Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.
Ap 1,5-8
Apocalisse 1:5 e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue,
Gesù Cristo è presentato con tre titoli che ne evidenziano il suo ruolo salvifico: il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra. Questi tre titoli che gli sono attribuiti, prendono in considerazione i momenti principali della sua vita: la passione (il testimone fedele); la risurrezione (il primogenito dei morti); la glorificazione (principe dei re della terra).
Gesù Cristo è innanzitutto «il testimone fedele» perché ha portato a compimento la missione che gli era stata affidata nella storia degli uomini, condividendo la condizione umana. Egli è il testimone fedele perché ha sostenuto la sua testimonianza fino alla morte. È il testimone fedele della volontà del Padre. È il testimone fedele perché ha compiuto pienamente, in ogni cosa, sempre, le parole e le opere del Padre. È talmente fedele al Padre, che è lo stesso Padre che opera e parla per mezzo di Lui.
Parla Lui ed è come se parlasse il Padre. Opera Lui ed è come se operasse il Padre. Chi vuole conoscere veramente il Padre, lo può solo per mezzo di Gesù Cristo. Nessun altro uomo al mondo potrà dirsi testimone vero di Dio. La suprema testimonianza al Padre, Gesù la rese dinanzi a Ponzio Pilato: testimonianza ufficiale, formale, in un tribunale, durante un interrogatorio, al prezzo della sua stessa vita. Dalla fine del primo secolo verrà denominato "martire" [in greco "testimone" è "màrtys"] il cristiano che si lascia uccidere per non tradire la propria fede in Gesù.
«Il primogenito dei morti». Gesù Cristo è il primogenito dei morti in quanto ha condiviso la sorte mortale degli uomini e ha dato origine alla nuova generazione dei viventi, poiché ha trionfato sulla morte ed è risorto alla vita eterna con il corpo trasfigurato. Egli è anche il primogenito dei morti perché tutti risusciteremo in Lui e per Lui. Egli è il primogenito dei morti perché sarà Lui a chiamarci dal sepolcro e a rivestirci della sua risurrezione. Egli è primogenito dei morti perché ci ha preceduti nella gloria del Padre e ci attende perché dove è Lui siamo anche noi.
«E il principe dei re della terra», cioè sovrano dominatore di tutte le potenze che continuano ad operare nel mondo e nella storia. Con queste parole viene proclamata la regalità universale di Gesù Cristo. Lui non è re e principe in quanto Dio. In quanto Dio è Creatore e Signore di ogni uomo, ogni cosa è stata fatta per mezzo di Lui, ogni cosa è sua. Gesù è il principe dei re della terra, perché nella sua umanità è stato costituito giudice dei vivi e dei morti.
Essendo Lui il Sovrano dei sovrani e il Re di tutti i re, ogni governante un giorno dovrà presentarsi al suo cospetto per rendere ragione di come ha amministrato la giustizia. Ma anche oggi, nel tempo della storia, egli vigila attentamente. Modi e forme di questa vigilanza di Gesù Cristo sono avvolti dal mistero. Solo quando i veli della storia saranno passati e si aprirà il sipario dell'eternità, vedremo ogni azione di Dio e di Cristo a favore della nostra salvezza e della redenzione dell'umanità. Ora però è il tempo della fede e dobbiamo credere che Gesù è il Principe dei re della terra, è il Signore di ogni altro signore, è il Sovrano di ogni altro sovrano.
L'Apocalisse parla della maestà di Gesù glorificato e del suo potere universale non solo per esprimere una realtà di fede, ma anche per trasmettere alla chiesa perseguitata che Cristo è il Re di tutti i re della terra: per questo la chiesa deve rimanere fiduciosa durante le persecuzioni e perseverante nella lode. A Lui sempre dobbiamo rivolgerci perché porti la consolazione del suo amore e della sua grazia contro ogni tirannia e abuso di potere che tanto male arrecano agli uomini.
Chi è ancora Gesù? È «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue». Questa è una dossologia [dal greco doxologia = gloria, esaltazione; è una formula liturgica per glorificare Dio, o Cristo, o la SS. Trinità]. Con queste parole viene annunciato tutto il mistero dell'amore di Cristo per l'uomo. Gesù è definito "Colui che ci ama": in greco "tō agapōnti hēmas". Il verbo "agapaō" significa "aver caro" qualcuno; da qui la parola "carità" (agàpē). L'amore di Gesù per l'uomo è a prezzo del suo sangue. Il suo amore per noi è liberazione dai nostri peccati operata sulla croce, a prezzo di una morte atroce.
Il suo sangue è il prezzo della remissione dei nostri peccati. L'immagine richiama l'agnello il cui sangue steso sugli stipiti delle porte salvò gli ebrei. Dio salva oggi la sua chiesa così come aveva salvato gli ebrei dalla schiavitù: con il sangue dell'agnello. Gesù viene così riportato dall'Apocalisse al Patto del Sinai, al primo gesto di salvezza operato da Dio (la liberazione dalla schiavitù d'Egitto), ma che oggi libera dalla schiavitù del peccato. L'espressione «Colui che ci ama» è al presente. Il tempo presente indica che l'amore di Cristo è perpetuo; è una corrente continua di grande amore che intercorre tra lui e noi. L'Apocalisse è anche il libro che insegna ai discepoli di Gesù questo amore.
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Sal 15 (16)
«Miktam. Di Davide. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio». Miktām è una parola discussa. Deriva da “katam” (incidere, intagliare). La parola indica qualcosa che è stato scolpito e quindi una scrittura permanente, scolpita per la sua importanza. La Bibbia dei LXX traduce “stēlographia”, una scrittura incisa; stēlē era la parola per pietra tombale (per l’iscrizione scolpita su di essa). Perciò “miktām” indica che questo tipo di Salmi sono collegati con la morte, ma vanno verso la speranza della risurrezione. Questo è particolarmente vero del Salmo 15; comunque quello che d’importante è “scolpito” in questi Salmi, va ricavato dalla lettura del Salmo stesso. Il riferimento è al Figlio di Davide; e specialmente alla sua morte e risurrezione; questa è la verità “scolpita” in questo Salmo miktām.
È un salmo di fiducia, la preghiera in cui un giusto esprime la propria fiducia nel Signore. A Dio si chiede protezione. In Dio ci si vuole rifugiare: Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio. Il giusto si rifugia in Dio, e gli chiede protezione.
Notiamo il duplice movimento: a) da una parte Dio protegge il fedele (movimento discendente); b) dall'altra, il fedele si affida totalmente a Dio (movimento ascendente). Questo salmo, potremmo quasi dire, ci descrive il concetto dei Sacramenti: il punto di incontro tra la grazia di Dio che scende (quindi il Signore che opera) e l'uomo che attinge alla grazia e rende culto al Signore.
Il v. 2 è una bellissima professione di fede: “Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene”. Ecco la fede del giusto, del timorato di Dio. Dio è il Suo Signore. Nessun altro è il suo Signore. Se Dio è il suo Signore, vuol dire che lui camminerà sempre secondo la volontà del suo Dio e Signore. ‘Senza di te non ho alcun bene’. Dio che ci ha dato la vita non è solo la fonte dalla quale proviene il bene, ma è "il bene". Questa è vera professione di fede, non è solo una fede pensata, ma testimoniata anche alla comunità, è una professione pubblica. D’altronde la fede deve essere pubblica, dovrà sempre essere proclamata dinanzi a tutti, sempre.
“Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore” (v. 3). I "santi" e i "nobili" sono le persone con cui si accompagna il giusto. Egli riconosce il valore che si trova nella comunione con i santi, con coloro che Dio ha messo a parte, e in cui si riflette la Sua santità. La nuova traduzione CEI (quella del 2008), traduce: “agli idoli del paese, agli dèi potenti andava tutto il mio favore”, rendendo del tutto incomprensibile il testo che già in ebraico è difficile. È difficile comprendere come l'ebraico “qeḏôšîm” possa essere tradotto “idoli” invece che “santi”. La traduzione dei LXX e della Volgata avevano fatto una scelta ben chiara, ed è quella emersa nella traduzione del 1974: “Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore”.
Nel v. 4 la professione di fede è fatta al contrario. Il pio adoratore si impegna a non favorire il culto idolatrico. “Io non spanderò le loro libazioni di sangue”. Una delle caratteristiche dell'idolatria era la "libazione di sangue", che poteva riferirsi anche al sacrificio umano, soprattutto di bambini. “Né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. La distanza deve essere netta. Con gli idoli non si deve avere alcuna comunione, di nessun genere. Neanche il loro nome deve essere pronunciato. Sulla bocca del vero adoratore ci deve essere solo il nome del suo Dio. Gli idoli non meritano l'onore di essere nominati. Oggi, potremmo dire, il giusto evita di partecipare a un falso culto.
“Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (v. 5). Qui ci sono dei simboli sacerdotali. Sappiamo che nella spartizione della terra di Canaan, dopo la conquista, la tribù di Levi non ebbe un suo territorio specifico ma solo delle città di residenza. Chi era consacrato al culto non doveva essere impegnato nelle strutture sociali ma doveva fare da intermediario tra Dio e il popolo. La terra dei sacerdoti era Dio stesso e questo concretamente significava il diritto di ricevere le decime offerte dalle tribù per il proprio sostentamento. Il salmista, quindi, attraverso delle immagini esprime questa dedizione del sacerdote al suo Dio.
1. Il Signore è per lui “parte di eredità” cioè “parte di un territorio”.
2. Il Signore è per lui il suo “calice”, cioè il suo ospite, il suo familiare che lo accoglie.
Il "calice" è segno dell'ospitalità di Dio al suo fedele. È Dio che porge il calice, così come - dal punto di vista strettamente umano - è colui che riceve in casa propria che offre all'ospite il calice. Nell'ultima cena chi offre il calice? È Gesù il padrone di casa, è l'ospite inteso alla latina (per i romani, infatti, l'ospite è colui che ospita e non colui che viene ospitato).
Per l'uomo giusto e pio, il Signore è la sua parte di eredità e il suo calice. Non è la terra l’eredità del giusto e neanche le cose di questo mondo. Sua eredità è solo il Signore. Solo il Signore è il suo calice di salvezza, di vita vera. Quest’uomo non si attende nulla dalla terra. È il Signore, nel presente e nel futuro, la sua vita, il suo benessere, la sua prosperità, per questo la pone nelle mani del suo Dio. Questo è abbandono totale. Lui vuole essere solo di Dio, sempre nelle sue mani.
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Mc 12,38-44
Marco 12:38 Diceva loro mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze,
Marco 12:39 avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.
Marco 12:40 Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave».
Marco 12:41 E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte.
Marco 12:42 Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.
Marco 12:43 Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Marco 12:44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Il v. 38 si apre ricordando al lettore che si è in un contesto di insegnamento, rilevando nel contempo il clima di tensione che lo anima. Un insegnamento che trae spunto dal modo contraddittorio di vivere degli scribi, che amano pavoneggiarsi in pubblico e presentarsi come gente perbene, ma in realtà sono persone prive di scrupoli morali, che si mascherano dietro una vita pubblica religiosa, manifestando in tal modo tutti i danni che può creare la devozione non vissuta nello spirito e nella sincerità del cuore. Un simile comportamento è caratterizzato da una sostanziale amoralità, in cui l'ego vive e si alimenta a spese dell'altro, soprattutto nei confronti di chi non si sa difendere o non ne ha i mezzi per farlo. Per questo, il tutto diventa ancor più deprecabile e condannabile.
Il v. 40 racconta come gli scribi fossero dei divoratori di case delle vedove. Un pensiero questo che serve a Marco per agganciarsi con l'altro racconto (vv. 41-44), dove c'è come protagonista una vedova, la quale saprà impartire, nonostante la sua precaria condizione di vita, una lezione di totale abnegazione di sé in favore del Tempio, in ultima analisi di Dio stesso.
Due comportamenti contrapposti, narrativamente infilati uno dietro l'altro, perché meglio risalti il contrasto tra predatori e prede e tra ricchi e poveri. Un confronto da cui emerge come le offerte fatte dai donatori benestanti non vanno ad intaccare il loro patrimonio e comunque non incidono sulla qualità della loro vita, anzi ne traggono un pubblico vantaggio, perché tutti vengono a sapere della loro “generosa” offerta. Contrariamente, la vedova, dà tutto ciò che ha e nulla trattiene per se stessa.
Il v. 41 apre il racconto sulla vedova presentando Gesù che, seduto di fronte alla tesoreria del Tempio, stava osservando quelli che portavano le loro offerte. Il sedersi di Gesù in questo contesto assume un duplice significato: da un lato, egli sta continuando il suo insegnamento. Il sedersi, infatti, è la caratteristica posizione del maestro che impartisce il suo insegnamento; dall'altro, la posizione di Gesù, seduto davanti alla tesoreria del Tempio, mentre osserva attentamente quelli che compiono la loro offerta, lascia trasparire la postura propria del giudice che si pone di fronte all'imputato o al ricorrente e ne valuta la posizione, per poi emettere la sua sentenza, esposta ai vv. 43-44, ma che nel contempo è anche insegnamento ai suoi discepoli.
Il v. 42 presenta il personaggio principale, una vedova, che Marco definisce povera. Un aggettivo qualificativo che lascia trasparire la condizione sociale di questa vedova, una delle categorie sociali più a rischio in quella società, e più esposte alle angherie e ai soprusi. La sua offerta, solo due spiccioli, testimonia il suo stato di indigenza. Tale offerta è equiparabile a pochi centesimi, ma rappresentava tutto il suo avere, a cui era legata la sua esistenza e poteva costituire la differenza tra il vivere e il morire. Ed è a tal punto che il giudice e maestro convoca attorno a sé i suoi discepoli (v. 43) per impartire il suo insegnamento ed emettere nel contempo la sua sentenza: “questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri”. Una sentenza che vede contrapposte due parti: questa povera vedova, nella parte vincente, contro tutti gli altri offerenti, soccombenti.
Un rovesciamento di valori e di prospettiva, di cui viene data la motivazione: “tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. La valutazione, quindi, non è posta sul valore venale dell'offerta, ma su quanto questa ha a che vedere con la sincerità del proprio cuore e della propria vita. Ciò che assegna valore o disvalore alle cose è ciò che risiede nel cuore dell'uomo e non nelle cose. La sentenza capovolge i parametri di valutazione degli uomini, mostrando tutta la distanza che li separa da quelle di Dio, fino a giungere al paradosso: il niente che questa povera donna ha dato sopravanza di gran lunga le cospicue offerte dei ricchi.
E il motivo di questo paradosso sta nel fatto che “essa invece, nella sua povertà, vi ha meso tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Questa vedova trasse tutto quello che aveva “nella sua povertà”, o meglio “dalla sua povertà” (ek tēs histerēseōs autēs). In altri termini, il suo stato di privazione non le impedì di raschiare il fondo della sua povertà, raccogliendo tutto quello che aveva, due monetine, che definiscono ancor prima che il valore dell'offerta, lo spessore del suo stato di penuria. Non si tratta, dunque, di una indigenza qualsiasi, come tanta ve n'era a quel tempo, ma di un grave stato di povertà, che metteva in discussione la sua stessa sopravvivenza. In ultima analisi, questa vedova, gravemente indigente, tra se stessa e Dio ha anteposto Dio alla sua stessa vita.
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Sal 17 (18)
Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.
Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.
Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.
La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.
Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.
L’arma vincente di Davide è la fede che si trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco cosa fa Davide: nell’angoscia non si perde, non si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.
Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.
Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.
«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.
«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.
«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.
«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.
Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.
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(Mc 10,46-52)
Marco 10:46 E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
Marco 10:47 Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Marco 10:48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Marco 10:49 Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».
Marco 10:50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Il v. 46 incornicia la scena dell'incontro tra Gesù e Timeo, un nome contratto che doveva essere “Timoteo”, cioè “colui che onora Dio”. Si tratta di un nome greco dato a un giudeo, che dice quanto profonda sia stata l'ellenizzazione della Palestina.
Lo stesso verso si apre con una nota geografica: la comitiva di Gesù con i suoi discepoli e la folla, entra in Gerico e ne esce subito. Un modo strano di comportarsi, poiché Gerico, in quanto ultima stazione prima della lunga salita a Gerusalemme, era in genere un luogo di soggiorno dove riposarsi e rifocillarsi prima di salire a Gerusalemme. Una città molto affollata e rumorosa se si pensa al via vai di sacerdoti e leviti che salivano e scendevano da Gerusalemme per il servizio al Tempio o che si davano il cambio settimanale nel servizio. Una città dove confluivano i pellegrini che salivano o discendevano da Gerusalemme. Città, quindi, molto trafficata, ricca, sontuosa, benestante e ospitale, ma Marco sottolinea in apertura del suo racconto come Gesù vi entri e vi esca subito, imprimendo in tal modo al cammino di Gesù verso Gerusalemme una forte accelerazione, lasciandosi alle spalle un mondo che non appartiene né a lui né a quanti hanno deciso di seguirlo. Ma è proprio su questa strada che si trova un cieco, Timeo, che “sedeva lungo la strada”.
Il verbo “sedere” è posto all'imperfetto, un tempo che indica la persistenza di quell'essere seduto del cieco, che pur trovandosi sulla stessa strada di Gesù, quella che porta a Gerusalemme, di fatto non lo seguiva, perché “sedeva”. Ma è proprio su questa strada che avviene l'incontro risolutore.
Il v. 47 presenta due titoli di Gesù, il primo dei quali è quello per cui era conosciuto dalla gente: Gesù Nazareno, un Gesù conosciuto per le sue origini storiche e la sua provenienza geografica. Ma in Israele si era venuta a formare una lunga tradizione, che stimolava le attese, le speranze e le fantasie attorno alla mitica figura del Messia davidico. Si trattava però di riconoscerlo e di aderirvi esistenzialmente, ritenendo in tal modo adempiuta in Gesù la promessa, che Dio fece a Davide per mezzo del profeta Natan. Ed è ciò che farà il cieco di Gerico.
Infatti Timeo, saputo di Gesù in cammino sulla strada per Gerusalemme, non esitò a invocarlo come il Messia davidico: “cominciò a gridare e a dire” e, quindi, a dare apertamente la sua testimonianza di fede nel messianismo di Gesù: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”. Un atto di fede nel messianismo di Gesù, contro tutto e contro tutti.
La testimonianza del cieco su Gesù, sotto forma di invocazione, si trasforma in un incontro con Gesù, un'esperienza salvifica, che cambierà radicalmente la vita di questo cieco, poiché Gesù, vista la sua fede, lo chiama a sé. Ci si trova, qui, di fronte ad una chiamata alla sequela. Marco, al v. 49, ripeterà il verbo “chiamare”: “chiamatelo”, lo “chiamarono”, “ti chiama”. Significativo quel sollecito: “Coraggio! Alzati, ti chiama”. Un pressante invito ad alzarsi da quella sua condizione di cieco, metafora del non credente, per rispondere alla chiamata di Gesù. Una sorta di preludio a quello che avverrà al v. 50: “Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. Il mantello, come gli abiti in genere, nel linguaggio degli evangelisti sono la metafora della condizione della propria vita. Questo “gettare il mantello” indica, pertanto, l'aver abbandonato la propria vita di prima, quello che lo aveva reso cieco, per poter accedere a Gesù; e lo fa “balzando in piedi”, quasi una sorta di risurrezione, l'inizio di una nuova vita. Si noti come egli non fu accompagnato a Gesù, come ci si aspetterebbe per un cieco, ma egli andò a Gesù in modo autonomo, perché illuminato dalla fede. Un avvicinarsi a lui, quindi, dettato dalla sua fede, certo, ancora incipiente, poiché vede in Gesù soltanto il figlio di Davide, il realizzarsi in lui di una promessa, un passaggio quindi dal giudaismo al cristianesimo, ma la strada per raggiungere Gesù, quale Messia e Figlio di Dio, è ancora lunga, e bisognerà arrivare sotto la croce per sentirlo proclamare: “Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).
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(Mc 10,35-45)
Marco 10:35 E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo».
Marco 10:36 Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero:
Marco 10:37 «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Marco 10:38 Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo».
Marco 10:39 E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete.
Marco 10:40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
il v. 35 si apre presentando i protagonisti di questo episodio e la loro richiesta, che viene accostata narrativamente all'annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, creando in tal modo uno stridente contrasto tra gli interessi di Gesù, che sta parlando in termini drammatici della sua fine imminente, e quelli dei due fratelli, che pensano, invece, di accaparrarsi i primi posti.
Giacomo e Giovanni, due figure eminenti, chiedono: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È la richiesta di una investitura e di un potere che loro vogliono condividere con Gesù. Quel “sedere nella tua gloria” si riferisce non tanto alla risurrezione, il cui significato era loro sostanzialmente ignoto. La gloria a cui i due pensavano era la costituzione del nuovo Regno di Israele in termini storici da parte di Gesù. Una speranza questa che essi nutrirono fino all'ultimo. Il “sedere” indica la posizione di privilegio rispetto agli altri. Quello che qui viene richiesto, in buona sostanza, è che Gesù riconosca loro due quali eredi del suo potere e, quindi, l'essere suoi successori. Un riconoscimento ufficiale e diretto da parte di Gesù davanti a tutti avrebbe tolto di mezzo ogni discussione su “chi è il più grande”. Da qui lo sdegnarsi degli altri dieci apostoli, che si vedono portar via da sotto il naso l'oggetto dei loro desideri: “All'udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni”.
La risposta di Gesù è scandita in due parti. Essa si apre sottolineando la loro non conoscenza: “Voi non sapete ciò che domandate” (v. 38). La richiesta che i due fratelli avevano fatto a Gesù riguardava il potere temporale. Una richiesta che dà a vedere come essi ancora non avevano capito veramente che cosa significasse che Gesù è “il Cristo”, né che cosa significasse “Figlio di Dio” e che cosa tutto ciò comportasse. Tutto era riparametrato alla loro capacità di comprensione, che non riusciva a trascendere il livello orizzontale della missione di Gesù e della figura stessa di Gesù.
La risposta, quindi, prosegue nella sua seconda parte, riconducendo il tutto alla drammatica realtà che si stava per compiere e che diviene centrale in questa sezione: “Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gesù, dunque, non rifiuta la loro richiesta, ma pone quale “conditio sine qua non” per raggiungere la gloria a cui essi aspirano, la via della croce. Il “bere il calice” e “l'essere battezzati con il battesimo con cui sarò battezzato”, sono due espressioni metaforiche che alludono a degli eventi a cui Gesù deve essere sottoposto per raggiungere quella gloria che lui non si arroga per se stesso, ma che il Padre gli dona, in quanto ha compiuto pienamente la sua volontà.
La risposta dei due fratelli lascia esterrefatti, perché ancora una volta dà a vedere come essi non abbiano capito di che cosa Gesù stia parlando; e quasi come fosse un gioco rispondono: “Lo possiamo” (v. 38).
Anche qui la risposta di Gesù è duplice. Nella prima parte della risposta (v. 39) viene attestato loro che anch'essi verranno associati alla sorte del loro Maestro. Marco riporta le due espressioni del calice e del battesimo, riferite dapprima a Gesù e ora a Giacomo e Giovanni, lasciando intendere che anche i due [ma con loro tutti i Dodici e in comunione con loro tutti i credenti] saranno associati ai medesimi destini di Gesù, poiché “non c'è servo più grande del suo signore”.
La seconda parte della risposta (v. 40) lascia intravvedere come la gloria di Gesù non dipende da Gesù, ma tutto è rimandato al Padre. Una gloria che è destinata “per coloro per i quali è stata preparata”. Sono quelli che hanno scelto la via della croce e sono stati associati alla morte di Gesù e, per questo, anche alla sua risurrezione.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Mc 10,17-30)
Marco 10:17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
Marco 10:18 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Marco 10:19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».
Marco 10:20 Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Marco 10:21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Marco 10:22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
“Mentre usciva per mettersi in viaggio”. Marco ricorda ai suoi lettori che questo è il viaggio che conduce a Gerusalemme. Ed è proprio su questo viaggio che abbiamo la cornice e la chiave di lettura del racconto.
L'evangelista vuole sottolineare l'importanza del fidarsi di Gesù e del confidare in lui e non nelle proprie ricchezze e, quindi, in se stessi. L'incontro di questo personaggio alla ricerca della via perfetta, lo descrive molto bene: egli corre verso Gesù e si inginocchia davanti a lui, esprimendo in tal modo il suo desiderio di incontro con il Maestro (gli corse incontro) e il suo affidarsi a lui (si getta in ginocchio davanti a Gesù). Si tenga presente che qui tutto avviene sulla strada che porta a Gerusalemme e da lì al Golgota. È questa la via perfetta, la strada maestra che porta alla vita eterna, incomprensibile per chi ripone la fiducia in se stesso e nei propri beni: il fare la volontà del Padre. Da qui la necessità di spogliarsi di se stessi e seguire Gesù, perché è lui la Via che porta al Padre, alla vita eterna, e su questa Via è impressa l'impronta della croce.
La questione su cui gira l'intero racconto è data da una domanda: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù è definito “Maestro buono”, in cui il termine “Maestro” definisce il rapporto che intercorre tra Gesù e questo tale, che si pone in un atteggiamento di discepolo e, quindi, ben disposto ad accogliere l'insegnamento di Gesù, che qui, in modo certamente anomalo nel definire un maestro, viene chiamato “buono”. Un maestro lo si può definire saggio, illuminato, dotto, sapiente, tutti attributi che evidenziano la sua posizione di maestro e ne definiscono la qualità. Non ha molto senso che Gesù venga definito “buono” e Gesù lo rileverà subito come a lui inappropriato, poiché, da buon giudeo, Gesù sa che questo attributo va riferito e riconosciuto pubblicamente soltanto a Dio. Gesù, dunque, rimanda la ricerca di questo ricco a Dio stesso. La chiave che apre alla “vita eterna” appartiene al Padre, ma Gesù può indicare la via maestra dei comandamenti, in cui si rispecchia la volontà stessa di Dio e sono posti a sigillo dell'Alleanza, che sta alla base dell'identità stessa del popolo d'Israele.
La questione posta dal ricco è “che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. La questione fa parte del dibattito rabbinico, che va alla continua ricerca di una sofisticata via di perfezione o di un qualche comandamento tale che possa in qualche modo riassumere la foltissima schiera di tutti gli altri comandamenti della Torah, ben 613, che scandivano e tuttora scandiscono il vivere del pio ebreo. La religione ebraica è concepita come una sorta di prassi religiosa, una mera esecuzione di ordini e comandi divini. La Torah, infatti, era colta come espressione della volontà divina, che come tale andava soltanto eseguita e non discussa. A fronte della corretta esecuzione, Dio era tenuto a dare al suo fedele la ricompensa promessa. Si trattava, quindi, di una sorta di rapporto contrattuale, che il pio ebreo aveva stipulato con Dio nell'ambito dell'Alleanza. Entro queste logiche si comprende la richiesta del ricco “cosa devo fare per avere”. Siamo, dunque, ancora nell'ambito di una logica contrattualistica, quella del fare per avere, ma nel contempo lascia intuire il desiderio profondo di aprirsi ad un nuovo rapporto con Dio, capace di superare i vecchi schemi. Ed è proprio questa esigenza di un rinnovamento interiore e di crescita spirituale, che ha indirizzato questo tale verso Gesù.
Con il v. 19 Gesù indica la via maestra, aperta ad ogni pio ebreo e a tutti gli uomini di buona volontà, poiché i comandamenti altro non sono che una legge che è inscritta nella natura stessa dell'uomo e gli indica il cammino da percorre. I comandamenti che Gesù elenca riguardano il solo rapporto con gli altri, omettendo, invece, la prima parte del Decalogo riguardante il rapporto con Dio. Questa scelta di campo operata da Gesù, tuttavia, non esclude i rapporti con Dio, ma li va a completare e ne costituisce la “conditio sine qua non”. Non si può, infatti, amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede. L'amore per Dio passa attraverso quello per il prossimo.
Nell'elencazione dei comandamenti, Marco aggiunge un “Mē aposterēsēs” (non frodare), che di fatto non esiste tra i comandamenti, ma che in realtà sintetizza Es 20,17: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”. Il verbo “aposterēō” (frodare), che qui Marco usa al posto del “Non desiderare”, significa oltre che frodare, anche “privare, spogliare, portar via, defraudare, non dare quello che si deve”. Il senso che Marco qui vuole attribuire a quel “non desiderare” originario, è quello di un sottrarre in modo subdolo e ingannevole un bene che appartiene al prossimo. Il perché di questa scelta da parte di Marco, cioè di sostituire il “non desiderare” con “non frodare”, va capita per la platea di lettori a cui Marco destina il suo vangelo: la comunità di Roma, per la quale “desiderare” è un semplice moto dell'animo, mentre per la mentalità e la cultura ebraica il “desiderare” assume aspetti molto più concreti, che è il mettere in atto un comportamento tale da poter sottrarre all'altro, in modo subdolo e ingannevole, il bene “desiderato”. Un concetto che per i Romani meglio si esprimeva con “frodare”.
Il v. 20 riporta la risposta del ricco, che attesta di osservare tali cose fin dalla sua giovinezza. Il riferimento qui è probabilmente al “bar mitzvah” (figlio del comandamento), una cerimonia che viene celebrata all'età di 13 anni per il maschio. È questo il momento in cui il giovane, ormai alle soglie dell'adolescenza, fa la sua entrata ufficiale nella comunità civile e religiosa, assumendo le sue prime responsabilità, partecipando attivamente alla vita religiosa e sociale. Egli può da questo momento essere conteggiato nel “Minian”, il numero minimo di dieci persone perché la preghiera pubblica in sinagoga abbia valenza comunitaria.
La risposta di Gesù si articola in tre momenti che costituiscono una sorta di graduale cammino verso la perfezione spirituale: a) la constatazione che la semplice osservanza della Torah, per quanto perfetta, non soddisfa adeguatamente il bisogno di spiritualità di questo tale: “Una cosa sola ti manca”. Segno evidente che la Legge mosaica non era in grado di dare quella perfezione spirituale capace di creare un'adeguata comunione tra il credente e Dio. b) Il secondo momento crea la condizione per accedere a questa perfezione: liberarsi da ogni vincolo materiale, che lega chi lo possiede al terrestre, impedendogli ogni elevazione spirituale: “vendi quanto hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo”. Non si tratta di un semplice ripudio dei beni terreni, ma di una “distribuzione” degli stessi a chi ne ha bisogno e, quindi, di una sorta di condivisione, che si fa comunione di vita, trasformando in tal modo questa ricchezza materiale e deperibile in una spirituale ed eterna. c) Il terzo elemento, che costituisce la risposta di Gesù, è la sequela: “poi vieni e seguimi”. Il verbo qui usato è “akolouthei”, ed esprime una sequela che si pone a servizio di Gesù. Un verbo tecnico questo, proprio degli gli evangelisti, per definire il rapporto che intercorre tra il discepolo che ha deciso la propria vita per Gesù e Gesù stesso.
Quello della sequela, pertanto, è un percorso graduale, che nasce dal bisogno di perfezione spirituale, per dare un senso più profondo e più vero alla propria vita; da qui la necessità di liberarsi dai vincoli materiali che possono condizionare il cammino di crescita spirituale; ed infine la sequela di Gesù, quale momento culminante di questo percorso di spiritualità, che ha inizio proprio dalla spoliazione di se stessi.
Il v. 22 chiude il racconto sul ricco alla ricerca della via di perfezione con una nota di tristezza che lascia molto amaro in bocca: “rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto”, perché, commenta l'evangelista, “aveva molti beni”. Una tristezza, dunque, che è legata ai beni, perché sono proprio questi che gli impediscono di accedere a quella perfezione a cui tanto aspirava. Una tristezza che indica la frustrazione di un grande desiderio di Dio. Perché la sequela sia efficace, necessita che il proprio cuore sia completamente libero dalla materialità del vivere, poiché essa non è un percorso di potere e di affermazione personale, ma di spiritualità, che trascendendo la materialità evolve il discepolo verso Dio e lo conduce a lui attraverso il servizio agli altri.
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(Gen 2,18-24)
Genesi 2:18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile».
Genesi 2:19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Genesi 2:20 Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Genesi 2:21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.
La vita dell'uomo è segnata da un senso di solitudine, che mal si accorda con la sua natura di essere ad immagine di Dio. La creatura non si sente appagata dal suo Creatore. La vera comunicazione è possibile soltanto tra pari. Dio è ben consapevole di questo limite di Adamo, e subito pensa di mettergli accanto un altro essere, non solo simile al Creatore, ma simile anche alla sua creatura. Adamo doveva trovare e vedere la propria somiglianza con Dio, non solo in se stesso, nella sua dimensione interiore, ma anche fuori di se stesso, in rapporto alla creatura. L'idea della creazione della donna è quella di dare un aiuto all'uomo, un qualcosa di più, per facilitare il cammino verso il Creatore.
Ma prima di creare la donna, Dio conduce ad Adamo gli animali. Essi rappresentano un arricchimento per la vita dell'uomo, sia perché sono oggetto di conoscenza, sia perché ricercano la sua compagnia. È un istinto impresso da Dio, quello che spinge gli animali a cercare l'uomo, per stargli vicino e fargli da corona, come fosse il loro padrone o, meglio, il loro signore e il loro re.
Dio vuol vedere come Adamo chiama gli animali per gioire con lui, far festa insieme a lui per il dono che gli ha fatto. Come quando un padre vuol vedere come il figlio accoglie il suo dono.
Dare il nome significa avere signoria sull’animale. Dio costituisce l’uomo signore del regno animale, e rispetta le sue decisioni di signore. Infatti lascia immutato il nome agli animali. È un passaggio importante questo: Dio non pone l’uomo alla pari degli animali. Lo pone su un piedistallo superiore. Lo pone come loro signore. E come “dio” degli animali, l'uomo non potrà essere un “dio” arbitrario, dispotico, ma un “dio” che deve manifestare nel regno animale la volontà del suo Creatore.
Per relazionarsi agli animali bisogna chiamarli con un nome o un suono. Ecco che l'uomo diventa creatore delle parole. Gli animali che rispondono alla parola non rispondono con la parola. Obbediscono al richiamo dell'uomo in modo automatico, per un istinto creato da Dio. È un'obbedienza priva di intelligenza logica: procede per schemi prestabiliti, incapace di porsi sullo stesso piano di colui che chiama.
Come può Adamo trovare un aiuto nella sua crescita e nel suo cammino spirituale in creature che non sono pari a lui? Il Signore sta per fargli un grande dono, ma vuole farglielo desiderare. L'esperienza del chiamare con la parola crea il desiderio di comunicare con la parola. Nessun animale è simile all’uomo. Tra la natura degli animali e la natura dell’uomo vi è una differenza abissale. Vi è un vero salto ontologico. Trovare nell’animale un aiuto che sia capace di rompere la solitudine dell'essere, significa due cose: che l’uomo ha elevato l’animale ad un livello superiore, oppure che l'uomo ha degradato se stesso e guarda se stesso come un animale.
«Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò». Il modo in cui si regala qualcosa a qualcuno che si ama è commisurato all'importanza del dono. Si dona a volte in modo semplice, senza confezioni, ma per un dono particolare si cerca un modo diverso di donare. Cosa c'è di più bello e di più gioioso per un figlio trovare, al proprio risveglio, proprio quel dono tanto desiderato? Ma c'è un altro significato del sonno dell'uomo: non deve assistere all’opera di Dio, questa deve rimanere mistero per l’uomo. La donna è data da Dio all’uomo e come dono di Dio la si deve accogliere.
Nel dono si deve sempre rispettare la volontà di Colui che dona e Colui che dona ha dato la donna perché fosse per l’uomo un aiuto. Ogni uomo, che si unisce in matrimonio, deve trovare nella donna la sua stessa vita e come tale rispettarla, amarla, onorarla. Onorando la donna, si onora Dio che l’ha data.
Qui però si deve entrare in uno spirito di fede, ed è proprio la fede che manca ai nostri giorni. L’uomo si pensa da se stesso, vede la donna come un oggetto, una cosa. L’uomo si vede senza mistero. Di conseguenza vede la donna senza alcun mistero in sé. È compito del cristiano entrare nel mistero e mostrarne la bellezza.
La sposa di Adamo fu formata da una delle costole che Dio prese all’uomo quando questi si addormentò. Analogamente, la Sposa di Cristo fu tratta dal fianco del Salvatore, allorché Gesù diede la propria vita, e da cui scaturì sangue e acqua.
Questo non è un lavoro fatto per antipatia verso il protestantesimo, o per rancori verso gli evangelici, ma per difendere la vera fede, senza aspirazioni belliche. Ho passato molto tempo della mia vita nel mondo protestante, e in tarda età ho scoperto che non conoscevo affatto quella Chiesa cattolica che criticavo, ed è questa ignoranza che porta molti cattolici a lasciarsi convincere o influenzare dai protestanti.
Questi sono divisi in una miriade di denominazioni, alcune delle quali non gradiscono essere chiamate "protestanti", ma vorrebbero essere indicate solamente come "cristiane". Sappiamo anche che per i protestanti, i cattolici non sono cristiani, ma idolatri e pagani; ne consegue che gli evangelici nel loro voler essere chiamati solamente "cristiani" aspirano all'implicito riconoscimento di essere i soli "veri cristiani".
Il problema è che solo pochissimi protestanti conosco la storia della Chiesa; moltissimi accusano solo per sentito dire, ma non hanno mai aperto un libro riguardante la storia cristiana nei secoli. È sufficiente quello che dice il pastore di turno, qualche opuscolo, e internet per formare la loro "cultura" anti-cattolica.
Moltissimi protestanti e/o evangelici, piuttosto che vergognarsi per la propria ignoranza sul cristianesimo, ne vanno fieri, dicendo la classica frase "a me interessa solo la Bibbia", frase che è già tutto un programma. L'ignoranza storico-biblica delle persone è fondamentale per poterle pilotare. Un protestante serio che si mettesse a studiare la storia del cristianesimo, avrebbe buone probabilità di smettere di essere protestante.
In tutto il protestantesimo vige una fede fai da te! Lo Spirito Santo ci guida a capire bene la Bibbia, è vero, ma nel mondo protestante si usa questo pretesto per coprire una presunzione senza freni e per certi versi arrogante, che porta ogni pastore a diventare una sorta di "papa" infallibile nel dare insegnamenti alle persone.
Presunzione e arroganza non si vedono subito - nessuno mostra questi difetti tanto facilmente. Sembrano tutti timorati di Dio, osservanti della Parola e pieni d'amore per il prossimo. Peccato che il loro prossimo nella maggior parte dei casi è chi ascolta passivamente e non contrasta i loro insegnamenti biblici. Chi si permette di dissentire, allora non viene più amato, spesso non viene più salutato, e alcune volte diffamato.
Per lungo tempo, grazie a Lutero, il papa è stato considerato l'anticristo, quindi odiato e accusato, e così tutti i vescovi e i preti cattolici. In questo clima rientrano anche i singoli cattolici osservanti.
I protestanti criticano l'infallibilità papale, ma di fatto si comportano come infallibili; ognuno nella propria comunità, liberi di inventarsi quello che vogliono, tirando la giacca allo Spirito Santo, a garanzia delle loro dottrine! Il risultato? Una miriade di denominazioni con dottrine che spesso si contrastano pesantemente tra loro.
Il problema sta nella grande ignoranza mista a presunzione, che moltissimi protestanti e/o evangelici hanno. I cattolici sono meno ignoranti? No, la maggior parte dei cattolici, purtroppo, è assai ignorante in materia biblica, ma almeno essi non si mettono a fare i maestri verso chiunque gli capiti a tiro. Il cattolico medio è cosciente della propria ignoranza, il protestante medio invece è assai presuntuoso in campo biblico.
Un protestante che amasse veramente, come dice, la verità, andrebbe a verificare di persona cosa scrivevano e come vivevano i primi cristiani, nostri antenati nella fede, per capire se e come la Chiesa cattolica sbaglia, oppure dove sbagliano i protestanti a interpretare la Bibbia.
Per logica, piuttosto che fidarsi di un pastore che spiega la Bibbia a 2000 anni di distanza, sarebbe meglio fidarsi dei primi padri, che appresero direttamente dalla voce degli apostoli l'insegnamento cristiano. Purtroppo molti protestanti non fanno uso della logica, ma solo di ideologie anti-cattoliche, coltivando un'antipatia viscerale verso tutto ciò che è cattolico, perché scartano a priori le prove di come vivevano i primissimi cristiani, vissuti dopo gli apostoli ma prima di Costantino.
La fede cristiana è una, perché lo Spirito di Dio è uno! Quindi molti sbagliano strada, e abbiamo il dovere di capire chi è in quella giusta e chi in quella sbagliata. L'unità è la coesione degli elementi, delle parti che compongono un ente (per esempio, la coesione tra le parti di un'automobile come la carrozzeria, le ruote, il motore, ecc.) come già diceva Plotino; se viene meno l'unità viene meno anche quell'ente e ne possono risultare altri, ma non più quello di prima [se viene meno la coesione della carrozzeria, ruote e motore, non c’è più l'ente auto, bensì gli enti carrozzeria, ruote, motore]. Ecco, il protestantesimo somiglia tanto al mucchio di lamiere che una volta era una macchina. Si critica tanto la Chiesa cattolica, ma quanti sanno, per esempio, che Bultmann, celebre teologo ed esegeta protestante luterano, ridusse la risurrezione a un simbolo teologico? Non riteneva infatti possibile che fisicamente Gesù fosse risorto. Per confrontare le diverse interpretazioni bibliche bisogna avere il più possibile la mente sgombra da ideologie e preconcetti. Bisogna essere aperti a qualsiasi ipotesi se correttamente motivata e dimostrata. Se ci basiamo su pregiudizi ideologici che ci legano alle nostre convinzioni dottrinali, possiamo fare a meno di leggere o ascoltare qualsiasi testo o persona; tanto è inutile. Il nostro orgoglio ci impedirà di apprendere verità diverse dalla "nostra". Spesso difendiamo il nostro errore biblico con un guscio impenetrabile, ci teniamo la nostra verità, rifiutando qualsiasi altra, che sbatte sul guscio e scivola via. Appena si tocca il piano religioso/spirituale, stranamente è come se molti staccassero l'interruttore dalla propria mente, o almeno ad una parte di essa. Quando i protestanti dialogano con un cattolico, per esempio, non ricevono alcuna informazione, solo suoni che scivolano sui loro timpani, ma non arrivano al cervello. Non ascoltano.
La storia del cristianesimo per loro non conta nulla, non riveste alcuna importanza, se non nelle vicende da rinfacciare - vedi crociate, inquisizioni ecc. - senza conoscere la vera storia di questi fatti, e senza sapere che anche i protestanti hanno avuto le loro guerre, e hanno pure fatto le loro inquisizioni, assai più sanguinose di quelle cattoliche.
Dicono di essere guidati dallo Spirito Santo, ma stranamente ci sono molti gruppi che ricevono informazioni diverse e contraddittorie dal medesimo Spirito Santo, perdendo inesorabilmente di credibilità.
Mi rendo conto che la Chiesa cattolica ha trascurato il problema del proselitismo protestante. Gli evangelici hanno riscosso successo non perché hanno ragione, ma semplicemente perché trovano il popolo cattolico molto ignorante in materia biblica, incapace di difendere in maniera opportuna la propria fede, rifugiandosi dietro al classico "non ho tempo da perdere"; magari poi perdono pure la fede… il tempo però non si tocca.
Molti cattolici dicono di aver fede in Gesù Cristo, ma questa loro fede si vede solo nei momenti di bisogno: quando tutto scorre liscio Gesù viene dimenticato, e la Bibbia non interessa a nessuno leggerla. In contesti come questi gli evangelici trovano un popolo che deve veramente essere evangelizzato, da loro. Molti cattolici non oppongono resistenza a questo proselitismo perché non hanno risposte bibliche da dare, ma solo ignoranza da nascondere. In terreni simili la conquista protestante è facile, ed è come se affrontassero un esercito disarmato.
Ma chi studia la Bibbia e si impegna ad approfondire il significato della parola di Dio, si rende conto che in realtà i protestanti non sono affatto quei maestri biblici che sembrano, ma sono dei profondi ignoranti storici e biblici, plagiati dalla loro setta di appartenenza. Chiamandoli ignoranti non voglio offenderli, perché altrimenti li chiamerei "falsi e bugiardi". Chiamandoli ignoranti gli riconosco la buona fede, credono in alcune dottrine sbagliate, non accorgendosi di sbagliare.
Il punto è che lo Spirito Santo non può contraddire se stesso, e quindi certamente le interpretazioni contrastanti delle diverse denominazioni non possono essere tutte vere, né tutte ispirate. È evidente che non è possibile che lo stesso Spirito suggerisca a ciascuno dottrine diverse. In questo modo si creano dei compartimenti stagni, ogni gruppo protestante crede di essere nella verità più degli altri, isolandosi e predicando un vangelo personalizzato. Per esempio, secondo gli Avventisti tutte le altre chiese cristiane hanno abolito il comandamento del sabato, celebrando il culto alla domenica, e quindi tranne loro tutti sono destinati all'inferno se non aboliscono la domenica come giorno del Signore. Ovviamente essi motivano queste loro accuse con alcuni versetti biblici, interpretandoli a modo proprio. Ecco, è questo il punto che sfugge a tutti i protestanti, classici e moderni: la Bibbia non può essere interpretata soggettivamente, perché la Verità non è affatto soggettiva.
Ma essendo divisi in compartimenti stagni, non comunicanti gli uni con gli altri, è difficile che qualcuno di loro si accorga delle differenze dottrinali con gli altri protestanti. Se qualcuno se ne accorge, fa finta di niente, o non gli dà il giusto peso, tanto, basta credere in Gesù come nostro personale salvatore. Le loro attenzioni vengono rivolte solo verso la Chiesa cattolica, il nemico da sconfiggere! È fin troppo comodo affermare orgogliosamente che "Io capisco quello che c'è scritto nella Bibbia perché lo Spirito Santo mi guida. Dio ha nascosto la verità ai sapienti e l'ha rivelata agli umili". Ecco, ogni buon protestante usa frasi del genere per rifiutare l'autorità interpretativa dei padri e dei dottori della Chiesa.
In questo contesto si assiste a scene nelle quali qualsiasi protestante, di qualsiasi grado di cultura, schernisce gli scritti di Ireneo, Agostino, Tommaso d'Aquino, e lo fa in maniera disinvolta, perché nell'interpretare la Bibbia si sente tanto umile da essere guidato direttamente da Dio, ma allo stesso tempo è abbastanza cieco da non accorgersi che troppi "umili" protestanti professano poi dottrine assai diverse tra loro. Disprezzano il cattolico ma eleggono un "fai-da-te" che inorgoglisce e dice: "Non ho bisogno di leggere gli scritti dei padri della Chiesa, mi basta la sola Bibbia", quindi i maestri di cui parla l'apostolo Paolo non servirebbero a nulla: "È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (Ef 4,11).
Basterebbe leggere la storia delle eresie che hanno colpito il cristianesimo lungo i secoli, per rendersi conto che gli eretici basavano e basano sempre le loro tesi sulla Bibbia, spiegandola a modo loro. Difficilmente le persone andranno a spulciare intrecciate questioni dottrinali e teologiche. È più facile trovare un prete che abbia commesso qualche errore umano e sceglierlo come bersaglio, al fine di avvalorare le tesi anticattoliche e considerare la Chiesa cattolica nemica del cristianesimo e della verità, alleata con satana per sviare le anime e portarle all'inferno. Nemmeno l'arcangelo Michele ostentava una tale sicurezza nel bollare o giudicare il diavolo, eppure si trattava del diavolo (Gd 1,9):
L'arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore!
La verità è che l'accusatore per eccellenza è proprio Satana, i santi non accusano nessuno, non per rispetto, ma perché si rimettono al giudizio di Dio. Per un protestante invece è normale dire che i cattolici vanno all'inferno perché sono idolatri. Si ergono a giudici, credendo di conoscere i cuori, e fraintendono il concetto di adorazione. Qualsiasi cristiano si dovrebbe porre delle domande, a verifica di ciò in cui crede, e dovrebbe saper discernere se le proprie convinzioni in materia di fede sono solo frutto di autosuggestione, fantasie indotte, oppure se trovano conferma nella storia del cristianesimo e nella Bibbia.
Argentino Quintavalle
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Sal 18 (19)
Salmi 18:1 Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
Salmi 18:2 I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Salmi 18:3 Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia.
Salmi 18:4 Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono.
Salmi 18:5 Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola.
Salmi 18:6 Là pose una tenda per il sole che esce come sposo dalla stanza nuziale, esulta come prode che percorre la via.
Salmi 18:7 Egli sorge da un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l'altro estremo: nulla si sottrae al suo calore.
Salmi 18:8 La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice.
Salmi 18:9 Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi.
Salmi 18:10 Il timore del Signore è puro, dura sempre; i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti,
Salmi 18:11 più preziosi dell'oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante.
Salmi 18:12 Anche il tuo servo in essi è istruito, per chi li osserva è grande il profitto.
Salmi 18:13 Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo.
Salmi 18:14 Anche dall'orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato.
Salmi 18:15 Ti siano gradite le parole della mia bocca, davanti a te i pensieri del mio cuore. Signore, mia rupe e mio redentore.
Nella prima parte del Salmo (vv. 2-7) c’è il canto al Creatore dell'universo. Nella seconda (vv. 8-15) c’è un inno alla Torah, cioè alla legge divina, alla parola del Signore. Le due parti del salmo trattano di come l'uomo può attingere la conoscenza di Dio; prima, per deduzione osservando i cieli visibili e poi mediante l'insegnamento della parola di Dio. Sono rispettivamente la sfera materiale e quella spirituale. L’unità tra le due parti è fatta attraverso il simbolismo del sole: senza la luce fisica del sole e la luce spirituale della parola di Dio, non vi sarebbe vita sulla terra. Dio si rivela a tutti illuminando l’universo con il fulgore del sole e illumina il fedele con lo sfolgorare della sua parola contenuta nella sua legge rivelata. È significativo, infatti, che la legge, nella seconda parte del salmo, sia tratteggiata con attributi solari: come il sole dà la luce fisica alla terra (vv. 6-7), così la legge è la lampada che dà luce spirituale all’uomo (vv. 8-9).
Scendendo nei particolari, vediamo come l’ordine, la bellezza e l’armonia dell’universo narrano la gloria di Dio. Il firmamento grida che esso viene da Dio. Si autoproclama opera delle sue mani. L’esistenza dei cieli è un canto alla gloria di Dio. Chi guarda il firmamento non può non confessare che esso è opera della mani del Signore. La maestà della creazione fornisce la prova di un Dio creatore ancora più maestoso del creato. Chi dalla bellezza del creato non vede la bellezza infinita del suo creatore è uno stolto.
È una narrazione della gloria di Dio ininterrotta, senza fine (v. 3). Il giorno che va trasmette la notizia che esiste un creatore al giorno che viene, gliela affida perché la trasmetta a sua volta. Anche la notte che va ne trasmette notizia alla notte che viene, perché anch’essa gridi questa verità e la consegni a sua volta alla notte che le succederà. Nessun giorno vuole che l’altro giorno si dimentichi del suo Signore e così nessuna notte vuole che l’altra notte smetta di narrare le meraviglie di Dio. La verità di Dio deve rimanere stabile per sempre.
Giorno e notte si trasmettono la notizia in modo silenzioso (v. 4). Nessuno li ode parlare. Basta che la notte si alzi e il cielo stellato brilla in tutto il suo splendore e subito inizia l’inno di lode per il suo Creatore e Signore. Basta che il giorno spunti e la contemplazione delle opere di Dio diviene un canto di lode e di benedizione per il suo Autore. Questa verità dovrebbe valere anche per l’uomo. Basta che un uomo venga alla luce perché si canti un inno di ringraziamento al suo Autore e Dio. Non vi è prodigio più grande della nascita di una nuova vita umana. Eppure l’uomo è l’unico essere che non sempre trasmette questa notizia.
Nel cielo Dio ha posta la tenda per il sole (v. 6). Il sole è paragonato ad uno sposo che esce dal suo talamo. È l’immagine dello sposo che ama la sua sposa e che dalla sua sposa è amato. Il sole esce per dare gioia, calore, a tutta la terra. Esce per risvegliarla dal suo torpore della notte. Esce per rimetterla in vita. Il sole è la vita materiale della terra. Esso è simbolo di Dio. È Dio la luce eterna che dona vita e calore. Il sole è simbolo di Dio, ma soprattutto è simbolo della Parola di Dio. È la Parola di Dio la vera luce che illumina ogni uomo.
Infatti, nella seconda parte del Salmo (vv. 8-15), si parla della Torah, della “legge”, che comprende sia i primi cinque libri della Bibbia, sia la parola di Dio in generale. Mentre la creazione visibile testimonia del potere di Dio, Dio si rivela personalmente a Israele nella Torah. Questa distinzione si rileva nel testo con la sostituzione di Dio, cioè Elohim (vv. 1-7) con il “Signore”, cioè Yahweh (vv. 8-15).
La prima cosa che viene detta è che la legge del Signore è perfetta (v. 8), cioè non contiene errori. Perché ogni uomo si disponga ad assorbire la Parola di Dio è giusto che si convinca della sua perfezione e verità. C’è cosa più dolce del miele? Vi è qualcosa di più prezioso dell’oro? (v. 11) Ebbene, nulla è paragonabile alla preziosità e alla dolcezza della Parola di Dio. Cantare la bellezza della Parola di Dio è evangelizzazione. Oggi a noi questo canto manca. È questa la nostra più grande povertà. Non cantiamo più la bellezza della Parola.
Dopo aver contemplato la bellezza della creazione che è una pallida immagine della bellezza che è nella legge del Signore, il salmista guarda per un attimo la sua vita. “Le inavvertenze, chi le discerne? Assolvimi dai peccati nascosti” (v. 13). Il suo cuore è veramente tutto nella Parola? La sua anima è veramente tutta nella Legge? Lui vorrebbe che fosse così. Ma è veramente così? Non c'è forse una inadeguatezza tra la Parola e la sua osservanza?
Quante inavvertenze nella vita, quanti peccati nascosti! Quante leggi non osservate pienamente per ignoranza, superficialità! Il salmista chiede al Signore che anche da questi peccati sia perdonato il suo servo. Questo pensiero circa la non osservanza della Legge del Signore per la sua troppa grandezza è sublime. Esso ci fa sempre umili dinanzi al Signore. Pecchiamo anche per inavvertenza.
Il peggiore orgoglio è sentirsi perfetti nell’osservanza della Legge. Nulla è più pericoloso di quest’orgoglio. Da questo orgoglio il salmista vuole essere salvato. Questo orgoglio non deve avere potere sopra di lui. Se lui sarà salvato dall'orgoglio, allora sarà “irreprensibile, sarà puro dal grande peccato” (v. 14), e il grande peccato è quello di ritenersi perfetti dinanzi a Dio.
“Ti siano gradite le parole della mia bocca” (v. 15). Il salmista vuole che le sue parole siano gradite al Signore. Anche questa sua umiltà dovrebbe essere di ogni credente. Sarebbe sufficiente chiedersi: Sono le mie parole gradite al Signore? Sarebbe sufficiente rispondere con umiltà a questa domanda.
Questo Salmo va meditato. È un canto stupendo sul sole di Dio che è la sua Parola.
Questo non è un lavoro fatto per antipatia verso il protestantesimo, o per rancori verso gli evangelici, ma per difendere la vera fede, senza aspirazioni belliche. Ho passato molto tempo della mia vita nel mondo protestante, e in tarda età ho scoperto che non conoscevo affatto quella Chiesa cattolica che criticavo, ed è questa ignoranza che porta molti cattolici a lasciarsi convincere o influenzare dai protestanti.
Questi sono divisi in una miriade di denominazioni, alcune delle quali non gradiscono essere chiamate "protestanti", ma vorrebbero essere indicate solamente come "cristiane". Sappiamo anche che per i protestanti, i cattolici non sono cristiani, ma idolatri e pagani; ne consegue che gli evangelici nel loro voler essere chiamati solamente "cristiani" aspirano all'implicito riconoscimento di essere i soli "veri cristiani".
Il problema è che solo pochissimi protestanti conosco la storia della Chiesa; moltissimi accusano solo per sentito dire, ma non hanno mai aperto un libro riguardante la storia cristiana nei secoli. È sufficiente quello che dice il pastore di turno, qualche opuscolo, e internet per formare la loro "cultura" anti-cattolica.
Moltissimi protestanti e/o evangelici, piuttosto che vergognarsi per la propria ignoranza sul cristianesimo, ne vanno fieri, dicendo la classica frase "a me interessa solo la Bibbia", frase che è già tutto un programma. L'ignoranza storico-biblica delle persone è fondamentale per poterle pilotare. Un protestante serio che si mettesse a studiare la storia del cristianesimo, avrebbe buone probabilità di smettere di essere protestante.
In tutto il protestantesimo vige una fede fai da te! Lo Spirito Santo ci guida a capire bene la Bibbia, è vero, ma nel mondo protestante si usa questo pretesto per coprire una presunzione senza freni e per certi versi arrogante, che porta ogni pastore a diventare una sorta di "papa" infallibile nel dare insegnamenti alle persone.
Presunzione e arroganza non si vedono subito - nessuno mostra questi difetti tanto facilmente. Sembrano tutti timorati di Dio, osservanti della Parola e pieni d'amore per il prossimo. Peccato che il loro prossimo nella maggior parte dei casi è chi ascolta passivamente e non contrasta i loro insegnamenti biblici. Chi si permette di dissentire, allora non viene più amato, spesso non viene più salutato, e alcune volte diffamato.
Per lungo tempo, grazie a Lutero, il papa è stato considerato l'anticristo, quindi odiato e accusato, e così tutti i vescovi e i preti cattolici. In questo clima rientrano anche i singoli cattolici osservanti.
I protestanti criticano l'infallibilità papale, ma di fatto si comportano come infallibili; ognuno nella propria comunità, liberi di inventarsi quello che vogliono, tirando la giacca allo Spirito Santo, a garanzia delle loro dottrine! Il risultato? Una miriade di denominazioni con dottrine che spesso si contrastano pesantemente tra loro.
Il problema sta nella grande ignoranza mista a presunzione, che moltissimi protestanti e/o evangelici hanno. I cattolici sono meno ignoranti? No, la maggior parte dei cattolici, purtroppo, è assai ignorante in materia biblica, ma almeno essi non si mettono a fare i maestri verso chiunque gli capiti a tiro. Il cattolico medio è cosciente della propria ignoranza, il protestante medio invece è assai presuntuoso in campo biblico.
Un protestante che amasse veramente, come dice, la verità, andrebbe a verificare di persona cosa scrivevano e come vivevano i primi cristiani, nostri antenati nella fede, per capire se e come la Chiesa cattolica sbaglia, oppure dove sbagliano i protestanti a interpretare la Bibbia.
Per logica, piuttosto che fidarsi di un pastore che spiega la Bibbia a 2000 anni di distanza, sarebbe meglio fidarsi dei primi padri, che appresero direttamente dalla voce degli apostoli l'insegnamento cristiano. Purtroppo molti protestanti non fanno uso della logica, ma solo di ideologie anti-cattoliche, coltivando un'antipatia viscerale verso tutto ciò che è cattolico, perché scartano a priori le prove di come vivevano i primissimi cristiani, vissuti dopo gli apostoli ma prima di Costantino.
La fede cristiana è una, perché lo Spirito di Dio è uno! Quindi molti sbagliano strada, e abbiamo il dovere di capire chi è in quella giusta e chi in quella sbagliata. L'unità è la coesione degli elementi, delle parti che compongono un ente (per esempio, la coesione tra le parti di un'automobile come la carrozzeria, le ruote, il motore, ecc.) come già diceva Plotino; se viene meno l'unità viene meno anche quell'ente e ne possono risultare altri, ma non più quello di prima [se viene meno la coesione della carrozzeria, ruote e motore, non c’è più l'ente auto, bensì gli enti carrozzeria, ruote, motore]. Ecco, il protestantesimo somiglia tanto al mucchio di lamiere che una volta era una macchina. Si critica tanto la Chiesa cattolica, ma quanti sanno, per esempio, che Bultmann, celebre teologo ed esegeta protestante luterano, ridusse la risurrezione a un simbolo teologico? Non riteneva infatti possibile che fisicamente Gesù fosse risorto. Per confrontare le diverse interpretazioni bibliche bisogna avere il più possibile la mente sgombra da ideologie e preconcetti. Bisogna essere aperti a qualsiasi ipotesi se correttamente motivata e dimostrata. Se ci basiamo su pregiudizi ideologici che ci legano alle nostre convinzioni dottrinali, possiamo fare a meno di leggere o ascoltare qualsiasi testo o persona; tanto è inutile. Il nostro orgoglio ci impedirà di apprendere verità diverse dalla "nostra". Spesso difendiamo il nostro errore biblico con un guscio impenetrabile, ci teniamo la nostra verità, rifiutando qualsiasi altra, che sbatte sul guscio e scivola via. Appena si tocca il piano religioso/spirituale, stranamente è come se molti staccassero l'interruttore dalla propria mente, o almeno ad una parte di essa. Quando i protestanti dialogano con un cattolico, per esempio, non ricevono alcuna informazione, solo suoni che scivolano sui loro timpani, ma non arrivano al cervello. Non ascoltano.
La storia del cristianesimo per loro non conta nulla, non riveste alcuna importanza, se non nelle vicende da rinfacciare - vedi crociate, inquisizioni ecc. - senza conoscere la vera storia di questi fatti, e senza sapere che anche i protestanti hanno avuto le loro guerre, e hanno pure fatto le loro inquisizioni, assai più sanguinose di quelle cattoliche.
Dicono di essere guidati dallo Spirito Santo, ma stranamente ci sono molti gruppi che ricevono informazioni diverse e contraddittorie dal medesimo Spirito Santo, perdendo inesorabilmente di credibilità.
Mi rendo conto che la Chiesa cattolica ha trascurato il problema del proselitismo protestante. Gli evangelici hanno riscosso successo non perché hanno ragione, ma semplicemente perché trovano il popolo cattolico molto ignorante in materia biblica, incapace di difendere in maniera opportuna la propria fede, rifugiandosi dietro al classico "non ho tempo da perdere"; magari poi perdono pure la fede… il tempo però non si tocca.
Molti cattolici dicono di aver fede in Gesù Cristo, ma questa loro fede si vede solo nei momenti di bisogno: quando tutto scorre liscio Gesù viene dimenticato, e la Bibbia non interessa a nessuno leggerla. In contesti come questi gli evangelici trovano un popolo che deve veramente essere evangelizzato, da loro. Molti cattolici non oppongono resistenza a questo proselitismo perché non hanno risposte bibliche da dare, ma solo ignoranza da nascondere. In terreni simili la conquista protestante è facile, ed è come se affrontassero un esercito disarmato.
Ma chi studia la Bibbia e si impegna ad approfondire il significato della parola di Dio, si rende conto che in realtà i protestanti non sono affatto quei maestri biblici che sembrano, ma sono dei profondi ignoranti storici e biblici, plagiati dalla loro setta di appartenenza. Chiamandoli ignoranti non voglio offenderli, perché altrimenti li chiamerei "falsi e bugiardi". Chiamandoli ignoranti gli riconosco la buona fede, credono in alcune dottrine sbagliate, non accorgendosi di sbagliare.
Il punto è che lo Spirito Santo non può contraddire se stesso, e quindi certamente le interpretazioni contrastanti delle diverse denominazioni non possono essere tutte vere, né tutte ispirate. È evidente che non è possibile che lo stesso Spirito suggerisca a ciascuno dottrine diverse. In questo modo si creano dei compartimenti stagni, ogni gruppo protestante crede di essere nella verità più degli altri, isolandosi e predicando un vangelo personalizzato. Per esempio, secondo gli Avventisti tutte le altre chiese cristiane hanno abolito il comandamento del sabato, celebrando il culto alla domenica, e quindi tranne loro tutti sono destinati all'inferno se non aboliscono la domenica come giorno del Signore. Ovviamente essi motivano queste loro accuse con alcuni versetti biblici, interpretandoli a modo proprio. Ecco, è questo il punto che sfugge a tutti i protestanti, classici e moderni: la Bibbia non può essere interpretata soggettivamente, perché la Verità non è affatto soggettiva.
Ma essendo divisi in compartimenti stagni, non comunicanti gli uni con gli altri, è difficile che qualcuno di loro si accorga delle differenze dottrinali con gli altri protestanti. Se qualcuno se ne accorge, fa finta di niente, o non gli dà il giusto peso, tanto, basta credere in Gesù come nostro personale salvatore. Le loro attenzioni vengono rivolte solo verso la Chiesa cattolica, il nemico da sconfiggere! È fin troppo comodo affermare orgogliosamente che "Io capisco quello che c'è scritto nella Bibbia perché lo Spirito Santo mi guida. Dio ha nascosto la verità ai sapienti e l'ha rivelata agli umili". Ecco, ogni buon protestante usa frasi del genere per rifiutare l'autorità interpretativa dei padri e dei dottori della Chiesa.
In questo contesto si assiste a scene nelle quali qualsiasi protestante, di qualsiasi grado di cultura, schernisce gli scritti di Ireneo, Agostino, Tommaso d'Aquino, e lo fa in maniera disinvolta, perché nell'interpretare la Bibbia si sente tanto umile da essere guidato direttamente da Dio, ma allo stesso tempo è abbastanza cieco da non accorgersi che troppi "umili" protestanti professano poi dottrine assai diverse tra loro. Disprezzano il cattolico ma eleggono un "fai-da-te" che inorgoglisce e dice: "Non ho bisogno di leggere gli scritti dei padri della Chiesa, mi basta la sola Bibbia", quindi i maestri di cui parla l'apostolo Paolo non servirebbero a nulla: "È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (Ef 4,11).
Basterebbe leggere la storia delle eresie che hanno colpito il cristianesimo lungo i secoli, per rendersi conto che gli eretici basavano e basano sempre le loro tesi sulla Bibbia, spiegandola a modo loro. Difficilmente le persone andranno a spulciare intrecciate questioni dottrinali e teologiche. È più facile trovare un prete che abbia commesso qualche errore umano e sceglierlo come bersaglio, al fine di avvalorare le tesi anticattoliche e considerare la Chiesa cattolica nemica del cristianesimo e della verità, alleata con satana per sviare le anime e portarle all'inferno. Nemmeno l'arcangelo Michele ostentava una tale sicurezza nel bollare o giudicare il diavolo, eppure si trattava del diavolo (Gd 1,9):
L'arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore!
La verità è che l'accusatore per eccellenza è proprio Satana, i santi non accusano nessuno, non per rispetto, ma perché si rimettono al giudizio di Dio. Per un protestante invece è normale dire che i cattolici vanno all'inferno perché sono idolatri. Si ergono a giudici, credendo di conoscere i cuori, e fraintendono il concetto di adorazione. Qualsiasi cristiano si dovrebbe porre delle domande, a verifica di ciò in cui crede, e dovrebbe saper discernere se le proprie convinzioni in materia di fede sono solo frutto di autosuggestione, fantasie indotte, oppure se trovano conferma nella storia del cristianesimo e nella Bibbia.
Argentino Quintavalle
autore dei libri
- Apocalisse – commento esegetico
- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?
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(Mc 9,30-37)
Marco 9:30 Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse.
Marco 9:31 Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà».
Marco 9:32 Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni.
Marco 9:33 Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?».
Marco 9:34 Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande.
Marco 9:35 Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti».
Marco 9:36 E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro:
Marco 9:37 «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Questa sezione si apre con una nota geografica: “attraversavano la Galilea”. Gesù va a Cafarnao. Da qui ripartirà, con direzione Gerusalemme, ma il significato vero e profondo del cammino che egli sta compiendo verso Gerusalemme, doveva essere per il momento oscurato alla gente. Soltanto la risurrezione getterà luce sulla sua passione e morte, svelandone il senso e rivelando la vera natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio, evitando in tal modo fraintendimenti sugli eventi che si compiranno a Gerusalemme. Da qui quel “non voleva che alcuno lo sapesse” (v. 30). Quello che Gesù “non voleva” era che il senso di quel suo viaggio verso Gerusalemme fosse svelato ora. E che così sia lo lascia intravvedere quel “infatti” posto all'inizio del v. 31, che in qualche modo spiega il perché di tale silenzio.
Gesù “istruiva… e diceva”: “il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini“. Il verbo “consegnato” in greco è espresso con un verbo passivo, e questo significa che l'azione è rimandata a Dio stesso. Il destino di Gesù fa parte di un disegno salvifico di Dio, cui Gesù si conforma. Nello stesso tempo, questa “consegna” dipende da una libera decisione di Gesù, che non si contrappone al disegno del Padre, in quanto egli ne è attuazione e rivelazione. Quindi Gesù non subisce la passione e la morte, ma vi si consegna in attuazione del piano salvifico del Padre.
Il fatto che Gesù è consegnato “nelle mani degli uomini”, dà una valenza universale al suo morire e risorgere. L'intera umanità, quindi, è coinvolta nella sua passione, così che il suo consegnarsi nelle mani degli uomini diventa un dono di amore di se stesso per tutta l'umanità.
Il v. 32 conclude questo annuncio con l'immancabile nota sull'incapacità di comprendere dei Dodici: “Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni”. Il verbo all'imperfetto indicativo, tempo durativo, indica la persistenza di questa incomprensione. Ma nel contempo essi non vogliono approfondire la questione; hanno paura di chiedere spiegazioni. È come se in loro ci fosse qualcosa che li tenesse chiusi nel loro mondo fatto di molti pensieri umani e di pochi pensieri di Dio.
La piccola comitiva di Gesù con i Dodici giunge a Cafarnao, dove Gesù aveva stabilito la sua dimora. “E quando fu in casa chiese loro”. Il termine “casa”, preceduto qui dall'articolo determinativo (“en tē” = nella), non indica una casa qualsiasi, ma nel linguaggio degli evangelisti è metafora di una casa particolare: la chiesa. Quanto segue, pertanto, ha a che vedere con la comunità credente ed è una riflessione di natura ecclesiologica.
Gesù chiede, dunque, ai suoi di che cosa stessero discutendo “lungo la via”. La via di cui qui si parla è quella che da Cesarea di Filippo, attraverso la Galilea, è giunta a Cafarnao. Ma è sempre quella stessa strada sulla quale Gesù ha annunciato la sua morte. Ebbene, su questa strada che sta portando Gesù verso il dono di se stesso per gli uomini, i discepoli avevano discusso chi fosse il più grande tra loro.
La risposta di Gesù: “Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti”. In altri termini, i primi posti sono in funzione degli altri e non di se stessi, e chi li occupa deve porsi nel giusto atteggiamento di servizio a favore dell'intera comunità credente, poiché chi occupa posti autorevoli è chiamato a far crescere i credenti e non dominarli. Questo è il vero senso dell'autorità: dedicarsi al bene degli altri e a farli crescere spiritualmente, confermandoli nel loro cammino verso Dio. Un'autorità che è servizio per il bene dell'altro. Gesù rovescia completamente il modo di ragionare degli uomini, dove la grandezza della carne vuole che il primo sia servito da tutti., mentre la grandezza di Gesù vuole che il primo sia il servo di tutti e l'ultimo di tutti. È un vero capovolgimento della realtà. Così si dovrà vivere nel suo regno.
Gesù, allora, pone in mezzo a loro un bambino e poi lo abbraccia. Il porlo “in mezzo” significa porlo alla loro attenzione, ma nel contempo quel bambino deve diventare il parametro di raffronto sul quale misurare il loro modo di ragionare. Riguardo all'abbracciarlo, questo esprime non solo la predilezione di Gesù nei confronti di questa categoria di persone, ma pure che in essi egli si identifica e si fa un tutt'uno con loro, al punto tale che “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. L'accogliere il bambino significa farne proprio il suo modo di essere, fatto di semplicità, privo di una mentalità doppiogiochista e al di fuori degli intrallazzi di palazzo, ma nella sua purezza di spirito si rende disponibile a tutti, perché di tutti egli ha bisogno e proprio per questa sua fragilità era tra gli ultimi nella scala sociale di quel tempo. Accogliere questo bambino significa, quindi, accogliere la linea di pensiero e di comportamento dello stesso Gesù, che riflette in sé quella del Padre.
Questo non è un lavoro fatto per antipatia verso il protestantesimo, o per rancori verso gli evangelici, ma per difendere la vera fede, senza aspirazioni belliche. Ho passato molto tempo della mia vita nel mondo protestante, e in tarda età ho scoperto che non conoscevo affatto quella Chiesa cattolica che criticavo, ed è questa ignoranza che porta molti cattolici a lasciarsi convincere o influenzare dai protestanti.
Questi sono divisi in una miriade di denominazioni, alcune delle quali non gradiscono essere chiamate "protestanti", ma vorrebbero essere indicate solamente come "cristiane". Sappiamo anche che per i protestanti, i cattolici non sono cristiani, ma idolatri e pagani; ne consegue che gli evangelici nel loro voler essere chiamati solamente "cristiani" aspirano all'implicito riconoscimento di essere i soli "veri cristiani".
Il problema è che solo pochissimi protestanti conosco la storia della Chiesa; moltissimi accusano solo per sentito dire, ma non hanno mai aperto un libro riguardante la storia cristiana nei secoli. È sufficiente quello che dice il pastore di turno, qualche opuscolo, e internet per formare la loro "cultura" anti-cattolica.
Moltissimi protestanti e/o evangelici, piuttosto che vergognarsi per la propria ignoranza sul cristianesimo, ne vanno fieri, dicendo la classica frase "a me interessa solo la Bibbia", frase che è già tutto un programma. L'ignoranza storico-biblica delle persone è fondamentale per poterle pilotare. Un protestante serio che si mettesse a studiare la storia del cristianesimo, avrebbe buone probabilità di smettere di essere protestante.
In tutto il protestantesimo vige una fede fai da te! Lo Spirito Santo ci guida a capire bene la Bibbia, è vero, ma nel mondo protestante si usa questo pretesto per coprire una presunzione senza freni e per certi versi arrogante, che porta ogni pastore a diventare una sorta di "papa" infallibile nel dare insegnamenti alle persone.
Presunzione e arroganza non si vedono subito - nessuno mostra questi difetti tanto facilmente. Sembrano tutti timorati di Dio, osservanti della Parola e pieni d'amore per il prossimo. Peccato che il loro prossimo nella maggior parte dei casi è chi ascolta passivamente e non contrasta i loro insegnamenti biblici. Chi si permette di dissentire, allora non viene più amato, spesso non viene più salutato, e alcune volte diffamato.
Per lungo tempo, grazie a Lutero, il papa è stato considerato l'anticristo, quindi odiato e accusato, e così tutti i vescovi e i preti cattolici. In questo clima rientrano anche i singoli cattolici osservanti.
I protestanti criticano l'infallibilità papale, ma di fatto si comportano come infallibili; ognuno nella propria comunità, liberi di inventarsi quello che vogliono, tirando la giacca allo Spirito Santo, a garanzia delle loro dottrine! Il risultato? Una miriade di denominazioni con dottrine che spesso si contrastano pesantemente tra loro.
Il problema sta nella grande ignoranza mista a presunzione, che moltissimi protestanti e/o evangelici hanno. I cattolici sono meno ignoranti? No, la maggior parte dei cattolici, purtroppo, è assai ignorante in materia biblica, ma almeno essi non si mettono a fare i maestri verso chiunque gli capiti a tiro. Il cattolico medio è cosciente della propria ignoranza, il protestante medio invece è assai presuntuoso in campo biblico.
Un protestante che amasse veramente, come dice, la verità, andrebbe a verificare di persona cosa scrivevano e come vivevano i primi cristiani, nostri antenati nella fede, per capire se e come la Chiesa cattolica sbaglia, oppure dove sbagliano i protestanti a interpretare la Bibbia.
Per logica, piuttosto che fidarsi di un pastore che spiega la Bibbia a 2000 anni di distanza, sarebbe meglio fidarsi dei primi padri, che appresero direttamente dalla voce degli apostoli l'insegnamento cristiano. Purtroppo molti protestanti non fanno uso della logica, ma solo di ideologie anti-cattoliche, coltivando un'antipatia viscerale verso tutto ciò che è cattolico, perché scartano a priori le prove di come vivevano i primissimi cristiani, vissuti dopo gli apostoli ma prima di Costantino.
La fede cristiana è una, perché lo Spirito di Dio è uno! Quindi molti sbagliano strada, e abbiamo il dovere di capire chi è in quella giusta e chi in quella sbagliata. L'unità è la coesione degli elementi, delle parti che compongono un ente (per esempio, la coesione tra le parti di un'automobile come la carrozzeria, le ruote, il motore, ecc.) come già diceva Plotino; se viene meno l'unità viene meno anche quell'ente e ne possono risultare altri, ma non più quello di prima [se viene meno la coesione della carrozzeria, ruote e motore, non c’è più l'ente auto, bensì gli enti carrozzeria, ruote, motore]. Ecco, il protestantesimo somiglia tanto al mucchio di lamiere che una volta era una macchina. Si critica tanto la Chiesa cattolica, ma quanti sanno, per esempio, che Bultmann, celebre teologo ed esegeta protestante luterano, ridusse la risurrezione a un simbolo teologico? Non riteneva infatti possibile che fisicamente Gesù fosse risorto. Per confrontare le diverse interpretazioni bibliche bisogna avere il più possibile la mente sgombra da ideologie e preconcetti. Bisogna essere aperti a qualsiasi ipotesi se correttamente motivata e dimostrata. Se ci basiamo su pregiudizi ideologici che ci legano alle nostre convinzioni dottrinali, possiamo fare a meno di leggere o ascoltare qualsiasi testo o persona; tanto è inutile. Il nostro orgoglio ci impedirà di apprendere verità diverse dalla "nostra". Spesso difendiamo il nostro errore biblico con un guscio impenetrabile, ci teniamo la nostra verità, rifiutando qualsiasi altra, che sbatte sul guscio e scivola via. Appena si tocca il piano religioso/spirituale, stranamente è come se molti staccassero l'interruttore dalla propria mente, o almeno ad una parte di essa. Quando i protestanti dialogano con un cattolico, per esempio, non ricevono alcuna informazione, solo suoni che scivolano sui loro timpani, ma non arrivano al cervello. Non ascoltano.
La storia del cristianesimo per loro non conta nulla, non riveste alcuna importanza, se non nelle vicende da rinfacciare - vedi crociate, inquisizioni ecc. - senza conoscere la vera storia di questi fatti, e senza sapere che anche i protestanti hanno avuto le loro guerre, e hanno pure fatto le loro inquisizioni, assai più sanguinose di quelle cattoliche.
Dicono di essere guidati dallo Spirito Santo, ma stranamente ci sono molti gruppi che ricevono informazioni diverse e contraddittorie dal medesimo Spirito Santo, perdendo inesorabilmente di credibilità.
Mi rendo conto che la Chiesa cattolica ha trascurato il problema del proselitismo protestante. Gli evangelici hanno riscosso successo non perché hanno ragione, ma semplicemente perché trovano il popolo cattolico molto ignorante in materia biblica, incapace di difendere in maniera opportuna la propria fede, rifugiandosi dietro al classico "non ho tempo da perdere"; magari poi perdono pure la fede… il tempo però non si tocca.
Molti cattolici dicono di aver fede in Gesù Cristo, ma questa loro fede si vede solo nei momenti di bisogno: quando tutto scorre liscio Gesù viene dimenticato, e la Bibbia non interessa a nessuno leggerla. In contesti come questi gli evangelici trovano un popolo che deve veramente essere evangelizzato, da loro. Molti cattolici non oppongono resistenza a questo proselitismo perché non hanno risposte bibliche da dare, ma solo ignoranza da nascondere. In terreni simili la conquista protestante è facile, ed è come se affrontassero un esercito disarmato.
Ma chi studia la Bibbia e si impegna ad approfondire il significato della parola di Dio, si rende conto che in realtà i protestanti non sono affatto quei maestri biblici che sembrano, ma sono dei profondi ignoranti storici e biblici, plagiati dalla loro setta di appartenenza. Chiamandoli ignoranti non voglio offenderli, perché altrimenti li chiamerei "falsi e bugiardi". Chiamandoli ignoranti gli riconosco la buona fede, credono in alcune dottrine sbagliate, non accorgendosi di sbagliare.
Il punto è che lo Spirito Santo non può contraddire se stesso, e quindi certamente le interpretazioni contrastanti delle diverse denominazioni non possono essere tutte vere, né tutte ispirate. È evidente che non è possibile che lo stesso Spirito suggerisca a ciascuno dottrine diverse. In questo modo si creano dei compartimenti stagni, ogni gruppo protestante crede di essere nella verità più degli altri, isolandosi e predicando un vangelo personalizzato. Per esempio, secondo gli Avventisti tutte le altre chiese cristiane hanno abolito il comandamento del sabato, celebrando il culto alla domenica, e quindi tranne loro tutti sono destinati all'inferno se non aboliscono la domenica come giorno del Signore. Ovviamente essi motivano queste loro accuse con alcuni versetti biblici, interpretandoli a modo proprio. Ecco, è questo il punto che sfugge a tutti i protestanti, classici e moderni: la Bibbia non può essere interpretata soggettivamente, perché la Verità non è affatto soggettiva.
Ma essendo divisi in compartimenti stagni, non comunicanti gli uni con gli altri, è difficile che qualcuno di loro si accorga delle differenze dottrinali con gli altri protestanti. Se qualcuno se ne accorge, fa finta di niente, o non gli dà il giusto peso, tanto, basta credere in Gesù come nostro personale salvatore. Le loro attenzioni vengono rivolte solo verso la Chiesa cattolica, il nemico da sconfiggere! È fin troppo comodo affermare orgogliosamente che "Io capisco quello che c'è scritto nella Bibbia perché lo Spirito Santo mi guida. Dio ha nascosto la verità ai sapienti e l'ha rivelata agli umili". Ecco, ogni buon protestante usa frasi del genere per rifiutare l'autorità interpretativa dei padri e dei dottori della Chiesa.
In questo contesto si assiste a scene nelle quali qualsiasi protestante, di qualsiasi grado di cultura, schernisce gli scritti di Ireneo, Agostino, Tommaso d'Aquino, e lo fa in maniera disinvolta, perché nell'interpretare la Bibbia si sente tanto umile da essere guidato direttamente da Dio, ma allo stesso tempo è abbastanza cieco da non accorgersi che troppi "umili" protestanti professano poi dottrine assai diverse tra loro. Disprezzano il cattolico ma eleggono un "fai-da-te" che inorgoglisce e dice: "Non ho bisogno di leggere gli scritti dei padri della Chiesa, mi basta la sola Bibbia", quindi i maestri di cui parla l'apostolo Paolo non servirebbero a nulla: "È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (Ef 4,11).
Basterebbe leggere la storia delle eresie che hanno colpito il cristianesimo lungo i secoli, per rendersi conto che gli eretici basavano e basano sempre le loro tesi sulla Bibbia, spiegandola a modo loro. Difficilmente le persone andranno a spulciare intrecciate questioni dottrinali e teologiche. È più facile trovare un prete che abbia commesso qualche errore umano e sceglierlo come bersaglio, al fine di avvalorare le tesi anticattoliche e considerare la Chiesa cattolica nemica del cristianesimo e della verità, alleata con satana per sviare le anime e portarle all'inferno. Nemmeno l'arcangelo Michele ostentava una tale sicurezza nel bollare o giudicare il diavolo, eppure si trattava del diavolo (Gd 1,9):
L'arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore!
La verità è che l'accusatore per eccellenza è proprio Satana, i santi non accusano nessuno, non per rispetto, ma perché si rimettono al giudizio di Dio. Per un protestante invece è normale dire che i cattolici vanno all'inferno perché sono idolatri. Si ergono a giudici, credendo di conoscere i cuori, e fraintendono il concetto di adorazione. Qualsiasi cristiano si dovrebbe porre delle domande, a verifica di ciò in cui crede, e dovrebbe saper discernere se le proprie convinzioni in materia di fede sono solo frutto di autosuggestione, fantasie indotte, oppure se trovano conferma nella storia del cristianesimo e nella Bibbia.
Argentino Quintavalle
autore dei libri
- Apocalisse – commento esegetico
- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?
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Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
Deus dilexit mundum! Iddio osserva le profondità del cuore umano, che, anche sotto la superficie del peccato e del disordine, possiede ancora una ricchezza meravigliosa di amore; Gesù col suo sguardo la trae fuori, la fa straripare dall’anima oppressa. A Gesù, dunque, nulla sfugge di quanto è negli uomini, della loro totale realtà, in cui sono il bene e il male (Papa Paolo VI)
People dragged by chaotic thrusts can also be wrong, but the man of Faith perceives external turmoil as opportunities
Un popolo trascinato da spinte caotiche può anche sbagliare, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
don Giuseppe Nespeca
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