. Marco, quindi, vede in Gesù l'Unto di Dio, l'uomo che Dio aveva promesso a Davide e che aveva pensato da sempre per il suo popolo e per l'intera umanità.
Capire, quindi, che Gesù è il Cristo atteso è il primo passo per poter accedere all'altra incredibile realtà, presente in lui: egli è anche Figlio di Dio. L'essere "figlio di Dio" era uno dei titoli attribuiti al Messia; era anche il titolo riconosciuto ai re. Ma Gesù nel corso della sua vita ha dimostrato che il suo essere "Figlio di Dio" aveva radici molto profonde, sconosciute fino ad allora, testimoniando una relazione unica, privilegiata ed esclusiva con Dio, che chiamava "Padre" in senso reale e non metaforico, denunciando, in tal modo la sua vera origine e natura.
Il vangelo di Marco, quindi, diventa un cammino alla scoperta della vera natura e del vero essere di Gesù. Si parte dalla sua umanità, definita e contenuta nel nome Gesù, per accedere alla sua messianicità, condensata nel titolo di «Cristo», per giungere alla scoperta del titolo dei titoli: «Figlio di Dio» e, quindi, Dio lui stesso.
Il racconto di Marco continua poi con un solenne e autorevole “Come è scritto nel profeta Isaia...”. Alla base di tutto, dunque, ecco la Scrittura, la Parola creatrice di Dio, che trova nell'evento Gesù la sua incarnazione e la sua piena manifestazione. Gesù, dunque, è la Parola del Padre che si fa storia e diviene azione redentrice di Dio in mezzo agli uomini.
Il profeta Isaia esortava il popolo d'Israele, prigioniero a Babilonia, ad aprirsi alla speranza e a preparare la via del ritorno in patria come una sorta di secondo esodo, attraverso il deserto, dove il resto d'Israele, quello rimasto fedele a Dio, avrebbe visto la gloria del Signore.
Ed è proprio sulla spinta del profeta Isaia che il “maestro di Giustizia”, l'enigmatica figura della comunità di Qumran, creò la sua comunità in mezzo al deserto, in attesa della venuta del Messia. Una sorta di comunità monacale animata da forti tensioni escatologiche ed apocalittiche.
Il “deserto” è una parola emblematica e molto significativa nella storia di Israele, perché è da lì che è partita la sua storia della salvezza; lì ha ricevuto la sua identità diventando proprietà di Dio; ed è sempre lì, nel deserto, che Israele viene messo alla prova e trova il suo riscatto e la sua rigenerazione spirituale. In tal guisa, è ancora da qui, dal deserto, che parte ora la storia di un nuovo Israele, a cui Marco allude, richiamandosi ai testi profetici. Ecco perché Marco vede la sua opera come un “archē”, come un inizio.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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1Cor 1,3-9
1Corinzi 1:3 grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.
1Corinzi 1:4 Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù,
Il saluto iniziale di Paolo non è semplice forma, ma un Annuncio, «grazia a voi e pace». Questo binomio è una novità assoluta, non ha precedenti, perché i greci salutavano con «charis» mentre gli ebrei salutavano con «shalom». Paolo mette insieme le due cose, unendo il saluto ebraico a quello greco.
La «grazia» è il dono gratuito della riconciliazione dell'uomo con Dio, con se stesso e con gli altri. La «pace» è quella messianica, portata da Gesù, con tutta la pienezza di vita che ci ha guadagnato attraverso la sua morte e risurrezione; è la calma profonda che riempie il cuore di chi sa e si sente riconciliato con Dio. Questi doni vengono dal Padre e dal Signore Gesù Cristo. Gesù viene considerato, unitamente al Padre, fonte di benedizioni.
Facilmente si dice che la grazia e la pace sono un dono di Dio; difficilmente invece si afferma che esse possono maturare solo nella volontà dell’uomo e nella sua perseveranza, e che sono date a noi sotto forma di granellino di senapa. Se mancano i frutti dell’uomo, il dono ricevuto diviene come un seme che cade sulla strada. Esso è mangiato dagli uccelli del cielo. Questo deve significare per tutti noi una cosa: Dio dona la sua grazia, dona il suo amore, ma è dovere di ogni uomo non solo accogliere questo dono gratuito della misericordia del Padre, quanto di farlo sviluppare nel suo cuore e nella sua vita.
Paolo dice: «rendo del continuo grazie». La comunità di Corinto ha tanti problemi, tanti peccati, tante difficoltà, ma ecco che l'apostolo non va a guardare subito queste cose, guarda per prima cosa il bene che questa comunità ha. È fatta di persone che hanno accettato che Dio è Padre. E Paolo ringrazia: in greco c'è la parola «eucharistō», fare eucarestia, ringraziare. L'atteggiamento fondamentale del credente è sempre un atteggiamento di rendimento di grazie. I numerosi difetti esistenti nella chiesa non nascondono all’occhio dell’apostolo quello che vi è di buono.
Di solito, questo non è il modo normale con il quale noi consideriamo le cose. Invece di star lì sempre nelle proprie angustie e nei patemi del misurarsi con l'altro continuamente, vedere cos'ha, cosa non ha e nell'invidiare quelle due che ha e nel criticarlo per le cinque che non ha, ma dico, perché stiamo al mondo? Per invidiare e criticare? L'atteggiamento costante della vita che c’insegna Paolo è l'eucarestia, cioè il rendere grazie e godere del dono di Dio.
Paolo non ha una concezione della vita ottimistica, ove tutto finisce bene - adesso piove ma dopo verrà sereno... No, Paolo concepisce la vita come un dono. Allora dice grazie! In genere noi abbiamo il carisma della lagna, vediamo sempre quello che manca.
Paolo non solo ringrazia Dio per quanto ha fatto per lui, ma ringrazia Dio continuamente anche per tutti coloro che sono stati arricchiti dalla sua grazia e dalla sua verità. Cristo e la Chiesa sono un corpo unico, non due corpi, non molti corpi. Lutero ha separato Cristo dalla sua Chiesa, Cristo dal suo corpo. Ma se avesse ragione non siamo più in Cristo. Non è veramente in Cristo chi non è veramente nella sua Chiesa; non è veramente nella sua Chiesa, chi non è veramente in Cristo Gesù e si è in Cristo Gesù se si è nella pienezza della sua grazia e della sua verità.
La ragione per cui Paolo ringrazia continuamente Dio si trova in questa unità perfetta tra Cristo e la sua Chiesa. Paolo è corpo di Cristo, e in quanto corpo di Cristo ringrazia Dio. Ringraziando Dio come corpo di Cristo, lo ringrazia per se stesso e per gli altri, ma lo ringrazia dal corpo di Cristo e nel corpo di Cristo, lo ringrazia cioè da santo.
Se noi riuscissimo a capire questa verità che Paolo trasforma in preghiera, faremmo fare alle nostre comunità un salto di qualità veramente notevole nella santità. Cesserebbero gelosie, invidie, dissensi, discrepanze ed ogni altro genere di divisione. Tutti sapremmo che c’è un solo Cristo, un solo corpo di Cristo, una sola Chiesa, e tutti noi siamo quest’unico Cristo, quest’unico corpo, quest’unica Chiesa… E i poteri forti di questo mondo tremerebbero.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Mt 25,31-46
Matteo 25:31 Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria.
Matteo 25:32 E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri,
Matteo 25:33 e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra.
Il brano si apre con l'espressione hotan de elthē, "quando poi verrà", che proietta il lettore nel tempo ultimo, è il quando finale. È un tempo che non appartiene più agli uomini, ma a Dio, poiché riempito della sua onnipotenza e della sua gloria, ed è il contenitore entro il quale gli uomini saranno riuniti per subire il giudizio divino. Il vero problema non è il tempo, ma il significato della venuta del Figlio dell'uomo e la conseguente necessità di essere preparati, perché la sua venuta nella gloria significherà giudizio.
Qui il titolo Figlio dell'uomo perde il suo significato messianico, che lo definiva nella dimensione terrena come l'atteso Messia, per assumere il significato di uomo glorificato o, per meglio dire, di un Dio che si è ripresa la sua primordiale condizione di vita divina, assorbendo in essa anche la sua umanità. Gesù Cristo è ritornato alla gloria divina da cui era venuto; un ritorno che lo vede, tuttavia, rivestito ancora della sua inseparabile umanità, glorificata, ora, dalla potenza del Padre. Ed è proprio in questa ultima e definitiva condizione che Matteo presenta Gesù, il Figlio dell'uomo/Re seduto sul "trono della sua gloria", immagine questa che nel linguaggio veterotestamentario alludeva alla presenza di Dio nel Tempio di Gerusalemme, ma in Matteo, nel giorno del giudizio, tale privilegio è accordato al Figlio dell'uomo. È, dunque, quella che l'evangelista ci presenta, una visione escatologica ed apocalittica insieme, perché rivelativa della vera natura dell'uomo-Dio Gesù, il cui sedersi sul trono della sua gloria indica la definitiva acquisizione della sua onnipotenza divina, conseguita e riconquistata dopo la glorificazione per mezzo della risurrezione e ascesa al cielo.
La presenza degli angeli accompagna il suo irrompere improvviso, glorificato della stessa vita divina che gli è propria, e sottolinea la sua regalità e la sua onnipotenza. L'immagine che ci viene presentata è quella di una fastosa corte imperiale dove il Re siede onnipotente in mezzo ai suoi servi pronti per servirlo. Il Figlio dell'uomo siede sul trono della sua gloria mentre gli angeli rimangono in piedi. Questo evento prepara la grande scena del giudizio che segue, in cui Gesù funge da giudice, un ruolo che nell'Antico Testamento era ristretto a Yahweh.
Abbiamo, quindi, nel nostro testo, un intreccio tra Dio e il Figlio dell'uomo, i quali condividono la stessa autorità e potere sovrano. Inoltre, il fatto che il Figlio dell'uomo sia accompagnato dagli angeli nella sua venuta, si adatta perfettamente all'immagine del giudizio divino, poiché nella parabola del grano e della zizzania, gli angeli sono i "mietitori". Ammiriamo l'alta cristologia del Vangelo di Matteo: il Figlio dell'uomo viene con la stessa gloria e autorità del Padre.
Per ricapitolare, Gesù si insedia sul trono della sua maestà, che è il trono del giudizio, ed insieme a lui c'è tutta la corte celeste degli angeli. È finito ormai e concluso il tempo della storia e il Dio Salvatore si porrà nei confronti dell'uomo come il Dio che viene a giudicare i vivi e i morti. Nessuno potrà più sottrarsi al confronto con Lui, e coloro che non hanno voluto ascoltare la parola di salvezza saranno costretti ad ascoltare la parola di condanna.
È una raffigurazione grandiosa, al centro della quale c'è Gesù, il Signore. Dinanzi a Lui si presenterà ogni uomo: piccolo o grande, famoso o sconosciuto, libero o schiavo, nato prima della sua gloriosa risurrezione o dopo, credente o pagano, religioso o ateo, osservante della Legge o suo trasgressore, santo o peccatore, giusto o ingiusto, dotto o ignorante. Dinanzi a Gesù si presenterà ogni fondatore di religione, ogni teologo, ogni maestro e inventore di dottrine, ogni uomo di scienza e di tecnica, ogni filosofo e pensatore. Dinanzi a Gesù comparirà l'umanità intera.
Nel giudizio ci sarà una divisione all'interno dell'umanità. "Tutte le genti" vengono radunate davanti a Gesù presentato nei suoi attributi di re e pastore. Il giudizio implica una separazione tra i giusti e i malvagi di tutte le genti. Il pastore separa le persone le une dalle altre, categorizzandole come pecore e capri, dividendo tutta l'umanità in due categorie sulla base delle loro opere.
L'intera umanità è, dunque, sospinta da Dio davanti al trono di suo Figlio, "davanti a lui". Egli è qui colto come il punto di convergenza di tutta la storia umana, quello che lo scienziato e gesuita Teilhard de Chardin ha chiamato punto Omega, un termine da lui coniato per descrivere il massimo livello di complessità e di coscienza al quale sembra che l'universo tenda nella sua evoluzione. Appare dunque chiaro il disegno del Padre: "ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,10).
Da Adamo fino all'ultimo uomo nato sulla terra, saranno tutti riuniti davanti a Lui. Tutti vivevano nello stesso campo, come il buon grano e la zizzania, ora invece c'è la separazione. Non c'è più alcuna possibilità di potersi confondere, nascondere, mimetizzare. Non ci sono più finzioni, né ipocrisie, né ambiguità. C'è separazione eterna. Questo è il giudizio: "egli separerà gli uni dagli altri".
Il Figlio dell'uomo non è un pastore che va alla ricerca della pecora perduta, non è un'azione salvifica; ma è l'azione di chi divide il suo gregge, poiché il tempo della misericordia si è compiuto, così come la porta delle dieci vergini fu definitivamente chiusa. Anche lì vi fu una separazione operata dallo sposo. Questa separazione comporta il mettere le pecore in una condizione di privilegio (alla destra), rispetto ai capri, posti alla sinistra, cioè in una posizione opposta. Le pecore sono figura di coloro che sono obbedienti alla parola del pastore; nei capri invece è raffigurato lo spirito di disobbedienza. Infatti, non parla di capre ma di capri, animali che cozzano con le corna.
In questa scena di giudizio non ci sono le bilance per pesare le azioni di coloro che sono giudicati, per scoprire chi è giusto e chi no. Piuttosto, il Giudice agisce in base alla sua stessa onniscienza. Egli mette le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra. La destra è sempre il posto d'onore nelle culture semitiche, ma lo vediamo anche nella letteratura ellenistica, nella Repubblica di Platone i giudici nell'aldilà mandano i giusti "a destra e in alto nel cielo" mentre gli ingiusti sono mandati "in basso a sinistra". In tutta la Bibbia, comunque, la destra è sempre il posto d'onore, anche se non sempre "la sinistra" indica una posizione sfavorevole.
Si noti come il pastore si limita a separare le pecore dai capri, ma non stabilisce lui chi è pecora e chi è capro. Sono proprio gli stessi animali, ad essere definiti pecora e capro dalla loro stessa natura. Ognuno sa chi è pecora e chi è capro. Essi si presentano al pastore che sono già pecore e già capri. Al pastore non resta che separarli. È significativo questo particolare, poiché suggerisce come il giudizio divino non stabilisce chi è buono e chi cattivo, ma si limita a definire la destinazione di ciascuno in base al suo presentarsi come pecora o come capro. In altri termini, è il proprio orientamento esistenziale sviluppato nel corso della vita, che ci fa essere per Dio o contro Dio, e reso definitivo e assoluto nel momento in cui l'uomo, attraverso la morte, passa nella dimensione dove non c'è più tempo, dove non c'è più divenire, ma soltanto essere. È chiaro che non tutti quelli che sembrano far parte del regno sono veri cittadini del regno; quando Gesù tornerà separerà gli uni dagli altri, e con ciò non farà altro che suggellare per sempre quella divisione che già era in essere nel tempo della nostra vita.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Mt 25,14-30
Matteo 25:14 Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni.
Matteo 25:15 A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì.
Il tema di fondo della parabola è subito introdotto: l'assenza del padrone e la responsabilità dei servi, mentre l'insegnamento è che ognuno dovrà rendere conto a Dio in misura di quanto ha ricevuto. Tutti ricevono i doni, ma non tutti ricevono gli stessi doni, "a ciascuno secondo la sua capacità". Il padrone conosce i suoi servi, e per questo dà ad ognuno secondo la loro capacità di gestire le responsabilità. Se i doni sono diversi, diversi sono anche i frutti, diversa è la vita. Non a tutti si devono chiedere gli stessi frutti, ma ad ognuno è dato il tempo sufficiente per mettere a frutto i doni di Dio. Il padrone sta "partendo per un viaggio" e chiamò i suoi servi per dare loro «tà hyparchonta autou», "ciò che apparteneva a lui".
Il viaggio è il tempo concesso ai servi per far fruttare i beni ricevuti; l'uomo che parte per un lungo viaggio è metafora del Gesù morto-risorto e tornato al Padre. Il suo ritorno è la parousia, i servi sono i suoi discepoli. Egli prima di andarsene consegnò ai suoi servi i suoi averi.
È interessante notare come il verbo greco usato è «parédōken», tradotto con "consegnare" o "dare". Non si tratta di un semplice affidamento dei beni, ma di una consegna che presuppone un potere reale su questi beni e, quindi, una capacità legale di gestione degli stessi. In altre parole, i servi vengono resi capaci di operare in nome e per conto del loro padrone. Questo pieno potere è il presupposto per cui essi possono gestire liberamente tali beni come meglio credono e, pertanto, sono anche resi pienamente responsabili della gestione. Tutto ciò è la premessa su cui poi si baseranno e si giustificheranno le pretese prima, e il giudizio poi, del padrone.
Il v. 15 annuncia implicitamente qualcosa di come sarà la comunità cristiana. Non tutti sono uguali e non a tutti viene affidata la stessa quantità di beni. Questa diversa distribuzione di talenti ai vari servi, sta a quantificare il diverso grado di responsabilità ricoperto da ciascuno all'interno della comunità cristiana stessa. Ognuno è chiamato a gestire i beni che Dio gli ha assegnato, e Dio assegna in base alle capacità di ognuno. Ecco dunque che chi era capace di ricevere cinque, ne riceve cinque e così gli altri due. A questo punto non facciamoci problemi che non ci sono, dicendo che ha lasciato a uno cinque, all'altro due, all'altro uno, ma non poteva dare a tutti cinque? Questo non è possibile; per ricevere un dono bisogna essere capaci di gestirlo; il padrone è molto saggio, non dà ai suoi servi una responsabilità più grande di quella che possono gestire.
Quale è il significato dei talenti ricevuti? In Mt 10,7-8 Gesù, nel dare il mandato ai suoi discepoli, li esortava:
«E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».
L'annuncio del Regno, accompagnato dalle guarigioni, faceva toccare con mano la forza rigeneratrice della parola di Gesù, che stava generando una nuova umanità. Un dono che gli apostoli avevano ricevuto gratuitamente da Dio, e che essi avevano l'obbligo morale - che poi diventerà anche istituzionale - di trasmettere agli altri. Così è anche in Mt 13,11-12 dove Gesù, rispondendo ai discepoli che gli chiedevano perché parlasse in parabole, diceva:
«Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».
In questo contesto di rivelazione-dono e di annuncio-missione non è difficile individuare come i beni di questo ricco padrone sono i beni dello Spirito e del Regno, che egli lasciava in gestione ai propri discepoli; ciascuno responsabile in base al ruolo ricoperto, ma tutti egualmente responsabili di fronte all'unico e comune Signore, al quale tutti sono chiamati a rendere conto, perché tutti hanno comunque ricevuto la loro parte da far fruttare.
Quindi non si tratta di doti o di qualità naturali, ma del dono gratuito del regno, cioè il dono inestimabile della grazia di Cristo che deve essere annunciato a tutto il mondo e fatto fruttare abbondantemente. È molto limitativo vedere in questi talenti i doni naturali. Di naturale vi è solo il modo in cui ci approcciamo ad essi e come li usiamo, secondo la nostra intelligenza, cultura, carattere, tempo in cui viviamo. L'interesse della parabola non è concentrato sulla quantità dei talenti che ci sono stati dati: che ci appaiano pochi o molti, non ha importanza. Non è questo ciò che ha rilevanza davanti a Dio, quanto piuttosto il modo in cui noi ce ne sentiamo responsabili. Il confronto non è tra chi usa bene i suoi talenti naturali e chi non li usa per niente, ma tra coloro che usano bene il dono di grazia e fra coloro che pur essendo stati beneficiari del dono, non comprendono il suo valore né la novità di vita che porta con sé.
Per entrare ancora più nel particolare, possiamo anche dire che i talenti rappresentano il dovere di portare altre persone a Cristo, di fare altri discepoli. Ciò implica il compimento della promessa fatta ad Abramo, che "in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra". Gesù ha lasciato ai suoi discepoli l'incarico di portare a compimento questa promessa. Non per niente la partenza del padrone "per un viaggio" è simbolica dell'ascensione di Gesù al Padre - in tal guisa lasciando i discepoli (i suoi servi) a completare la missione per suo conto. Matteo sembra qui anticipare, in qualche modo, la parte finale del suo Vangelo, là dove il Gesù glorioso, rivolto ai suoi discepoli, assegna loro il Mandato, composto da tre elementi fondamentali: ammaestrare, battezzare e insegnare ciò che egli ha insegnato (Mt 28,18-20).
Per riassumere, questa parabola riprende una domanda implicita lasciata in sospeso da quella delle dieci vergini: cosa vuol dire "essere pronti"? Non si tratta di stare semplicemente e passivamente in attesa, ma di un operare responsabile, accompagnato da risultati che il Signore alla sua venuta possa vedere e approvare. Infatti, in questa parabola, il periodo dell'attesa non è inteso come un ritardo inspiegabile, ma come un periodo di tempo in cui fare buon uso dei talenti ricevuti. L'essere pronti perciò consiste nel portare fedelmente a termine le proprie responsabilità come discepoli, grandi o piccole che siano. È il Signore che assegna la scala delle responsabilità; il dovere del servo è solo quello di far fruttare quello che gli è stato affidato.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Mt 25,1-13
Matteo 25:1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo.
Matteo 25:2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge;
Matteo 25:3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio;
Matteo 25:4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi.
Matteo 25:5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono.
Matteo 25:6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!
Matteo 25:7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.
Matteo 25:8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono.
Matteo 25:9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.
Matteo 25:10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Matteo 25:11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici!
Matteo 25:12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.
Matteo 25:13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.
Gesù si serve di una usanza matrimoniale dei suoi tempi come allegoria per insegnare che i suoi veri discepoli saranno sia attenti che preparati al suo ritorno. Ma qui, la stranezza, è che la sposa non c'è, e il rapporto così diretto tra le fanciulle e lo sposo lascia intendere come in realtà siano proprio esse a rappresentare la sposa. Si dice, infatti, che le fanciulle uscirono incontro allo sposo, e questo non trova riscontro nelle usanze del tempo, perché era la sposa che accompagnata dalle sue amiche veniva portata in corteo alla casa dello sposo.
Il regno dei cieli è paragonato alla storia di ciò che accade alle dieci vergini: alla venuta improvvisa del Figlio dell'uomo; alcune sono pronte e altre no. Il simbolismo contenuto nella parabola è abbastanza evidente: il tema è il "regno dei cieli", ovvero la parousia del Signore. Lo sposo quindi rappresenta Gesù che viene a prendere la sua sposa, la chiesa, l'insieme dei redenti, e la porta nella sua casa dove si svolge la cerimonia del matrimonio e il banchetto. Le fanciulle sagge sono quelle che perseverano e rimangono fedeli a Cristo; le stolte sono coloro che non perseverano.
Le fanciulle sono qualificate da un numero, il dieci, che nel linguaggio biblico indica la compiutezza, la pienezza. Basti pensare ai dieci comandamenti, le dieci piaghe d'Egitto, la decima, ecc. Questo gruppo, quindi, è il gruppo perfetto, è l'universalità dei cristiani; esso è composto da fanciulle, che Matteo definisce "vergini", cioè persone che sono riservate e consacrate in via esclusiva allo sposo. Ciò che le ha rese tali è l'aver preso la lampada, che nella metafora biblica allude a Dio e alla sua Parola. Si tratta, quindi, di una scelta esistenziale che queste hanno compiuto, uscendo incontro allo sposo, cioè orientando la loro vita verso Cristo, a cui l'hanno consacrata nella loro scelta di fede. Questa, ora, illumina i loro passi verso lo sposo, la cui venuta è sentita come imminente.
Il regno dei cieli è dunque visto nella sua prospettiva finale che è l'incontro con lo sposo. Ma già tutta l'esistenza terrena è una uscita incontro allo sposo. C'è una prima uscita dalla madre per venire alla luce della vita; c'è una seconda uscita che dura tutta la vita: l'uscita da sé, dal vecchio uomo, per andare incontro al Signore.
Ma è proprio in questo andare verso il Signore che divergono i comportamenti: c'è chi si mostra saggio e chi stolto. La fine della storia è palesata fin dall'inizio, perché è chiaro che le fanciulle stolte non riusciranno a portare a termine il loro dovere e ne pagheranno le conseguenze. In questo modo Gesù mette subito in primo piano qual è l'esortazione principale della parabola: essere preparati e pronti per la sua venuta.
L'elemento discriminante e che genera i due contrapposti comportamenti è l'olio: le vergini sagge hanno preso dell'olio extra per le loro lampade, mentre le altre trascurarono di prenderlo. Le sagge hanno considerato l'eventualità di un ritardo dello sposo - decise di non farsi cogliere impreparate. Le stolte, invece, non hanno avuto la lungimiranza di prepararsi in caso di ritardo dello sposo.
L'olio, utilizzato in molti modi nell'antichità, assume significati diversi a seconda dei casi. Era ampiamente e variamente usato in tante situazioni, e certamente uno dei suoi usi più comuni era per alimentare le lampade, che, nel simbolismo biblico, è l'immagine di Dio quale contenuto vivo della fede. Bisogna comunque stare attenti a non cadere nella tentazione di allegorizzare troppo tutti i particolari. Il fulcro della parabola è la semplice questione della preparazione o non preparazione, e la tragicità di quest'ultima.
Le vergini stolte, aspettando lo sposo hanno calcolato i tempi e pensato che l'olio fosse in quantità sufficiente. Invece la parabola è centrata sul non sapere quando arriva lo sposo, sull'incertezza. Le sagge, prevedendo i tempi di attesa, prendono più olio, proprio perché non sanno: allora è bene che le lampade non si spengano, si mantengano accese. Se proprio si vuole dare un significato simbolico all'olio – ma non è necessario per la comprensione della parabola - in questo contesto esso va colto come la metafora dell'alimento spirituale, che serve a tenere sempre viva la fiamma della fede, perché essa non si affievolisca e non venga meno, e così non ci faccia essere impreparati alla Venuta del Signore. Sappiamo poi che l'elemento fondante della fede e tale da generarla, è la parola di Dio.
La discriminante, dunque, tra la stoltezza e la saggezza nel vivere cristiano è la parola di Dio che genera la fede, perché senza fede non si può avere la forza e la pazienza di aspettare e perseverare. La parola di Dio fa la differenza tra la saggezza e la stoltezza, essa è l'unica che può alimentare la fede ed aver per frutto le opere, e insieme fanno ardere e brillare la lampada, cioè mette nella condizione di essere sempre pronti per la parousia. Pertanto, il punto della metafora è quello di prepararsi a sufficienza per il compito da svolgere, senza focalizzarsi troppo sul simbolismo dell'olio, quanto piuttosto sul messaggio generale che è quello della diligente perseveranza nell'attesa dell’avvento di Gesù.
Le fanciulle stolte non hanno calcolato il costo del servizio cristiano, e in tal modo erano mal preparate per ciò che sarebbe stato richiesto loro. In altre parole, le stolte, prendendo le lampade senza portare con sé l'olio, si sono proposte di portare a termine un compito senza considerare ciò che era necessario per la sua realizzazione.
Ecco dunque chi è il saggio e chi è lo stolto. È questo anche il motivo per cui la parabola è narrata per i credenti. Queste vergini sono stolte perché alla fine hanno scoperto di aver creduto in maniera vana. Si crede in maniera vana quando non si vive secondo il vangelo di nostro Signore Gesù Cristo. La parola del vangelo trasformata in nostra vita è quell'olio di grazia e di verità che fa brillare la nostra lampada. Queste vergini hanno vissuto con una fede inutile, come inutile è la lampada senza l'olio. La fede inutile è una fede morta, non conduce al Cielo.
Così, prendiamo atto che nel corpo di Cristo ci sono quelli che hanno una fede vera e una vita che corrisponde alla loro fede, e quelli che hanno solo l'apparenza della fede, senza la potenza di quella fede genuina che produce la perseveranza fino alla fine. La sposa di Cristo custodisce sempre nel proprio cuore la fede e la speranza in Colui che deve venire. Non importa a quale ora.
Questa vita è immersa nel sonno della morte, ma solo per coloro che andranno incontro a Cristo in maniera inadeguata, cioè senza la fede che rende graditi e accetti. I pentimenti tardivi, per paura dell'inferno e non per vero amore, non sono accolti. Non gioverà bussare alle porte del cielo, quando le sue porte sono ormai serrate per sempre. Per questo dobbiamo portare la lampada, che è la nostra fede alimentata dalla parola divina: per non perderci nelle tenebre di questo mondo.
Potremmo anche spingerci a dire che lo stolto è l'uomo che, fiducioso nella luce che gli è stata data, si chiude nella presunzione della propria giustizia e finisce per addormentarsi senza rendersene conto, perché la luce della fede non si spegne improvvisamente, ma poco a poco. Queste parole non sono dette a tutti, ma ai discepoli, perché da sapienti non diventino stolti. Non possiamo vivere per Cristo e nel contempo trascurare la fede, fiduciosi nel fatto che la fede non è ancora spenta del tutto, e rimandando la pienezza e la serietà di vita al domani. Che non ci accada di svegliarci dall'errore quando è troppo tardi!
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Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Mt 23,1-12
Matteo 23:1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
Matteo 23:2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.
Matteo 23:3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.
Matteo 23:4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.
Il v. 1 ci presenta i destinatari del discorso di Gesù: la folla e i discepoli. Ma nel contesto del capitolo, la folla rimane sullo sfondo, e i veri destinatari sono i discepoli, ai quali si parlerà in esclusiva nei vv. 8-12 («ma voi non vi fate chiamar…»). La presenza della folla è importante in quanto è testimone di una denuncia terribile contro scribi e farisei, che occuperà tutto il cap. 23.
È da tener presente il luogo dove Gesù fa questo discorso: è l’area del tempio di Gerusalemme, il cuore dell’istituzione religiosa, il luogo più sacro, e da qui Gesù scaglia, contro scribi e farisei, le parole più dure di tutto il Vangelo. Gesù davanti alla folla e davanti ai discepoli intende squalificare quelli che si presentavano come modelli di santità, li biasima per il contrasto stridente tra il loro insegnamento e la loro condotta. In questa pagina Matteo non cerca di dire quanto erano malvagi gli scribi e i farisei, ma è preoccupato che nella comunità cristiana non si riproducano gli stessi atteggiamenti degli scribi e dei farisei.
Il v. 2 presenta gli scribi e i farisei come gli eredi dell'insegnamento mosaico: "Gli scribi e i Farisei siedono sulla cattedra di Mosè". Cos’è questa cattedra di Mosè? In alcune sinagoghe si sono trovati dei seggi in pietra isolati dai restanti posti a sedere, e si pensa che siano la cattedra di Mosè, il luogo da dove il rabbino impartiva il suo insegnamento, che in tal modo veniva inteso come una continuazione di quello mosaico, dando prestigio e autorevolezza a chi presiedeva. Ma la cattedra di Mosè può anche essere una semplice espressione metaforica per intendere l’autorevolezza dell’insegnamento, o meglio ancora indicare coloro sui quali ricadeva ufficialmente la responsabilità d’interpretare e far osservare le leggi di Mosè.
Se si riferisce, come è probabile che sia, alla responsabilità di interpretare e far osservare le leggi, l’espressione "cattedra di Mosè" indicherebbe il Sinedrio. Contrariamente all'opinione comune, la "cattedra di Mosè" non è propriamente la sedia occupata dall'insegnante nella sinagoga, come per esempio quella scoperta dagli archeologi nei resti della sinagoga di Chorazin. Piuttosto, l'idioma deriva dalla storia di Esodo 18, che descrive come "Mosè sedette a render giustizia al popolo" risolvendo le loro dispute e prendendo decisioni legali (Es 18,13).
La cattedra di Mosè non può riferirsi a qualunque scriba o fariseo della sinagoga locale, perché nessun maestro poteva aspettarsi che i suoi discepoli si attenessero a ogni decisione e regola avanzata da qualunque sinagoga locale. Solo il Sinedrio aveva l'autorità legale di prendere decisioni vincolanti per tutti gli ebrei. Inoltre, uno scritto giudeo-cristiano apocrifo si riferisce al Sinedrio come alla "cattedra di Mosè" (Epistola di Pietro a Giacomo 1: "Mosè consegnò [la tradizione] ai settanta [anziani] che sono succeduti sulla sua cattedra").
Quando Gesù disse: "Gli scribi e i Farisei siedono sulla cattedra di Mosè", intendeva che essi avevano posto nell’alta corte del Sinedrio e quindi esercitavano l'autorità di legiferare.
Se non fosse così, dovremmo porci un’altra domanda: l'osservazione che fa qui Matteo, la dobbiamo intendere come una constatazione o come un atto di accusa? “Siedono” perché ne hanno diritto o “siedono” in maniera arbitraria? Chi è il vero interprete della Legge, gli scribi e i farisei oppure Gesù? Il giudaismo rabbinico o il cristianesimo? Dopo la distruzione del Tempio e la fine del culto ebraico, quindi dello stesso giudaismo veterotestamentario, ormai allo sbando, chi è il vero interprete della Legge? Chi può dirsi a pieno titolo suo erede? Non v'è dubbio che per Matteo è Gesù, il quale reinterpreta autorevolmente la Legge, secondo lo schema: "Voi avete udito che … Ma io vi dico che…" (Mt 5,21-48). È lui, dunque, il nuovo e autentico interprete; lui il vero erede della cattedra di Mosè.
La polemica, quindi, è infuocata, perché si tratta di cambiare il corso della storia, piazzando il cristianesimo come nuova evoluzione del giudaismo. Ma dopo la distruzione del Tempio, il giudaismo che rifiutò il Messia si riformulò sotto un'altra forma, quella del rabbinismo. Il cap. 23 di Matteo è dunque profetico, e servirà a screditare questo nuovo giudaismo, denunciando tutte le sue contraddizioni interne e destituendolo di ogni autorità morale.
Il v. 3 va letto alla luce dell’intero capitolo, che tenderà a dimostrare che il fariseismo (che poi diventerà giudaismo rabbinico), non ha alcuna autorità morale, perché il suo insegnamento è inficiato da un operare contrario alla Legge stessa.
Ma, rivolto ai suoi discepoli e alla folla, Gesù li invita a osservare quello che scribi e farisei dicono, ma a non fare secondo le loro opere. Sembra esserci una contraddizione. Come si fa a fidarsi delle parole di un altro sapendo che costui è un ipocrita? Come mi posso fidare delle parole di un falso? Come ci si può fidare di persone delle quali Gesù disse: trasgredite il comandamento di Dio a motivo della vostra tradizione (Mt 15,3)? Inoltre, nel v. 4 di questo capitolo, Gesù attacca i regolamenti legali di scribi e farisei (“legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente…”).
Non ci si può fidare delle parole di un altro sapendo che è un falso. Nel vangelo di Matteo che cosa ha fatto finora Gesù quando si è incontrato con scribi e farisei? Ha condannato in maniera molto chiara il loro insegnamento, come gente da non ascoltare, chiamandoli guide cieche, persone delle quali non bisogna fidarsi mai, perché chi segue un cieco fa una brutta fine. E ora nel cap. 23 Gesù non poteva arrivare a dire il contrario: "va bene, vi ho detto così, però quello che loro dicono, fatelo e osservatelo"!
Cerchiamo allora di capire alla luce di tutto il contesto. Matteo ha parlato della cattedra di Mosè. Mosè ha portato la Parola di Dio, non la sua, scendendo dal Sinai con le tavole della Legge, che dovevano guidare la vita degli Israeliti. In Es 24,7 ritroviamo quasi uguale la frase riportata da Matteo. Lì Mosè presenta le tavole della Legge e il popolo dice: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!».
Matteo ci dice che scribi e farisei (le istituzioni), hanno tradito la fedeltà a Dio, perché loro dicono ma non fanno, hanno tradito l’impegno di Es 24,7 dove il popolo si era dichiarato pronto a fare tutto quello che Dio aveva detto. Non possono essere rappresentanti autorevoli per l’insegnamento. Gesù non intende assolutamente invitare i suoi discepoli e la folla a seguire le direttive dei farisei, ma prepara il terreno per smascherare la loro falsità.
Infatti, Gesù ha previsto un momento in cui i suoi stessi discepoli occuperanno la cattedra di Mosè, prendendo decisioni di legare (proibire) e sciogliere (permettere).
Pertanto, “fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno”, sta a significare che siccome gli scribi e i farisei sedevano sulla cattedra di Mosè, che a quei tempi indicava il Sinedrio, andava rispettata la loro autorità legislativa, anche per non subirne le sanzioni penali. Il riconoscimento del loro potere civile-legale non costituiva un pericolo per la fede cristiana. Invece andava respinta la loro ipocrisia, perché le opere erano in contrasto stridente con il loro insegnamento. Tale incoerenza di vita risultava biasimevole e scandalosa.
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Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses
don Giuseppe Nespeca
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