Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.
6a Domenica di Pasqua (anno C)
Ap 21,10-14.22-23
Apocalisse 21:10 L'angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.
Apocalisse 21:11 Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.
Apocalisse 21:12 La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d'Israele.
Un angelo conduce Giovanni a contemplare in visione la sposa, la moglie dell'Agnello, su di un alto monte, per poter ammirare dall'alto la città, sottolineando l'importanza e il carattere trascendente della sposa. Per poter contemplare questa rivelazione, occorre un influsso particolare dello Spirito, che spinga verso l'alto, in direzione del divino. Il monte grande e alto è infatti il luogo della rivelazione di Dio, si veda per esempio Mosè che sale sul monte Nebo da dove Dio gli mostra la terra di Canaan.
La città santa, la Gerusalemme celeste, scende dal cielo, “risplendente della gloria di Dio”. La prima indicazione che l'angelo ci dà non potrebbe essere più elevata. Provenendo da Dio, la città-sposa ne possiede la "gloria". Cristo risorto, unico portatore adeguato della gloria del Padre, ha comunicato questa gloria alla sua città-sposa. Risulta particolarmente illuminante un richiamo al quarto Vangelo, dove, riferendosi a tutti quelli che crederanno in lui, Gesù si esprime così: "E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola" (Gv 17,22).
Dio ha rivestito Gerusalemme della sua gloria, e la gloria di Dio è la sua divinità. Gerusalemme è stata come divinizzata da Dio, ammantata della sua luce, ammantata della redenzione di Cristo luce del mondo.
È importante conoscere il concetto di città. Parlare della città significa parlare della dinamica che ha sostenuto la storia umana, a partire dalla costruzione della prima città al tempo di Caino, che "divenne costruttore di una città" (Gn 4,17). La storia dell'umanità può essere raffigurata come la storia della costruzione di una città che, da Caino in poi, assume caratteristiche preoccupanti. Caino, dopo aver ucciso il fratello mette in piedi una realtà che ha sì il suo fascino, in quanto luogo ove si sviluppa una civiltà, ma porta in sé un seme di violenza, che per quanto nascosto, al momento opportuno esplode immancabilmente. L'Apocalisse parla anche della caduta Babilonia, nella quale "fu trovato il sangue... di tutti coloro che furono uccisi sulla terra" (Ap 18,24); il sangue di tutti gli uccisi da Abele in poi, il sangue di tutti i fratelli rifiutati: la città, da Caino in poi, è costruita su un fondamento impregnato di quel sangue. Adesso, viene mostrata la nuova Gerusalemme, che nel nome ricorda l'antica Gerusalemme, città che nella storia della salvezza ha visto versare il sangue di Cristo, ma che portava in sé un valore sacramentale, una promessa: Dio vuole manifestarsi e portare a compimento le sue intenzioni nuziali con l'umanità.
L'illuminazione della nuova città viene messa in rapporto di corrispondenza con il riflesso di una gemma preziosa, di cui viene sottolineata la straordinaria qualità – "preziosissima" – e il suo splendore. Ciò che raffigura quanto c'è di più bello, viene usato per descrivere la magnificenza di Gerusalemme. Cosa c'è di più bello di una gemma preziosissima e di una pietra di diaspro cristallino? Niente. Cosa c'è di più bello di Dio? Niente. Dio è la stessa bellezza, è l'autore di ogni bellezza. Gerusalemme è vestita della stessa bellezza di Dio.
"Come pietra di diaspro cristallino": Il diaspro è una pietra bellissima, preziosa, di diversa coloritura, per lo più rossiccia, talvolta verde, bruna, azzurra, gialla e bianca, che comunica un senso di bellezza e di gioia. La città è edificata in modo tale da attrarre, e questo dipende proprio dal fatto che la gloria di Dio abita in essa.
Il confronto inevitabile è con la "vecchia" Gerusalemme che, con la monarchia, il tempio e il sacerdozio era divenuta il simbolo del popolo, dell'alleanza con Dio e della stessa dimora divina tra gli uomini. Il rinnovamento della città significa il rinnovamento dell'alleanza. Giovanni, con i simboli biblici e in linguaggio apocalittico, annuncia la novità dell'alleanza, ovvero il nuovo rapporto con Dio.
Il muro grande e alto indica delimitazione e nello stesso tempo stabilità, sicurezza e protezione, ma non chiusura; giacché dodici, tre per ogni punto cardinale, sono le aperture che collegano la città con il resto del mondo.
I dodici angeli indicano la protezione angelica, essi stanno a guardia delle dodici porte come delle sentinelle. Poiché la città è di origine celeste deve avere dei guardiani celesti. Secondo Gn 3,24 i cherubini erano i guardiani dell'Eden, il giardino di Dio, e poiché la nuova Gerusalemme è la controparte escatologica dell'Eden, le guardie angeliche alle sue porte sono decisamente appropriate. Il muro, le porte, le guardie, servivano alla protezione e alla difesa delle città; qui dove non c'è più da temere i nemici, tutto ciò sta a rappresentare l'idea della perfetta pace e sicurezza di cui godono i salvati, perché niente di pericoloso potrà mai entrare nella santa città.
Le dodici porte hanno i nomi scritti delle dodici tribù dei figli di Israele, sebbene non vi siano specificati i nomi, perché Giovanni è interessato al significato simbolico del numero dodici e non alle singole tribù. Le tante porte stanno a sottolineare l'importanza dell'accesso alla città. L'associazione dei nomi delle dodici tribù d'Israele con le porte della nuova Gerusalemme, sta a significare che l'Antico Testamento è la porta necessaria per entrare nella fede in Cristo, ma sta anche a significare che Dio non ha rinnegato il suo popolo, esso è parte integrante della nuova Gerusalemme. Giovanni allude alla continuità perfetta tra il popolo di Dio dell'Antico Testamento e la Chiesa del Nuovo Testamento.
Nella città di Dio si entra attraverso la porta della rivelazione che Dio ha dato ai patriarchi d'Israele. Culmine di questa rivelazione è Gesù Cristo. Antico e Nuovo Testamento sono l'unica e sola rivelazione di Dio, l'unica e sola Parola del Signore, l'unica e sola via di salvezza e di redenzione per tutto il genere umano.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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5a Domenica di Pasqua (anno C)
(Ap 21,1-5a)
Apocalisse 21:1 Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più.
Apocalisse 21:2 Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Giovanni contempla il compimento della profezia di Isaia: "Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra" (Is 65,17; 66,22). Dio aveva già manifestato la sua volontà di fare un nuovo cielo e una nuova terra nel contesto del ritorno degli Israeliti dall'esilio babilonese, celebrando un nuovo splendore per Gerusalemme come la gioia di una sposa che si prepara per le nozze. L'Apocalisse ne riprende le immagini per annunciare il compimento: l'abitazione dell'umanità peccatrice deve subire una trasformazione che la renda adatta ad essere la dimora di una umanità rinnovata e santa. Il concetto apocalittico della ri-creazione del cielo e della terra trova un'applicazione antropologica con l'apostolo Paolo, che parla dei cristiani come di una "nuova creazione" (2 Cor 5,17; Gal 6,15).
Giovanni dice anche che “il mare non c'era più”, ossia non c'è più la presenza del negativo e del male, sinonimo del demoniaco. Il mare rappresenta i pericoli, il caos. Ricordiamo l'abisso primigenio di Gn 1,2 ("le tenebre ricoprivano l'abisso") e le acque del diluvio di Gn 7,11 ("eruppero tutte le sorgenti del grande abisso"). Scomparirà la caotica e inquietante potenza da cui era emersa la bestia satanica (Ap 13,1). Il mare, inoltre, separa e tiene lontani i popoli gli uni dagli altri, mentre la futura umanità formerà una sola famiglia.
In questo nuovo cielo e nuova terra, anche Gerusalemme, la città di Dio, la sua dimora sulla terra, sarà nuova. Con l'aggettivo greco "kainēn" non si vuole indicare una novità cronologica, bensì una novità qualitativa: una cosa mai esistita prima. Gerusalemme, scende dal nuovo cielo sulla nuova terra, adorna come una sposa che attende il suo sposo per celebrare le nozze. Giovanni ricapitola tutto lo svolgimento della storia umana al modo di una fidanzata che esce dalla casa paterna per andare incontro al suo sposo. L'immagine della sposa indica che il rapporto con Dio è fondato sull'amore e sul servizio, e non più sulle leggi e sui riti.
La sposa non è Israele, un popolo che considerava il Regno come una conquista umana fondata sui meriti religiosi, ma è la nuova umanità che possiede lo Spirito, ricreata da Gesù. La nuova Gerusalemme sono tutti i giusti, i santi, i martiri; è la società gloriosa dei risorti nella gloria, che salita trionfalmente al cielo, scende per celebrare le nozze eterne con l'Agnello e prendere possesso della creazione nuova. La nuova Gerusalemme è la Chiesa gloriosa in ognuno dei suoi figli. Gloriosa nell'anima, ma anche nel corpo, che è stato risuscitato e creato nuovo in tutto simile al corpo glorioso di Cristo. La Sposa (nymphēn) è pronta per lo Sposo perché la consumazione delle nozze si ha nella gloria della risurrezione.
Per i santi del Signore non vi sarà più alcuna possibilità di caduta nella disubbidienza, in quanto fatti uno in Cristo, e questa unità tra Dio e le sue creature avviene attraverso la celebrazione di un eterno matrimonio, di cui quello terreno è solo immagine. Non ha più importanza essere uomo o donna, il matrimonio avviene non a livello del singolo ma a livello del genere umano. Potremmo chiederci quale senso può avere nell'eternità essere ancora uomo o donna fatti non l'uno per l'altra ma entrambi per il Signore. La risposta ci è data da Gesù stesso allorché dice che nel regno dei cieli non ci sarà né chi sposa né chi è sposato ma saremo tutti come angeli. Riguardo agli angeli va però compreso che vi è una diversità spirituale che li vuole distinti in gruppi e anche in gerarchie, di cui la Scrittura ci dà alcuni nomi: principati, potestà, dominazioni, troni, ecc. Pertanto, se pur vi è un unico modo di rapportarsi a Cristo, la relazione che ne discende non può essere uniforme e indifferenziata.
La nuova Gerusalemme indica sia il popolo di Dio nella sua pienezza di gloria, sia l'ambiente nuovo in cui esso si trova. Così quella che sulla terra era la "città santa", resa tale dall'appartenenza a Dio e dalla presenza del tempio, diventa adesso la nuova Gerusalemme. La Gerusalemme terrestre è superata, la "nuova" Gerusalemme, infatti, non ha, come la prima, una origine terrestre: proviene direttamente dal "cielo". Mentre Gerusalemme era il centro del regno di Dio sulla terra, la nuova Gerusalemme è il centro del nuovo regno di Dio nei cieli nuovi e nella terra nuova. Nuovi sono i cieli, nuova è la terra, nuovo è il regno, nuova è la città capitale del regno. Nuovo è tutto ciò che appartiene a questo regno e a questa creazione.
La nuova Gerusalemme, per il fatto che discende dal cielo, è di origine divina: Dio è l'architetto e il costruttore della città. È "santa" perché è consacrata a Dio. Anche S. Paolo parla della Gerusalemme di lassù e la chiama la nostra madre, indicando come per la comunità cristiana la nuova creazione abbia già avuto inizio.
La nuova Gerusalemme non rimane in cielo, nella trascendenza, è vista "scendente", e la discesa indica un movimento verso l'immanenza. Ma l'immanenza non è più quella di prima; ora è adeguata ad accogliere il divino. Giovanni vede questa Gerusalemme che scende dal cielo con un'azione continuata (“katabainousan” è un participio presente), in altre parole, la nuova Gerusalemme non è creata dal nulla e all'istante. Inoltre, all'azione propria di Dio si affianca in parallelo un'azione propria del popolo di Dio - la "sposa" dell'Agnello - che durante il corso della storia confeziona il suo abito nuziale per prepararsi alle nozze.
Il simbolismo della nuova Gerusalemme è complesso. Simboleggia i santi, ma nello stesso tempo è distinta dai santi: la città è "come" una sposa; se è come una sposa non è la sposa o almeno non è solo sposa. Essa è nel contempo città e sposa; città in quanto rappresenta l'abitazione o lo stato glorioso del salvati dopo il giudizio finale; sposa in quanto personifica gli abitanti della città celeste, oggetti di un amore ineffabile e uniti per sempre al loro Salvatore in un rapporto sponsale.
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(Ap 7,9.14b-17)
4a Domenica di Pasqua (anno C)
Apocalisse 7:9 Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani.
Apocalisse 7:14 ...E lui: «Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello.
Apocalisse 7:15 Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Una moltitudine immensa proveniente da tutti i popoli e nazioni sta davanti al trono di Dio e dell'Agnello. Da chi è costituita? Il gruppo è composto da cristiani perché, secondo il v. 14, essi "hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello". La moltitudine immensa dei salvati è di provenienza universale.
Le vesti candide (en leukois, "in bianco") simboleggiano la dignità di appartenere al cielo. Il bianco s'indossava durante le occasioni festive perché si credeva fosse il colore di cui si vestivano gli esseri celesti, incluso Dio stesso.
La palma è il segno della vittoria. Anche nel mondo greco ai vincitori degli antichi giochi si dava spesso una palma. In tutto il mondo mediterraneo la palma significava "vittoria". Quando la folla accolse Gesù a Gerusalemme agitando rami di palma, era in occasione della festa di Pasqua.
Il popolo dei credenti è ormai introdotto nella gloria del Dio vivente e partecipa alla liturgia celeste; una liturgia grandiosa, stupenda, che viene celebrata davanti al trono e all'Agnello. Stanno di fronte al trono (una circonlocuzione per il nome di Dio), ma anche di fronte all'Agnello, di cui sono stati imitatori, riportando la palma della vittoria.
Lo stare in piedi, secondo il simbolismo di questa posizione, significa essere in uno stato di risurrezione. Essi partecipano della stessa vita di Dio e dell'Agnello. Questo è il popolo dei credenti nel suo aspetto glorioso, ovvero la Chiesa trionfante che in cielo partecipa della vittoria di Cristo. Sono coloro che hanno portato a termine il viaggio, coloro che già condividono la vittoria piena e definitiva dell'Agnello.
"Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello". La presentazione dei salvati sottolinea la loro provenienza e li definisce con un participio presente: "coloro che vengono" (hoi erchomenoi), strettamente affine alla formula divina "ho erchomenos" ("Colui che viene"). Ormai sono una sola cosa con l'Agnello perché hanno realizzato, attraverso la loro tribolazione, la chiamata ad immergersi nella morte e nella risurrezione del Figlio di Dio.
La grande tribolazione è la persecuzione, il martirio. La grande tribolazione alludeva storicamente alle persecuzioni subite dai cristiani, di cui quella di Nerone fu il prototipo, ma si riferisce in maniera particolare alla grande tribolazione che precederà il giudizio finale.
Questa tribolazione viene chiamata «grande» perché supererà in intensità tutte le precedenti, sarà la più terribile di tutte, è quella che si estenderà ai credenti del mondo intero e in cui Satana si servirà dei suoi più potenti strumenti e metterà in opera i mezzi più efficaci per abbattere la fede cristiana. La Chiesa è sempre perseguitata, ma negli ultimi tempi lo sarà ancora di più, e ogni vero cristiano deve aspettarsi una parte più o meno grande di tribolazione.
Poiché la moltitudine immensa viene dalla grande tribolazione, è ragionevole dedurre che essi, o almeno la maggioranza di essi, siano martiri.
“Hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello”. Notiamo una cosa interessante: il testo non dice che hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il versamento del proprio sangue, ma con il sangue dell'Agnello. Costoro hanno lavato le loro vesti (gr.: stolàs) nel sangue dell'Agnello, ossia si sono santificati e hanno purificato la loro anima (stola) mediante i meriti di Gesù al quale si sono avvicinati con fede. È implicito, nel loro «hanno lavato», che le stole/vesti erano sporche, cioè che essi erano peccatori. Se ora possono comparire in vesti bianche alla presenza di Dio, ciò non è dovuto ai loro meriti, ma alla virtù espiatrice e purificatrice del sangue di Cristo.
Con questa immagine paradossale del sangue dell'Agnello che rende bianche le vesti dei credenti, si vuol dire che essi partecipano al valore salvifico della morte espiatrice di Gesù, in virtù della quale sono stati preservati dal soccombere nella prova. Non sono dunque solo i martiri, ma tutti i membri della Chiesa che sono rimasti fedeli nella persecuzione. Infatti, ripetiamo ancora una volta: non è scritto che hanno lavato le loro vesti nel loro stesso sangue, bensì in quello dell'Agnello. Il "sangue" è simbolo della morte di Cristo e dell'efficacia della sua opera salvifica. Il greco ha "en tō" ("nel sangue"), formula che probabilmente deriva dalla liturgia eucaristica (1 Cor 11,25 "nel mio sangue").
I cristiani non sono giustificati per una qualsiasi osservanza della Legge o per adempienza di tutti quei riti che fanno da corollario alla fede, ma per la loro assimilazione alla croce di Cristo.
"Per questo stanno davanti al trono di Dio". "Per questo", non per altro: dovrebbe farci riflettere seriamente. In un tempo in cui si parla molto di ecumenismo, va ribadita la centralità del Cristo crocifisso come conditio sine qua non per la salvezza.
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3a Domenica di Pasqua (anno C)
(Ap 5,11-14)
Apocalisse 5:11 Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia
Apocalisse 5:12 e dicevano a gran voce: «L'Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione».
Apocalisse 5:13 Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all'Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».
Apocalisse 5:14 E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E i vegliardi si prostrarono in adorazione.
Questo brano rivela la grandezza del nostro Dio. Il nostro Dio è il Creatore di una moltitudine immensa di angeli (v. 11). Questi angeli proclamano la grandezza, la gloria del loro Dio e Signore, testimoni di un'opera di redenzione che non riguarda loro ma l'umanità. Gli angeli del cielo sono preposti per la nostra salvezza. Essi sono a servizio del sacerdozio di ogni fedele discepolo di Gesù. Questo è il loro ministero. Gli angeli proclamano il sacerdozio di Cristo in cielo, aiutano a vivere il nostro sacerdozio sulla terra. Questi angeli, che sono l'esercito celeste di Dio, le sue schiere, potrebbero annientare tutto l'universo in un solo istante, se solo Dio lo volesse.
«L'Agnello che fu immolato» (= Gesù Cristo crocifisso e risorto) è collocato sullo stesso piano di Dio: «Potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione», sono sette qualità che appartengono a Dio. Dagli angeli, Gesù Cristo è proclamato degno di ricevere gli stessi titoli di Dio, degno di essere rivestito della sua stessa gloria, senza alcuna differenza. Le creature angeliche, nella loro moltitudine incalcolabile, proclamano la divinità dell'Agnello. Gli abitanti del cielo proclamano chi è Gesù in cielo: è l'Agnello immolato che viene posto accanto a Dio, è l'Agnello immolato che viene proclamato Dio. Cristo è nostro Dio, questa è la verità da affermare.
L'adorazione nel v. 13 si estende a tutte le creature del cielo e della terra. Tutto il creato è chiamato all'adorazione, è una lode cosmica. Non solo gli angeli, innumerevoli, proclamano la verità di Cristo, ma tutte le creature, dalle più piccole alle più grandi, fanno la stessa confessione di fede: l'Agnello è uguale a Dio. L'inno di gloria già cantato in onore di Dio, è cantato in onore dell'Agnello. Dio e l'Agnello sono accomunati. Se qualcuno nega questa verità commette un gravissimo peccato.
Questa verità è confermata dai quattro esseri viventi (v. 14). Il loro "Amen", il loro "sì", attesta che l'universo intero dice la verità su Dio e su Cristo. Essi sono i rappresentanti delle creature dotate di vita. Sono quattro, è l'universalità che dice "amen". I «vegliardi», simbolo dell'antico e del nuovo popolo di Dio, prostrandosi in adorazione dinanzi all'Agnello riconoscono la sua divinità. Nei vegliardi, il popolo di Dio fa silenzio e contempla in adorazione il Dio vivente.
Cielo e terra, antica e nuova alleanza, tempo ed eternità, sono concordi nella professione di una sola fede: Gesù, l'Agnello immolato, è Dio. Giovanni in questa visione contempla la posizione e la dignità immensa di Cristo, ottenute mediante la sua morte e risurrezione. L'Apocalisse contempla il significato profondo di tutta la storia, riconducendola a due misteri: quello della creazione e quello della redenzione. Ciò che viene preannunciato nel capitolo 4 e appare come realizzato nel capitolo 5 è la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo, fine e senso di tutta la storia, attraverso l'opera di redenzione da Lui stesso compiuta con il suo sacrificio.
Attraverso un cambiamento di prospettiva, l'Apocalisse opera una trasposizione: quello che sulla terra si attua nei segni, in cielo – presso Dio – si attua nella realtà; in altre parole, quello che in terra si contempla mediante la fede e i segni sacramentali, in cielo si contempla mediante la visione, la partecipazione, nella realtà. In particolare:
• Se in terra il luogo della celebrazione è un edificio, con al centro un altare, in cielo il luogo della liturgia è lo stesso cielo, con al centro il trono di Dio.
• Se in terra l'assemblea liturgica è costituita dai (soli) fedeli, in cielo essa è costituita da ogni essere che esiste (vivente), la cui lode coinvolge progressivamente tutto l'universo.
• Se in terra il mistero dell'Agnello si percepisce, si celebra, e si comunica attraverso i segni sacramentali, in cielo esso si percepisce e si celebra in se stesso, ossia nella realtà della visione e della comunione. L'Apocalisse dunque ‘trasferisce’ in cielo la liturgia terrena; questo, conseguentemente, non fa altro che rendere presente e autenticare la stessa liturgia celeste sulla terra, conferendo significato e contenuto a quanto in quest'ultima si celebra. In terra, cioè, si compie, attraverso i segni liturgici e sacramentali, ciò che in cielo si celebra nella realtà. Allo stesso tempo, mediante i segni sacramentali e liturgici, la liturgia celeste si trasmette e coinvolge la terra.
Celebrando la liturgia terrena il lettore, così come ogni credente, contempla la liturgia celeste e, mediante questa contemplazione è in grado di cogliere il senso e il contenuto della prima. Secondo la prospettiva dell'Apocalisse, dunque, l'evento di salvezza, storicamente avvenuto in terra e perciò passato, permane perennemente in cielo, raggiungendo e operando sulla terra mediante i segni sacramentali e i gesti liturgici.
Va da sé che la liturgia terrena che meglio si identifica con la liturgia celeste, è quella della Messa solenne “Vetus Ordo”: il decoro degli abiti e del portamento dei sacerdoti, la presenza invasiva dei profumi d'incenso, il silenzio composto dei fedeli, la musica spianata dell'organo, le voci dei cantori che intonano il gregoriano, uomini e donne inginocchiati e silenti; austerità, fila ai confessionali, ecc. ecc.
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(Ap 1,9-11a.12-13.17-19)
Apocalisse 1:9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù.
Chi scrive è Giovanni. Come molti scritti profetici dell'Antico Testamento cominciano con il racconto della chiamata dei loro autori, così anche Giovanni colloca all'inizio del suo libro il compito che gli è stato affidato e che lo autorizza a scrivere. È lui che riceve la rivelazione di Dio, e prende direttamente la parola in prima persona. Giovanni è "fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù". È “fratello” perché in Cristo è una cosa sola insieme agli altri discepoli. In Cristo siamo tutti figli dell'unico Dio e quindi tutti fratelli gli uni degli altri. È il corpo di Cristo che ci costituisce una cosa sola in Lui. Con ciò viene presentato il contesto in cui il messaggio è nato: l'Apocalisse è in sostanza un messaggio riguardo la tribolazione, ed è un messaggio di speranza rivolto a una comunità perseguitata.
Giovanni è “compagno”, cioè è in comunione con loro, “nella tribolazione”, perché anche lui è perseguitato come loro, insieme a loro. Lui non scrive da fuori della persecuzione, da uomo libero, scrive da dentro la persecuzione. Secondo una tradizione, Giovanni uscì sano e salvo da una botte piena di olio bollente senza la benché minima ustione, e così fu relegato in esilio dall'Imperatore Domiziano, successore di Tito e suo fratello germano.
È compagno “nel regno”, la "basileia", la regalità. C'è una fierezza, una dignità, una regalità che è strutturale nella vita cristiana. Anche Giovanni come loro appartiene a quel regno di sacerdoti costituito da Dio. Tribolazione e regalità sembrano contraddirsi. Non siamo trionfanti eppure ci riconosciamo nell'essere dignitosi, fieri, liberi anche nelle vicende più drammatiche. Giovanni addita la regalità della vita cristiana come un modo di stare dentro a tutte le situazioni più disperate con regalità di vita.
È compagno “nella costanza in Gesù”, perché vuole perseverare sino alla fine come Gesù. Lui di Gesù è il discepolo amato. Lui ha accompagnato Gesù fino alla croce. Ora Giovanni sta amando Gesù nella persecuzione, nel dolore e nella sofferenza. Lo sta amando nella costanza, cioè nella perseveranza sino alla fine. La costanza è la capacità di tener duro, di star sotto ai pesi, di sostenere il carico, la capacità di perseverare anche là dove il carico diventa gravoso. In attesa del glorioso evento della manifestazione del regno, la paziente sopportazione è la virtù specifica dei perseguitati. Incorporati in Cristo per mezzo del battesimo, i cristiani diventano partecipi della sua passione, ma in attesa di partecipare alla sua stessa gloria.
Giovanni è in esilio. Il luogo del suo esilio è l'isola chiamata Patmos. È un'isola rocciosa di circa 26 km quadrati, a circa 100 Km a sud di Efeso, facente parte delle Sporadi. Nell'isola si mostra ancora oggi una grotta dove si dice che l'apostolo abbia ricevuto queste rivelazioni. Eusebio, lo storico della chiesa, scrive che dopo la morte di Domiziano, il senato romano aveva richiamato tutti quelli che erano stati esiliati, e Giovanni da Patmos andò a Efeso. Egli dice anche che Giovanni sopravvisse fino al regno di Traiano. Infatti, l'uso del tempo passato, "mi trovavo nell'isola" suggerisce che lui non si trovava più a Patmos quando ha messo per iscritto le sue visioni. L'isola è una bella figura della Chiesa di Cristo. Come un'isola è continuamente sbattuta dalle onde del mare, così la Chiesa è afflitta dalle persecuzioni. L'apostolo è esiliato in questo luogo di pena “a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù”. Giovanni si presenta come un testimone di Gesù. Lui è il testimone di Gesù che trasmette coraggio a tutti gli altri testimoni di Gesù, perché perseverino nella loro testimonianza sino alla fine.
La parola "testimonianza" evoca l'atmosfera di un processo o di un pubblico dibattito: si testimonia un fatto accaduto e una realtà vissuta personalmente. Non è valida una testimonianza per sentito dire. La testimonianza cristiana è inoltre legata alla sofferenza, al pagare di persona: testimonianza vuol dire martirio. Decidendo di porsi dalla parte di Cristo, il testimone deve sapere che sarà coinvolto nel suo rifiuto da parte del mondo incredulo. È questo l'aspetto che l'Apocalisse sottolinea maggiormente. Giovanni sa che solo chi avrà avuto la forza di andare fino in fondo, come Gesù Cristo, entrerà nel suo regno. Per questo non si risparmia dall'aiutare i suoi fratelli. Il discepolo di Gesù può essere perseguitato per una sola ragione: "a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù", cioè, può essere perseguitato solo perché vero, autentico, fedele discepolo di Gesù. Chi fa questa scelta, dal mondo sarà sempre avversato. È questa, però, la scelta della vita eterna.
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(1Cor 5,6b-8)
1Corinzi 5:6 Non sapete che un pò di lievito fa fermentare tutta la pasta?
1Corinzi 5:7 Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
1Corinzi 5:8 Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità.
Attenzione perché un po' di lievito, cioè aprire uno spiraglio al male, è come aprire una diga e si viene travolti: un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta! Il peccato è come il lievito. Una volta che lo si mette nella pasta santa della comunità, a poco a poco riesce a fermentarla tutta, cioè a trasformarla in pasta di peccato e non più di santità e di verità. Questa è la vera potenza del peccato. Non solo riesce a rovinare un’anima, ma un’anima rovinata riesce a rovinare altre anime in un processo contagioso.
Bisogna togliere il lievito vecchio perché noi siamo una pasta nuova, una pasta che non deve essere lievitata, siamo pasta azzima. Il riferimento è alla celebrazione pasquale con l’immolazione dell’agnello a ricordo dell’Esodo, e dei pani azzimi che venivano mangiati in quella circostanza. L’agnello poteva essere mangiato solo con pane azzimo. In quella notte tutto ciò che apparteneva al passato, al vecchio mondo, doveva scomparire dalla casa. Bisognava iniziare una vita nuova, verso un futuro nuovo, verso un paese nuovo.
Dice Paolo: Togliete via il lievito vecchio, cioè via quella logica sbagliata che vi fa diventare appartenenti al mondo e non più appartenenti a Cristo. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Voi siete azzimi. Nel senso che non avete un vostro lievito e nel caso l’aveste fa parte del mondo, perché nel battesimo il vecchio lievito è stato tolto di mezzo, siamo stati rigenerati in Gesù Cristo e in lui siamo stati fatti una nuova pasta, azzima, senza il lievito del peccato. Questa è ora la nostra realtà.
Bisogna mangiare l’agnello pasquale, e il nostro Agnello pasquale è Gesù Cristo che è stato già immolato, è giù sulla tavola. Come lo si mangia? Con la pasta nuova, ma la pasta nuova siamo noi, allora dobbiamo mangiarlo da pasta nuova, non lo possiamo mangiare da pasta lievitata dal peccato. Questo è il motivo per cui bisogna togliere il peccato, cioè il vecchio lievito, dal nostro cuore. Praticamente Paolo fa notare che Cristo, la nostra Pasqua, è già stato sacrificato: la festa è cominciata, eppure il vecchio lievito è ancora nella casa – che contraddizione!
Per difendersi dal pericolo di essere corrotta, la chiesa deve fare quello che si faceva in ogni casa israelita alla vigilia della Pasqua. Si faceva scomparire con molta scrupolosità tutto il pane con lievito. Il vecchio lievito di cui si deve purificare la chiesa è il principio corruttore dell’uomo vecchio. Ricordiamoci che il nostro agnello pasquale, Gesù Cristo, è già stato immolato una volta, e la sua immolazione non si ripete, e quindi la Pasqua che celebriamo dura sempre, e quindi sempre dobbiamo essere senza lievito. La vita cristiana può paragonarsi ad una festa pasquale continua (il «celebriamo» del v. 8 è presente, indica un’azione continua nel tempo). Se la vita cristiana è paragonata a una continua Pasqua; allora i credenti devono continuamente eliminare il lievito dalla propria vita e dalla comunità.
Se non mangiamo Cristo, non possiamo lasciare la terra di schiavitù. Rimaniamo prigionieri del nostro peccato. Se non possiamo mangiare Lui, Cristo non serve alla nostra vita. Se Cristo non ci serve, a che serve che noi siamo cristiani? A nulla.
Per Paolo ci sono tre modi di mangiare Cristo, di celebrare la nostra cena pasquale con Lui. Il primo modo è quello di celebrarla con il lievito vecchio, cioè in uno stato di peccato. Questo modo non è secondo Dio. Questo modo non ci consente di mangiare la Pasqua. Se la mangiamo diviene per noi motivo di condanna. È peccato grave mangiare Cristo, nostra Pasqua, con il lievito vecchio, cioè con il peccato grave nel cuore, senza pentimento, senza volontà di abbandonare questo lievito, senza aver deciso di liberarci di esso.
Il secondo modo è di celebrarla con lievito di malizia e di malvagità. La malizia e la malvagità sono malattie del cuore che non cerca Dio, che non lo desidera, e tuttavia convive con il Vangelo. La malizia toglie il bene dal cuore e vi mette il male, la persona pensa, vuole, e giudica tutto secondo questo criterio di male con il quale convive. Anche questo modo non è secondo Dio.
Il terzo modo di celebrarla, quello giusto, è con gli azzimi della sincerità e della verità. Con la sincerità e la verità nel cuore si inizia quel cammino che deve portarci al conseguimento della nostra meta spirituale che è il raggiungimento del regno dei cieli, in attesa della risurrezione gloriosa del nostro corpo in Cristo, con Cristo e per Cristo.
Per molti, la sincerità significa semplicemente avere sulle labbra ciò che c’è nel cuore, e secondo questi sentimenti agire. Questa sincerità spesso convive con il peccato; la persona sincera commette il peccato apertamente, senza neanche quel pudore che è il segno che ancora vive in noi un poco di timor di Dio. Questa sincerità è deplorevole, perché è una sincerità che scusa il male e chi lo commette. La sincerità che raccomanda Paolo, invece, è la purezza delle motivazioni, la purezza di un cuore sincero senza l’aggiunta di sostanze estranee, intese qui come il peccato, che adulterano le motivazioni pure e le opere dei santi. La vita sincera è una vita che può sostenere l’esame più accurato, una vita le cui caratteristiche sono l’onestà intellettuale e la sincerità morale.
La Pasqua antica era soltanto l’immagine di una festa di molto superiore per significato e per importanza. Il sacrificio dell’agnello che inaugurava la Pasqua era l’ombra dell’unico sacrificio veramente efficace ed eterno dell’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. La liberazione dall’Egitto ricordata dalla Pasqua ebraica, era la figura della liberazione dalla servitù del peccato e della morte eterna, liberazione procurata da Cristo per tutti i credenti, che per la fede in lui ora sono costituiti in popolo di Dio. Il modo di celebrazione della Pasqua (senza azzimi) era l’emblema della vita di riconoscenza e santità che deve condurre la chiesa.
Celebriamo dunque la festa, dice Paolo, la festa del vero passaggio, del vero esodo, con azzimi di sincerità e di verità.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Lc 22,14 - 23,56)
Luca 22:14 Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui,
Luca 22:15 e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione,
Luca 22:16 poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio».
Luca 22:17 E preso un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi,
Luca 22:18 poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio».
Luca 22:19 Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me».
Luca 22:20 Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi».
Luca 22:39 Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono.
Il v. 14 funge da cornice al racconto della cena pasquale al cui interno si colloca l'istituzione dell'eucaristia. Un versetto molto denso, scandito in tre parti. La prima è una nota temporale molto significativa, che introduce il racconto pasquale: “Quando fu l'ora”. L'ora è giunta. È la cena pasquale. Qui avviene l'incontro e il completamento-sostituzione di due eventi salvifici, che vengono strettamente legati alla passione-morte-risurrezione di Gesù: la celebrazione della pasqua ebraica, l'evento della liberazione di Israele. L'altro evento, complementare e sostitutivo del primo, sono il pane e il vino, elementi essenziali e propri della pasqua ebraica, ma che qui, in questa “ora”, vengono risignificati, perché rappresentativi di una nuova liberazione, che ha come fondamento un pane-corpo spezzato e un vino-sangue versato “per voi”, dove in quel “per voi” si ritrova chiunque abbia deciso la propria vita per quel pane spezzato e per quel vino versato. Si tratta, dunque, di un'ora che costituisce il vertice della storia della salvezza, dove tutto ciò che è stato prefigurato trova in quest'ora il suo compimento, che ritualizza in quel pane-corpo spezzato e in quel vino-sangue versato l'evento salvifico che si fa offerta di salvezza per chiunque lo accolga nella propria vita.
La seconda parte del v. 14 presenta un Gesù che prende posto a tavola. Non si parla di sedersi, ma di reclinarsi, adagiarsi, sdraiarsi, distendersi (greco: “anepesen”), alla maniera propria del mondo greco-romano, ma che aveva assunto per l'ebreo il significato di una posizione che qualificava l'uomo libero; mentre la terza parte del v. 14 afferma “gli apostoli con lui”. Gli apostoli sono quelli che Gesù ha chiamato con sé perché condividessero la sua sorte, il ceppo fondativo della chiesa. Ed è proprio in questa prospettiva che l'evangelista attesta che anche gli apostoli si adagiano con Gesù a quella tavola del pane-corpo spezzato e del vino-sangue versato, condividendone in tal modo la sorte. Si tratta - lo sdraiarsi alla mensa con Gesù in cui viene ritualizzata la sua morte - di una vera e propria sequela che in qualche modo riecheggia, anticipandolo, il v. 39 in cui si racconta che Gesù “uscito, se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono”.
Il v. 15 apre la pericope relativa alla pasqua ebraica che qui, in quel “prima della mia passione”, viene legata alla passione e morte di Gesù; ma si intuisce anche come in quel “prima” questa pasqua ebraica sia anche l'ultima. Si comprende in tal modo l'esprimersi di Gesù (“ho desiderato ardentemente”), per dire la sua grande attesa per questa pasqua, posta alle soglie del suo patire e morire. Una pasqua di addio, quindi, ma non di abbandono, poiché saranno proprio i vv. 19-20, che nel riprendere la gestualità della pasqua ebraica la riscatteranno, divenendone riferimento perpetuo (“in memoria di me”), in cui si ritrova una nuova presenza di Gesù sotto forma di pane e di vino e che ha il suo compimento in lui, vero agnello pasquale immolato.
Luca, nel rilevare il grande desiderio e la grande attesa di Gesù per questa pasqua, l'ultima che egli avrebbe celebrato con i suoi, focalizza l'espressione “mangiare questa pasqua con voi”, così che in qualche modo, in quella pasqua, i discepoli sono coinvolti nei destini di Gesù. Una pasqua che, tuttavia, ha la sua compiutezza soltanto nel Regno di Dio, denunciandone in tal modo la sua incompiutezza e, quindi, tutta la sua inconsistenza e fragilità. In altri termini, una pasqua (quella ebraica) che ha liberato, ma non è più liberante.
La questione del valore salvifico di questa pasqua è qui affrontata da Luca nella contrapposizione tra i verbi “mangiare” e “non mangiare” del v. 16, verbo quest'ultimo, come il “non bere” del v. 18, posto al futuro; come dire ‘mai più mangerò e mai più berrò’, togliendo a questa pasqua il senso di “celebrazione liberante”: “finché essa non si compia nel regno di Dio”, assegnandole in tal modo una dimensione escatologica.
Il presente della pasqua ebraica, infatti, che celebra la liberazione di Israele dall'oppressione egiziana, ha in se stessa un senso incompiuto, che era racchiuso in un memoriale ripetitivo che non trova sbocchi nella storia se non in un ricordo glorioso, che simile al muro del pianto, ricorda la grandiosità delle gesta di Yahweh. Una pasqua, quindi, sterile - che non apre Israele al futuro, ma lo rinchiude nel suo passato attraverso una ritualità che non gli consente sbocchi, così che la liberazione in essa celebrata diventa una liberazione incompiuta. Per questo Gesù e con lui i suoi non ne mangeranno più e non solo perché egli verrà ucciso da lì a poco. Liberazione che, tuttavia, ritroverà il suo senso e la sua compiutezza in quel Regno di Dio, che Gesù è venuto a rivelare e a fondare, e che quella pasqua in qualche modo prefigurava, celebrando una liberazione che in realtà ne prefigurava un'altra e nella quale troverà la sua compiutezza, divenendo pasqua liberante.
Gesù, dunque, non mangerà più di questa pasqua, e con lui i suoi discepoli, perché questa è stata trasferita in una nuova pasqua e da questa sostituita, in un nuovo esodo dalla schiavitù alla libertà, significato nel passaggio dalla morte alla vita di Gesù, che incide sulla vita di ogni singolo credente nel suo oggi, il quale mangiando di questa nuova pasqua, annuncia nella testimonianza della propria vita questo passaggio dalla morte alla vita - nell'attesa del suo ritorno. Viene a crearsi in tal modo una forte tensione escatologica tra il ‘già e il non ancora’; orientando l'intera umanità credente verso una meta che va al di là dello spazio e del tempo, dove l'oggi incompiuto trova la sua compiutezza e il suo senso e dove il tempo incompiuto diventa eternità compiuta.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Sal 17 (18)
Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.
Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.
Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.
La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.
Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.
L’arma vincente di Davide è la fede che si trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco cosa fa Davide: nell’angoscia non si perde, non si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.
Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.
Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.
«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.
«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.
«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.
«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.
Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.
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The fool in the Bible, the one who does not want to learn from the experience of visible things, that nothing lasts for ever but that all things pass away, youth and physical strength, amenities and important roles. Making one's life depend on such an ephemeral reality is therefore foolishness (Pope Benedict)
L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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