don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mercoledì, 30 Aprile 2025 09:52

3a Domenica di Pasqua (anno C)

Terza Domenica di Pasqua [4 maggio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questi giorni, essendo intensa la preghiera della Chiesa in attesa della scelta del successore di Pietro, assume grande valore la proclamazione del Vangelo (Gv 21, 1-19) che riguarda proprio Pietro.

*Prima Lettura, dagli Atti degli Apostoli (5, 27b-32. 40b-41)

 Dopo che gli apostoli sono stati flagellati per la loro predicazione, san Luca scrive che usciti dal sinedrio se ne andarono lieti di essere stati ritenuti degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. Del resto il Signore aveva loro predetto che sarebbero stati odiati, messi al bando, insultati e infamati a causa del Figlio dell’uomo e che proprio quello sarebbe stato il momento di rallegrarsi e addirittura esultare perché grande è la ricompensa nei cieli dato che così capitava anche ai profeti (cf Lc 6,22-23). Del resto, se hanno perseguitato il Maestro, faranno lo stesso con voi (cf. Gv 15,20). Pietro e Giovanni, dopo la guarigione dello storpio alla Porta Bella, miracolo che fece molto rumore in città, erano stati processati davanti al Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, il medesimo che qualche settimana prima aveva condannato Gesù. Appena liberati, avevano ripreso a predicare e a fare miracoli. Arrestati nuovamente e messi in prigione, durante la notte furono scarcerati da un angelo e si capisce che quest’intervento miracoloso li rese ancor più forti; ripresero infatti a predicare. Il brano di oggi ci situa proprio in questo momento: arrestati ancora una volta e portati in tribunale, al sommo sacerdote che li interroga Pietro risponde che “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Parla poi della differenza tra la logica di Dio e quella degli uomini: quella degli uomini, cioè quella del tribunale giudaico, ritiene che a un malfattore ucciso non bisogna certo far pubblicità. E argomenta così: Gesù, agli occhi delle autorità religiose, è un impostore crocifisso perché si doveva impedirgli di ingannare il popolino incline a dar credito a ogni presunto messia. Un condannato appeso alla croce, secondo la Torah, diventa maledetto persino da Dio. Esiste però anche la logica di Dio: voi avete crocifisso Gesù eppure, contro ogni previsione, non solo non è maledetto da Dio ma innalzato alla destra di Dio che l’ha fatto Principe e Salvatore per concedere a Israele la conversione e il perdono dei peccati. Parole che suonano scandalose per i giudici esasperati dalla sicurezza degli apostoli per cui molti decidono di eliminarli come fecero con Gesù. Interviene però Gamaliele, che invita il Sinedrio alla prudenza perché se quest’opera è di origine umana si distruggerà da sola, ma se viene da Dio questo non avverrà mai; anzi li mette in guardia perché “non vi accada di combattere contro Dio “(At 5,34-39). L’odierna lettura liturgica salta l’episodio di Gamaliele e narra direttamente la risposta di Pietro al tribunale deciso a flagellare gli apostoli e poi a liberarli. La storia mostra che nella Chiesa da sempre ci sono persecuzioni, scandali e attacchi di ogni tipo, eppure continua a camminare nei secoli. Scrive sant’Agostino: ““La città di Dio avanza nel tempo, pellegrinando tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio.” (De Civitate Dei, XIX, 26).

*Salmo responsoriale  29 (30), 3-4, 5-6ab, 6cd.12, 13

Il Salmo 29 (30) è molto breve, solo tredici versetti (di cui otto soltanto proposti nell’odierna liturgia). Leggendo l’intero salmo si percepisce la situazione di un disperato che ha fatto di tutto per essere salvato, gridando, supplicando, chiedendo aiuto. Ci sono persone che addirittura godono nel vederlo soffrire e lo deridono, ma lui continua a invocare soccorso finché qualcuno finalmente ascolta e lo libera. A intervenire è Dio stesso e, liberato dall’oppressione, il disperato esplode di gioia. L’incipit del salmo dà il tono a tutto il resto: “Ti esalto, Signore perché mi hai risollevato e non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me”. In ogni salmo ci sono due livelli di lettura: e anche qui l’avventura d’un tale che, pur avendo subito un inatteso crollo nella sua vita, continua a essere certo che alla fine sarà liberato, è immagine d’Israele che dopo l’esilio babilonese esplode di gioia, come aveva esultato dopo il passaggio del Mar Rosso. Nei momenti tragici Israele confida in Dio: “Nella mia sicurezza dicevo: mai potrò vacillare”; grida al Signore: “Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore vieni in mio aiuto!” e utilizza ogni argomento possibile arrivando a provocare Dio: “a che ti servirebbe se io morissi, A che ti servirebbe il mio sangue se scendessi nella tomba?”  E quando il salmista dice: “La polvere può forse lodarti, annunciare la tua fedeltà?” ci fa capire che allora si credeva che dopo la morte c’era il nulla per cui inutili davanti alla morte erano preghiere, sacrifici, canti. Dio però ascolta e compie il miracolo: “Ho gridato verso di te, mio Dio, e mi hai guarito; Signore mi hai fatto risalire dall’abisso e rivivere quando stavo per morire”. Questo salmo trova il suo compimento nel grido pasquale dell’Alleluia perché il Signore ci ha liberati dalla schiavitù del male. Tra i commenti rabbinici ho trovato questo: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto al giorno di festa, dalle tenebre alla luce splendente, dalla schiavitù alla Redenzione. Per questo cantiamo davanti a lui l’Alleluia!”

*Seconda Lettura: Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (5, 11-14)

Il libro dell’Apocalisse è un inno alla vittoria narrato con molte visioni. Nell’odierno testo milioni e milioni di angeli gridano a squarciagola in cielo: “lunga vita al Re!” mentre in terra, mare e sotto terra, ogni creatura che respira inneggia al nuovo Re, Gesù Cristo: l’Agnello immolato, acclamato mentre riceve “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Per descrivere la regalità di Cristo, la visione utilizza un linguaggio di immagini e di numeri; un testo quindi ricco perché solo il linguaggio simbolico può introdurci nel mondo di Dio ineffabile e lindicibile. Si tratta, al tempo stesso, di un testo difficile perché si serve di immagini, colori e numeri ricorrenti, non facili da interpretare. Difficile è voler afferrare il senso nascosto di un passaggio come l’espressione “i quattro esseri viventi” che nel capitolo precedente sono quattro esseri alati: il primo con volto d’uomo, gli altri tre di animali – un leone, un’aquila, un toro – e siamo abituati a vederli in molti dipinti, sculture e mosaici, credendo di sapere senza esitazione a chi si riferiscano. Sant’Ireneo, nel II secolo, propose una lettura simbolica: per lui i quattro viventi sono i quattro evangelisti; sant’Agostino riprese la stessa idea, modificandola leggermente e la sua interpretazione è rimasta nella tradizione: secondo lui Matteo è il vivente dal volto d’uomo, Marco il leone, Luca il toro e Giovanni l’aquila. Biblisti moderni non sembrano d’accordo perché per loro l’autore dell’Apocalisse ha ripreso un’immagine di Ezechiele, dove i quattro esseri sostengono il trono di Dio e rappresentano semplicemente il mondo creato. Pure per i numeri è difficile l’interpretazione. Secondo molti il numero 3 simboleggia Dio; il 4 il mondo il creato in ragione dei quattro punti cardinali; il 7 (3+4) evoca sia Dio e il mondo creato nella sua pienezza e perfezione, mentre il 6 (7–1) sta per incompletezza, imperfezione. Singolare interesse riveste quest’acclamazione: ”L’Agnello che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e lode”:  potenza e ricchezza, sapienza e forza rimandano al successo terreno, onore, gloria e lode sono riservati a Dio. Si tratta in totale di sette parole: questo per dire che l’Agnello immolato, cioè Gesù è pienamente Dio e pienamente uomo, il tutto espresso con la forza suggestiva del linguaggio simbolico. Tutte le creature che sono in cielo, sulla terra, sotto la terra e sul mare proclamano così la loro sottomissione a Dio che siede sul Trono e all’Agnello: “A colui che siede sul Trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli”. L’insistenza di Giovanni mira a esaltare la vittoria dell’Agnello immolato: sconfitto agli occhi degli uomini, è il grande vincitore. Contempliamo qui il mistero che sta nel cuore del Nuovo Testamento, che è al tempo stesso il suo paradosso: il Signore del mondo si fa il più piccolo, il Giudice dei vivi e dei morti viene giudicato come un malfattore; colui che è Dio viene accusato di bestemmia e rifiutato proprio in nome di Dio. Tutto questo avviene perché Dio lo ha permesso. Utilizzando questo linguaggio san Giovanni ha un duplice obbiettivo: da una parte offre alla comunità una risposta allo scandalo della croce fornendo argomenti ai cristiani che discutevano aspramente con gli ebrei a proposito della morte di Cristo. Per gli ebrei era chiaro che non era il Messia perché nel Deuteronomio è scritto che “chiunque sia stato condannato a morte in base alla legge, giustiziato e appeso a un legno, è un maledetto di Dio” (Dt 21,22). Per i cristiani, invece, alla luce della risurrezione la sua morte è l’opera di Dio e la croce costituisce  il luogo dell’esaltazione del Figlio, come Gesù stesso aveva annunciato: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, voi conoscerete che “Io Sono”» (Gv 8,28). Cioè riconoscerete la mia divinità: “Io Sono” è esattamente il nome di Dio (Es, 3,14). In un misero condannato brilla la gloria di Dio e nella visione di Giovanni l’Agnello riceve gli stessi onori e le stesse acclamazioni di colui che siede sul Trono. In secondo luogo, con l’Apocalisse Giovanni voleva sostenere i cristiani nell’ora della prova perché sulla croce l’Amore ha vinto l’odio e, in fondo è proprio questo il messaggio dell’Apocalisse a sostegno dei cristiani perseguitati

*Dal Vangelo secondo Giovanni (21, 1-19)

Giovanni precisa in questo testo la presenza di sette apostoli (21,2). Poiché le sette Chiese dell’Apocalisse rappresentano tutta la Chiesa, si può ritenere che i sette apostoli indicano i discepoli di ogni tempo, cioè l’intero mondo cristiano. Questo capitolo, come spesso succede nel IV vangelo, è tutto simbolico. Vediamo solo qualche esempio. 

1. Quando la barca tocca la riva, nonostante che i discepoli trovano un fuoco di brace con del pesce e del pane, Gesù chiede loro di portare il pesce pescato da loro. Probabilmente questo il messaggio: nell’opera di evangelizzazione, da quando ha chiamato Pietro «pescatore d’uomini», Gesù ci precede (ecco il  pesce già posto sul fuoco prima dell’arrivo dei discepoli), ma chiede sempre la nostra collaborazione.

2. Altro punto è il dialogo tra Gesù e Pietro di cui la traduzione italiana ha cercato di rendere in qualche modo la sottigliezza del verbo greco utilizzato per amare. Commentando i versetti 15-17 nella catechesi del 24 maggio 2006, Benedetto XVI osserva l’uso dei due verbi agapaō e phileō.  In greco phileō esprime l’amore d’amicizia, affettuoso ma non totalizzante; agapaō l’amore senza riserve. La prima volta Gesù chiede a Pietro: “Simone… mi «agapā̄s me»?” (21,15), cioè “Mi ami di quell’amore totale e incondizionato?”, Pietro però non risponde con agapaō ma con phileō, dicendo: “Signore, ti amo (phileō) come so amare”. Gesù ripete il verbo agapaō nella seconda domanda, ma Pietro insiste con phileō. Infine, la terza volta, Gesù chiede solo “phileîs me?”e Simone comprende che il suo povero amore basta a Gesù. Si può dire che Gesù si è adattato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù ed è quest’adattarsi di Dio che dà speranza al discepolo, che ha provato la sofferenza dell’infedeltà. Come nella notte tra giovedì e venerdì, Pietro negò tre volte di conoscere quell’uomo, ora Gesù lo interroga tre volte: infinita delicatezza per permettergli di cancellare il suo triplice rinnegamento. Da qui nasce la fiducia che lo renderà capace di seguire il Cristo fino alla fine. 

3. Ogni volta Gesù fonda la sua domanda su quest’adesione di Pietro per affidargli il ministero di pastore della comunità: “Pasci le mie pecore”. La nostra relazione con il Cristo ha senso e verità se realizza una missione al servizio degli altri. Gesù infatti precisa “mie” pecore: Pietro è invitato a condividere il “peso” di Cristo. Non è proprietario del gregge, ma la cura che dedicherà al gregge di Cristo costituirà la verifica del suo amore per lo stesso Cristo. Quando Gesù gli chiede se mi ami più di costoro non è da intendere “poiché mi ami più degli altri, ti affido il gregge”, ma al contrario. Proprio perché ti affido questo compito, dovrai amarmi di più e ricorda che in qualunque ambito ecclesiale accettare un incarico pastorale comporta molto amore gratuito. Sant’Agostino commenta: «Se mi ami, non pensare che tu sia il pastore; ma pasci le mie pecore come mie, non come tue.»

4. Abbiamo anche qui un racconto di apparizione del Risorto, ma il termine apparizione non deve ingannarci perché Gesù non viene da altrove per poi scomparire; anzi è presente in permanenza presso i suoi discepoli, presso di noi come aveva promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per questo è meglio che apparizione usare il termine manifestazione. Cristo è Invisibile, ma non assente e nelle apparizioni di allora e di ogni tempo si rende visibile (in greco: “si dà a, si fa vedere”). Queste manifestazioni della presenza di Cristo sono un sostegno per rafforzare la nostra fede: ricche di dettagli concreti, talvolta sorprendenti, ma con alto valore simbolico. 

5. Quale significato hanno i 153 pesci? Pare che allora si conoscevano esattamente centocinquantatre specie di pesci. Per sant’Eusebio di Cesarea è un modo simbolico per indicare una pesca al massimo rendimento. E in seguito diventa il simbolo teologico della pienezza della salvezza operata da Cristo tramite la Chiesa nei secoli che raccoglie tutti, giudei e pagani, in un’unica fede.

 

NOTA. Il cap.20 del IV vangelo si conclude dicendo che Gesù fece molti altri segni in presenza dei discepoli, che non sono scritti in questo libro perché noi crediamo  che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiamo la vita nel suo nome (20, 30-31). E’ dunque un bel finale e perché il capitolo 21? Per molti è stato aggiunto in un secondo tempo, quasi come un post-scriptum per chiarire la questione della preminenza di Pietro, già avvertita nelle prime comunità cristiane. Detto altrimenti, può sorprendere il ruolo di Pietro in un racconto di apparizione di Cristo sotto la penna di san Giovanni e questo fa pensare a uno dei problemi delle prime comunità cristiane. Per questo sembrò utile ricordare alla comunità legata alla memoria di Giovanni che, per volontà di Cristo, il pastore della Chiesa universale è Pietro e non Giovanni. “Quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (v.18), frase che segue immediatamente la consegna a Pietro: “pasci le mie pecore” e sembra indicare con chiarezza che la missione affidata a Pietro è di servizio e non di dominio. All’epoca, la cintura era indossata dai viaggiatori e dai servitori: ecco un doppio segno per i servitori itineranti del Vangelo. Pietro morirà fedele al servizio del vangelo; ecco perché Giovanni spiega: Gesù “questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”(v.19) e ciò fa supporre che questo capitolo sia posteriore alla morte di Pietro (durante la persecuzione di Nerone, nel 66 o 67). In genere si pensa che il vangelo di Giovanni sia stato scritto molto tardi e alcuni persino ipotizzano (a partire da Gv 21,23-24) che la stesura finale sia posteriore alla sua stessa morte.

+Giovanni D’Ercole

Mercoledì, 23 Aprile 2025 09:17

2a Domenica di Pasqua

Seconda Domenica di Pasqua [27 Aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questi giorni mentre preghiamo per il nostro papa Francesco partito per la casa del Padre, invochiamo insistentemente la luce dello Spirito Santo sulla Chiesa e in particolare sui cardinali che dovranno eleggere colui che il Signore ha scelto a guida della sua Chiesa dopo papa Francesco. 

 

*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (5,12-16) 

Ecco una presentazione della prima comunità cristiana che sembra quasi troppo bella per essere vera (Negli Atti degli Apostoli ci sono quattro riassunti della vita ai primordi della Chiesa At 2,42-47 il più noto e dettagliato; At 4,32-35 sottolinea la comunione dei beni; At 5,12-16 mette in luce i miracoli e la crescita; At 6, 7 sommario breve della diffusione del vangelo). Non dobbiamo però dedurne che tutto era perfetto perché nelle prossime domeniche vedremo ogni sorta di difficoltà: i primi cristiani erano uomini, non superuomini. Perché allora san Luca presenta questo quadro ideale? Perché intende incoraggiare anche noi a camminare nella stessa direzione: una comunità fraterna è condizione indispensabile per l’annuncio e la testimonianza del vangelo. Poiché gli apostoli seguivano il comando di Cristo, Il contagio del vangelo è stato irresistibile: “Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8) e niente è riuscito a impedire alla Chiesa nascente di svilupparsi. Nota san Luca che “tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone”. Siamo ancora a Gerusalemme, dato che la risurrezione di Cristo è vicina nel tempo, esattamente nel Tempio di Gerusalemme sotto il portico di Salomone (tutto il muro orientale del Tempio era in realtà un colonnato che costeggiava un largo corridoio coperto, luogo di passaggio e di incontro, accessibile a tutti non facendo parte della zona riservata ai soli Giudei). Dopo la morte e risurrezione di Gesù, gli apostoli, essendo e restando giudei, continuavano a frequentare il Tempio. Anzi, la loro fede giudaica si era  rafforzata avendo visto negli eventi pasquali realizzate le promesse dell’Antico Testamento. Solamente dopo e progressivamente avverrà la divisione tra cristiani e i giudei che non riconoscevano Gesù come il Messia, anche se già in questo testo se ne avverte un primo segnale: “nessuno degli altri osava associarsi a loro”, il che ci dice che i cristiani già formavano un gruppo distinto all’interno del popolo giudeo. Luca traccia qui un parallelo con gli inizi della predicazione di Gesù: “Anche la folla dalle città vicine a Gerusalemme accorreva portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti” ; nel vangelo aveva scritto la stessa cosa di Gesù: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano malati affetti da varie infermità li conducevano a lui…. anche i demoni uscivano da molti” (Lc 4,40-41). Se insiste sulle guarigioni di Pietro e degli apostoli chiaro è il messaggio: continua l’opera del Messia attraverso gli apostoli e dice alla sua comunità: tocca a voi prendere il testimone degli apostoli perché il Cristo conta su di voi. Ed è interessante costatare che, grazie alla testimonianza degli apostoli, le folle non si univano agli apostoli, ma attraverso gli apostoli, al Signore: “Sempre più, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di di uomini e donne”. Si tratta di un dettaglio importante perché le conversioni non sono opera degli apostoli, ma di Cristo che agisce quando la comunità è formata di persone con “un cuore solo” e “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). San Pietro e gli altri apostoli non si presentavano come superuomini, anzi Pietro dirà a Cornelio, che si era inginocchiato davanti a lui: “Alzati. Anche io sono un uomo.” (At 10,26). Se nelle nostre comunità mancano segni e miracoli non sarà forse un invito a vivere sinceramente nell’amore di Cristo? 

 

*Salmo responsoriale (117 (118), 2-4, 22-24, 25-27a)

Torna il salmo 117 (118) cantato già nella Veglia pasquale e il giorno di Pasqua, e lo troviamo ogni domenica del tempo ordinario nell’Ufficio delle Lodi (Liturgia delle Ore). Per gli ebrei, questo salmo riguarda il Messia; noi cristiani vi riconosciamo il Messia atteso da tutto l’Antico Testamento, il vero re, il vincitore della morte. Come altri salmi anche questo va meditato in un duplice livello: nella prospettiva dell’attesa ebraica del Messia, e alla luce della fede dei convertiti in Cristo risorto. Per gli Ebrei è un salmo di lode che comincia con Alleluia, il cui significato è “lodate Dio” e che dà il tono all’insieme. Si tratta di ventinove versetti dove torna più di trenta volte la parola Signore (le famose quattro lettere del Nome di Dio in ebraico YHWH), o almeno Yah, che ne è la prima sillaba e sono tutte frasi, una vera litania, di lode per la grandezza, l’amore e l’opera di Dio verso il suo popolo. il salmo cantato accompagna un sacrificio di ringraziamento durante la festa delle Capanne, che dura otto giorni in autunno. Il rito più visibile per gli stranieri di questa festa avviene fuori dal Tempio. Durante l’intera settimana tutti abitano in capanne di frasche, le Capanne o Tabernacoli (Sukkot è il nome della festa), facendo memoria delle tende del deserto e dell’ombra protettrice di Dio nell’Esodo. Dentro il Tempio ci sono celebrazioni il cui punto comune è il rinnovamento dell’Alleanza (e durante le quali i pellegrini agitano dei rami anzi un mazzetto, il lulav, composto da una palma, un ramo di mirto, un ramo di salice e un cedro. Si svolge infine una grande processione attorno all’altare con in mano questi mazzi di lulav cantando salmi intervallati da Hosanna, che significa sia «Dio salva» o «Dio, salvaci». Ci sono riti di libagione d’acqua versata presso l’altare (cf Gv 7,37) e nelle sere precedenti l’ultimo giorno una grande illuminazione del cortile delle Donne nel Tempio con quattro candelabri dorati, alimentati con olio e stoppini ricavati da abiti sacerdotali dismessi e la luce così prodotta era così intensa che illuminava tutta Gerusalemme. E’ dunque una festa di fervore e gioia, che anticipa la venuta del Messia: si rende grazie per la salvezza già compiuta e si accoglie la salvezza che porterà il Messia che non tarderà a venire: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”). Quando Gesù si proclama  vera “luce del mondo” (Gv8,2) lo fa probabilmente dopo la conclusione della festa con la memoria viva di quel rito luminoso. Nei versetti scelti per l’odierna liturgia mancano tutti gli elementi della festa delle Capanne, ma non la gioia nei cuori dei credenti: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore:, rallegriamoci in esso ed esultiamo …Dica Israele: Il suo amore è per sempre” . Per narrare la bontà del Signore lungo tutta la storia d’Israele, il salmo narra di un re che dopo una guerra spietata ha vinto e ringrazia Dio per averlo sostenuto: “Mi hanno spinto, mi hanno urtato per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto” (v.13), “Tutte le nazioni mi hanno circondato: nel nome del Signorele ho distrutte” (v.10), e ancora: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore” (v.17). In realtà, nella storia di questo re è narrata quella Israele che lungo la sua storia ha sfiorato l’annientamento ma il Signore l’ha risollevato, e ora canta nella festa delle Capanne: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore”. Israele sa di dover testimoniare le opere del Signore e da questa consapevolezza ha attinto la forza per sopravvivere a tutte le sue prove. La festa ebraica delle Capanne per noi cristiani trova un’eco nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, la domenica delle Palme, ma soprattutto l’esultanza di questo salmo si addice al Risorto che gli evangelisti, ciascuno a suo modo, hanno presentato come il vero re (Matteo nella visita dei Magi, Giovanni, nel racconto della Passione). Meditando il mistero del Messia rifiutato e crocifisso, gli apostoli hanno scoperto un nuovo senso in questo salmo: Gesù è veramente “colui che viene nel nome del Signore”, pietra scartata dai costruttori, rifiutato dal suo popolo, Cristo è la pietra angolare di fondazione del nuovo Israele. Questo salmo era cantato a Gerusalemme in occasione di un sacrificio di ringraziamento e Gesù ha appena compiuto il sacrificio di ringraziamento per eccellenza: Egli è il nuovo Israele che rende grazie al Padre in un’eterna azione di grazie, iinaugurando tra Dio e l’umanità la nuova Alleanza in cui l’umanità è risposta d’amore all’amore del Padre.

Nota  La pietra angolare: su questa espressione, vedi il commento al salmo 117 (118) per la domenica di Pasqua.

 

*Seconda Lettura Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (1, 9-11a.12-13.17-19)

Per sei domeniche consecutive leggeremo come seconda lettura brani dell’Apocalisse, una grande opportunità per familiarizzare con uno dei libri più affascinanti del Nuovo Testamento, apparentemente difficile e bisognoso d’un certo sforzo. “Apocalisse” significa rivelazione, svelamento nel senso di togliere un velo e Giovanni rivela il mistero della storia nascosto ai nostri occhi e poiché deve mostrarci ciò che non vediamo, il libro ci parla con delle visioni («vedere» o «guardare» è usato cinque volte solo nel brano di oggi). Nel comune sentire Apocalisse è sinonimo di catastrofe, pessimo fraintendimento, perché l’Apocalisse come l’intera Bibbia è una Buona Notizia. Nel loro genere letterario, le apocalissi, come l’intera Bibbia, comunicano l’amore di Dio e la vittoria definitiva dell’amore su ogni male. Per noi, che viviamo in un contesto culturale diverso, ci resta quasi impossibile percepire perché questo linguaggio simbolico e capire a chi l’autore si rivolge. In realtà egli usa il linguaggio delle visioni perché tutti i libri dello stesso genere sono nati in un periodo di forte persecuzione dei cristiani (tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. sono state scritte diverse apocalisse da autori diversi). Lo fa capire san Giovanni: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. A Patmos era in esilio, non in vacanza ed essendo in piena persecuzione, questo testo circolava di nascosto per confortare le comunità. Tema principale è la vittoria finale di coloro che erano oppressi: vi perseguitano e i vostri persecutori prosperano, ma non perdete coraggio perché Cristo ha vinto il mondo. Le forze del male non possono nulla contro di voi essendo già sconfitte e il vero re è Cristo. Giovanni l’afferma all’inizio: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù”. Per evitare che i persecutori capiscano si raccontano storie di altri tempi usando visioni fantasiose in modo da scoraggiare la lettura da parte dei non iniziati. Ad esempio, san Giovanni presenta malissimo Babilonia, che definisce la grande prostituta, ma si capisce che parla di Roma. Insomma, il messaggio di ogni Apocalisse è che le forze del male non prevarranno mai. Nell’odierna lettura la vittoria di Cristo è mostrata in questa visione grandiosa: è domenica, giorno del Signore,  rapito dallo Spirito Giovanni sente una voce potente come una tromba, e fra sette candelabri d’oro gli appare un essere di luce, un “figlio d’uomo”. Figlio dell’uomo è nel Nuovo Testamento un’espressione usata per indicare il Messia, il Cristo. Lui cade ai suoi piedi mentre lo ascolta: “Non temere! Io sono (cioè il nome stesso di Dio YHWH) il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo… e ho le chiavi della morte e degli inferi.”.  Si tratta di una visione che è per il servizio dei fratelli: “Scrivi le cose che hai visto”, cioè incoraggiali e sappi che passato, presente e futuro mi appartengono. Percepiamo qui la promessa di Cristo: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà (Gv 11,25).

 

Nota: Gli esegeti concordano nel ritenere Giovanni l’autore dell’Apocalisse scritta sotto il regno dell’imperatore Domiziano (81-96) anche se quest’imperatore non ha organizzato una persecuzione sistematica dei cristiani. La comunità di Giovanni vive però in un clima di insicurezza: egli stesso è esiliato e, nel corso del libro, si fa menzione di martiri. I cristiani si confrontano con le esigenze del culto imperiale promosso da Domiziano, e sembra che alcuni governatori locali abbiano mostrato particolare zelo. Inoltre, i cristiani incontrano l’opposizione dei Giudei rimasti ostili al cristianesimo. Questo sembra emergere anche dalle lettere alle sette Chiese. Ci sono inoltre altri esempi di Apocalissi. Nell’Antico Testamento, il libro di Daniele contiene un messaggio apocalittico scritto intorno al 165 a.C. da Daniele per incoraggiare i suoi fratelli perseguitati dal re greco Antioco Epifane. Anche lui non attacca direttamente il problema, ma narra le gesta eroiche di alcuni ebrei fedeli durante la persecuzione di Nabucodonosor, quattro secoli prima (VI secolo a.C.). Solo in apparenza è una lezione di storia ma per chi sa leggere tra le righe il messaggio è chiaro. Ecco infine un esempio di Apocalisse nella storia recente: al tempo del dominio russo sulla Cecoslovacchia, una giovane attrice ceca compose e rappresentò più volte nel suo Paese un dramma su Giovanna d’Arco: evidentemente, la storia di Giovanna che caccia gli Inglesi dalla Francia nel XV secolo non era la prima preoccupazione dei Cechi; e se lo scenario fosse finito nelle mani del potere occupante, non avrebbe compromesso nessuno. Ma per chi sapeva leggere tra le righe, il messaggio era evidente: quello che ha saputo fare una giovane ragazza di diciannove anni, con l’aiuto di Dio, possiamo farlo anche noi.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (20,19-31)  

“Shalom, pace a voi!” Questa è la prima parola che pronuncia Gesù risorto. I discepoli ricordavano l’ultima sua frase sulla croce: “Tutto è compiuto”, che chiude il racconto della Passione nel quarto vangelo (Gv 19,30). L’evangelista in quel momento comprese che il progetto di Dio era del tutto compiuto e con questa evidenza ci narra ora questa prima apparizione. Gerusalemme, nel nome stesso Yerushalaïm, porta la parola ebraica shalom e proprio qui Gesù annuncia e dona, cioè rende efficace, la sua pace: Shalom! Li saluta così per ben due volte e, ormai riconosciuto con Dio, questa parola non è un augurio, ma dono già realizzato: dicendo pace la dona e la compie.  È sempre urgente credere che Cristo risorgendo ci ha portato la pace anche se le situazioni concrete mostrano un mondo segnato da odio, violenza e guerre. Questo perché la pace c’è già ma non arriva con un colpo di bacchetta magica: deve nascere anzitutto nel cuore dei credenti e poi diffondersi attraverso la gioia che ebbero i discepoli “al vedere il Signore”. Gesù risorto appare sempre “il primo giorno della settimana” tanto che per i cristiani, questo giorno è diventato il primo giorno dei tempi nuovi. La settimana di sette giorni ricordava ai Giudei i sette giorni della creazione, mentre la nuova settimana legata alla risurrezione di Cristo è l’inizio della nuova creazione. Per questo, quando l’evangelista parla del primo giorno della settimana non fornisce solo una precisione cronologica, ma invita a capire che la domenica, dal latino dies dominicus, è giorno consacrato a Dio, giorno della nuova creazione nel quale il progetto della salvezza è compiuto. Proprio nel primo giorno della settimana, come aveva annunciato il profeta Ezechiele: “Metterò in voi il mio stesso Spirito”, Gesù “soffiò” sui discepoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”. Giovanni riprende volutamente il termine che troviamo in Genesi ( 2,7): (Dio insufflò nelle narici dell’uomo  plasmato con polvere  “un alito di vita”(nėšāmāh legato a rûah; in greco pnoē) e divenne essere vivente) e inaugura la nuova creazione insufflando sugli apostoli il suo Spirito (pneûma hágion), “il primo dono fatto ai credenti”, come ricorda la quarta preghiera eucaristica. Nella Bibbia lo Spirito è sempre dato per una missione e anche Gesù manda i discepoli ad annunciare al mondo l’unica indispensabile verità: Dio è Misericordia. Missione urgente perché l’uomo muore se non conosce la verità, come dice Gesù: “chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34) perché non conosce l’amore di Dio. Non c’è altra missione che riconciliare gli uomini con Dio: tutto il resto deriva da questo. “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati”, potremmo tradurlo così: annunciate che i peccati sono perdonati e siate ambasciatori della riconciliazione universale. La missione che il Padre vi affida è urgente e indispensabile e se non andate, la novità della riconciliazione non sarà annunciata. In questo contesto la frase: “a coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati”, potrebbe comprendersi in questo senso: se voi non portate i vostri fratelli a conoscere l’amore di Dio (se non perdonerete) loro vivranno fuori del suo amore (non saranno perdonati).   Quanta fiducia e quale responsabilità! Il progetto di Dio sarà definitivamente compiuto solo quando noi, a nostra volta, avremo compiuto la nostra missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Il primo peccato, che è alla radice di tutti gli altri, è non credere all’amore di Dio: perciò, vi mando, muovetevi senza indugio per annunciare a tutti  l’amore di Dio’.

Nota “Quel giorno, il primo giorno della settimana”: nella lettura ebraica del racconto della Creazione, questo primo giorno era chiamato «Giorno UNO» nel senso di «primo giorno» ma anche «giorno unico», perché in un certo senso racchiudeva tutti gli altri, come la prima spiga del raccolto annuncia tutta la mietitura… E il popolo ebraico attende ancora il Giorno Nuovo che sarà il giorno di Dio, quando rinnoverà la prima Creazione.

 

Oggi, Domenica della Divina Misericordia, vi propongo una preghiera che prendo dal libro del Santuario Santissima Trinità Misericordia di Maccio (Como). La Santissima Trinità è Misericordia infinita

“Santissima Trinità, Misericordia infinita, Misericordia, Luce imperscrutabile del Padre che crea; Misericordia, Volto e Parola del Figlio che si dona; Misericordia, Fuoco penetrante nello Spirito che dà vita; Santissima Trinità, Misericordia che salva nel dono unico del Trino suo essere, io confido e spero in te! Tu, che ti sei donata a noi, fa’ che noi ci doniamo tutti a te! Rendici testimoni del tuo Amore in Cristo nostro Redentore, fratello e nostro Re! Santissima Trinità, io confido in te!”

+Giovanni D’Ercole

Mercoledì, 23 Aprile 2025 04:07

Come non diventare un non-popolo?

Divino nell’Umano: gesti forti, dignitosi e fraterni, non di repertorio

(Mt 13,54-58)

 

Il Divino nell’Umano si rende Presente nelle relazioni intense, accoglienti, che aprono a recuperi inspiegabili; quindi trapela nei gesti forti, dignitosi e fraterni - non di repertorio.

 

Nel passo di Vangelo di oggi c’è una differenza rilevante con la traduzione CEI (‘74) precedente (vv.54.58).

Il Signore ci aiuta a crescere con veri «prodigi», non con “miracoli”[eventi puntuali] bensì operando nell’intimo, modificando il cuore rattrappito e migliorandoci col suo Amore.

Il «profetico» non ha a che fare col clamoroso che s’impone.

Solo così non ci si stancherà del buono che non è brillante; né si disprezzerà l’esistenza della gente normale, perché senza prestigio e titoli.

Le opere potenti di Gesù si dispiegano nel tempo - educando, non impressionando e assoggettando.

I suoi ‘segni’, quei recuperi inspiegabili che compie, sono calibro e frutto d’un Incontro-per-Via che cresce.

Opera d’Arte (assai meglio di scorciatoie accidentali) è che il profittatore diventi giusto, il dubbioso più sicuro, l’infelice riprenda a sperare.

Ci vuole tempo, anche se lo stupore può essere immediato.

Il Mistero della potenza del nuovo Dio annunciato da Cristo si cela in ‘Qualcuno dentro qualcosa’.

È la trama ove si annidano i Segni d’una Realtà grande, cui malgrado le difficoltà abbiamo accesso e siamo partecipi.

 

Tale anche il vero artigianato di Giuseppe. La Persona e la Famiglia di Gesù narrano di un Padre il quale non teme che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto col mondo.

Il Mistero sovreminente è già nell’uomo comune.

Quindi il conflitto non è coi forestieri, bensì con i soliti ostinati “vicini” colmi di pregiudizio - abitudinari e assuefatti, i quali già sanno come va a finire... Ma non inaugurano nulla.

Invece il Figlio non è più un bambinone del posto: un programma quieto del «villaggio», il prodotto d’idee arcaiche normali o di propositi già trasmessi, che nessun Incontro potrà destare e smuovere.

In patria il Maestro non sbalordisce come altrove: incontra una diffidenza che logora di giorni tutti contati quella sporgenza del credere che colmerebbe le indigenze.

Anche Giuseppe fabbricante comprende ciò che taglia il Sogno impossibile della Novità, nella Fede: il nostro vanto non è da condizione sociale, né da genere stabilito.

Essa coglie un suo peso specifico non nei balocchi del folklore, bensì appunto nel rigenerare - per l’incessante riattivarsi dell’interesse intrinseco.

In tal guisa, la Fede non è retorica. Con Gesù e Maria a fianco Giuseppe intuisce che lo stato di dubbio è più fecondo delle convinzioni.

 

Come si diventa dunque, un non-popolo?

Le sicurezze non lasciano respiro all’inventiva del fare inusuale, né al sentimento o alla crescita della Vita forte, non sfigurata dal repertorio di compimenti attesi.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come la tua esistenza ordinaria riscatta le vicende della gente malferma?

Come vivi il di più della Fede sulle abitudini e luoghi comuni?

 

 

[s. Giuseppe Lavoratore, 1 maggio]

Mercoledì, 23 Aprile 2025 04:01

Cambiamenti rapidi e complessi

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo ascoltato insieme una pagina famosa e bella del Libro dell'Esodo, quella in cui l'autore sacro narra la consegna a Israele del Decalogo da parte di Dio. Un particolare colpisce subito: l'enunciazione dei dieci comandamenti è introdotta da un significativo riferimento alla liberazione del popolo di Israele. Dice il testo: "Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù" (Es 20, 2). Il Decalogo dunque vuole essere una conferma della libertà conquistata. In effetti i comandamenti, a guardarli in profondità, sono il mezzo che il Signore ci dona per difendere la nostra libertà sia dai condizionamenti interni delle passioni che dai soprusi esterni dei malintenzionati. I "no" dei comandamenti sono altrettanti "sì" alla crescita di un'autentica libertà. C'è una seconda dimensione del Decalogo che pure va sottolineata: mediante la Legge data per mano di Mosè, il Signore rivela di voler stringere con Israele un patto di alleanza. La Legge, dunque, più che un'imposizione è un dono. Più che comandare ciò che l'uomo deve fare, essa vuol rendere manifesta a tutti la scelta di Dio: Egli sta dalla parte del popolo eletto; lo ha liberato dalla schiavitù e lo circonda con la sua bontà misericordiosa. Il Decalogo è testimonianza di un amore di predilezione.

Un secondo messaggio ci offre la Liturgia di oggi: la Legge mosaica ha trovato pieno compimento in Gesù, che ha rivelato la saggezza e l'amore di Dio mediante il mistero della Croce, "scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani - come ci ha detto san Paolo nella seconda lettura -, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci ... potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Cor 1, 23-24). Proprio a questo mistero fa riferimento la pagina evangelica poc'anzi proclamata: Gesù scaccia dal tempio i venditori e i cambiavalute. L'evangelista fornisce la chiave di lettura di questo significativo episodio attraverso il versetto di un Salmo: "Lo zelo per la tua casa mi divora" (cfr Sal 69, 10). È Gesù ad essere "divorato" da questo "zelo" per la "casa di Dio", usata per scopi diversi da quelli ai quali sarebbe destinata. Davanti alla richiesta dei responsabili religiosi, che pretendono un segno della sua autorità, tra lo stupore dei presenti Egli afferma: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv 2, 19). Parola misteriosa, incomprensibile in quel momento, ma che Giovanni riformula per i suoi lettori cristiani, osservando: "Egli parlava del tempio del suo Corpo" (Gv 2, 21). Quel "tempio" i suoi avversari l'avrebbero distrutto, ma Lui dopo tre giorni l'avrebbe ricostruito mediante la risurrezione. La dolorosa e "scandalosa" morte di Cristo sarebbe stata coronata dal trionfo della sua gloriosa risurrezione. Mentre in questo tempo quaresimale ci prepariamo a rivivere nel triduo pasquale questo evento centrale della nostra salvezza, noi già guardiamo al Crocifisso intravedendo in Lui il fulgore del Risorto.

Cari fratelli e sorelle, l'odierna Celebrazione Eucaristica, che unisce alla meditazione dei testi liturgici della terza domenica di Quaresima il ricordo di san Giuseppe, ci offre l'opportunità di considerare, alla luce del mistero pasquale, un altro aspetto importante dell'esistenza umana. Mi riferisco alla realtà del lavoro, posta oggi al centro di cambiamenti rapidi e complessi. La Bibbia in più pagine mostra come il lavoro appartenga alla condizione originaria dell'uomo. Quando il Creatore plasmò l'uomo a sua immagine e somiglianza, lo invitò a lavorare la terra (cfr Gn 2, 5-6). Fu a causa del peccato dei progenitori che il lavoro diventò fatica e pena (cfr Gn 3, 6-8), ma nel progetto divino esso mantiene inalterato il suo valore. Lo stesso Figlio di Dio, facendosi in tutto simile a noi, si dedicò per molti anni ad attività manuali, tanto da essere conosciuto come il "figlio del carpentiere" (cfr Mt 13, 55). La Chiesa ha sempre mostrato, specialmente nell'ultimo secolo, attenzione e sollecitudine per questo ambito della società, come testimoniano i numerosi interventi sociali del Magistero e l'azione di molteplici associazioni di ispirazione cristiana, alcune delle quali sono oggi qui convenute a rappresentare l'intero mondo dei lavoratori. Sono lieto di accogliervi, cari amici, e rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Un pensiero particolare va a Mons. Arrigo Miglio, Vescovo di Ivrea e Presidente della Commissione Episcopale Italiana per i Problemi Sociali e il Lavoro, la Giustizia e la Pace, che si è fatto interprete dei comuni sentimenti e mi ha rivolto cortesi espressioni augurali per la mia festa onomastica. Gliene sono vivamente grato.

Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell'uomo e per lo sviluppo della società, e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell'umana dignità e al servizio del bene comune. Al tempo stesso, è indispensabile che l'uomo non si lasci asservire dal lavoro, che non lo idolatri, pretendendo di trovare in esso il senso ultimo e definitivo della vita. Al riguardo, giunge opportuno l'invito contenuto nella prima lettura: "Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio" (Es 20, 8-9). Il sabato è giorno santificato, cioè consacrato a Dio, in cui l'uomo comprende meglio il senso della sua esistenza ed anche dell'attività lavorativa. Si può, pertanto, affermare che l'insegnamento biblico sul lavoro trova il suo coronamento nel comandamento del riposo. Opportunamente nota al riguardo il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: "All'uomo, legato alla necessità del lavoro, il riposo apre la prospettiva di una libertà più piena, quella del sabato eterno (cfr Eb 4, 9-10). Il riposo consente agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi essi stessi come opera Sua (cfr Ef 2, 10), di rendere grazie della propria vita e della propria sussistenza a lui, che ne è l'autore" (n. 258).

L'attività lavorativa deve servire al vero bene dell'umanità, permettendo "all'uomo come singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione" (Gaudium et spes, 35). Perché ciò avvenga non basta la pur necessaria qualificazione tecnica e professionale; non è sufficiente nemmeno la creazione di un ordine sociale giusto e attento al bene di tutti. Occorre vivere una spiritualità che aiuti i credenti a santificarsi attraverso il proprio lavoro, imitando san Giuseppe, che ogni giorno ha dovuto provvedere alle necessità della Santa Famiglia con le sue mani e che per questo la Chiesa addita quale patrono dei lavoratori. La sua testimonianza mostra che l'uomo è soggetto e protagonista del lavoro. Vorrei affidare a lui i giovani che a fatica riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro, i disoccupati e coloro che soffrono i disagi dovuti alla diffusa crisi occupazionale. Insieme con Maria, sua Sposa, vegli san Giuseppe su tutti i lavoratori ed ottenga per le famiglie e l'intera umanità serenità e pace. Guardando a questo grande Santo apprendano i cristiani a testimoniare in ogni ambito lavorativo l'amore di Cristo, sorgente di solidarietà vera e di stabile pace. Amen!

[Papa Benedetto, omelia per i lavoratori, 19 marzo 2006]

Carissimi fedeli!

1. Oggi, primo maggio, l’argomento del nostro incontro non può che essere la festa del lavoro. Desidero oggi onorare tutti i lavoratori.

Dal secolo scorso questa giornata del primo maggio ha sempre avuto un profondo significato di unità e di comunione tra tutti i lavoratori, per sottolineare il loro ruolo nella struttura della società e per difendere i loro diritti. Nel 1955, Pio XII, di venerata memoria, volle dare al primo maggio anche un’impronta religiosa, dedicandolo a san Giuseppe lavoratore, e da allora la festa civile del lavoro è diventata anche una festa cristiana.

Sono molto lieto di poter esprimere con voi oggi i sentimenti della più viva e cordiale partecipazione a questa festa, ricordando l’affetto che la Chiesa ha sempre avuto per i lavoratori e la sollecitudine con cui ha cercato e cerca di promuovere i loro diritti. È noto come specialmente dall’inizio dell’era industriale, la Chiesa, seguendo lo svolgersi della situazione e lo svilupparsi delle nuove scoperte e delle nuove esigenze, ha presentato un “corpus” di insegnamenti in campo sociale, che certamente hanno avuto e hanno tuttora il loro influsso illuminante, a cominciare dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (1891).

Chi onestamente cerca di conoscere e di seguire l’insegnamento della Chiesa, vede come in realtà essa abbia sempre amato i lavoratori, e abbia indicato e sostenuto la dignità della persona umana come fondamento e ideale di ogni soluzione dei problemi riguardanti il lavoro, la sua retribuzione, la sua protezione, il suo perfezionamento e la sua umanizzazione. Attraverso i vari documenti del magistero della Chiesa emergono gli aspetti fondamentali del lavoro, inteso come mezzo per guadagnarsi da vivere, come dominio sulla natura con le attività scientifiche e tecniche, come espressione creativa dell’uomo, come servizio per il bene comune e come impegno per la costruzione del futuro della storia.

Come ho detto nell’enciclica Laborem Exercens (Ioannis Pauli PP. II, Laborem Exercens, n. 9), “il lavoro è un bene dell’uomo, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, diventa più uomo”.

La festa del primo maggio è molto opportuna per ribadire il valore del lavoro e della “civiltà” fondata sul lavoro, contro le ideologie che sostengono invece la “civiltà del piacere” o dell’indifferenza e della fuga. Ogni lavoro è degno di stima, anche il lavoro manuale, anche il lavoro ignoto e nascosto, umile e faticoso, perché ogni lavoro, se interpretato nel modo esatto, è un atto di alleanza con Dio per il perfezionamento del mondo; è un impegno di liberazione dalla schiavitù delle forze della natura; è un gesto di comunione e di fraternità con gli uomini; è una forma di elevazione, in cui si applicano le capacità intellettive e volitive. Gesù stesso, il Verbo divino incarnatosi per la nostra salvezza, volle prima di tutto e per tanti anni essere un umile e solerte lavoratore!

2. Nonostante la verità fondamentale del valore perenne del lavoro, sappiamo che molte sono le problematiche nella società di oggi. Già l’aveva notato il Concilio Vaticano II, quando così si esprimeva: “L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti, che progressivamente si estendono all’intero universo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, su di lui si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e di agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa (Gaudium et Spes, 4).

Il problema primo e più grave è certamente quello della disoccupazione, causato da tanti fattori, come l’introduzione su vasta scala dell’informatica, che per mezzo dei robot e dei computer elimina molta manodopera; la saturazione di alcuni prodotti; l’inflazione che arresta il consumo e quindi la produzione; la necessità della riconversione di macchine e di tecniche; la competizione.

Un altro problema è il pericolo che l’uomo diventi schiavo delle macchine da lui stesso inventate e costruite. È necessario infatti dominare e guidare la tecnologia, altrimenti essa si mette contro l’uomo.

Infine possiamo citare anche la grave questione dell’alienazione professionale, per cui si perde il significato autentico del lavoro, lo si intende solo come merce, in una fredda logica di guadagno per poter acquistare benessere, consumare e così ancora produrre, cedendo alla tentazione della disaffezione, dell’assenteismo, dell’egoismo individualista, dell’avvilimento, della frustrazione e facendo prevalere le caratteristiche del cosiddetto “uomo ad una dimensione”, vittima della tecnica, della pubblicità e della produzione.

Sono problemi assai complessi sui quali manca il tempo per soffermarsi. Ma oggi, primo maggio, vogliamo accennare alla necessità della “solidarietà” umana e cristiana, a livello nazionale e universale, per risolvere tali difficoltà in modo esauriente e convincente. Paolo VI diceva nella Populorum Progressio (Pauli VI, Populorum Progressio, n. 17): “Ogni uomo è membro della società: appartiene all’umanità tutta intera. Non soltanto questo o quell’uomo, ma tutti gli uomini sono chiamati a tale sviluppo plenario... La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere”. Parlando a Ginevra alla Conferenza internazionale del lavoro, io stesso dissi che “la soluzione positiva del problema dell’impiego presuppone una grande solidarietà nell’insieme della popolazione e nell’insieme dei popoli: che ciascuno sia disposto ad accettare i sacrifici necessari, che ciascuno collabori all’attuazione dei programmi e degli accordi miranti a fare della politica economica e sociale un’espressione tangibile della solidarietà” (Ioannis Pauli PP. II, Allocutio ad eos qui LXVIII conventui Conferentiae ab omnibus de humano labore interfuere habita, 10, die 15 iunii 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 2261).

3. Oggi, festa del lavoro,
memoria liturgica di san Giuseppe lavoratore,
invoco di cuore la sua celeste protezione
su quanti lavorando
trascorrono la loro vita
e su quanti purtroppo
si trovano senza lavoro,
ed esorto tutti
a pregare ogni giorno
il padre putativo di Gesù,
umile e semplice lavoratore,
affinché sul suo esempio e con il suo aiuto
ogni cristiano
porti nella vita
il suo contributo di diligente impegno
e di gioiosa comunione.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 1 maggio 1984]

Mercoledì, 23 Aprile 2025 03:39

Nasce e vive in una famiglia

Oggi, primo maggio, celebriamo san Giuseppe lavoratore e iniziamo il mese tradizionalmente dedicato alla Madonna. In questo nostro incontro, vorrei soffermarmi allora su queste due figure così importanti nella vita di Gesù, della Chiesa e nella nostra vita, con due brevi pensieri: il primo sul lavoro, il secondo sulla contemplazione di Gesù.

1. Nel Vangelo di san Matteo, in uno dei momenti in cui Gesù ritorna al suo paese, a Nazaret, e parla nella sinagoga, viene sottolineato lo stupore dei suoi paesani per la sua sapienza, e la domanda che si pongono: «Non è costui il figlio del falegname?» (13,55). Gesù entra nella nostra storia, viene in mezzo a noi, nascendo da Maria per opera di Dio, ma con la presenza di san Giuseppe, il padre legale che lo custodisce e gli insegna anche il suo lavoro. Gesù nasce e vive in una famiglia, nella santa Famiglia, imparando da san Giuseppe il mestiere del falegname, nella bottega di Nazaret, condividendo con lui l’impegno, la fatica, la soddisfazione e anche le difficoltà di ogni giorno.

Questo ci richiama alla dignità e all’importanza del lavoro. Il libro della Genesi narra che Dio creò l’uomo e la donna affidando loro il compito di riempire la terra e soggiogarla, che non significa sfruttarla, ma coltivarla e custodirla, averne cura con la propria opera (cfr Gen 1,28; 2,15). Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione. E qui penso alle difficoltà che, in vari Paesi, incontra oggi il mondo del lavoro e dell’impresa; penso a quanti, e non solo giovani, sono disoccupati, molte volte a causa di una concezione economicista della società, che cerca il profitto egoista, al di fuori dei parametri della giustizia sociale.

Desidero rivolgere a tutti l’invito alla solidarietà, e ai Responsabili della cosa pubblica l’incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione; questo significa preoccuparsi per la dignità della persona; ma soprattutto vorrei dire di non perdere la speranza; anche san Giuseppe ha avuto momenti difficili, ma non ha mai perso la fiducia e ha saputo superarli, nella certezza che Dio non ci abbandona. E poi vorrei rivolgermi in particolare a voi ragazzi e ragazze a voi giovani: impegnatevi nel vostro dovere quotidiano, nello studio, nel lavoro, nei rapporti di amicizia, nell’aiuto verso gli altri; il vostro avvenire dipende anche da come sapete vivere questi preziosi anni della vita. Non abbiate paura dell’impegno, del sacrificio e non guardate con paura al futuro; mantenete viva la speranza: c’è sempre una luce all’orizzonte.

Aggiungo una parola su un’altra particolare situazione di lavoro che mi preoccupa: mi riferisco a quello che potremmo definire come il “lavoro schiavo”, il lavoro che schiavizza. Quante persone, in tutto il mondo, sono vittime di questo tipo di schiavitù, in cui è la persona che serve il lavoro, mentre deve essere il lavoro ad offrire un servizio alle persone perché abbiano dignità. Chiedo ai fratelli e sorelle nella fede e a tutti gli uomini e donne di buona volontà una decisa scelta contro la tratta delle persone, all’interno della quale figura il “lavoro schiavo”.

2. Accenno al secondo pensiero: nel silenzio dell’agire quotidiano, san Giuseppe, insieme a Maria, hanno un solo centro comune di attenzione: Gesù. Essi accompagnano e custodiscono, con impegno e tenerezza, la crescita del Figlio di Dio fatto uomo per noi, riflettendo su tutto ciò che accadeva. Nei Vangeli, san Luca sottolinea due volte l’atteggiamento di Maria, che è anche quello di san Giuseppe: «Custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (2,19.51). Per ascoltare il Signore, bisogna imparare a contemplarlo, a percepire la sua presenza costante nella nostra vita; bisogna fermarsi a dialogare con Lui, dargli spazio con la preghiera. Ognuno di noi, anche voi ragazzi, ragazze e giovani, così numerosi questa mattina, dovrebbe chiedersi: quale spazio do al Signore? Mi fermo a dialogare con Lui? Fin da quando eravamo piccoli, i nostri genitori ci hanno abituati ad iniziare e a terminare la giornata con una preghiera, per educarci a sentire che l’amicizia e l’amore di Dio ci accompagnano. Ricordiamoci di più del Signore nelle nostre giornate!

E in questo mese di maggio, vorrei richiamare all’importanza e alla bellezza della preghiera del santo Rosario. Recitando l'Ave Maria, noi siamo condotti a contemplare i misteri di Gesù, a riflettere cioè sui momenti centrali della sua vita, perché, come per Maria e per san Giuseppe, Egli sia il centro dei nostri pensieri, delle nostre attenzioni e delle nostre azioni. Sarebbe bello se, soprattutto in questo mese di maggio, si recitasse assieme in famiglia, con gli amici, in Parrocchia, il santo Rosario o qualche preghiera a Gesù e alla Vergine Maria! La preghiera fatta assieme è un momento prezioso per rendere ancora più salda la vita familiare, l’amicizia! Impariamo a pregare di più in famiglia e come famiglia!

Cari fratelli e sorelle, chiediamo a san Giuseppe e alla Vergine Maria che ci insegnino ad essere fedeli ai nostri impegni quotidiani, a vivere la nostra fede nelle azioni di ogni giorno e a dare più spazio al Signore nella nostra vita, a fermarci per contemplare il suo volto. Grazie.

[Papa Francesco, Udienza Generale 1 maggio 2013]

Domenica, 20 Aprile 2025 19:51

Anche noi vogliamo «VederLo»

Domenica, 20 Aprile 2025 03:29

«Di là verrà a giudicare»

Genesi Rinascita Giudizio

(Gv 3,16-21)

 

Ogni uomo posto di fronte al Mistero non comprende bene ciò che sente, fino a quando non accetta la scommessa e s’introduce in una nuova esistenza.

La vecchia vita presenta solo conti da pagare, che sempre riemergono; viceversa, la nuova Chiamata soppianta le categorie di giudizio e le scelte normalizzate.

Si passa come attraverso uno svuotamento del cuore, che nella sua virtù cosmica e personale acquista un senso generativo.

La vita nello Spirito procede per nuove Nascite, e spira dove vuole. Non secondo un progresso scandito da meccanismi, ma in modo sconcertante.

Realtà presente e operante, sebbene inesplicabile - che però arricchisce, lasciandoci penetrare o piombare in un’altra configurazione.

Altro’ regno, che nel «Figlio dell’uomo» unisce i due mondi.

Livello di Eternità che immette chi l’accoglie nel rapporto unico col Padre e la sua Vita esuberante.

 

«Di là verrà a giudicare» è un articolo del Credo Apostolico:

Riuscita o fallimento della vita saranno valutate «dalla Croce», ossia con il criterio della nuova ‘percezione’, Dono di sé, e Rinnovo sino in fondo.

Rovesciamento di prospettive; capovolgimento di visuale.

Fonte di Speranza e nuovo scatto in avanti: dove l’umiliazione si tramuta in Nascita autentica e trionfo della Vita indistruttibile.

Questa la Beatitudine che scopre tesori nascosti e perle preziose dietro i nostri lati oscuri.

Qui perfino le persecuzioni dei nemici e dei beffardi diventano vettori che introducono difformi energie; ci obbligano a migliorare binario.

E s’immaginava che la vita divina appartenesse solo alla sfera celeste - invece giunge paradossalmente alla nostra portata.

 

Nicodemo sapeva: nel deserto molti erano caduti vittime d’insidie. Ma Gesù fa capire che gli israeliti non erano stati risanati gratuitamente da un’effigie di bronzo, bensì dall’aver ‘elevato lo sguardo’.

Il Segreto è «dall’Alto» (v.7), fuori scala.

Il Signore si rifà a tale episodio e lo interpreta come scenario del proprio insegnamento; simbolo della sua vicenda estrema.

È per una nuova Genesi del proprio essere e dei criteri per cui ci si gioca la vita, che il Crocifisso diventa punto di riferimento di ogni nostra scelta.

Chi lo contemplerà ha già in sé il senso pieno, acuto e totale delle Scritture, e la stessa Vita dell’Eterno.

 

Secondo lo stile rabbinico, Mt 25 ricorre all’immagine del Giudizio universale per richiamare l’importanza e le conseguenze delle scelte che facciamo.

Gv parla di un Giudizio che si attua nel Presente, che è ‘solo redenzione’ a nostro esclusivo favore: per una vita da salvati.

Secondo una Sapienza che fa udire non pochi pareri inattesi.

In tal guisa, pur impiegando sfondi e linguaggio differenti, sia Mt che Gv si ritrovano nella medesima «verità» (v.21). Il Giudizio viene pronunciato dalla Croce.

Le difformità si commisurano sin d’ora sulla Persona del Figlio. Il Giudizio è già iniziato.

 

 

[Mercoledì 2.a sett. Pasqua, 30 aprile 2025]

Domenica, 20 Aprile 2025 03:24

«Di là verrà a giudicare»

Genesi Rinascita Giudizio

Gv 3,16-21(7-21)

 

Ogni uomo posto di fronte al Mistero non comprende bene ciò che sente, fino a quando non accetta la scommessa e s’introduce in una nuova esistenza.

La vecchia vita presenta solo conti da pagare, che sempre riemergono; viceversa, la nuova Chiamata soppianta le categorie di giudizio e le scelte normalizzate.

Si passa come attraverso uno svuotamento del cuore.

Dice infatti il Tao [Via] Tê Ching (xxi):

«Il contenere di chi ha la virtù del vuoto, solo al Tao s’adegua. Per le creature il Tao è indistinto e indeterminato [...] nel suo seno racchiude le immagini [...] nel suo seno racchiude gli archetipi [...] nel suo seno racchiude l’essenza dell’essere! Questa essenza è assai genuina [...] e così acconsente a tutti gli inizi».

Fuori della Via cosmica e personale l’esistenza dell’uomo non ha un senso generativo.

Anche la vicenda spirituale dell’esperto e ben inserito ristagna fino a non poter più tacitare le grandi domande di senso, la sua fiction, o l’accidia.

La vita nello Spirito procede per nuove Nascite e spira dove vuole.

Non secondo un progresso scandito da meccanismi, maniere, perbenismi, abilità, o libretti d’istruzione: in modo sconcertante - ma porta diverso refrigerio, e Pace anche repentina.

È una realtà presente e operante, sebbene inesplicabile - che però arricchisce, lasciandoci penetrare o piombare in un’altra configurazione della realtà.

Altro regno, che nel «Figlio dell’uomo» unisce i due mondi.

 

Nicodemo era maestro del solo Testamento Antico. Egli controllava ogni stagnazione o progresso comparandoli alla sapienza delle cose di Dio su una base di attese più che conosciute.

Ma non di rado la nostra crescita procede a visioni e balzi - neppure secondo “intelligenza” naturale. Figuriamoci per la vita spirituale.

Non basta esercitarsi e andare d’accordo con le idee dei padri o ielle alla moda, né rimanere concordi a propositi normali.

Assimilare saperi altrui e acquisire perizie già attese è non di rado cianfrusaglia che blocca i veri sviluppi - quelli che ci appartengono.

Purtroppo, nella vita religiosa si procede spesso in modo meccanico, e sembra non vi sia bisogno alcuno di lasciarsi salvare o sorprendere dagli accadimenti.

Al massimo ci si espone a qualche venticello, schiavo di linguaggi terrestri, limitato alla dimensione di “fenomeni” tutti rasoterra - che escludono e liquidano Cristo.

Nell’avventura di Fede battistrada, che disorienta, il Progetto divino e l’Opera radicale del Figlio non si dispiegano in modo ragionevole, bensì per Amore senza misura.

Livello di Eternità che immette chi l’accoglie nel tu-per-tu unico col Padre e la sua Vita esuberante.

L’unità di misura dello Spirito è differente da quella delle consuetudini concordi. Il suo impeto è Vento inafferrabile, “visibile” solo negli effetti ecclesiali e personali.

Il Segreto è «dall’Alto» (v.7), fuori scala. Si annida nella imprevedibilità di crocevia, eccedenze, e nuove creazioni.

La Beatitudine non procede per argomenti alla noia: sporge o impallidisce.

In tal guisa, si può avere spesso in mano l’Eucaristia o le Scritture e non comprendere che la strada già battuta può dare solo illusioni di dottorato spirituale.

 

«Di là verrà a giudicare» è un articolo del Credo Apostolico.

Riuscita o fallimento della vita saranno valutate «dalla Croce», ossia con il criterio della nuova percezione, Dono di sé e Rinnovo sino in fondo.

Rovesciamento di prospettive; capovolgimento di visuale.

Fonte di Speranza e nuovo scatto in avanti: dove l’umiliazione si tramuta in Nascita autentica e trionfo della Vita indistruttibile.

Questa la Beatitudine che scopre fioriture, tesori nascosti e perle preziose, dietro i nostri lati oscuri.

Qui perfino le persecuzioni dei nemici e dei beffardi diventano vettori che introducono difformi energie, ci obbligano a migliorare.

E s’immaginava che la vita divina appartenesse solo alla sfera celeste; invece giunge paradossalmente alla nostra portata.

 

Nicodemo sapeva: nel deserto molti erano caduti vittime d’insidie, ma Gesù fa capire che gli israeliti non erano stati risanati gratuitamente da un’effigie di bronzo, bensì dall’aver ‘elevato lo sguardo’.

Il Signore si rifà a tale episodio e lo interpreta come scenario del proprio insegnamento; simbolo della sua vicenda estrema.

Chi lo contemplerà ha già in sé il senso pieno, acuto e totale delle Scritture, e la stessa Vita dell’Eterno.

In tal senso è necessario «nascere dall’alto», spostare la percezione contemplativa, riconoscersi, e tenere gli occhi puntati sull’amore vero.

È per una nuova Genesi del proprio essere e dei criteri per cui ci si gioca la vita, che il Crocifisso diventa punto di riferimento di ogni nostra scelta.

Non per masochismo dolorista e finta consolazione. Non per usarlo come monile, e imbellettarsene.

Non amuleto; né emblema posto a forza sulle alture, che indicherebbe la conquista di territori.

Neppure la sacralizzazione d’un ambiente, o una figura “culturale”.

 

Secondo lo stile rabbinico, Mt 25 ricorre all’immagine del Giudizio universale per richiamare l’importanza e le conseguenze delle scelte che facciamo.

In Gv il tema del Giudizio sembra rovesciato: è come se fossimo noi a “giudicare” Dio - nel senso che al suo cospetto siamo e ci troveremo disarmati, riconoscendo che il suo Cuore è ben maggiore del nostro.

Così pure nell’esperienza della vita di Fede, che attira e apre il futuro impossibile.

Il quarto Vangelo infatti esclude che il Padre giudichi i figli. Gv parla di un Giudizio che si attua nel Presente, che è solo redenzione - a nostro esclusivo favore: per una vita da salvati.

“Quando” Dio agisce crea. Egli Giustifica: fa qualcosa di nuovo, globale, impareggiabile.

Non ripete. Fa nascere altre eccedenze, in solchi variegati, nella trama della storia, “imponendo” giuste posizioni - anzitutto dove giustizia non c’è.

Secondo una Sapienza che fa udire non pochi pareri inattesi.

 

Pur impiegando sfondi e linguaggio differenti, sia Mt che Gv si ritrovano nella medesima «verità» (v.21).

Il Giudizio viene pronunciato dalla Croce - secondo criteri difformi da quelli mondani, sempre precipitosi o manierati (e banalissimi).

Il Signore fa udire e vedere le sue opinioni, di fronte a qualsiasi accadimento e scelta - mettendo in guardia dalle opzioni di morte autentica.

L’opera di coloro che gestiscono assai male e sprecano la vita «finirà bruciata, e quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco» (1Cor 3,15).

Le difformità si commisurano sin d’ora sulla Persona del Figlio. Il Giudizio è già cominciato.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali ritieni siano state le tue Nascite? E le tue scelte autentiche?

Sei ancora nella direzione del venticello dei padri antichi o delle mode attorno?

Dispieghi le vele secondo la direzione del Vento dello Spirito, che butta all’aria le tue sicurezze, anche di gruppo o denominazionali?

Cosa ammiri, e cosa hai collocato “in alto” nella tua vita? È forse paglia già finita e bruciata?

Cosa finora ti ha esaltato, e pensavi invece potesse elevarti?

 

 

Ha tanto amato, e ha dato

 

«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Qui c’è il cuore del Vangelo, qui c’è il fondamento della nostra gioia. Il contenuto del Vangelo, infatti, non è un’idea o una dottrina, ma è Gesù, il Figlio che il Padre ci ha donato perché noi avessimo la vita. Gesù è il fondamento della nostra gioia: non è una bella teoria su come essere felici, ma è sperimentare di essere accompagnati e amati nel cammino della vita. “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio”. Soffermiamoci, fratelli e sorelle, un momento su questi due aspetti: “ha tanto amato” e “ha dato”.

Prima di tutto, Dio ha tanto amato. Queste parole, che Gesù rivolge a Nicodemo – un anziano giudeo che voleva conoscere il Maestro – ci aiutano a scorgere il vero volto di Dio. Egli da sempre ci ha guardati con amore e per amore è venuto in mezzo a noi nella carne del Figlio suo. In Lui ci è venuto a cercare nei luoghi in cui ci siamo smarriti; in Lui è venuto a rialzarci dalle nostre cadute; in Lui ha pianto le nostre lacrime e guarito le nostre piaghe; in Lui ha benedetto per sempre la nostra vita. Chiunque crede in Lui, dice il Vangelo, non va perduto (ibid.). In Gesù, Dio ha pronunciato la parola definitiva sulla nostra vita: tu non sei perduto, tu sei amato. Sempre amato.

Se l’ascolto del Vangelo e la pratica della nostra fede non ci allargano il cuore per farci cogliere la grandezza di questo amore, e magari scivoliamo in una religiosità seriosa, triste, chiusa, allora è segno che dobbiamo fermarci un po’ e ascoltare di nuovo l’annuncio della buona notizia: Dio ti ama così tanto da darti tutta la sua vita. Non è un dio che ci guarda indifferente dall’alto, ma è un Padre, un Padre innamorato che si coinvolge nella nostra storia; non è un dio che si compiace della morte del peccatore, ma un Padre preoccupato che nessuno vada perduto; non è un dio che condanna, ma un Padre che ci salva con l’abbraccio benedicente del suo amore.

E veniamo alla seconda parola: Dio “ha dato” il suo Figlio. Proprio perché ci ama così tanto, Dio dona sé stesso e ci offre la sua vita. Chi ama esce sempre da sé stesso – non dimenticatevi di questo: chi ama esce sempre da sé stesso. L’amore sempre si offre, si dona, si spende. La forza dell’amore è proprio questa: frantuma il guscio dell’egoismo, rompe gli argini delle sicurezze umane troppo calcolate, abbatte i muri e vince le paure, per farsi dono. Questa è la dinamica dell’amore: è farsi dono, darsi. Chi ama è così: preferisce rischiare nel donarsi piuttosto che atrofizzarsi trattenendosi per sé. Per questo Dio esce da sé stesso, perché “ha tanto amato”. Il suo amore è così grande che non può fare a meno di donarsi a noi. Quando il popolo in cammino nel deserto fu attaccato dai serpenti velenosi, Dio fece fare a Mosè il serpente di bronzo; in Gesù, però, innalzato sulla croce, Lui stesso è venuto a guarirci dal veleno che dà la morte, si è fatto peccato per salvarci dal peccato. Non ci ama a parole Dio: ci dona suo Figlio perché chiunque lo guarda e crede in Lui sia salvato (cfr Gv 3,14-15).

Più si ama e più si diventa capaci di donare. Questa è anche la chiave per comprendere la nostra vita. È bello incontrare persone che si amano, che si vogliono bene e condividono la vita; di loro si può dire come di Dio: si amano così tanto da dare la loro vita. Non conta solo ciò che possiamo produrre o guadagnare, conta soprattutto l’amore che sappiamo donare.

E questa è la sorgente della gioia! Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Da qui prende senso l’invito che la Chiesa rivolge in questa domenica: «Rallegrati [...]. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione» (Antifona d’ingresso; cfr Is 66,10-11). Ripenso a ciò che abbiamo vissuto una settimana fa in Iraq: un popolo martoriato ha esultato di gioia; grazie a Dio, alla sua misericordia.

A volte cerchiamo la gioia dove non c’è, la cerchiamo nelle illusioni che svaniscono, nei sogni di grandezza del nostro io, nell’apparente sicurezza delle cose materiali, nel culto della nostra immagine, e tante cose... Ma l’esperienza della vita ci insegna che la vera gioia è sentirci amati gratuitamente, sentirci accompagnati, avere qualcuno che condivide i nostri sogni e che, quando facciamo naufragio, viene a soccorrerci e a condurci in un porto sicuro.

[Papa Francesco, omelia in occasione dei 500 anni dell’evangelizzazione delle Filippine, 14 marzo 2021]

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Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Giovanni Paolo II))
[Nicodemus] felt the fascination of this Rabbi, so different from the others, but could not manage to rid himself of the conditioning of his environment that was hostile to Jesus, and stood irresolute on the threshold of faith (Pope Benedict)
[Nicodemo] avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede (Papa Benedetto)
Those wounds that, in the beginning were an obstacle for Thomas’s faith, being a sign of Jesus’ apparent failure, those same wounds have become in his encounter with the Risen One, signs of a victorious love. These wounds that Christ has received for love of us help us to understand who God is and to repeat: “My Lord and my God!” Only a God who loves us to the extent of taking upon himself our wounds and our pain, especially innocent suffering, is worthy of faith (Pope Benedict)
Quelle piaghe, che per Tommaso erano dapprima un ostacolo alla fede, perché segni dell’apparente fallimento di Gesù; quelle stesse piaghe sono diventate, nell’incontro con il Risorto, prove di un amore vittorioso. Queste piaghe che Cristo ha contratto per amore nostro ci aiutano a capire chi è Dio e a ripetere anche noi: “Mio Signore e mio Dio”. Solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede (Papa Benedetto)
We see that the disciples are still closed in their thinking […] How does Jesus answer? He answers by broadening their horizons […] and he confers upon them the task of bearing witness to him all over the world, transcending the cultural and religious confines within which they were accustomed to think and live (Pope Benedict)
Vediamo che i discepoli sono ancora chiusi nella loro visione […] E come risponde Gesù? Risponde aprendo i loro orizzonti […] e conferisce loro l’incarico di testimoniarlo in tutto il mondo oltrepassando i confini culturali e religiosi entro cui erano abituati a pensare e a vivere (Papa Benedetto)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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