Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

(1Cor 10,1-6.10-12)

3a Domenica di Quaresima (anno C)

 

1Corinzi 10:1 Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare,

1Corinzi 10:2 tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare,

 

Paolo, in questo brano, ci rimanda alla storia del passato, alla lezione della storia. Ci richiama al significato profondo della storia che è storia di salvezza. Si dice che la storia è maestra di vita, però gli alunni non imparano niente. Paolo invece dice che dalla storia d’Israele si deve imparare. La storia d’Israele non è una storia qualsiasi, ma è un modo con cui storicamente si è manifestata la rivelazione divina. La rivelazione, infatti, non si è manifestata attraverso la spiegazione di concetti, ma attraverso determinati fatti storici che poi vengono anche letti e interpretati. La storia d’Israele è una storia esemplare, per cui è giusto e doveroso, se si vuol capire Gesù Cristo, vedere tutta la storia sacra che lo prepara. Tra l’altro, questo ci abitua a leggere anche la nostra piccola storia personale, che è anch’essa storia di salvezza perché il Signore cammina con noi.

«Non voglio infatti che ignoriate»: I Corinzi dovevano conoscere i fatti qui narrati, ma l'apostolo vuol far loro conoscere il significato tipologico che questi fatti hanno, e che non deve essere ignorato. Gesù Cristo è il risultato finale di un lungo cammino, e dobbiamo conoscere il cammino che l’ha preceduto. Paolo è molto rispettoso della storia d’Israele e sente di doverla raccontare. Ci rimanda a questi esempi del passato che sono vicende straordinarie, ma sono anche vicende di peccato, e comunque sempre istruttive perché mostrano qual è il modo di fare di Dio.

«I nostri padri». I cristiani possono considerare gli antichi Israeliti come loro padri, perché la Chiesa è succeduta alla sinagoga, ed essi sono i veri eredi e figli di Abramo.

«Furono tutti»: Per tre volte Paolo ripete questa espressione. Come dire che la salvezza era stata data a tutti. Tutti infatti furono guidati dalla nuvola, cioè dalla presenza di Dio, e tutti attraversarono il mare. Tutti conquistarono la libertà dalla schiavitù e tutti furono guidati da Dio nel cammino verso la terra promessa. Quindi, da parte di Dio nessuna esclusione, nessuna preferenza verso gli uni a discapito degli altri. Egli ha tratto dall’Egitto tutto il suo popolo, per tutti ha diviso il mare, per tutti ha voluto che vi fosse la nuvola. Tutti erano nella condizione di grazia e di verità che avrebbe consentito loro di poter conquistare la terra promessa e possederla per sempre.

Questa universalità di grazia e di verità per Paolo è simile a un battesimo. C’è una immersione anche dei figli di Israele, anche se il loro battesimo è semplicemente figura di quello istituito da Gesù Cristo. Tuttavia c’è una vera immersione degli Israeliti nel mare e nella ‘nuvola’ e questa immersione per loro è vera salvezza, vera liberazione.

Israele è vissuto sotto la nuvola, quella nuvola misteriosa che guidava gli Israeliti attraverso il deserto, e li riparava dal sole: a significare la presenza di Dio, la Shekinah. Essere sotto la nuvola significa essere sotto la protezione di Dio. Attraversarono il mare e furono battezzati: il passaggio dalla terra della schiavitù che è l’Egitto, alla terra promessa, avviene attraverso il passaggio del mar Rosso, e questo è un battesimo perché significa lo stacco dalla schiavitù dell’Egitto, liberazione e purificazione, e cammino verso la terra promessa.

«Per essere di Mosè». Mosè, mediatore dell'antica alleanza, era figura di Gesù Cristo, e gli Israeliti da lui condotti verso la terra promessa, erano figura dei cristiani condotti da Gesù Cristo verso il cielo. Ora, come i cristiani per mezzo del battesimo sono incorporati a Gesù Cristo e a lui assoggettati come loro Signore, di cui sono tenuti a osservare le leggi, così per gli Israeliti la nuvola misteriosa e il passaggio del mar Rosso furono una specie di battesimo, per cui restarono assoggettati a Mosè e obbligati ad osservare le sue leggi. Da quel momento, il popolo è separato per sempre dall’Egitto e appartiene al Dio che l’ha liberato e al profeta-mediatore che Dio gli ha dato per capo.

La nuvola misteriosa, segno sensibile della presenza di Dio, e del favore che Egli accordava al suo popolo, era una figura dello Spirito Santo, che viene dato nel battesimo di Gesù Cristo, e similmente il passaggio a piedi asciutti per il mar Rosso e la conseguente liberazione dalla servitù di Faraone, erano figure della nostra liberazione dalla servitù del peccato per mezzo delle acque del battesimo.

Precisata questa verità, Paolo ci ricorda che non è sufficiente uscire dall’Egitto per avere la terra promessa. L’uscita è una cosa, la conquista e il possesso della terra è un’altra. Tra l’uscita e la conquista della terra c’è tutto un deserto da attraversare. Per gli Israeliti il deserto durò quarant’anni; per i cristiani esso dura per tutta la loro vita.

Con il battesimo usciamo dalla schiavitù del peccato, con una vita di perseveranza protesa alla conquista del regno dei cieli camminiamo verso la gloriosa risurrezione che avverrà nell’ultimo giorno.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
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(Gen 15,5-12.17-18)

 

Genesi 15:5 Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».

Genesi 15:6 Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.

Genesi 15:7 E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese».


 

«Poi lo condusse fuori e gli disse: Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle e soggiunse: Tale sarà la tua discendenza». Dio conduce Abramo fuori dal modo di vedere umano. Gli occhi terreni non vedono più di tanto. Ma quando si innalzano per contemplare l’infinito, ecco che la promessa di Dio assume tutto il suo valore e la sua portata. Vengono poste le fondamenta di una salvezza che interessa l’uomo e che è infinitamente al di sopra della realtà creata. 

 

«Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». Tre sono le componenti della fede di Abramo:

 

a) Abramo crede (in ebraico il verbo credere è «’āman» lo stesso che dà origine all’amen con cui concludiamo le nostre preghiere e significa “appoggiarsi a...”, “fidarsi di...”. Il patriarca si fida di Dio e a lui consegna se stesso e il suo futuro.

b) Dio questo “glielo accreditò”. Il verbo “accreditare” è «āšav», viene usato nella Bibbia per indicare i sacrifici validamente celebrati. Il nuovo, vero sacrificio da offrire a Dio è perciò l’atto interiore della fede. Non è più per grazia che il Signore darà ad Abramo una discendenza numerosissima. Gliela darà per giustizia. Dio non dona solamente per grazia, dona anche per giustizia.

c) “...come giustizia”: Abramo diventa “giusto”, cioè fedele all’impegno di alleanza che lo lega al suo Dio: fedele e giusto.

 

In che cosa credette Abramo? Non in una discendenza limitata e finita nel tempo, ma in una discendenza eterna. E con ciò la promessa di una discendenza diventa per se stessa promessa della salvezza. Col tempo si delineerà e si manifesterà sempre più chiaramente la figura di questa salvezza, che in realtà sarà un Salvatore.


L’atto in virtù del quale Abramo credette è l’emblema e il modello della fede gradita a Dio. D’ora in poi Abramo vivrà solo esclusivamente per questa promessa divina, al di là e al di sopra di ogni apparenza umana. Non basta uscire da un mondo di perdizione per ritrovarsi subito in un mondo di salvezza. C’è un tempo di paziente attesa, di obbedienza, di perseveranza, senza le quali il cammino si ferma a metà.


«E gli disse: Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese». Dio dice ad Abramo che lui è stato fatto uscire da Ur dei Caldei proprio per avere in possesso il paese di Canaan. Il primo passo della fede, che è quello dell’uscire, sembra imputabile esclusivamente all’opera di Dio. Abramo è stato fatto uscire fuori da Ur. Non gli è imputato a giustizia l’essere uscito dalla vita vecchia, ma l’essere entrato in quella nuova, che è fede nella promessa di Dio, fede nella futura venuta di un Salvatore.


Qualcuno potrebbe dire: io credo nell’esistenza di Dio, dunque ho fede in Dio. Credere che Dio esiste non comporta necessariamente una vita di fede. La semplice convinzione dell’esistenza di Dio non fa entrare nella vita di Dio. La fede vera è qualcosa di più di un semplice assenso mentale all’esistenza di Dio, porta con sé un cambiamento radicale del porsi davanti a Lui. Non al Dio frutto del mio pensiero, ma al Dio che storicamente si è manifestato. Non è sufficiente credere in un Dio Creatore, dobbiamo credere in un Dio che è anche Salvatore.


E qui il discorso della fede non ammette pluralità di fedi. La fede, se da un lato presuppone l’evento storico della morte e risurrezione di Cristo discendenza di Abramo, Salvatore del mondo, comporta di necessità l’annuncio di tale evento, quello che chiamiamo col nome di Vangelo. Non può esserci ecumenismo se non mettendo davanti a tutti la necessità della conoscenza del Vangelo. Si dialoga annunciando e si annuncia dialogando. Dialogo non è la ricerca di una soluzione e di un compromesso che accontenti tutti, ma far passare la Parola di Dio, la sola che salva, attraverso le forme in cui l’uomo può farla propria. L’ecumenismo deve avere a che fare soltanto con la forma dell’annuncio, non può e non deve alterarne la sostanza.


Vi è un’unica porta che conduce al Paradiso ed è quella aperta da Cristo e custodita da Pietro. Altro è riflettere come il Vangelo si possa annunciare a tutti, altro è discutere su di una salvezza al di fuori di Cristo. Si dialoga con chi non crede allo scopo di annunciare, non si discute per venir meno all’annuncio. Non esiste la buona fede di chi non crede; esiste, ed è un dato di fatto, la malafede di chi è ingannato dal satana. Troppe persone credono nella propria sincerità, bontà, per giustificare la non fede.


Perché in Abramo troviamo il modello della vera fede? Perché l’ascolto della Parola di Dio in lui supera e scavalca le vie della ragione e del cuore. Chi cerca Dio, deve girare alla larga e diffidare di una fede diversa da quella di Abramo. Premessa della fede è la volontà di uscire dalla vita vecchia (Ur dei Caldei) per entrare in quella nuova (la terra promessa). Non entra chi non è uscito, e non è uscito se non colui che ha consapevolezza di peccato. L’essere entrati nella fede di per sé non garantisce il rimanere nella fede. Si può anche venire meno e non essere perseveranti fino alla fine. 


Per molti cattolici basta la messa della domenica, confessarsi una volta all’anno, qualche buona opera, non uccidere, non rubare… e tutto è fatto. Manca l’idea che essere cristiani vuol dire vivere per Cristo e non per se stessi. Per quel che riguarda la chiesa Protestante, l’affermazione di una salvezza che è data unicamente e esclusivamente dalla fede in Cristo, si risolve nella facile fede di tipo psicologico, come convinzione che a noi è chiesto solo di accettare con il cuore e la mente la salvezza operata da Gesù. E se pecchiamo possiamo stare tranquilli, perché la vita eterna è già data dall’elezione divina. Se la salvezza è già data ed assicurata, si può anche mettere da parte gli strumenti e i doni di grazia donati da Cristo attraverso la sua Chiesa e la sua Tradizione, uniche garanzie di una corretta comprensione e di un vero rapporto con la Rivelazione.


Nel protestantesimo basta appellarsi alla propria coscienza, in un cammino di auto confermazione e di auto approvazione. Tutto da soli, in proprio, senza fatica, senza essere disturbati nelle proprie convinzioni, in una esaltazione massima di quell’individualismo che sempre più si va affermando nel mondo come segno del dominio del demonio, principe di questo mondo.

 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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(Rm 10,8-13)

Romani 10:8 Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo.

Romani 10:9 Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.

 

«Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo». Come Mosè diceva che la parola, cioè la legge dì Dio, era facile a conoscersi e a osservarsi, così Paolo dice altrettanto del vangelo. Se la legge ha come fine Cristo, se tutto da Cristo prende inizio e in Cristo si conclude, se tutta la parola della Scrittura nasconde Cristo, tutta la parola della Scrittura nasconde il vangelo, verso cui ogni parola dell'Antico Testamento conduce e guida. "La parola della fede che noi predichiamo", sono le verità evangeliche necessarie a credersi per conseguire la salvezza, le quali, per mezzo della predicazione degli apostoli, sono alla portata di tutti, in modo che tutti possono dire di averle nella loro bocca e nel loro cuore, e non è necessario fare lunghi viaggi o sostenere gravi fatiche per apprenderle. Cristo è presente nella parola della fede che viene proclamata dalla Chiesa.

Ci sono tre verità che dobbiamo cogliere in questa frase di Paolo. La prima è questa: la parola del vangelo, che è parola di Cristo, non è estranea all'uomo, non è lontana da lui, non in senso spazio-temporale, ma in senso esistenziale. L'esistenza dell'uomo anela verso questa parola, la cerca. In fondo, ogni ricerca dell'uomo è ricerca della verità. A causa del peccato questa ricerca smarrisce la sua essenza, ma resta pur sempre una ricerca del proprio essere. L'uomo si cerca, ma non si trova e non si trova perché non riesce a trovarsi in Cristo. Solo trovando Cristo l'uomo trova se stesso, ma per trovare Cristo bisogna trovare la parola di Cristo.

La seconda verità è questa: la parola deve essere predicata, annunciata, proclamata, affinché ogni uomo l'ascolti e ascoltandola vi aderisca attraverso la fede. Se manca la predicazione, allora sì che la parola rimane distante dall'uomo, e se rimane distante la parola anche Cristo rimane distante. Quando la Chiesa avrà fatto questo, essa avrà aiutato l'uomo nella sua ricerca di Cristo, avrà aiutato l'uomo a ritrovarsi, a essere se stesso. La Chiesa esiste per dare Cristo. Questo è il fine e il mandato che la Chiesa ha ricevuto. Ecco perché la predicazione è l'essenza stessa della Chiesa. Cristo si dona attraverso la parola e senza la parola, Cristo non si dona, e se non si dona chi lo cerca lo cerca invano. Di questo la Chiesa è responsabile. Il vero peccato della Chiesa, l'unico di cui si deve sempre pentire, è la mancata evangelizzazione, il mancato annuncio, l'omessa predicazione della parola di Gesù.

La terza verità ci indirizza invece verso "la parola della fede". La parola è della fede perché essa annuncia un mistero che solo per fede si può accogliere e solo per fede vi si può aderire. Senza la fede la parola rimane parola muta. Fede e parola sono una unità inscindibile. Ci potrebbe essere la parola senza la fede, ma questa non svela il mistero, poiché il mistero non lo svela la parola, ma lo Spirito che si rivela al cuore e si manifesta solo se nel cuore c'è fede.

Cosa si constata oggi? Si constata che Cristo è come dimenticato. Di lui si stanno perdendo le tracce. La parola della predicazione è epurata di ogni contenuto inerente Cristo, della sua verità e della sua grazia. Oggi prevale in molti la proposizione di una giustizia tutta umana, terrena, a volte anche diabolica. Se la predicazione della fede è omessa, Cristo è omesso, la giustizia secondo la fede è omessa, la grazia e la verità sono omesse. Cosa resta? Resta l'uomo e il suo peccato. 

«Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo». Colui che viene professato nella fede è Gesù Signore. Il professare con la bocca che Gesù è il Signore e il credere nel cuore che Dio l'ha risuscitato dai morti costituiscono il modo per giungere alla salvezza. Questo significa non solo ammettere il fatto storico della risurrezione, ma anche l'accettare, dal profondo dell'anima, tutta l'opera di salvezza compiuta da Cristo.

Questa confessione deve essere una testimonianza esplicita. L'adesione a Cristo non può essere mai un fatto privato, vissuto intimamente nel proprio cuore, in cui deve comunque radicarsi, ma va testimoniata pubblicamente. Non si può essere cristiani anonimi, cristiani del silenzio. Il cristiano è colui che dinanzi al mondo confessa che Gesù è il Signore, il Verbo, l'Unigenito del Padre che si è fatto carne nel seno della Vergine Maria e che nella sua umanità e non solo nella sua divinità è stato costituito Signore di ogni uomo. Il termine Kyrios (Signore) era usato nella Bibbia dei LXX per tradurre YHWH e quello che Paolo ci dice è che la confessione di fede consiste nel credere che Gesù è il Messia e che egli è ‘uno’ con Yahweh.

Questa confessione deve essere netta. Non possono esserci lacune. Ecco perché è necessario che il cristiano confessi con la sua bocca che Gesù è il Signore, consustanziale a Dio per natura divina, consustanziale all'uomo per natura umana. Se manca una retta confessione circa la persona di Gesù non si può essere salvati, perché il Gesù che confessiamo non sarebbe più il Gesù di Dio, ma un Gesù modellato su pensieri umani, e quindi un idolo. Tutto quello che l'uomo costruisce con la sua mente è semplicemente un idolo e l'idolo non salva. Salva invece il Figlio di Dio venuto nella carne per la redenzione del mondo, e il Figlio di Dio venuto nella carne è il Signore dell'uomo.

Non rimane però sufficiente proclamare con la bocca la retta fede; occorre che vi partecipi anche il cuore, e il cuore vi partecipa facendo propria la verità che si professa. Dalla professione della bocca e dalla fede del cuore nasce la salvezza per l'uomo. La salvezza che Paolo prospetta, non è semplicemente la liberazione dal peccato. La salvezza è possedere la vita di Cristo e fare di questa vita il principio ispiratore della nostra vita: azioni, parole, pensieri. Ecco perché la sola liberazione dal peccato è un concetto assai riduttivo di salvezza.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri:

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(1Cor 15,54-58)

8a Domenica T.O. (C)

 

1Corinzi 15:54 Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura:

La morte è stata ingoiata per la vittoria.

1Corinzi 15:55 Dov'è, o morte, la tua vittoria?

Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?

1Corinzi 15:56 Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge.

1Corinzi 15:57 Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!

1Corinzi 15:58 Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

 

Fino al giorno della risurrezione finale, la morte regnerà su questa terra e sommergerà ogni uomo. Quando invece il Signore compirà l’ultima sua opera, allora sarà la morte ad essere sommersa per sempre nella vittoria di Cristo. Dopo di che, la morte non avrà più potere, sarà sconfitta per sempre, per sempre annullata. L’uomo entrerà nella sua definitività, e solo allora comprenderemo cosa Cristo ha veramente fatto per noi. La morte, sia fisica che spirituale, solo Cristo l’ha vinta, solo in Lui la vinceremo oggi e nell’ultimo giorno. Non ci sono altri Messia, non ci sono altre vie, non ci sono altre fedi. L’unico Messia è Gesù Cristo, l’unica via è la risurrezione di Gesù Cristo, l’unica fede è la Parola del Signore, il suo Santo Vangelo. Quanti cercano altrove sappiano che non troveranno nulla, perché nulla esiste.

La morte sarà spodestata, resa impotente, sommersa dalla vittoria di Cristo. Essa che pensava di avere un pungiglione mortale, si trova ad essere essa stessa punta dal pungiglione vittorioso di Gesù Cristo. Essa che pensava di essere la dominatrice assoluta sull’uomo, dall’uomo Gesù è stata sconfitta. È stato Cristo morto a vincerla con la sua risurrezione. È questa la beffa della morte. Dove nessun uomo avrebbe potuto riuscire, perché anche lui prigioniero e schiavo per nascita della morte, Cristo ha trionfato. La vittoria di Cristo è la risurrezione, la croce è la vittoria sul peccato. Divenendo in Cristo un solo corpo e una sola vita, anche noi sulla croce insieme a Lui vinciamo il peccato, e vincendo il peccato siamo condotti verso la completa vittoria sulla morte.

Infatti, anche se la vittoria si compie in Cristo, nel suo corpo, eppure Paolo dice che la vittoria è nostra: «ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo». La vittoria è nostra perché essa sarà manifestata in noi. Noi siamo associati con Colui che ha fatto tutto.

Ora, dal cuore del cristiano deve innalzarsi al Padre il nostro inno di ringraziamento, di lode e di benedizione. Il rendimento di grazie è la più alta forma di adorazione. Si può rendere grazie solo se la vittoria di Cristo è stata fatta già nostra; si rende grazie per un dono di cui siamo già in possesso, che ci ha già trasformati.

Rende grazie a Dio di un così grande dono chiunque si impegna, lavora, si affatica, affinché la vittoria di Cristo trasformi interamente la sua vita e lui diventi nel mondo immagine visibile di Cristo crocifisso e risorto, di uomo spirituale, che trasmette attraverso la sua vita il cammino della speranza cui è chiamato ogni uomo. Il rendimento di grazie si trasforma così in un obbligo di santità, cui siamo chiamati dal Padre che ci ha conferito la vittoria di Cristo e attende che noi la viviamo totalmente in noi.

«Perciò fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore». In questo versetto conclusivo Paolo ribadisce alcune verità che devono costituire la vita dei credenti. La prima è questa: rimanere saldi e irremovibili. In che cosa? Nella verità della risurrezione di Cristo e della nostra nell’ultimo giorno. La risurrezione di Cristo è la verità che dà consistenza a tutte le altre verità della nostra fede. Se la risurrezione di Cristo non viene confessata con certezza di cuore e di mente, tutto alla fine risulterà vano e inutile.

Non basta però rimanere saldi e irremovibili in questa verità. Bisogna che ci si prodighi nell’opera del Signore. Qual è l’opera del Signore? Il compimento della sua morte e della sua risurrezione in noi. Poiché l’opera di Cristo è stata la sua morte e la sua risurrezione, anche per il cristiano l’opera del Signore è il compimento in lui della morte di Cristo e della sua risurrezione. La morte di Cristo si compie nel cristiano attraverso l’obbedienza alla volontà di Dio. L’opera del Signore che bisogna fare è trasformare in vita la parola di Cristo, come Cristo ha trasformato in vita la parola del Padre. Paolo vuole che in questa opera ci prodighiamo. Prodigarsi significa non risparmiarsi in nulla, significa spendere ogni nostra energia fisica e spirituale per il compimento in noi dell’opera di Cristo.

La terza verità che dobbiamo sempre avere nel cuore è questa: chi compie l’opera del Signore compie l’unica opera vera, l’unica giusta, l’unica santa, l’unica che ha valore eterno. Ognuno di noi, in ogni opera che compie, deve chiedersi se ciò che fa è l’opera di Dio. Solo l’opera di Dio non è vana, e compiendola non sciupiamo il nostro tempo e non consumiamo inutilmente le nostre energie. L’opera che renderà prezioso il nostro lavoro è una sola: il compimento della morte di Cristo in noi, perché in noi si compia la sua risurrezione gloriosa nell’ultimo giorno.

Se si vede così il cristianesimo, si dà ad esso un’altra impronta; si dà l’impronta della ricerca della volontà di Dio perché sia compiuta nella nostra vita. Se si osserva secondo questa visione di fede la vita di una comunità cristiana, allora ci si accorge di tutte le vanità che l’avvolgono. Tutto si fa, tranne che compiere ognuno singolarmente e tutti insieme, ognuno secondo la sua parte e la sua vocazione, l’opera di Cristo, che è la nostra morte in Lui nella più grande obbedienza al Padre nostro che è nei cieli.

La fede vera, sana, rinnova l’esistenza, la cambia, la trasforma. Oggi questo si richiede alle comunità cristiane: partire dall’annuncio della retta fede perché ognuno inizi nel suo corpo il compimento dell’opera del Signore, che è l’opera di Cristo, iniziata in noi il giorno del nostro battesimo.

Sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore. Questo fervore nel fare il bene, deve accendersi in noi per la certezza del premio. La nostra fatica non è infruttuosa, perché ci renderà degni della futura risurrezione, a condizione però che tutto sia fatto nel Signore, cioè in unione intima con Gesù Cristo.

 

 

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(1Cor 15,45-49)

1Corinzi 15:45 il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.

1Corinzi 15:46 Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.

1Corinzi 15:47 Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo.

1Corinzi 15:48 Quale è l'uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti.

1Corinzi 15:49 E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste.

 

 

In questi versetti Paolo si addentra nel parallelismo Adamo–Cristo. Adamo, il primo uomo, a causa del suo peccato fu un portatore di morte, di malattie, di sofferenza, di dolore. Fu anche causa di un corpo concupiscente, di un corpo difficilmente governabile dallo stesso uomo. Adamo anziché padre di vita si rivelò padre di morte, anziché di libertà si dimostrò padre di schiavitù, invece che di salvezza divenne un padre di perdizione.

Nella sua infinita ed eterna misericordia, Dio aveva fin dall’eternità previsto un rimedio efficace contro la morte che Adamo avrebbe immesso nel mondo. Pensando a Gesù Cristo, Salvatore e Redentore, ha pensato a Lui come spirito datore di vita al fine di operare la nostra redenzione. Come l’ha operata? Attraverso il suo corpo morto e risuscitato. Quel corpo che si è rivestito di vita divina e immortale, di gloria e incorruttibilità, il Signore lo dona come nostro cibo e bevanda di vita eterna perché anche noi diveniamo partecipi di esso, e ce ne rivestiamo.

Adamo ha lasciato in eredità un corpo di peccato. Questa è la nostra condizione. Solo chi diviene una cosa sola con Cristo, potrà rivestire il corpo spirituale. Se si rimane fuori del corpo di Cristo, noi rimaniamo nella schiavitù del vizio e del peccato; dimoriamo nel nostro egoismo, trascorriamo i nostri giorni sospinti e sballottati dalla concupiscenza che fa di noi uomini istintivi, passionali, superbi, fanfaroni, trasgressori.

A chi domandasse perché lo stato spirituale, benché più perfetto, sia venuto dopo lo stato animale più imperfetto, l'apostolo risponde con un principio generale: l'ordine naturale vuole che si cominci da ciò che è imperfetto, e si passi poi a ciò che è più perfetto. Dio ha voluto seguire questa legge, e perciò ha stabilito che lo stato spirituale più perfetto fosse preceduto dallo stato animale imperfetto.

Noi abbiamo ricevuto un corpo animale; attraverso questo corpo, in un cammino di verità siamo chiamati a rivestire il corpo celeste. La morte di Cristo consente di metterci in cammino, perché lo Spirito Santo nelle acque del battesimo ci riveste di Cristo. È un cammino verso l’acquisizione della nostra vera umanità. È un cammino lungo, non facile, costa il sacrificio e l’olocausto della nostra vita. La via è una sola: rimanere ancorati in Cristo, divenire con lui una cosa sola.

Adamo viene dalla terra perché secondo il racconto della Genesi fu plasmato dal polvere del suolo. Questa è la sua origine. Gesù viene dal cielo in quanto vero Dio. Non viene dal cielo in quanto corpo. Il corpo egli lo ha assunto dalla beata Vergine Maria. Anche lui quindi ha un corpo che è stato tratto dalla carne di Adamo, anche se questa carne per un singolare privilegio è santissima, piena di grazia, fin dal primo momento del suo concepimento. Il corpo di Gesù Cristo è nato nella più grande santità, ma è sempre carne umana e quindi anche Gesù Cristo ha un corpo che proviene dalla terra, altrimenti non avrebbe potuto redimerci.

«Quale è il terreno, tali sono anche i terreni; e quale è il celeste, tali saranno anche i celesti». Ognuno produce secondo la sua natura. Adamo che era stato tratto dalla polvere del suolo ha generato uomini a sua immagine, fatti anch’essi di corpo materiale. Altro invece è il dono di Cristo: attraverso la sua passione, morte e risurrezione il suo corpo è divenuto spirituale, glorioso. Il suo corpo porta in sé la perfezione dell’immagine divina. Per grazia saremo in tutto simile al suo corpo celeste, se ci lasceremo generare da Dio attraverso la fede. Questo è il più grande atto di amore con il quale Dio ci rivestirà domani, se oggi ci lasciamo rivestire nell’anima attraverso la conversione, la fedeltà al vangelo, ossia una vita tutta fatta di parola di Cristo.

Infatti, «come abbiamo portato l'immagine del terreno, così porteremo anche l'immagine del celeste». Per discendenza da Adamo abbiamo portato l’immagine dell’uomo terreno; così per fede porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Cristo è nella gloria del suo corpo spiritualizzato. Questa è l’immagine di cui saremo rivestiti un giorno. Verso il compimento di questa verità dobbiamo camminare.

Il momento presente è il luogo del passaggio, cioè di questa gestazione in cui progressivamente la nostra vita animale, la nostra vita concreta di ogni giorno, la nostra esistenza, è vissuta in termini spirituali. Ed è già questa la caparra della risurrezione. La morte allora non sarà il fallimento di questa vita, ma il brano successivo che è tutto un inno alla vita. Nel battesimo abbiamo deposto l'immagine dell'uomo terreno e cominciato a portare l'immagine di Gesù Cristo, immagine che diverrà perfetta dopo la risurrezione.

 

 

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(1Cor 15,12.16-20)

6a Domenica T.O. (C)

 

1Corinzi 15:12 Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?

1Corinzi 15:16 Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;

1Corinzi 15:17 ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.

1Corinzi 15:18 E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.

1Corinzi 15:19 Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.


Alcuni Corinzi sostenevano delle idee greche intorno all’immortalità dell’anima, e cioè che dopo la morte l’anima si separava dal corpo per essere assorbita nel divino o per continuare una tenue esistenza nell’Ades, in quanto per i Greci la risurrezione fisica era impossibile. Paolo ha già detto che Gesù Cristo non solo è risuscitato dai morti, egli è anche stato visto risorto. Le persone che hanno avuto la grazia di vederlo sono tantissime. Eppure, a Corinto alcuni insegnavano che non esiste risurrezione dei morti. Da una parte c’è tutto il vangelo che è fondato sulla risurrezione di Gesù e dall’altra si afferma che i morti non risuscitano. Questa non è una contraddizione su un punto marginale della fede; è una contraddizione sul punto nevralgico della fede, anzi sulla stessa fede, poiché la nostra fede è la risurrezione di Gesù Cristo; insieme alla sua incarnazione, passione e morte. O Cristo è risorto e anche i morti risorgono, oppure i morti non risorgono e neanche Cristo è risorto.

Paolo non parte dalla risurrezione di Gesù per confutare l’errore dei Corinzi: parte dall’errore dei Corinzi per trarre tutte le conseguenze di questa loro affermazione e metterli così dinanzi ad un’altra verità che loro dovrebbero confessare se la loro affermazione fosse vera: “se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati”.

Se Cristo non è risorto, oltre che ad avere una fede vana, c’è anche uno stato miserevole nel quale l’uomo viene a trovarsi: egli è ancora nei suoi peccati. Se Cristo non è risorto per la nostra giustificazione, neanche è morto per i nostri peccati, è morto e basta. Nessuna risurrezione implica nessuna espiazione. La tomba rimasta chiusa di Gesù starebbe a indicare ch’egli pure è rimasto preda della morte e che, di conseguenza, sono illusori il perdono dei peccati e la giustificazione che abbiamo cercato in lui: siamo ancora nella nostra schiavitù. Entriamo qui nel relativismo e nell’indifferentismo religioso. Se il peccato non è tolto attraverso la nostra giustificazione, non c’è alcuna differenza tra il cristiano e tutti gli altri uomini esistenti nel mondo. La differenza sarebbe solo di forma, ma non di sostanza. Tanto noi e gli altri siamo tutti nei nostri peccati e in essi viviamo, ma anche moriamo.

Altra conseguenza: “Anche quelli che dormono in Cristo, sono dunque periti”. Non solo noi che siamo vivi, siamo nei peccati; anche quelli che morirono credendo e sperando in Cristo, sono periti perché Cristo non essendo il vero Messia, non poterono ottenere la remissione dei peccati per la fede in Lui, e quindi passarono all'altro mondo con tutti i loro peccati, i quali conducono a perdizione. Da questa ultima deduzione una cosa appare evidente: la fede in Cristo (se non è risuscitato) non ci serve, né in questa vita, né nell’altra. Non ci serve perché non ci libera dalla morte, non ci libera dal peccato, non ci ottiene la redenzione, non ci porta nella gioia del cielo.

Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini”. Una speranza in Cristo solo per questa vita, non solo è vana, è anche deleteria; anzi è una speranza antiumana. A motivo di questa fede, dobbiamo rinunciare a tante cose, di cui gli altri godono, e sopportare ogni sorta di travagli e persecuzioni - talvolta anche versare il proprio sangue. A che serve allora sperare in Cristo in questa vita, senza la speranza della vita eterna? A che giova obbligarsi al sacrificio, alla mortificazione di se stessi, a portare la croce ogni giorno, se poi tutto questo si conclude con la morte eterna, poiché non ci sarebbe speranza oltre la morte per coloro che si sono affidati a Cristo?

Siamo solo da compiangere. Abbiamo rinunciato a questo mondo alla luce di un altro mondo, ma se Cristo non è risuscitato noi abbiamo perso il piacere di entrambi i mondi. Stoltezza più grande di questa non potrebbe esistere per un uomo. Per questo i cristiani sarebbero da compiangere più di tutti gli uomini, perché sono stolti più di tutti gli uomini e sono stolti perché vanno dietro a una fede che nel suo nucleo è falsa, poiché essi stessi, cioè coloro che la professano, affermerebbero che è falsa, fondata su una verità che non esiste.

Quanto sarebbe auspicabile che i cristiani di oggi imparassero da Paolo a trarre le conseguenze di ogni loro affermazione riguardante la nostra santissima Fede! Se facessero questo capirebbero che certe cose non si possono affermare; se invece si affermano è giusto che si tirino le conclusioni e si agisca di conseguenza. Su molti argomenti di fede oggi si potrebbe fare lo stesso ragionamento di Paolo. I risultati sarebbero veramente sorprendenti. Ma questo non si fa, e allora l’uomo continua a vivere nella sua illusione. Pensa di avere detto tutto, mentre in realtà altro non fa che vivere di falsità, di inganno e di ogni altro genere di menzogne circa il Signore, non solo a proprio danno, ma a danno di ogni uomo, cristiano e non cristiano.

La forza della fede è nelle sue argomentazioni, nelle sue deduzioni, nelle conseguenze che necessariamente debbono essere tratte da una affermazione, vera o falsa ha poco importanza, purché si tirino le conclusioni e si sappia dedurre ogni cosa. Tutta questa capacità è saggezza dello Spirito Santo e viene data a chi ama la verità, cerca la verità, desidera la verità; viene data a tutti coloro che amano Dio e l’uomo; che non vogliono essere falsi testimoni di Dio; che non vogliono essere ingannatori dei fratelli.

Bisogna pregare sempre il Signore che ci dia una mente aperta, saggia, intelligente per percepire immediatamente la trappola mortale che si nasconde e si cela dietro ogni affermazione che è nell’apparenza di fede, mentre in realtà essa è pura menzogna, pura fantasia, pura immaginazione che ha come punto di origine il cuore dell’uomo e non certamente il cuore di Dio. La ragione è un bene prezioso dell’uomo. Egli deve saperla usare e usare bene anche per scoprire il vero e il falso delle sue affermazioni; deve saperla usare per cogliere le sfumature di vero e di falso che possono essere nascoste in una parola; deve saperla usare per giungere attraverso una serie di deduzioni e di argomentazioni alla verità in sé. La fede ha bisogno della ragione, necessita di essa; non per dimostrare la fede che si fonda solo sull’annuncio; ma perché la verità della fede possiede anche un percorso razionale che bisogna sviluppare. 


 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Sal 17 (18)

Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.

Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.

Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo  baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.

La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.

Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.

L’arma  vincente  di  Davide  è la  fede  che si  trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco  cosa  fa  Davide:  nell’angoscia  non  si  perde,  non  si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.

Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei  monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.

Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.

«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.

«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.

«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.

«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.

Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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1Ts 5,16-24

1Tessalonicesi 5:16 State sempre lieti,

1Tessalonicesi 5:17 pregate incessantemente,

1Tessalonicesi 5:18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.

1Tessalonicesi 5:19 Non spegnete lo Spirito,

 

«State sempre lieti». Il tema della gioia è il clima spirituale della comunità cristiana. Il cristianesimo è gioia, letizia spirituale, gaudio del cuore, serenità della mente. «Sempre» significa in ogni circostanza. Da un punto di vista esteriore c’era ben poco per cui i credenti a quei tempi potessero rallegrarsi. Ma la gioia è un frutto dello Spirito, non è qualcosa che il cristiano possa procurarsi traendola fuori dalle proprie risorse.

Il cristiano è chiamato ad essere sempre lieto. Questa qualità del suo nuovo essere è possibile ad una sola condizione: che vi sia nel cuore una fede così forte da pensare in ogni momento che tutto ciò che avviene, avviene per un bene più grande per noi. Chi non possiede questa fede, si perde, perché la tribolazione, senza la fede, non genera speranza, ma delusione, tristezza, lacrime e ogni altra sorta di amarezza.

La letizia matura solo sull’albero della fede e chi cade dalla fede cade anche dalla letizia e precipita nella tristezza. Sapendo che il male fisico o morale permesso da Dio deve generare in noi la santificazione, il cristiano lo accoglie nella fede e lo vive nella preghiera.

Infatti l'apostolo aggiunge: «pregate incessantemente». In questa brevissima esortazione è nascosto il segreto della vita del cristiano. La preghiera deve scandire la vita della comunità e dei singoli; un’attitudine continua. Non è la preghierina fatta ogni tanto, ma è una preghiera regolare, fatta secondo un ritmo costante. Se si fa questo possiamo andare anche oltre, e cioè vivere in uno spirito di preghiera, consci della presenza di Dio con noi ovunque siamo.

È perso quel momento che è senza preghiera. È un momento affidato solo alla nostra volontà, razionalità, è un momento perso perché non fatto secondo la volontà di Dio ma secondo la nostra. È perso quell’attimo vissuto, ma non affidato a Dio nella preghiera. È perso quel momento fatto da noi stessi, ma non fatto come un dono di Dio per noi e per gli altri. Questa è la verità della nostra vita.

Poiché oggi non si prega più, o si prega solo per alcuni interessi personali, tanta parte della nostra vita viene sciupata, è persa, non è vissuta né per il nostro bene, né per il bene dei nostri fratelli. Imparare a pregare è la cosa più necessaria per un uomo. Insegnare a farlo è l’opera primaria del sacerdote, o di chi guida la comunità.

«In ogni cosa rendete grazie», è il modo di vivere in un clima gioioso e orante. Abbiamo il verbo eucharistein («rendere grazie»). In ogni situazione rendere grazie, perché anche nelle nostre difficoltà e nelle nostre prove Dio ci insegna lezioni preziose. Non è facile vedere il lato positivo di una prova, ma se Dio è sopra ogni cosa, allora è sovrano anche nella prova.

Perché di tutto si faccia un rendimento di grazie, occorre che il cuore si rivesta di umiltà. È proprio dell’umiltà riconoscere quanto il Signore ha fatto e fa per noi. Ma è proprio della preghiera innalzare al Signore l’inno per il rendimento di grazie, per la benedizione, per la glorificazione del suo nome che è potente sulla terra e nei cieli.

Chi non rende grazie è un idolatra. Pensa che tutto sia da lui, dalle sue capacità, e quindi si attribuisce ciò che è semplicemente e puramente un dono del Signore. Esempio di come si ringrazi il Signore, lo si benedica, lo si esalti e lo si magnifichi è la Vergine Maria. Il suo Magnificat è quotidianamente recitato dalla Chiesa. Bisogna che non solo venga recitato, quanto imitato, pregato, fatto propria vita.

A chiusura di questa triade di imperativi sulla vita spirituale, si dà una motivazione che abbraccia tutte e tre le esortazioni: «questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi». In questo contesto l’espressione «volontà di Dio» implica uno stile di vita corrispondente al progetto di salvezza rivelato in Gesù Cristo. La volontà di Dio viene fatta conoscere in Cristo, e in Cristo ci viene data la motivazione e la forza per cui ci è possibile fare quella volontà.

 

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Mc 1,1-8

Marco 1:1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.

Marco 1:2 Come è scritto nel profeta Isaia:

Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,

egli ti preparerà la strada.

Marco 1:3 Voce di uno che grida nel deserto:

preparate la strada del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri,

 

Il racconto di Marco inizia in un modo insolito e apparentemente banale, dicendo al lettore che quello che sta leggendo è l'inizio del vangelo di Gesù. Un'affermazione questa che lascia perplessi, dato che tutti i libri cominciano dal loro inizio e non è il caso che si sprechi un versetto per dirlo. Ma evidentemente quel “archē” (inizio) assume per l'evangelista un significato del tutto particolare. L'inizio di cui si parla non è soltanto l'inizio di un racconto, ma un "arché", cioè un principio da cui tutto discende. Il termine greco "arché" ci riporta alle origini della creazione: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1) e fu proprio in questo principio, assoluto e unico, che risuonò la parola creatrice. Marco, quindi, vede in Gesù l'inizio di una nuova creazione.

L'inizio di cui si parla è quello di un "vangelo", cioè l'inizio di un lieto annuncio, il cui contenuto è Gesù stesso: «di Gesù Cristo, Figlio di Dio», cioè appartiene a Gesù e si origina da lui. Marco fin da subito mette in chiaro chi è l'eroe del suo racconto e, quindi, come va letta e compresa la sua figura e, di conseguenza, la sua missione. Il suo personaggio è innanzitutto chiamato Gesù, dichiarandone, in tal modo, la dimensione storico-umana: egli è un vero uomo, che si muove ed opera in mezzo agli uomini. Gesù, dunque, non è una realtà metafisica, piovuta dal cielo chissà in quale modo, ma ha profonde radici umane ed è, grazie alla sua umanità, incardinato nella storia, che condivide con il resto degli uomini. In ciò Gesù dimostra tutta la sua solidarietà con il genere umano. In tale nome, poi, è racchiuso il senso più vero e profondo della sua missione. In ebraico, infatti, il nome Gesù (Yeshua) significa "Dio salva"; il lettore, pertanto, è invitato a cogliere in questo uomo l'azione salvifica di Dio stesso.

Ed ecco, quindi, che accanto al nome Gesù compare subito l'attributo "Cristo". Il profeta Natan aveva promesso a Davide una discendenza, che avrebbe reso stabile il suo regno. Da quel momento il popolo ebreo attendeva questa "discendenza", questo "Unto del Signore", a lui consacrato. Nell'immaginario del popolo le attese erano rivolte ad una sorta di super uomo, politico, militare e religioso, che avrebbe dato lustro, splendore e stabilità ad Israele sopra tutti gli altri popoli, e che avrebbe fondato sulla terra il regno di Dio. Marco vede in Gesù il realizzarsi di questa antica profezia, che supera, però, le ristrette visioni storiche e terrene del popolo. Certo, Gesù è il vero Messia atteso, ma la sua messianicità non è così come è sempre stata pensata dagli uomini, ma è posta al servizio di Dio e si rivelerà gradualmente nel doloroso cammino verso la croce, che lascerà sbigottiti, increduli e riluttanti i suoi stessi discepoli. Marco, quindi, vede in Gesù l'Unto di Dio, l'uomo che Dio aveva promesso a Davide e che aveva pensato da sempre per il suo popolo e per l'intera umanità.

Capire, quindi, che Gesù è il Cristo atteso è il primo passo per poter accedere all'altra incredibile realtà, presente in lui: egli è anche Figlio di Dio. L'essere "figlio di Dio" era uno dei titoli attribuiti al Messia; era anche il titolo riconosciuto ai re. Ma Gesù nel corso della sua vita ha dimostrato che il suo essere "Figlio di Dio" aveva radici molto profonde, sconosciute fino ad allora, testimoniando una relazione unica, privilegiata ed esclusiva con Dio, che chiamava "Padre" in senso reale e non metaforico, denunciando, in tal modo la sua vera origine e natura.  

Il vangelo di Marco, quindi, diventa un cammino alla scoperta della vera natura e del vero essere di Gesù. Si parte dalla sua umanità, definita e contenuta nel nome Gesù, per accedere alla sua messianicità, condensata nel titolo di «Cristo», per giungere alla scoperta del titolo dei titoli: «Figlio di Dio» e, quindi, Dio lui stesso.

Il racconto di Marco continua poi con un solenne e autorevole “Come è scritto nel profeta Isaia...”. Alla base di tutto, dunque, ecco la Scrittura, la Parola creatrice di Dio, che trova nell'evento Gesù la sua incarnazione e la sua piena manifestazione. Gesù, dunque, è la Parola del Padre che si fa storia e diviene azione redentrice di Dio in mezzo agli uomini.

Il profeta Isaia esortava il popolo d'Israele, prigioniero a Babilonia, ad aprirsi alla speranza e a preparare la via del ritorno in patria come una sorta di secondo esodo, attraverso il deserto, dove il resto d'Israele, quello rimasto fedele a Dio, avrebbe visto la gloria del Signore.

Ed è proprio sulla spinta del profeta Isaia che il “maestro di Giustizia”, l'enigmatica figura della comunità di Qumran, creò la sua comunità in mezzo al deserto, in attesa della venuta del Messia. Una sorta di comunità monacale animata da forti tensioni escatologiche ed apocalittiche.

Il “deserto” è una parola emblematica e molto significativa nella storia di Israele, perché è da lì che è partita la sua storia della salvezza; lì ha ricevuto la sua identità diventando proprietà di Dio; ed è sempre lì, nel deserto, che Israele viene messo alla prova e trova il suo riscatto e la sua rigenerazione spirituale. In tal guisa, è ancora da qui, dal deserto, che parte ora la storia di un nuovo Israele, a cui Marco allude, richiamandosi ai testi profetici. Ecco perché Marco vede la sua opera come un “archē”, come un inizio.

 

 

 

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1Cor 1,3-9

1Corinzi 1:3 grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

1Corinzi 1:4 Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù,

 

Il saluto iniziale di Paolo non è semplice forma, ma un Annuncio, «grazia a voi e pace». Questo binomio è una novità assoluta, non ha precedenti, perché i greci salutavano con «charis» mentre gli ebrei salutavano con «shalom». Paolo mette insieme le due cose, unendo il saluto ebraico a quello greco.

La «grazia» è il dono gratuito della riconciliazione dell'uomo con Dio, con se stesso e con gli altri. La «pace» è quella messianica, portata da Gesù, con tutta la pienezza di vita che ci ha guadagnato attraverso la sua morte e risurrezione; è la calma profonda che riempie il cuore di chi sa e si sente riconciliato con Dio. Questi doni vengono dal Padre e dal Signore Gesù Cristo. Gesù viene considerato, unitamente al Padre, fonte di benedizioni.

Facilmente si dice che la grazia e la pace sono un dono di Dio; difficilmente invece si afferma che esse possono maturare solo nella volontà dell’uomo e nella sua perseveranza, e che sono date a noi sotto forma di granellino di senapa. Se mancano i frutti dell’uomo, il dono ricevuto diviene come un seme che cade sulla strada. Esso è mangiato dagli uccelli del cielo. Questo deve significare per tutti noi una cosa: Dio dona la sua grazia, dona il suo amore, ma è dovere di ogni uomo non solo accogliere questo dono gratuito della misericordia del Padre, quanto di farlo sviluppare nel suo cuore e nella sua vita.

Paolo dice: «rendo del continuo grazie». La comunità di Corinto ha tanti problemi, tanti peccati, tante difficoltà, ma ecco che l'apostolo non va a guardare subito queste cose, guarda per prima cosa il bene che questa comunità ha. È fatta di persone che hanno accettato che Dio è Padre. E Paolo ringrazia: in greco c'è la parola «eucharistō», fare eucarestia, ringraziare. L'atteggiamento fondamentale del credente è sempre un atteggiamento di rendimento di grazie. I numerosi difetti esistenti nella chiesa non nascondono all’occhio dell’apostolo quello che vi è di buono.

Di solito, questo non è il modo normale con il quale noi consideriamo le cose. Invece di star lì sempre nelle proprie angustie e nei patemi del misurarsi con l'altro continuamente, vedere cos'ha, cosa non ha e nell'invidiare quelle due che ha e nel criticarlo per le cinque che non ha, ma dico, perché stiamo al mondo? Per invidiare e criticare? L'atteggiamento costante della vita che c’insegna Paolo è l'eucarestia, cioè il rendere grazie e godere del dono di Dio.

Paolo non ha una concezione della vita ottimistica, ove tutto finisce bene - adesso piove ma dopo verrà sereno... No, Paolo concepisce la vita come un dono. Allora dice grazie! In genere noi abbiamo il carisma della lagna, vediamo sempre quello che manca.

Paolo non solo ringrazia Dio per quanto ha fatto per lui, ma ringrazia Dio continuamente anche per tutti coloro che sono stati arricchiti dalla sua grazia e dalla sua verità. Cristo e la Chiesa sono un corpo unico, non due corpi, non molti corpi. Lutero ha separato Cristo dalla sua Chiesa, Cristo dal suo corpo. Ma se avesse ragione non siamo più in Cristo. Non è veramente in Cristo chi non è veramente nella sua Chiesa; non è veramente nella sua Chiesa, chi non è veramente in Cristo Gesù e si è in Cristo Gesù se si è nella pienezza della sua grazia e della sua verità.

La ragione per cui Paolo ringrazia continuamente Dio si trova in questa unità perfetta tra Cristo e la sua Chiesa. Paolo è corpo di Cristo, e in quanto corpo di Cristo ringrazia Dio. Ringraziando Dio come corpo di Cristo, lo ringrazia per se stesso e per gli altri, ma lo ringrazia dal corpo di Cristo e nel corpo di Cristo, lo ringrazia cioè da santo.

Se noi riuscissimo a capire questa verità che Paolo trasforma in preghiera, faremmo fare alle nostre comunità un salto di qualità veramente notevole nella santità. Cesserebbero gelosie, invidie, dissensi, discrepanze ed ogni altro genere di divisione. Tutti sapremmo che c’è un solo Cristo, un solo corpo di Cristo, una sola Chiesa, e tutti noi siamo quest’unico Cristo, quest’unico corpo, quest’unica Chiesa… E i poteri forti di questo mondo tremerebbero.

 

 

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All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]
Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza [Papa Francesco]
The Ascension does not point to Jesus’ absence, but tells us that he is alive in our midst in a new way. He is no longer in a specific place in the world as he was before the Ascension. He is now in the lordship of God, present in every space and time, close to each one of us. In our life we are never alone (Pope Francis)
L’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli (Papa Francesco)
The Magnificat is the hymn of praise which rises from humanity redeemed by divine mercy, it rises from all the People of God; at the same time, it is a hymn that denounces the illusion of those who think they are lords of history and masters of their own destiny (Pope Benedict)
Il Magnificat è il canto di lode che sale dall’umanità redenta dalla divina misericordia, sale da tutto il popolo di Dio; in pari tempo è l’inno che denuncia l’illusione di coloro che si credono signori della storia e arbitri del loro destino (Papa Benedetto)
This unknown “thing” is the true “hope” which drives us, and at the same time the fact that it is unknown is the cause of all forms of despair and also of all efforts, whether positive or destructive, directed towards worldly authenticity and human authenticity (Spe Salvi n.12)
Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo (Spe Salvi n.12)
«When the servant of God is troubled, as it happens, by something, he must get up immediately to pray, and persevere before the Supreme Father until he restores to him the joy of his salvation. Because if it remains in sadness, that Babylonian evil will grow and, in the end, will generate in the heart an indelible rust, if it is not removed with tears» (St Francis of Assisi, FS 709)
«Il servo di Dio quando è turbato, come capita, da qualcosa, deve alzarsi subito per pregare, e perseverare davanti al Padre Sommo sino a che gli restituisca la gioia della sua salvezza. Perché se permane nella tristezza, crescerà quel male babilonese e, alla fine, genererà nel cuore una ruggine indelebile, se non verrà tolta con le lacrime» (san Francesco d’Assisi, FF 709)
Wherever people want to set themselves up as God they cannot but set themselves against each other. Instead, wherever they place themselves in the Lord’s truth they are open to the action of his Spirit who sustains and unites them (Pope Benedict)
Dove gli uomini vogliono farsi Dio, possono solo mettersi l’uno contro l’altro. Dove invece si pongono nella verità del Signore, si aprono all’azione del suo Spirito che li sostiene e li unisce (Papa Benedetto)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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