Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

Lunedì, 17 Novembre 2025 23:35

 Cristo Re

Lc 23,35-43

 34a Domenica T.O. (anno C)

 

Luca 23:35 Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto».

Luca 23:36 Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano:

Luca 23:37 «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso».

Luca 23:38 C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.

 

Luca 23:39 Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!».

Luca 23:40 Ma l'altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena?

Luca 23:41 Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male».

Luca 23:42 E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

Luca 23:43 Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

 

Prima scena: Gesù crocifisso, schernito, è proclamato Cristo e Re dei Giudei (vv. 33-38). 

 

Questi versi riportano la titolatura che delinea l'identità di Gesù e che i presenti attestano ognuno dalla propria prospettiva. I capi del popolo, sensibili alle attese messianiche, sfidano Gesù a mostrarsi per quello che egli attestava di essere, cioè il “Cristo di Dio”. Questo titolo qualifica Gesù quale Messia “eletto” da Dio, legandolo in tal modo ad una missione che egli doveva compiere. 

Questo lascia intendere come in qualche modo la sfida che i capi del popolo avevano lanciato a Gesù non aveva un intento meramente ironico o canzonatorio, ma intendevano provare Gesù nella sua presunta identità di Messia. Una simile richiesta da parte dei giudei rientra nella loro mentalità, quella di cercare delle prove sulle attestazioni di pretese divine o messianiche. 

Il secondo gruppo di persone sono i soldati, che a differenza dei primi, precisa l'evangelista, si prendevano gioco di Gesù.  I soldati lasciano trapelare anche un certo disprezzo nei confronti dei giudei, indicando nel crocifisso il loro re. Una regalità, tuttavia, che, al di là dell'ironia dei soldati e i risentimenti dei giudei, Pilato decreta ufficialmente sul cartiglio posto sulla croce, il quale indicava il motivo della condanna e che il condannato nel suo viaggio verso il luogo del supplizio portava appeso al collo o, talvolta, un servo portava davanti a lui, così che, lungo il cammino, tutti, come monito, venissero a conoscenza del motivo della condanna. Ed è proprio questo decreto ufficiale da parte di Pilato che il titolo di “Re dei Giudei” acquista anche una valenza transtorica.

Questa prima scena viene così ad acquistare una importanza fondamentale ai fini non solo della definizione dell'identità di Gesù, ma anche del senso della sua morte. Tutto ciò acquista per Luca un'importanza tale da porre, fin dall'inizio, a testimonianza di tali eventi, l'intero popolo: “E il popolo stava a vedere”. Di quale popolo si tratta qui? È pensabile quello giudaico. Ma è anche pensabile che Luca vada ben oltre ai ristretti confini della Palestina e veda qui il grande popolo dei credenti, chiamati ad essere testimoni della croce di Cristo.

Seconda scena: Gesù riconosciuto Messia, Re e Salvatore (vv. 39-43).

Se la precedente scena attestava l'identità di Gesù quale Messia e Re, questa costituisce la dimostrazione di quanto attestato. Con il v. 39 l'attenzione viene spostata dagli schernitori giudei e romani, ai due malfattori. Vi è qui un cambio di scena, che in qualche modo si aggancia alla scena precedente. Il malfattore, infatti, riprende l'attestazione del v. 35 con cui si riconosceva Gesù come il Cristo salvatore e cerca di sfruttarla a suo favore.

I vv. 40-41, che riportano l'intervento del secondo malfattore contro il suo compagno, ha la finalità di attestare l'innocenza di Gesù. I vv. 42-43 costituiscono il vertice di questa scena. Dopo la difesa di Gesù da parte del secondo malfattore, questi ora dà la sua piena testimonianza di fede. Una fede che dice apertura e abbandono di se stesso a Gesù, riconosciuto qui implicitamente in quel “tuo regno” quale Re.

La risposta di Gesù è un'attestazione del suo potere salvifico, che non è disgiunto dalla croce, ma si attua nella croce. Una salvezza che non si porrà alla fine dei tempi, ma nell'oggi dell'uomo: “oggi sarai con me”. La risposta che Gesù dà al malfattore, ma forse è meglio ormai chiamarlo discepolo, è particolarmente significativa: “oggi sarai con me nel paradiso”. La salvezza, dunque, consiste nell'essere “con Gesù” e questi si trova “nel paradiso”, cioè nella dimensione stessa di Dio, che è la vita stessa di Dio. Il richiamo genesiaco e più precisamente Gen 2,8, dove nella Bibbia dei LXX compare per la prima volta il termine “paradeison” (paradiso), non è casuale. Lì si legge: “Poi il Signore Dio piantò un giardino (paradeison) in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato”. Il paradiso, dunque, è un luogo di delizie dove Dio ha collocato l'uomo. L'habitat naturale dell'uomo non è, pertanto, questa dimensione spazio-temporale, profondamente segnata dal peccato e soggetta al degrado della morte, ma la dimensione stessa di Dio. La salvezza, allora, consiste nell'azione di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione originale, allorché l'uomo e con lui l'intera creazione brillavano della luce di Dio. Infatti, quando Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26-27) ha creato un essere che, in quell'immagine e somiglianza, faceva parte della Sua vita. E quel “oggi sarai con me nel paradiso” dice l'attuarsi dell'intenzione di Dio: ricondurre l'uomo in Se stesso, da dove è drammaticamente e tragicamente uscito. E ciò si è attuato ora nel Cristo crocifisso, che è “stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18).

 

  

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
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Lunedì, 10 Novembre 2025 20:45

 33a Domenica T.O. (anno C)

(2Ts 3,7-12)

2Tessalonicesi 3:7 Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi,

2Tessalonicesi 3:8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi.

2Tessalonicesi 3:9 Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare.

 

 

Paolo dice: ricordate il nostro comportamento, che, durante la nostra attività presso di voi invece di sottrarci al dovere di guadagnarci da vivere, ci siamo sobbarcati un duro lavoro per non farci mantenere dalla comunità. Paolo, prima ancora di essere maestro, pratica nella sua persona quello che predica. Ogni predicatore deve essere in grado di coniugare teoria e pratica.

La coscienza si educa non soltanto con l’insegnamento, ma soprattutto attraverso la vita, l’esempio. L’altro non solo deve ascoltare il bene, la verità; ma deve vedere il bene, la verità; perché la fede o è visibile, o non è fede. Paolo non è soltanto un maestro che predica, ammonisce e insegna la fede, lui è prima di tutto uno che fa vedere tutte queste cose e le fa vedere attraverso la sua vita. Lui è sia maestro di vita e sia maestro di parole. Le due cose devono andare sempre insieme. Sarebbe un grave danno spirituale se le due cose dovessero separarsi.

Qui non si tratta, quindi, di ricordare un insegnamento, ma il dovere di imitare i predicatori del vangelo, che non sono stati degli sfaccendati. In altre parole, i predicatori del vangelo non hanno approfittato dell’ospitalità di qualche cristiano. Intendiamoci, Paolo non sta dicendo di non aver mai mangiato gratuitamente a casa d’altri, ma di non aver mai preteso il suo sostentamento.

Paolo si era assoggettato alla dura legge del lavoro per amore del vangelo; non voleva essere scambiato per uno di quei predicatori itineranti che si spostavano da un luogo all'altro vendendo teorie, spesso solo illusioni, in cambio del sostentamento. Mantenendosi con le proprie mani, l'apostolo liberava il suo annuncio da eventuali sospetti, e per far questo aveva rinunciato al suo diritto di farsi mantenere. Questa è la correttezza dell'apostolo.

Ma c’è anche un altro motivo per cui Paolo ha lavorato: «per non essere di peso ad alcuno di voi», una ragione di carità. Non voleva creare difficoltà a chicchessia, anche se questo chicchessia lo avrebbe fatto volentieri.

Qui sono in gioco tre principi: il principio della giustizia, quello della carità e quello dell’evangelizzazione. Il principio della giustizia dice che ogni operaio ha diritto al suo salario. Paolo offre loro la vita dell’anima; i Tessalonicesi offrono a lui ciò che serve per la vita del suo corpo. Questa è giustizia: una cosa per una cosa, un dono per un dono, un servizio per un servizio.

Ma Paolo non vuole che la sua relazione con i tessalonicesi sia fondata sulla giustizia. Per ragioni di vangelo, vuole invece che sia fondata sulla carità. La carità è un dono a senso unico. Paolo vuole donare e basta. Ha deciso di fare della sua vita un servizio di amore. Annunciando il vangelo e vivendolo nella sua essenza più profonda, lascia ai tessalonicesi il vero modello di come si deve vivere il vangelo, di come si annuncia e di come si mette in pratica.

Adesso loro, se vogliono, sanno cosa è il vangelo, lo sanno perché lo hanno visto in Paolo. Avendolo visto, possono anche loro annunciarlo e metterlo in pratica. Paolo decide di predicare gratuitamente il vangelo perché il vangelo è il dono gratuito dell’amore di Dio in Cristo per opera dello Spirito Santo.

Nella penosa decadenza della Chiesa odierna c’è chi spera in una rinascita dal basso. Ma la Chiesa è nata dall’annuncio degli apostoli. Spetta ai responsabili dare luce, portare chiarezza, indicare le strade da percorrere conformi al vangelo di Cristo... ma anche i responsabili vanno sostenuti e incoraggiati.

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Martedì, 04 Novembre 2025 18:45

 Dedicazione della Basilica Lateranense

(1Cor 3,9c-11.16-17)

 

1Corinzi 3:9c voi siete l'edificio di Dio.

1Corinzi 3:10 Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce.

1Corinzi 3:11 Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo.

1Corinzi 3:16 Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?

1Corinzi 3:17 Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.

 

Evangelizzare significa porre il fondamento, cioè Gesù Cristo, Colui che è il Salvatore e il Redentore, il Messia di Dio per la salvezza di chiunque crede. Però non basta il fondamento. Paolo dice di aver operato come un sapiente architetto. Riconosce, cioè, di aver agito sempre con sapienza, ma riconosce anche di aver posto in Corinto solo il fondamento della fede. Spetta poi a quanti vengono dopo, costruire sul fondamento.

C’è chi pone il fondamento e c’è chi costruisce sopra; c’è chi scava in basso e chi innalza l’edificio verso il cielo. Senza questa comunione di opera è assai difficile, se non impossibile, lavorare nella vigna del Signore. Paolo però non si ferma ad enunciare i principi della comunione, ma ammonisce: ciascuno stia attento come costruisce!

Chi dovesse, o volesse costruire l’edificio di Dio senza il fondamento che è Gesù Cristo, lavorerebbe invano, sciuperebbe inutilmente il suo tempo, non ci sarebbe salvezza. È Cristo la pietra angolare della casa di Dio. La nostra fede confessa che solo Lui è il Redentore dell’umanità, il Messia di Dio, il Salvatore dell’uomo. La nostra fede confessa che è Gesù la via per poter accedere a Dio e perché Dio abiti e dimori nei nostri cuori.

Porre Gesù Cristo a fondamento dell’edificio di Dio, ha un solo significato: porre la sua croce come unica via di salvezza e redenzione. E come il fondamento è uno, uno deve essere anche l’edificio, una sola comunità dei credenti in Cristo. Quando si dimentica la nostra chiamata che è quella di raggiungere la perfetta conformazione a Cristo e alla sua croce, ognuno potrebbe essere tentato di farsi lui fondamento, lui pietra angolare. Quando si arriva a questo, è la distruzione dell’unico edificio. Nascono le piccole casupole dove ognuno si fa signore e dio per i fratelli. Muore la stessa comunità dei credenti, i quali mancano del principio di unità, e in tal guisa ognuno percorre la sua strada e va per sentieri tortuosi che non conducono alla salvezza.

Per questo motivo Paolo avverte ognuno a stare attento a come vi costruisce sopra. Ma anche a stare attento a costruire solo su quest’unico fondamento che è Gesù  Cristo.

Essere tempio di Dio vuol dire che Dio è di casa in noi. Il tempio è la dimora di Dio sulla terra. Prima il tempio era di pietra, una casa in mezzo alla città degli uomini. In Israele c’era un solo tempio, una sola casa di Dio, come anche uno era il popolo del Signore. Un solo Dio, un solo popolo, un solo tempio, una sola presenza di Dio in mezzo al popolo.

Se uno guasta il tempio di Dio, Iddio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi”, dice Paolo. Il cristiano pertanto deve essere colui che porta nel mondo la presenza viva di Dio. Chi vede il cristiano deve avvertire che in lui dimora il suo Dio. Ma tutto questo non può avvenire se non attraverso la trasformazione del cristiano in santità, in verità, in carità.

Come si guasta il tempio di Dio? Ci sono diversi modi per distruggerlo. Eccone alcuni.

Il primo modo è quello di una vita difforme da quella di Cristo, quando si fa del corpo di Cristo un corpo di peccato, di male. Si pensi che Gesù Cristo, per obbedire a Dio, si fece inchiodare sulla croce, espose il suo corpo, il vero tempio di Dio, ad ogni genere di sofferenza e di privazione. Come può un corpo così santo essere trasformato dal cristiano in un corpo di peccato, di vizio, di ogni altro genere di male? O si crede che con Cristo si è un solo corpo e che non vi può essere differenza di santità con Lui e allora si cambia realmente forma di vita, oppure il corpo di Cristo, il tempio di Dio si guasterà. Il peccato distrugge la santità in noi e distruggendola in noi la diminuisce anche nel corpo di Cristo e questi diventa inefficace quanto alla testimonianza e al dono della salvezza nel mondo.

Il secondo modo è quello di creare una infinità di corpi di Cristo, di templi in cui si vorrebbe far vivere il Signore. Questo avviene quando ognuno non edifica la sua fede su Cristo, ma insegue i suoi pensieri. Cioè, se tu distruggi la fraternità, distruggi la paternità, distruggi te come figlio: è la perdizione. Quindi non è che posso dire: Io cerco di fare il bravo, ma non mi interessa la comunità e gli altri. No, perché senza gli altri distruggi te, perché non ti realizzi nella tua vera dimensione che è l’essere figlio, cioè fratello. Ogni qualvolta il corpo di Cristo è guastato, è anche guastato colui che lo guasta. È solo nel corpo di Cristo che noi abbiamo la salvezza. Chi si pone fuori dal corpo di Cristo, si pone fuori anche dalla salvezza.

Quindi tanti che dicono (Lutero docet) Dio sì e la chiesa no, è grave! È la vera distruzione teorizzata come bene.

In queste immagini dell'edificio e del tempio si esprime cos’è la Chiesa, che è il modo in cui esprime la nostra vita di figli, cioè la fraternità, e dove ognuno la esprime nella piena libertà e responsabilità del dono che ha ricevuto. La Chiesa è un organismo differenziato. Che cos’è la differenza? È qualcosa di molto importante che va accettata reciprocamente, ma con responsabilità va messa al servizio dell’unione e non della divisione. Se no, mi distruggo. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 27 Ottobre 2025 12:39

Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti

(Rm 5,5-11)

 

Romani 5:5 La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Romani 5:6 Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito.

Romani 5:7 Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene.

Romani 5:8 Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

Romani 5:9 A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui.

Romani 5:10 Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita.

Romani 5:11 Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione.

 

Romani 5:5 La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

La speranza non delude dice San Paolo. Non sappiamo nulla del nostro domani. Il rapporto di grazia con Dio non ci tira fuori dai problemi della vita, ma lungi dall'essere scoraggiati, se andiamo in profondità ci accorgeremo che, dentro le fatiche della vita, quello che conta è la relazione con Dio. Se io ho una relazione basata sulla speranza, anche se vivo quotidianamente fatiche, sofferenze, malattie, mi accorgo che nonostante tutto, il peso della vita si regge; ho una capacità di tenuta. Ecco dunque che la speranza riposta in Dio - virtù teologale - non delude, perché essa ha le sue radici nell'amore di Dio e Dio mai deluderà l'uomo che ha posto speranza in Lui.

Cosa è la delusione? È attendersi una cosa e poi non riceverla. È essere convinti che ci sarà un domani migliore, mentre in realtà altro non viene se non miseria e dolore. La delusione è speranza che non si compie. È una speranza che non mantiene ciò che promette. Nulla di tutto questo accade nella speranza riposta in Dio per mezzo di Gesù Cristo. Perché? «Perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Dio ha riversato in noi tutto il suo amore. Ci possiamo chiedere se il genitivo "amore di Dio" sia oggettivo o soggettivo, cioè se Dio è oggetto di amore da parte dell'uomo o se Dio è il soggeto che ama. In altre parole, la speranza che non delude è perché noi amiamo Dio, o perché Dio ama noi? È più probabile che sia l'amore di Dio per noi che rende salda la nostra speranza. Come caparra e sigillo di questo amore, Dio ci ha donato il suo Spirito Santo.

La speranza posta in Dio però si scontrerà sempre contro un futuro che non si vede con gli occhi della carne, perché è visibile solo con gli occhi della fede. Da notare, in questo brano, che manca il riferimento esplicito alla fede; ma la fede è sempre da supporre, poiché la speranza può essere stabilita solo sul fondamento della fede e senza fede non può esserci speranza cristiana.

Questo va detto per evitare equivoci che sovente serpeggiano nella mente di molti, che vorrebbero una speranza che non deluda ma senza possedere una fede ben ferma in Cristo. Desiderare i frutti della fede senza la fede è cosa impossibile. Sul legame tra fede e speranza il cristiano deve  crescere, perché troppo spesso si sente deluso da Dio, mentre in verità è il cristiano che ha deluso Dio perché ha smesso di avere fede in Lui; oppure la sua fede non è vera e quindi in realtà la sua è non fede.

«Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito» (v. 6). Letteralmente San Paolo dice che eravamo «asthenōn», senza forza, in uno stato d'infermità spirituale. Eravamo lontani da Dio, schiavi del male, e Dio ci ha offerto la morte del Figlio suo unigenito per la nostra redenzione. La morte di Cristo non fu spesa dal Padre a favore di brave persone, ma di «empi», un termine questo che dice l'opposizione dell'uomo a Dio. Quindi il Padre sacrifica il Figlio a favore di persone che gli sono avverse. Dimostrazione più grande di amore di quella dataci da Dio non esiste e mai potrà esistere. È questo il motivo per cui la speranza riposta in Dio non potrà mai deludere, dal momento che Dio ha fatto questo mentre noi eravamo peccatori, nemici, lontani. Basta, dunque, aver paura di Dio; basta essere ripiegati su noi stessi e sulle nostre miserie. Apriamoci al suo amore e viviamo con fiducia e speranza la nostra vita.

È interessante che Paolo usa il tempo presente, "Dio dimostra il suo amore" (v. 8), anche se la croce è nel passato. Il fatto è che la morte di Cristo è una prova sempre attuale dell'amore di Dio; l'evento storico della croce continua ad essere una realtà presente per la redenzione dei peccatori e la loro riconciliazione con Dio. Anche se Cristo è morto duemila anni fa, questo fatto continua ad essere la più grande manifestazione dell'amore di Dio per gli uomini.

Potremmo anche chiederci perché è la dimostrazione dell'amore di Dio (v. 8) e non invece la dimostrazione dell'amore di Cristo, dato che è Cristo che è morto per noi. La risposta è che il Padre e il Cristo sono uno, cosicché quello che il Cristo fa può essere accreditato al Padre, e viceversa. Così, il dolore e le sofferenze che Cristo ha subito nella sua morte espiatoria, erano anche il dolore e le sofferenze del Padre, e nella morte di Cristo è dimostrato l'amore del Padre come quello del Figlio.

Paolo vuole che il credente in Cristo sia sicuro, certo. Questi suoi versetti diventano un inno alla speranza e alla gioia: se già ora, pur essendo ancora fragili e peccatori, abbiamo superato la paura di Dio, tanto più dobbiamo essere fiduciosi e gioiosi di incontrarlo alla fine della nostra vita.

Chi guarda la croce deve caricarsi di certezza e questa certezza è l'amore di Dio che trionfa sul peccato dell'uomo. Una volta che si vive da riconciliati, la riconciliazione ha come frutto la salvezza. Saranno salvati tutti coloro che hanno vissuto da riconciliati. La salvezza viene dal vivere da veri riconciliati, vivere da veri figli di Dio.    

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 20 Ottobre 2025 21:50

30a Domenica T.O. (anno C)

(Lc 18,9-14)

 

Luca 18:9 Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri:

Luca 18:10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.

Luca 18:11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.

Luca 18:12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.

Luca 18:13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.

Luca 18:14 Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».

 

Questa parabola è una catechesi sulla preghiera, la quale deve essere umilmente fiduciosa, rimettendosi al Padre. Vengono presentati due uomini che salgono a Gerusalemme per pregare e fin da subito vengo descritti come diametralmente contrapposti: un fariseo e un pubblicano. Due figure paradigmatiche, di cui si metteranno subito in evidenza l'oscurità della luce farisaica e la luce dell'oscurità del pubblicano. Due figure poste lì per interpellare la coscienza di chi sta salendo a Gerusalemme con Gesù. In ultima analisi ci si trova di fronte ad un giudizio di condanna su chi fa affidamento su se stesso e di premio su chi, invece, si affida a Dio.

Il v. 9 fornisce la chiave di lettura della parabola. Benché ci si trovi di fronte ad una valutazione comportamentale di taluni verso altri, tuttavia questo ha a che vedere con la preghiera, che, non va dimenticato, è un relazionarsi a Dio, in cui pesa in modo determinante il proprio relazionarsi verso gli altri. Un piccolo racconto che va a colpire un atteggiamento interiore che crea discriminazione, rifiuto e chiusura nei confronti degli altri e tale da rendere precari i propri rapporti con Dio stesso. Non è un caso, infatti, che la parabola, iniziatasi mettendo in rilievo i propri rapporti con gli altri, si concluda rilevando i propri rapporti con Dio e tali da coinvolgere la propria giustificazione (v. 14).

Quella del fariseo è una figura emblematica, che Paolo descriverà magistralmente in Rm 2,1: “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi”. Un giudicare che nasce da una convinzione di santità legale. Una santità legale che tuttavia non trova riscontro nella quotidianità del loro vivere. Una classe, insomma, di benpensanti, che amano presentarsi come scrupolosi osservanti della Legge, che si scontra, tuttavia, con il loro modo di vivere.

Accanto a questa figura, icona di purità rituale e di santità legale, viene accostata quella del disprezzato pubblicano, che nei vangeli sovente viene associato con i peccatori o con le prostitute, personaggi questi che erano socialmente e religiosamente ghettizzati e considerati già destinati alla perdizione eterna. Gente, dunque, da evitare anche per non contaminarsi, diventando ritualmente impuri. L'accostarsi a loro o soffermarsi con loro, inoltre, certamente ledeva la dignità di questa classe di religiosi. Un accostamento, quello della parabola, che stride fortemente, ma che servirà a rendere più dirompente la sentenza finale (v. 14), evidenziando così il modo di pensare di Dio, che sovente contrasta con quello degli uomini. La figura sociale del pubblicano, proprio per il suo lavoro di esattore delle tasse per conto dell'oppressore Romano, era considerata, da un punto di vista religioso, in un costante stato di impurità rituale, in quanto in continuo rapporto con il mondo dei pagani. Era socialmente malvisto e odiato perché faceva parte del sistema oppressivo dell'invasore e non di rado caricava le tasse con propri interessi. A tutti gli effetti era considerato un pubblico peccatore.

I vv. 11-12 sono dedicati al fariseo, che manifesta, nel suo relazionarsi con Dio, tutta la sua protervia e che contrasta profondamente con il comportamento del pubblicano. Il fariseo si pone di fronte a Dio “stando in piedi”. Anche se questo era il modo di pregare del pio ebreo, tuttavia il verbo statheìs dice ben più di un semplice stare in piedi davanti a Dio. Egli si pone in una sorta di atteggiamento di sfida davanti a Dio, sollecitandolo quasi in modo provocatorio a trovare in lui, perfetto osservante della Legge, una qualche ombra. E qui sciorina tutta la sua bravura di osservanza legale, che non fa una grinza, ma che rivela tutta la sua insolente arroganza nei confronti di Dio, mettendosi, di fatto, al suo pari. E per meglio farla risaltare chiama in causa non solo la generale peccaminosità degli uomini, ponendosi al di sopra dell'umanità (“non sono come gli altri uomini”), ma anche il perdente e disprezzato pubblicano, lì presente con lui, sul quale sente di sopravanzare indiscutibilmente di gran lunga. L'intera preghiera del fariseo si snoda all'interno di un serrato confronto con gli altri, definiti ladri, ingiusti, adulteri, e la sua scrupolosa osservanza della Legge, che va ben oltre a quanto essa richiedeva in termini di digiuno, previsto soltanto una volta all'anno nel giorno dell'Espiazione. Al centro della sua preghiera e del suo rapporto con Dio non c'è Dio, ma soltanto il suo Io, che qui s'impone davanti a Dio a detrimento degli altri.

A fronte di tanta superbia, viene accostata la figura del pubblicano, diametralmente all'opposto di quella del fariseo. Allo “stando in piedi” del fariseo si contrappone il “fermatosi a distanza” del pubblicano, che indica non solo la distanza che intercorre tra lui e il fariseo, ma anche quella tra lui e Dio. Egli è e si sente peccatore. E ciò che può offrire a Dio è soltanto la sua fragilità, che non gli consente neppure di alzare gli occhi verso di Lui, tanta è la coscienza del suo nulla, rimettendosi, invece, alla misericordia divina, senza nulla pretendere, perché ha la consapevolezza del suo peccato. Ma quel suo essere salito al Tempio, il suo esservi entrato, lo associa in qualche modo alla figura del Figliol prodigo, ritornato alla casa del Padre, il quale neppure sta ad ascoltare le parole di quel suo figlio perduto e ritrovato, ma lo accoglie in un abbraccio, che è una promessa di vita eterna. 

 

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Martedì, 14 Ottobre 2025 11:34

29a Domenica T.O. (anno C)

(Es 17,8-13)

 

Esodo 17:8 Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim.

Esodo 17:9 Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio».

Esodo 17:10 Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle.

Esodo 17:11 Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek.

Esodo 17:12 Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l'altro dall'altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.

Esodo 17:13 Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada.

 

Questo racconto segue la mormorazione del popolo d'Israele nel deserto per la mancanza di acqua. Quali furono le conseguenze di aver ceduto alla tentazione? La liberazione delle forze del Maligno rappresentate da Amalek. C’è una lotta e una fatica per rimanere nella fede donata dal Signore, e c’è la guerra che è scatenata dal satana, quando vede che la nostra fede in Dio vacilla. Amalek, re di una popolazione che abitava ai margini del deserto, a sud della terra di Canaan, che viene a combattere contro Israele a Refidim, rappresenta tutto questo. 

La battaglia contro il nemico non è combattuta da tutti gli uomini, ma soltanto da coloro che sono scelti/eletti da Giosuè (figura di Gesù) e si mettono sotto il suo comando. È una guerra che comporta un’uscita (“esci in battaglia”) dalla vita quotidiana, l’abbandono di ogni occupazione, per un impegno totale. Non si combatte contro il maligno da soli, ma insieme con la Chiesa tutta, sotto la guida di chi è preposto dal Signore, sotto la tutela del “bastone di Dio” che dà la vittoria: bastone che nel racconto è posto nella mano di Mosè.

In precedenza, Mosè aveva dovuto toccare la roccia con il suo bastone per far scaturire l'acqua, ora deva fare la stessa cosa con il suo Dio e Signore: Mosè deve con il bastone toccare Dio, perché da Dio possa scaturire la vittoria per gli israeliti. La roccia fu colpita due volte e l’acqua uscì con abbondanza da essa. Per avere la vittoria su Amalek, Dio dovrà essere toccato fino a completa vittoria. Quando il bastone non tocca Dio, la vittoria è di Amalèk. Quando invece il bastone tocca Dio la vittoria è di Giosuè e degli israeliti. Una vittoria momentanea non serve a Israele. Occorre la vittoria definitiva, il ritiro di Amalek e la pace in Israele.

«Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle» (v. 10). Giosuè esegue quanto gli ordina Mosè. Si sceglie le sue truppe migliori e va a combattere contro Amalek. Mosè non sale sulla cima del colle da solo. Fa venire con sé Aronne e Cur. Essi non vanno contro il nemico, ma si portano vicini a Dio. Soltanto la vicinanza del Signore è garanzia di vittoria, ma bisogna salire sul monte, per toccare il cielo e arrivare a Lui.

Quanto avviene sul monte è immagine della realtà che si compie sul campo di battaglia. Quando  Mosè alza le mani e tocca Dio, la vittoria è per Israele. Quando invece Mosè abbassa le mani, lasciandole cadere, prevale e vince Amalek. Quando Dio non è toccato, non sgorga la grazia, non viene fuori la vittoria. Quando Dio è toccato, viene fuori la grazia e la vittoria.

Ma l’uomo si stanca a tenere le braccia sempre alzate per toccare il Signore. Se però il Signore non è toccato, la battaglia volgerà sempre verso il male per noi, non più verso il bene. Ecco allora che viene in aiuto all'uomo l’intelligenza. Aronne e Cur trovano il modo perché Mosè non si stanchi. Non dalle nostre forze è vinto il satana, ma dalla preghiera incessante che il servo di Dio fa salire al cielo. Non ha valore e non è efficace una preghiera che si fermi a metà: dev'essere in un impegno incessante e in una pienezza continua.

Poiché Mosè si stanca a tenere sempre le braccia alzate verso il Cielo, Aronne e Cur prendono una pietra, la collocano sotto di lui ed egli si siede. Loro due, uno da una parte e l'altro dall'altra, sostengono le sue mani. In questo modo le mani di Mosè stanno sempre alzate fino al tramonto del sole. Qui vediamo che intelligenza e sapienza vengono poste a servizio di un bene più grande. Mosè vi mette la parte spirituale, Aronne e Cur la parte materiale. Parte materiale e parte spirituale devono sempre divenire una cosa sola.

Le mani dell’uomo non riescono a stare continuamente alzate verso Dio: non ci sono forze adeguate. C'è bisogno di un sostegno per la nostra stanchezza che ci consenta di essere sempre presenti alla lotta pur in una posizione di riposo. Tutto questo è dato da Cristo, pietra di salvezza.

Fin che dura la battaglia, cioè fino al tramonto di questa esistenza, non bisogna abbandonare uno spirito di preghiera continua. È garanzia di una sicura vittoria contro il nemico. Il Signore combatte per noi, ci dà forza e coraggio per contrastare il maligno, fa in modo che non siamo sopraffatti dalla stanchezza di una lotta che non sembra aver fine.

«Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada» (v. 13). Sorretto dalla forza di Dio, invocata senza interruzione da Mosè, sostenuto da Aronne e Cur, Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo, passandoli a fil di spada. La vittoria è ottenuta. Essa è però il frutto di una triplice comunione: Mosè, Aronne e Cur, Giosuè. Mosè tocca Dio. Aronne e Cur lo aiutano materialmente, fisicamente. Giosuè ottiene la vittoria, combattendo, rischiando la sua stessa vita. Ecco la vera comunione: Dio e l’uomo che lavorano insieme. Così vengono messi in fuga i nostri nemici. Il maligno e i suoi figli sono costretti a desistere dal loro intento malvagio.  

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 06 Ottobre 2025 22:38

28a Domenica T.O. (anno C)

(Lc 17,11-19)

 

Luca 17:11 Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea.

Luca 17:12 Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza,

Luca 17:13 alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!».

Luca 17:14 Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati.

Luca 17:15 Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce;

Luca 17:16 e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano.

Luca 17:17 Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?

Luca 17:18 Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse:

Luca 17:19 «Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!».

 

La venuta di Gesù, la sua vita, la sua predicazione, il suo muoversi tra gli uomini hanno come finalità primaria e unica la loro salvezza che si compie a Gerusalemme, dove egli sta andando.

La scena descritta in questo brano ha come oggetto un gruppo di persone colpite dalla lebbra. Se si tratti della lebbra così come oggi noi la intendiamo, come l'infezione causata dal Bacillo di Hansen, non ci è dato di sapere. Il termine che ricorre nel testi biblici è sāra'at che la LXX traduce con “lépra”. Termini entrambi generici molto imprecisi per indicare delle macchie e delle rugosità che potevano comparire sulla pelle, ma anche sugli abiti e sugli stessi muri domestici. La Legge prevedeva che la diagnosi dovesse essere fatta dal sacerdote.

Una volta che il sacerdote dichiarava immondo chi si sottoponeva alla sua valutazione, l'uomo colpito doveva abitare fuori dalla città o dal villaggio e vivere in segregazione o assieme ad altri sfortunati, gridando a tutti il suo essere immondo al fine di evitare che altri gli si avvicinassero. Ma il grido di “immondo” è qui sostituito da una invocazione di aiuto: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Questa sostituzione che Luca ha registrato non va trascurata, poiché è indice di come la nuova fede che ha per fondamento Gesù, di fatto ha sostituito le stesse prescrizioni della Legge mosaica, la quale permetteva all'uomo colpito soltanto un grido che rilevava il suo stato di condanna e non gli dava alcuno scampo. Come dire che la Legge condanna, ma Gesù salva.

Ciò che qui appare è un gruppo di dieci lebbrosi. Il dieci in termini simbolici dice totalità, pienezza, compiutezza e sta a simboleggiare il mondo giudaico preso nel suo insieme e valutato nel suo rapporto con Gesù. Sono lebbrosi che invocano il nome di Gesù, gli vanno incontro, ma rimangono lontano da lui, sono ancora legati alla Legge mosaica, ritenendo che la vera salvezza si possa ottenere soltanto attraverso di essa. Infatti, nel loro andare dai sacerdoti, cioè nel loro continuare a sottostare alla Legge mosaica, i dieci non sono veramente guariti, ma soltanto purificati. Non c'è stato contatto con Gesù, non ci sono state parole di guarigione da parte di Gesù, ma soltanto un comando, quello di continuare sotto la Legge mosaica, che può garantire la purificazione, ma non produce la vera salvezza. Gesù, del resto, non disconosce la Legge mosaica, ma non le attribuisce un potere salvifico intrinseco, che solo lui può dare. Una Legge, quindi, che salva a metà, cioè è capace di indicare la retta via all'uomo; di indicare ciò che è bene e ciò che è male, ma la vera capacità di salvezza, che trascende le capacità umane, dipende soltanto dalla fede in Gesù, dal proprio aprirsi esistenzialmente a lui, accogliendolo nella propria vita. Ed è ciò che farà il Samaritano.

Il brano mette in luce una fondamentale distinzione tra guarigione e salvezza: la prima riguarda soltanto l'aspetto fisico, ma non dice niente di più; mentre la seconda dà un significato nuovo alla guarigione, essa diventa segno di una rigenerazione interiore. La guarigione dice soltanto ciò che il guarito riesce a vedere, ma per lui non diventa segno, è soltanto un colpo di fortuna per aver trovato un guaritore a buon mercato. Per cui il guarito è soltanto risanato, ma non salvato. Ma non è questo che avviene per il Samaritano, che ritornato sui suoi passi riconosce nella sua guarigione l'operare della potenza di Dio, manifestatasi in Gesù. Per questo egli non è solo guarito, ma anche salvato (v. 19).

Significativi per la comprensione della dinamica della salvezza sono i vv. 15-16, scanditi in tre parti: a) la presa di coscienza da parte del risanato: “vedendosi guarito”. Il verbo è qui posto al passivo teologico o divino (“iathē” = fu guarito), che nel linguaggio dei vangeli rimanda a Dio l'azione del guarire. Il risanato, pertanto, riconosce che quanto è avvenuto in lui non è opera di un semplice guaritore, ma è opera di Dio stesso. b) Il suo lodare Dio a gran voce, dando pubblica testimonianza di quanto è avvenuto in lui. c) Una lode che è preceduta e accompagnata da due movimenti, che rivelano quanto è avvenuto in quest'uomo: “tornò indietro” e “si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo” (v. 16). Quel “tornare indietro” descrive l'atto proprio della conversione e del riavvicinamento a Gesù. Quest'uomo, alla pari degli altri, si fermò lontano da Gesù e assieme agli altri lo aveva lasciato per sottoporsi alla ritualità mosaica. Ma la lettura di fede che egli ha sviluppato sulla sua guarigione (“visto che fu guarito”), lo spinge a rientrare in se stesso e ripercorrere il cammino inverso: dal giudaismo al cristianesimo. Un ritorno che si conclude con il suo prostrarsi davanti a Gesù ringraziandolo per la salvezza che gli aveva donato.

Il v. 16 si conclude con una nota polemica, che contrappone il mondo pagano a quello giudaico: “Era un Samaritano”, ritenuto dai giudei un eretico, un traditore della fede dei Padri ed equiparato ai pagani. Una polemica che prosegue con i vv. 17-18, finalizzati a mettere in rilievo la figura del Samaritano, volutamente posto in un duro confronto vincente con il giudaismo e che suonano come un giudizio di condanna del giudaismo stesso.

Il v. 19 fornisce la chiave di lettura della guarigione, che per questo Samaritano si trasforma in vera e propria salvezza, la cui natura è significata tutta in quel “alzati” (Anastàs), un termine tecnico che nel linguaggio della chiesa primitiva alludeva alla risurrezione di Gesù. La guarigione di questo Samaritano, pertanto, è in qualche modo equiparata alla risurrezione di Gesù ed è ad essa legata - e da questa fluisce in lui. Questa guarigione, pertanto, assume i connotati di una vera e propria rigenerazione a vita nuova, che fa del Samaritano una nuova creatura in Cristo, mentre il suo risanamento fisico ne diventa segno. E ciò che produce questa salvezza è la fede di questo Samaritano: “la tua fede ti ha salvato”. Gesù è fonte di salvezza per tutti, ma la sua salvezza opera efficacemente soltanto nella fede, cioè in chi si apre esistenzialmente a lui, riconoscendosi bisognoso di guarigione (“abbi pietà di noi”) e vedendo in Gesù la sua guida e il suo fondamento sicuro (“Gesù, maestro”).

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 29 Settembre 2025 18:17

27a Domenica T.O. (anno C)

(Lc 17,5-10)

 

Luca 17:5 Gli apostoli dissero al Signore:

Luca 17:6 «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.

Luca 17:7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola?

Luca 17:8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu?

Luca 17:9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?

Luca 17:10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».

 

Due sono qui gli elementi fondamentali che vengono evidenziati e solo apparentemente giustapposti: la crescita della fede (vv. 5-6) e il servizio, intendendo per tale l'incarico che gli apostoli ricoprono all'interno della comunità credente di cui sono responsabili. Questo va speso a favore della comunità e non di se stessi (vv. 7-10). Crescita di fede e servizio alla comunità sono strettamente correlati tra loro proprio per la natura stessa del servizio, la cui attuazione deve svolgersi alla luce di una fede matura per evitare degli scadimenti e dei soprusi nei confronti dei credenti. Non vi può essere un servizio autentico, indenne da secondi fini e interessi personali, se non è sostenuto da una fede forte, matura e coerente con la propria vita e la missione a cui si è chiamati.

Ma come si concilia una fede forte con una fede “piccola” quanto un granellino di senapa, ma che è in grado di sradicare un gelso e trapiantarlo nel mare? Qual è la verità che soggiace a questa risposta di Gesù? La fede, quando è viva e vitale, quando contiene in essa il germe della vita allo stesso modo che lo contiene un granellino di senape, essa è capace di grandi cose, e Gesù vuole dai suoi discepoli una fede viva e vitale in ogni cosa.

La questione si sviluppa attraverso una breve parabola posta sotto forma di domanda retorica, per cui già nel suo formularsi il lettore conosce la risposta. Questa si sviluppa su tre livelli finalizzati a dimostrare come il servo è soltanto un servo ed è in funzione del suo padrone e che nulla egli può pretendere. Il primo (v. 7) mette in rilievo come nessun padrone concede tregua al suo servo; il secondo (v. 8) si contrappone al primo mettendo in tal modo maggiormente in rilievo quello che effettivamente e naturalmente il padrone pretenderà dal suo servo: farsi servire, perché ogni servo è tale perché è in funzione del suo padrone e mai di se stesso; il terzo livello (v. 9) conclude la parabola rilevando come il padrone non ha da essere grato al suo servo per averlo servito, poiché questo rientra nella sua natura e nei suoi doveri di servo.

La parabola è finalizzata a chiarire il rapporto che intercorre tra i responsabili di comunità e Dio stesso, il vero padrone. La loro autorità e responsabilità nelle comunità credenti è pertanto considerato un servizio che essi esercitano in nome e per conto di Dio. L'invito a considerarsi soltanto dei servi inutili dopo aver espletato tutto ciò che era loro dovere compiere, non va letto come un dispregio nei confronti di questi servi, che si dedicano al loro padrone, ma dice tutta la distanza che intercorre tra loro e Dio stesso, di cui sono servi e in nome e per conto del quale espletano tale servizio. La comunione di vita con Dio trascende ogni prestazione umana e non può essere svilita con una concezione terrena del salario. Dio non si lascia vincere in generosità: il premio ci sarà, ma gratuito e in una misura infinitamente superiore ai meriti dell'uomo.

Ma si può fare anche una lettura allargata ad ogni singolo credente, non solo ai responsabili. Gesù vuole che ogni suo discepolo si consideri servo dinanzi agli altri. La sua umiltà è il servizio. Il servizio è la sua obbedienza. La sua utilità è nell'obbedienza e nel servizio. Dopo aver obbedito e servito, egli si deve considerare inutile. Perché inutile? Perché la sua essenza è il servizio e l'obbedienza. Fuori del servizio e dell'obbedienza, egli non serve più. Non ha altra mansione. Egli si deve in tutto considerare simile ad un utensile. Qual è l'utilità di un utensile? Quella di servire. Finito il suo servizio, esso è inutile. Non serve più al padrone. Viene conservato in un cassetto o in un ripostiglio. Ma non serve più se non per il prossimo servizio e la prossima obbedienza. Se la volontà del padrone se ne serve, egli è utile. Se non se ne serve, egli è inutile. E così è utile ed inutile allo stesso tempo. L'utilità gli viene dalla volontà del padrone. L'inutilità gli viene anch'essa dalla volontà del padrone. Come l'utensile non si lamenta quando viene usato e non si lamenta quando non viene usato, così è di ogni vero servo del Signore, di ogni suo discepolo. Se viene usato, obbedisce. Se non viene usato, obbedisce ugualmente. Così, sia che venga usato sia che non venga usato, egli è sempre nell'obbedienza del suo padrone. Se ha bisogno di lui, lui dirà sempre: “eccomi”. Se non ha bisogno di lui, se ne starà in pace, perché è questa la volontà del suo padrone: che sia servo inutile, ovvero umile. 

 

 

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Lunedì, 22 Settembre 2025 12:48

26a Domenica T.O. (anno C)

Lc 16,19-31

 

Luca 16:19 C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente.

Luca 16:20 Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe,

Luca 16:21 bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe.

Luca 16:22 Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.

Luca 16:23 Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui.

Luca 16:24 Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura.

Luca 16:25 Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.

Luca 16:26 Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi.

Luca 16:27 E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre,

Luca 16:28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento.

Luca 16:29 Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro.

Luca 16:30 E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno.

Luca 16:31 Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

 

“C'era un uomo ricco”. Un uomo questo, che a differenza del povero, non è definito dal suo nome, la quale cosa lo priva di una sua personale identità, ma lo presenta fin da subito come una persona avvolta nel suo anonimato e destinata all'oblio, che è la peggiore condanna per un uomo e che caratterizza il regno dei morti. Per contro, questo uomo è definito soltanto dal suo stato di vita: ricco, vestito di porpora e di bisso, che banchetta tutti i giorni. Uno stato di vita formato da cose effimere, sulle quali ha fondato la sua vita e alle quali la sta dedicando e oltre le quali non va, subendo il destino della loro ineluttabile deperibilità. Di lui, infatti, si dice soltanto che viene sepolto, a differenza di Lazzaro, che invece, viene elevato dagli angeli. Un uomo, quindi, che vive in modo immanentistico senza alcuna prospettiva futura, sciupando il suo tempo in frivolezze.

Giustapposto a questo personaggio, che viveva nello sfarzo e nelle mollezze della vita, Luca ne presenta un altro diametralmente opposto. All'uomo ricco si contrappone ora quello povero, agli abiti di porpora e bisso che ricoprono il corpo del ricco, si contrappongono le piaghe che rivestono quello del povero; al banchettare sfarzoso del ricco si contrappone il desiderio del povero di potersi sfamare con qualche avanzo di questo banchetto, mentre i cani con la loro lingua leccano il suo corpo piagato. Ma diversamente dal ricco avvolto nel suo anonimato e destinato all'oblio dell'inferno, questo povero ha un suo nome, che lo identifica, dandone consistenza, poiché il nome nell'antichità esprimeva l'essenza della persona stessa che lo portava: Lazzaro.

Il v. 22 è caratterizzato da due movimenti contrapposti, ascendente per Lazzaro e discendente per il ricco, e nel contempo funge da spartiacque tra due mondi tra loro incomunicanti. In tale contesto la morte costituisce il passaggio obbligato dal “di qui” al “di là”. Ma se il morire accomuna i due personaggi, diverse sono le modalità con cui avviene il passaggio: Lazzaro “fu portato dagli angeli nel seno di Abramo”; mentre il ricco fu soltanto sepolto. In realtà non ci fu per quest'ultimo una vera e propria transizione, ma semplicemente una sepoltura; viene associato, in attesa della sua più completa assimilazione, a quella terra per la quale egli aveva speso la sua vita. Ben diversa fu la sorte per Lazzaro, che venne accompagnato nel seno di Abramo dagli angeli. Una sorta di apoteosi sottolineata da due elementi: dagli angeli traghettatori e dal seno di Abramo. I primi richiamano da vicino il Caronte della mitologia greca, il traghettatore delle anime dei morti, che accompagnava nella loro ultima dimora, attraversando il fiume Stige, che segnava il confine tra i due mondi... ma questo è un altro discorso.

Il secondo elemento riguarda la destinazione di Lazzaro, “nel seno di Abramo”, il patriarca che fu depositario della promessa, ricolmato della benedizione divina per la sua fede e la sua obbedienza, padre di un popolo numeroso come le stelle del cielo e la sabbia del mare. Il seno di Abramo, pertanto, diviene l'immagine di un luogo sicuro, permeato da Dio stesso, che in Abramo ha dato l'avvio alla storia della salvezza. Lazzaro, dunque, traghettato dagli angeli entrerà a far parte di questo mondo salvifico, che non ci viene descritto, ma è lasciato soltanto intuire. Del resto non era intenzione di Luca descrivere l'aldilà, ma semplicemente costruire, attraverso delle immagini, un contesto di riflessione sui destini della vita futura, che vengono giocati qui sulla terra.

I vv. 23-26 si aprono con una nota topografica, che funge da cornice entro la quale viene collocata la scena del dialogo tra Abramo e il ricco: Luca usa la parola “Hadē”, piuttosto che “inferno”, ed era il regno dei morti per il mondo greco-ellenistico, a cui Luca stava scrivendo e che difficilmente avrebbe compreso il corrispondente termine ebraico “Sheol”. Si trattava di un mondo sotterraneo, posto in un luogo imprecisato e irraggiungibile dall'uomo, dove sono stipate le anime che vivono in uno stato larvale e la cui consistenza è quella di un'ombra, avvolte dall'oblio e dall'oscurità delle tenebre, che toglie loro ogni speranza e dove non è più possibile rendere lode a Dio.

L'Hadē, pertanto, come il suo corrispondente ebraico Sheol, non va inteso come un luogo di dannazione eterna, ma soltanto come una sorta di magazzino, di deposito in cui vengono raccolte e stipate le anime in attesa del giudizio finale. Già nella letteratura giudaica intertestamentaria, benché il luogo sia unico per tutti, si prospetta una divisione tra buoni e cattivi, tra giusti e ingiusti, una sorta di anticipazione di ciò che sarà il giudizio finale. Ed è ciò che attesta il v. 26: “tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. Un abisso, il quale più che una demarcazione fisica, definisce una sorta di barriera invalicabile, che separa i giusti dagli ingiusti e che, in qualche modo, rappresenta il giudizio divino, che già grava su queste ombre.

L'ultima parte del brano, quella con cui si chiude il racconto, è la più interessante dal punto di vista catechetico, poiché presenta una fede fondata non sul miracolismo sensazionalistico, bensì sulle Scritture, la roccia salda su cui fondare la casa della propria vita: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. Abramo richiama l'attenzione sulle Scritture, quale guida sicura per la propria vita. In altre parole, chi ha il cuore ingolfato nelle ricchezze terrene, non riesce a percepire la volontà di Dio, contenuta nelle Scritture. Nemmeno l'apparizione di un morto potrebbe portarlo al pentimento e alla conversione.

 

 

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Martedì, 16 Settembre 2025 06:55

25a Domenica T.O. (C)

Lc 16,1-13

 

Luca 16:1 Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.

Luca 16:2 Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore.

Luca 16:3 L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno.

Luca 16:4 So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua.

Luca 16:5 Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo:

Luca 16:6 Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta.

Luca 16:7 Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta.

Luca 16:8 Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

Luca 16:9 Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.

 

L'amministratore infedele, venuto a trovarsi in una situazione esistenziale molto critica, rientra in se stesso, compie una valutazione della sua vita e giunge ad una decisione, sulla quale giocherà tutto se stesso e il suo futuro: “So io che cosa fare” (v. 4). Una sorta di illuminazione di cui si riesce a beneficiare nella misura in cui si rientra in se stessi, poiché è qui, nel sacrario della propria coscienza, che si incontra Dio e si riceve le illuminazioni determinanti per la propria vita. E benché ciò che qui Luca intenda evidenziare è l'accortezza e la determinazione con cui questo amministratore opera nella sua vita, tuttavia non va trascurata, in seconda battuta, la fonte primaria di tale determinazione, che comunque l'evangelista sottolinea: “L'amministratore disse tra sé: Che farò”? Da qui, dal suo interiore, dal suo interrogarsi sulla vita, dal suo chiedersi che cosa fare per il proprio futuro, per evitare il fallimento della vita, parte la riscossa che gli consentirà di rialzarsi e di dare attuazione al suo progetto. In ultima analisi, vi è in gioco il successo o il fallimento esistenziale. Luca, dunque, sembra indicare come elemento decisivo delle proprie scelte la via della riflessione, del silenzio interiore, del sapersi confrontare con se stessi e, soprattutto, con la Parola, qui simboleggiata dalla sentenza del padrone che viene emessa sull'operare del suo amministratore, a seguito della quale tutto cambia per lui.

“So io che cosa fare”. Che cosa egli intenda fare viene raccontato dai vv. 5-7: chiamare i debitori del suo padrone riducendo loro il debito. Qui Luca fa rilevare l'abilità, l'accortezza, l'impegno che quest'uomo, giunto ormai alla fine della sua amministrazione, mette nel poco tempo che gli resta per costruirsi un futuro sicuro.

L'apprezzamento del padrone nei suoi confronti, non riguarda la frode che ha subito, bensì la scaltrezza di questo suo amministratore, che in qualche modo è riuscito a parare il colpo, rovesciando a suo favore una situazione di drammatica precarietà.

L'applicazione della parabola si gioca tutta sul raffronto tra i figli di questo mondo e i figli della luce, da cui traluce una certa amarezza dovuta allo scarso impegno dei credenti in questo mondo, che dovrebbero, invece, far fermentare come lievito all'interno della pasta; come sale che dà sapore; come luce di lampada che illumina tutti quelli in mezzo ai quali si trova. In altri termini testimoniare la propria fede nel mondo così da divenirne lievito, sale e luce.

La “disonesta ricchezza” del v. 9, letteralmente è “mamōna tes adikias” (mammona dell'iniquità). Che cos'è il mammona dell'iniquità da cui trarre degli amici che abbiano la capacità tale da accogliere nelle dimore eterne? Quale legame c'è tra questo mammona dell'iniquità e le dimore eterne in cui si verrà accolti? E quel “quand'essa verrà a mancare” a cosa allude? E, infine, chi sono questi amici acquistabili con il mammona dell'iniquità?

Il termine “mammona” è aramaico, ed ha un significato simile a quello di “patrimonio”. Non indica soltanto il denaro accumulato, ma anche la proprietà. Noi diremmo “beni mobiliari e immobiliari”. Tutto questo è mammona, che qui viene definito “dell'iniquità”, cioè che appartiene a questo mondo corrotto dal peccato. Non è pensabile, infatti, che Gesù solleciti a procurarsi degli amici trafficando illegalmente e in modo immorale, cercando di creare delle associazioni a delinquere. L'espressione “mammona dell'iniquità”, quindi, va intesa come “beni terreni; beni di questo mondo”. Il suggerimento offerto da Luca è quello di procurarsi degli amici con questi beni materiali. L'unico modo per procurarsi questi amici con i “beni materiali” che si possiede è elargirli. In altri termini, spogliarsi dei propri beni materiali dandoli in elemosina a chi ne ha bisogno.

Queste persone beneficate sono definite “amici”, cioè persone che si relazionano a noi con una relazione benefica, quale è l'amicizia - che in questo contesto va intesa nel senso che il beneficio da loro ricevuto ha come conseguenza quella di accoglierci nelle “dimore eterne”. In tal senso queste persone beneficate diventano per noi “amici”. Il verbo “vi accolgano” significa che è l'elemosina loro elargita che procura il beneficio dell'eternità divina, qui definita con “dimore eterne”. In altri termini, lo spogliarsi dei propri beni a favore degli altri ha una risonanza positiva nei cieli, dove si sta costruendo, proprio attraverso questi gesti di amore, la propria dimora eterna, nella quale si sarà accolti “quando verrà a mancare” il mammona dell'iniquità, ossia quando non sarà più possibile usare dei beni di questo mondo, perché il cammino della propria vita è giunto al termine e i beni terreni non hanno più alcun valore, se non quello spirituale prodotto dal loro buon uso.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
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Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Ecclesial life is made up of exclusive inclinations, and of tasks that may seem exceptional - or less relevant. What matters is not to be embittered by the titles of others, therefore not to play to the downside, nor to fear the more of the Love that risks (for afraid of making mistakes)
La vita ecclesiale è fatta di inclinazioni esclusive, e di incarichi che possono sembrare eccezionali - o meno rilevanti. Ciò che conta è non amareggiarsi dei titoli altrui, quindi non giocare al ribasso, né temere il di più dell’Amore che rischia (per paura di sbagliare).
Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
The story of the healed blind man wants to help us look up, first planted on the ground due to a life of habit. Prodigy of the priesthood of Jesus
La vicenda del cieco risanato vuole aiutarci a sollevare lo sguardo, prima piantato a terra a causa di una vita abitudinaria. Prodigio del sacerdozio di Gesù.
Firstly, not to let oneself be fooled by false prophets nor to be paralyzed by fear. Secondly, to live this time of expectation as a time of witness and perseverance (Pope Francis)
Primo: non lasciarsi ingannare dai falsi messia e non lasciarsi paralizzare dalla paura. Secondo: vivere il tempo dell’attesa come tempo della testimonianza e della perseveranza (Papa Francesco)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manilla]

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don Giuseppe Nespeca

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