Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

Martedì, 24 Dicembre 2024 22:54

S. FAMIGLIA (c)

(Lc 2,41-52)

Luca 2:41 I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua.

Luca 2:42 Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza;

Luca 2:43 ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.

Luca 2:44 Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;

Luca 2:45 non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.

Luca 2:46 Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava.

Luca 2:47 E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.

Luca 2:48 Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».

Luca 2:49 Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».

Luca 2:50 Ma essi non compresero le sue parole.

Luca 2:51 Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.

 

Uno dei brani più difficili di tutti i Vangeli, e che apre a numerosi interrogativi: possibile che i due genitori siano stati così sprovveduti e superficiali da non accertarsi dove fosse il loro figlio, primogenito ed unico, prima di partire? Possibile che si accorgano soltanto dopo un giorno di cammino che Gesù non è con loro? Possibile che un ragazzino se ne stia tranquillamente per tre giorni di seguito nel Tempio a dibattere con i maestri della Legge, senza minimamente preoccuparsi della sua famiglia? E per tutto questo tempo chi gli dava da mangiare e da dormire? E dopo il dibattimento dove andava? Che cosa faceva? Com'è possibile che questo ragazzino, tratteggiato qui come un adulto navigato e di consumata esperienza, si sia mostrato del tutto indifferente alle ansie e ai rimbrotti dei suoi genitori, anzi è lui che li redarguisce? Si potrebbe continuare con questi interrogativi, ma Luca qui non sta facendo la cronaca di uno spiacevole incidente, bensì fa della teologia e costruisce il suo racconto in funzione di questa; non certo per soddisfare la curiosità dei suoi lettori e tantomeno le logiche della critica moderna. Continuare sulla strada degli interrogativi significa non andare da nessuna parte. Qui si deve seguire il pensiero dell'autore e i suoi intenti.

L'osservanza scrupolosa della Torah da parte della famiglia di Gesù è un fatto assodato. Qui se ne sottolinea la fedele e perseverante esecuzione: “i suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua”. L'obbligo del pellegrinaggio nel Tempio di Gerusalemme gravava esclusivamente sui maschi, pur non venendo escluse le donne e i bambini. Un viaggio, quello del Gesù dodicenne che viene indicato come “secondo l'usanza” e quindi compiuto secondo le prescrizioni della Torah.

Il rimanere di Gesù a Gerusalemme al compiersi dei dodici anni, indica qual è il luogo della dimora di Gesù, dove troverà pieno compimento la volontà del Padre. Qui troverà definitivamente fine e compiutezza la missione che il Padre gli ha assegnato. Per questo il dodicenne Gesù, giunto a Gerusalemme, non torna indietro, ma vi rimane in conformità alla volontà del Padre (v. 49). Significativo il verbo che qui Luca usa per indicare il “rimanere” di Gesù a Gerusalemme: “hypémeinen”, che tra le varie accezioni annovera anche “resistere, far fronte, sopportare, sostenere”. Il suo rimanere, pertanto, è denso di significati e lascia intravvedere la sofferenza del suo patire e morire in Gerusalemme, il luogo dove si compiranno i misteri della salvezza. 

I vv. 44-45 narrano lo smarrimento di questa piccola comunità familiare di fronte al suo rendersi conto di aver perduto Gesù. La ricerca di Maria e Giuseppe si muove su logiche umane: lo si cerca tra i parenti e i conoscenti, nella speranza di trovarlo tra loro, ma senza alcun esito. Per ritrovare Gesù è necessario “tornare a Gerusalemme”. È lì, nel luogo del compiersi del Mistero, che si può trovare Gesù. Ed essi lo ritroveranno mentre parla; lo scopriranno Parola che risuona nel Tempio; Parola che insegna; Parola che si impone tra lo stupore dell'antico insegnamento della Torah. Per ritrovare Gesù, quindi, è necessario ritornare a Gerusalemme.

Il ritrovamento di Gesù viene inquadrato in una doppia e significativa cornice: temporale, “dopo tre giorni”; e spaziale “nel tempio, seduto in mezzo ai dottori”. Il ritrovare Gesù “dopo tre giorni”, può alludere alla sua risurrezione, allorché, dopo lo smarrimento della sua passione e morte, Gesù viene ritrovato dai suoi discepoli. La questione che qui tuttavia Luca affronta, non è tanto la risurrezione di Gesù, ma “come” Gesù lo si è ritrovato dopo i “tre giorni”: esso è ritrovato “nel tempio seduto in mezzo ai dottori”. Tempio e dottori alludono al cuore del Giudaismo: culto e Torah. “In mezzo” a tutto ciò si colloca Gesù in un inequivocabile atteggiamento: “seduto”, la posizione caratteristica di chi insegna. In questa posizione Gesù è descritto da Luca: “mentre li ascoltava e li interrogava”, i due parametri entro cui si muoveva il rapporto maestro-discepoli. Il Risorto, pertanto, si colloca all'interno del Giudaismo come la nuova Parola, il nuovo Insegnamento, la nuova Torah, destinata a prendere il posto dell'antico Insegnamento.

Il v. 48 attesta lo stupore di Maria e Giuseppe, che vedono il loro figlio seduto tra i dottori della Legge, ma non capiscono ciò che vedono: “Figlio, perché ci ha fatto così? Ecco tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo”. La risposta che dà loro Gesù rivela lo stupore di Gesù per l'incapacità di comprendere dei suoi due genitori: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Un rimprovero e un invito a riflettere sulle motivazioni della loro ricerca, dettata più da preoccupazioni umane che da una vera comprensione del mistero, che vive e permea Gesù.

Con il v. 49, dopo un lungo preambolo di incomprensioni e reciproci stupori, si giunge alla rivelazione: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Gesù non si muove mai di sua spontanea volontà secondo progetti suoi personali, ma il suo agire, così come il suo parlare, ha come unica fonte referente il Padre, senza il quale egli non fa nulla. 

Dopo l'atto di “insubordinazione” di Gesù, Luca vuole rassicurare il suo lettore che Gesù non era uno scavezzacollo, ma un bravo ragazzo, rispettoso dei genitori e a loro fu sempre sottomesso (v. 51). Non va tuttavia esclusa, in questa sottomissione di Gesù, una nota teologica che in qualche modo si richiama a Fil 2,5-11, dove Paolo evidenzia un processo di svuotamento della gloria del Figlio fino ad assumere la natura umana e “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Anche questa fedele sottomissione di Gesù ai suoi genitori fa parte, dunque, del processo di spogliazione interiore.

“Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore”. Un atteggiamento, questo di Maria, che costituisce anche un invito a “serbare” il Mistero, che per sua natura non è immediatamente accessibile alla ragione, nel silenzio del proprio cuore in attesa che la luce dello Spirito, che conosce le profondità di Dio, illumini anche la mente.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Mercoledì, 18 Dicembre 2024 05:22

4a Domenica di Avvento (c)

(Lc 1,39-45)

Luca 1:39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda.

Luca 1:40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.

Luca 1:41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo

Luca 1:42 ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!

Luca 1:43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?

Luca 1:44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo.

Luca 1:45 E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».

 

Il brano si apre con un'annotazione di tempo: “In quei giorni”. Sono i giorni che seguono l'annunciazione. In questo contesto Maria viene descritta in una condizione esistenziale decisamente dinamica: “si mise in viaggio”. È l'inizio di una nuova vita causata da una trasformazione avvenuta per opera dello Spirito Santo. È l'inizio di una nuova vita venutasi a creare in lei dopo aver accolto l'annuncio. Maria è colei che inizia un nuovo cammino sotto l'egida dello Spirito, che la spinge “verso la montagna... in una città di Giuda”.

Il verbo, qui tradotto con “si mise in viaggio”, è un aoristo passivo, “eporeuthē”, che dovrebbe essere tradotto con “fu fatta partire”. Si tratta di un passivo teologico, la cui azione rimanda direttamente a Dio, il vero autore della partenza di Maria. Una partenza che dice come la storia della salvezza si sia messa in moto in Maria, sospinta “verso la montagna in una città di Giuda”. Una indicazione così generica che indica come a Luca non interessi soffermarsi sui particolari. Tutto deve incentrarsi su quanto sta per succedere, su quella liturgia di lode e di ringraziamento che costituirà il vero corpus di questo racconto e con il quale il lettore è chiamato ad unirsi alle due donne. Una genericità che richiama da vicino la stessa missione di Abramo: “Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12,1). Si tratta di una terra sconosciuta verso la quale Abramo è chiamato ad incamminarsi, lasciandosi guidare da Dio, di volta in volta; senza se e senza ma, senza perché, in piena e totale fiducia in Dio. Per questo Dio lo ricolma della sua benedizione, rendendo feconda la sua discendenza: “Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione” (Gn 12,2). Similmente ad Abramo, Maria è chiamata ad andare verso una destinazione che le è ignota, verso una terra sconosciuta, che Dio le indicherà. Certo, lei sta andando da Elisabetta, ma inconsapevolmente sta intraprendendo anche la strada che la sta portando verso Gerusalemme; un viaggio verso il compimento di un progetto divino di salvezza. E similmente ad Abramo, anche Maria viene benedetta in modo eccelso da Elisabetta: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo” (v. 42).

Non è un caso che il canto del Magnificat inizi con una celebrazione delle grandezze che Dio ha operato in Maria, e termini proprio con quelle che Dio ha compiuto in Abramo: “come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre” (v. 55). Le promesse fatte ai padri e ad Abramo si stanno ora compiendo in Maria, quelle promesse che Maria celebra in se stessa. Il cammino di Abramo verso quella terra che Dio aveva promesso a lui e alla sua discendenza, termina ora in Maria, che raccoglie il testimone di quelle promesse e, parimenti ad Abramo, ella riprenderà il cammino di Abramo, assieme al suo figlio Gesù, verso la meta del Golgota, dove il Gesù dell'evangelista Giovanni proclamerà che tutto è compiuto (Gv 19,30).

Il v. 40 scandisce due nuovi movimenti di Maria: “Entrata nella casa di Zaccaria” e “salutò Elisabetta”. Il termine casa, in greco, viene reso con due sostantivi: “oîkos e “oikia”. Il primo indica la casa quale luogo fisico di abitazione; il secondo ha un'accezione figurata ed indica la casa intesa come famiglia, abitanti, familiari, razza, discendenza, casato, stirpe. Nel nostro caso Luca usa il primo termine, “oîkos”, il luogo della dimora di Zaccaria, appartenente alla classe sacerdotale. Zaccaria e la sua casa, quindi, diventano figura dell'antico culto giudaico, giunto ormai al suo pieno compimento. È qui che Zaccaria dimora ed è qui che Maria, la quale porta in se stessa l'erede della Promessa, il vero Agnello di Dio, che va a sostituire gli innumerevoli quanto inefficaci sacrifici di animali; entra, quasi ad assumere in se stessa, sostituendolo efficacemente, l'intero culto giudaico.  In questo contesto, il saluto di Maria rivolto ad Elisabetta va ben oltre ad un semplice atto di buon galateo, per assumere la valenza di un annuncio: Maria è colei che porta in se stessa l'Atteso dalle genti. A confermarlo sarà la risposta di Elisabetta e il cantico delle due donne, che duettano tra loro le meraviglie di Dio, che si stanno compiendo in esse.

Il canto di esultanza di Elisabetta va compreso come una sorta di celebrazione liturgica. Lo suggerisce il contesto: quel suo essere ripiena dello Spirito Santo, quel suo gridare a gran voce, il sussulto del bambino nel suo seno, assimilabile ad una sorta di danza gioiosa, lo stesso saluto, che si conclude con una beatitudine. È questo ciò che sta avvenendo nella casa di Zaccaria, che completerà questo grido di esultanza di Elisabetta con il canto del Benedictus, in cui al “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo” di Elisabetta, farà da eco il “Benedetto il Signore Dio d'Israele, poiché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo” (vv. 68-69).

 

 

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Mercoledì, 11 Dicembre 2024 05:46

3a Domenica di Avvento (C)

(Lc 3,10-18)

Luca 3:10 Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?».

Luca 3:11 Rispondeva: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».

Luca 3:12 Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: «Maestro, che dobbiamo fare?».

Luca 3:13 Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».

Luca 3:14 Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi che dobbiamo fare?». Rispose: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe».

Luca 3:15 Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo,

Luca 3:16 Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.

Luca 3:17 Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile».

 

«Che cosa dobbiamo fare?» (chiedono le folle) … «Maestro, che dobbiamo fare?» (chiedono i pubblicani).... «E noi che dobbiamo fare?» (chiedono i soldati). Il tema di fondo su cui vertono le domande è l’amore considerato nella sua quotidianità e fatto di piccoli atti concreti che vanno dalla condivisione dei propri beni al rispetto delle persone, della loro dignità e dei loro diritti; dall’onestà e correttezza nei rapporti sociali al porre freno alla propria cupidigia, ingordigia e all’arrivismo sociale, che portano inevitabilmente alla sopraffazione e al calpestamento degli altri. Luca pone come parametro di raffronto della sincerità della propria conversione l’etica dell’amore.

«Poiché il popolo era in attesa ...». Il v. 15 introduce il tema delle identità di Giovanni e di Gesù e del senso delle loro missioni. Il popolo, qualificato dall’attesa, è Israele, che da secoli attendeva la venuta di un Messia liberatore e restauratore del proprio regno. Se da un lato l’attesa era propria di Israele, dall’altro l’interrogarsi sull’identità di Giovanni appartiene all’intera umanità. L’attesa del Messia spinge tutti a interrogarsi e ad interpretare i segni dei tempi. La ricerca di Dio non è un semplice fatto privato e benché possa coinvolgere intimamente ogni uomo, deve poi sfociare in un confronto con la fede altrui, poiché il cammino della salvezza è sempre un cammino comunitario.

«Giovanni rispose a tutti dicendo»: la risposta che qui Giovanni dà è rivolta a “tutti”, cioè a coloro che “si domandavano”. Non a tutti indistintamente, ma a coloro che cercano Dio nella loro vita. Il punto di partenza di ogni ricerca è l’interrogarsi sul senso della propria vita e l’interrogare la Parola di Dio, da cui esce la risposta chiarificatrice. Questo è ciò che deve qualificare il tempo dell’attesa.

«Io vi battezzo con acqua, ma ...». Il v. 16 riguarda il confronto personale tra Giovanni e Gesù. Le grandezze dei due personaggi e delle epoche che essi in qualche modo incarnano, sono definite dalle espressioni:

"... è più forte di me";

"... non sono degno di sciogliere il legaccio dei sandali".

Il confronto tra Giovanni e Gesù non viene posto sul piano fisico, ma in senso squisitamente morale, anzi, ontologico, e sottolinea la primarietà assoluta di colui che viene. Il termine “ischiroteros” (più forte), esprime una netta superiorità vincente di Gesù sul Battista, al punto tale che questi dichiarerà di non essere neppure degno "di sciogliere il legaccio dei sandali", compito questo riservato agli schiavi. Tuttavia il rapporto tra i due non è paragonabile neppure a quello tra padrone e schiavo. Infatti, mentre ciò che distanzia il padrone dallo schiavo è soltanto la posizione sociale dell'uno verso l'altro, qui la distanza si pone su di un piano ontologico. La diversità sostanziale dei due personaggi, e la distanza che li separa, vengono rilevate dalla sostanziale diversità dei due battesimi: "Io vi battezzo con acqua ... costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco".

Notiamo come il nome di Gesù, con cui Giovanni si confronta, non viene mai fatto, ma a lui si fa riferimento attraverso due espressioni: “è più forte di me” e “non sono degno di sciogliere il legaccio dei sandali”. L’alone di mistero e di inconoscibilità che circonda il misterioso innominato ci rimanda al mistero stesso di Dio, conoscibile dal suo operare, ma irraggiungibile nel suo Nome, che rivela l’essenza stessa del suo Essere.

L’azione del battezzare di Giovanni è posta nel presente, che è il tempo proprio in cui egli opera, cioè quello veterotestamentario; un tempo che trova in lui il suo compimento e la sua conclusione. La sua azione pertanto è il preannuncio di un’altra azione che si pone nel futuro e che richiama l’agire ultimo e definitivo di Dio. Per questo Luca dice “costui vi battezzerà”, perché il futuro è lo spazio di Dio. È il confronto quindi di due tempi: l’uno preparatorio (A.T.) all’altro (N.T.), l’uno che confluisce e trova la sua pienezza nell’altro. Il primo tempo (A.T.) è caratterizzato dall’acqua, il secondo (N.T.) dallo Spirito Santo e dal fuoco.

La figura di Gesù è caratterizzata da due verbi, uno posto al presente (“viene uno”), l’altro al futuro (“costui vi battezzerà”). Il presente indicativo “viene” dice il dinamismo di una costante presenza operante in mezzo agli uomini. Questa tuttavia non si esaurisce nel presente, ma si proietta verso il futuro. L'azione del suo venire è quindi proiettata dinamicamente in avanti, quasi a significare come l'evento Gesù, con il suo venire, apre già nel presente uno spazio futuro, o per meglio dire, l'agire di Gesù è un futuro che già opera nel presente.

È significativo poi come Luca giochi sul termine “battezzare con”: Giovanni battezza con acqua; mentre quando parla del futuro battesimo, l’espressione greca dice: “vi battezzerà in (nello) Spirito Santo e fuoco”. La differenza è sostanziale. Nel primo caso l’acqua è soltanto uno strumento simbolico, che pur predicando il futuro dello Spirito, tuttavia non produce nessun effetto; mentre nel secondo caso vi è un’azione divina diretta che colloca l’uomo nel mondo dello Spirito, che è la dimensione stessa di Dio.

L’azione battezzatoria di Gesù oltre che dallo Spirito Santo è caratterizzata anche dal fuoco. Il suo battezzare, pertanto, non è soltanto la porta che introduce l'uomo nella dimensione ultima e definitiva di Dio, ma anche lo sottopone, conseguentemente, al suo giudizio. L'ultimo tempo, pertanto, è segnato da due elementi fondamentali: a) la venuta di Dio in mezzo agli uomini e operante nella persona in Gesù, definito come colui che costantemente viene, e interpella direttamente ogni uomo; b) il giudizio, che discrimina l'umanità in base alla risposta data.

Il giudizio pertanto si sta compiendo e il parametro di discriminazione è proprio lo Spirito Santo, che è stato effuso su di noi nel battesimo e nella cresima. Esso ci ha già collocati nella dimensione divina, ci ha già resi santi e ci chiede ora di conformare le nostre vite a tali realtà spirituali in cui già viviamo anche se non ancora pienamente. Se ci conformiamo al vento dello Spirito esso ci rende grano degno per il Signore, diversamente Esso diventerà fuoco bruciante che ci divora come pula per l’eternità.

 

 

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Lunedì, 02 Dicembre 2024 13:31

Immacolata Concezione della B.V. Maria

(Gen 3,9-15.20)

Genesi 3:9 Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?».

Genesi 3:10 Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».

Genesi 3:11 Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».

Genesi 3:12 Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato».

Genesi 3:13 Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

Genesi 3:14 Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.

Genesi 3:15 Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».

Genesi 3:20 L'uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi.

 

«Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: Dove sei?». La voce di Dio oramai passa attraverso un cuore indurito dal peccato, che l'accoglie nel timore. Chi ha rinnegato l'Amore non crede più nell'Amore e ha bisogno di crearsi una difesa, una barriera. E questa barriera è in una coscienza che, apertasi alla conoscenza del bene e del male, filtra attraverso di essa la Parola di Dio. Adamo non accetta un confronto con Dio nella nudità che gli viene dal peccato, a viso aperto e a carte scoperte. Risponde a una certa distanza e, soprattutto, tenendosi ben nascosto in mezzo all'albero della conoscenza del bene e del male.

Bastano poche foglie per celare la propria nudità al proprio simile, ci vuole ben altro per nascondere la propria miseria all'Autore della vita! E perché questo, se non perché teme di essere punito da Dio? Non coglie più l'Amore del Signore. Non c'è ancora il giudizio e la condanna, ma soltanto lo sguardo amoroso di un Padre che ha perso di vista i suoi figli e li chiama a voce alta, per vedere dove sono, se hanno bisogno del suo aiuto. Non chiede loro, in tono minaccioso, che cosa hanno fatto, ma semplicemente dove sono andati a finire.

Ma ormai il cuore di Adamo è lontano dal Signore, non ne ode più distintamente la Parola, ma soltanto la voce, e la sente minacciosa. Risponde a Dio, ma dal suo nascondiglio, non come chi è cercato, ma come chi è ricercato. Si difende prima ancora di essere incolpato.

«Rispose: Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Prima del peccato sentiva la Parola di Dio e non ne aveva paura, era nudo e non si nascondeva. Ora tutto è cambiato: non avverte più l'Amore di Dio e non accetta più la sua realtà di essere nudo, cioè creato dal nulla e rivestito da Dio. Il Signore vorrebbe fargli riconoscere la sua colpa e fargli confessare la propria disobbedienza, per prendersi cura di lui.

Non è stato Dio a far pesare ad Adamo la sua nudità: è stata la sua disobbedienza che gli ha reso insopportabile il proprio essere creato dal nulla e lo ha spinto a nascondersi, nell'illusione di potersi rivestire di un abito proprio, acquistando la conoscenza del bene e del male.

«Rispose l'uomo: La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Adamo, non solo scarica tutta la colpa su Eva, ma, addirittura, rinfaccia a Dio il dono più bello. Adamo non si ravvede e non si pente, ma accusa il Signore di essere responsabile del suo male. Presso Dio le azioni sono sempre della persona. La responsabilità è sempre personale. La tentazione non ci libera dalla nostra personale responsabilità. Nel peccato si è però ciechi anche in ordine alla nostra personale responsabilità e la si vuole far ricadere tutta sugli altri.

«Il Signore Dio disse alla donna: Che hai fatto? Rispose la donna: Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Poteva esserci un atteggiamento diverso in colei che formava con Adamo una sola carne? È questa la differenza tra il peccatore e il santo. Il peccatore scusa sempre i suoi peccati. Allontana sempre da sé ogni responsabilità. Il santo invece sa assumersi la responsabilità anche del più piccolo peccato veniale. Per il santo la colpa di ciò che avviene è sempre sua, mai degli altri. 

Chi ha costretto Eva ad ascoltare la voce del serpente? Manca solo che Eva accusi Dio di aver creato il serpente. In questo tragico gioco di Adamo ed Eva che fanno a gara non nel riconoscere la propria colpa, ma nello scaricare la propria colpa, il serpente è l'anello finale, che impedisce all'uomo di rompere il legame con il peccato. Non ci potrà essere riscatto per Adamo, se prima non verrà distrutto il potere che ha il satana di tenere legati a sé tutti gli uomini.

Infatti, Dio non maledice l'uomo, ma chi è padre di ogni peccato (v. 14). Colui che ha innalzato il suo capo di ribelle e di rinnegato per sedurre l'uomo, d'ora in poi striscerà sul suo ventre; colui che ha voluto divorare le creature della terra, d'ora in poi divorerà la terra calpestata dalle sue creature. Ma con la condanna del satana è già l'annuncio della salvezza per l'uomo.

«Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». Sarà spezzato il peccato che lega l’accusatore alla donna, ci sarà inimicizia tra i figli del Diavolo e i figli di Eva. E tutto ciò non in virtù della donna, ma in virtù di una donna, non in virtù dei figli, ma di un Figlio. Secondo il contesto grammaticale immediato ci si riferisce ad Eva, ma il contesto logico e profetico l'impediscono. Infatti, qui si tratta di una inimicizia che culmina con lo schiacciamento del serpente, cioè del satàn e di tutte le potenze del male. E questo non si può dire di Eva, la quale non solo è soggetta alla controparte per ragione del suo peccato, ma è soggetta al suo stesso marito. La profezia si stacca da tutto il contesto immediato, e perciò indica un'altra donna, che è ben nota nella mente di Dio. Qui tutto è rivolto al futuro. Ci si riferisce alla madre di Gesù. L'umanità, la stirpe (il seme) della donna vincerà l'avversario attraverso un suo rappresentante individuale: il Redentore, cioè il “seme” di lei - di Maria - che è il Cristo.

L’atto di “schiacciare la testa” è attribuito, nel testo ebraico, alla stirpe o seme della donna (“hu” = “esso); nella traduzione greca dei “Settanta” viene attribuito a una singola persona (“autòs” = “egli”); e nella versione latina della “Volgata”, alla donna (“ipsa”= “ella”). Pertanto, su queste sfumature, è stato letto il testo ebraico come uno scontro tra il seme del serpente e quel discendente perfetto della donna che sarà il Messia. Costui saprà schiacciare per sempre la testa del male.

Nella ‘lettura cristiana’, poi, si è pensato, che a “schiacciare” la testa del serpente, e della sua discendenza malvagia, sia la “Donna” per eccellenza, cioè la Madre del Messia e quindi la Vergine Maria, Madre di Gesù Cristo.
Come il peccato ha avuto inizio da una donna, così la salvezza avrà il suo inizio con una donna. Colui che ha fatto perdere la testa ad Eva, perderà la sua testa schiacciata dal Figlio di una  donna, Maria Santissima. Potrà solo tendere insidie al suo calcagno, ma non al suo cuore a alla sua volontà: potrà intralciare il cammino della salvezza, ma non prevaricare su di esso. 

 

 

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Lunedì, 25 Novembre 2024 21:22

1a Domenica di Avvento (C)

(1 Ts 3,12 - 4,2)

1Tessalonicesi 3:12 Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell'amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi,

1Tessalonicesi 3:13 per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.

 

«Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell'amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi».

 

Paolo rivolge una richiesta al Kyrios, parola che si riferisce a Gesù. Il contenuto della preghiera riguarda la crescita piena e abbondante dell’amore sia nei rapporti reciproci all’interno della comunità, e sia al di fuori nei confronti di tutti; solo un amore 'a tutto campo' permette di andare serenamente incontro al Signore. Paolo non prega per un amore appena sufficiente, ma per un amore abbondante, perché poco amore non è ancora amore.

In questa preghiera, in realtà assai semplice, sono contenute diverse verità. Il Signore deve far sì che i tessalonicesi crescano nell’amore. L’amore non è una realtà statica, è dinamica. È come un albero che inizia la sua vita come un piccolissimo fuscello d’erba e poi diviene una pianta alta, robusta, che estende i suoi rami in ogni direzione. Paolo vuole per i tessalonicesi che il loro amore cresca, che non resti piccolo, rachitico, insignificante, quasi invisibile.

Ogni cristiano ha il dovere di crescere nell'amore, perché questa è la sua vocazione. La crescita poi deve essere visibile, non solo presso il Signore, ma anche presso gli uomini. Man mano che l’amore cresce, crescono anche i frutti. Paolo vuole che non ci siano tempi morti nell’amore, sia quanto alla crescita, sia quanto alla fruttificazione. Anche questo è un impegno che il cristiano si deve assumere. Mai si deve stancare nel produrre frutti di amore. Solo così sarà credibile nel suo essere cristiano. Crescere e abbondare nell’amore è il segno distintivo del cristiano. Senza questo segno nessuno crederà nella sua testimonianza.

Altra caratteristica dell’amore cristiano è questa: esso è rivolto verso tutti. L’amore, il cristiano, lo dona non solo a quelli che credono, ma anche a quelli che non credono. Nell’amore non fa distinzione. Tutti sono oggetto del suo amore, perché tutti sono oggetto della salvezza da parte di Dio.

Infine, ed è l’ultima verità contenuta in questa preghiera, Paolo mette davanti ai tessalonicesi il suo proprio amore. Quello loro deve essere come il suo. Come lui ama i tessalonicesi, così loro devono amarsi e devono amare. Il suo è un amore di verità, di giustizia, di affetto, di devozione, di sofferenza, di volontà di salvezza, di dono del vangelo, di pazienza, di misericordia, di sopportazione, e di ogni altra virtù.

 

«Per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi».

 

La richiesta riguarda il rafforzamento dei credenti nella loro sfera personale e profonda: «per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità». Irreprensibile significa essere integro, è l’integrità richiesta per «stare davanti a Dio Padre nostro». L’amore salda il nostro cuore con quello di Cristo e lo fa essere un solo cuore. Più si cresce e si abbonda nell’amore, più il cuore di Cristo e il nostro diventano un solo cuore. Ma se si diventa un solo cuore con Cristo, si diventa anche una sola missione, un solo sacrificio, una sola adorazione e glorificazione del Padre. Paolo vede nell’amore la via della santità e della perseveranza. Chi vuole progredire, chi non vuole retrocedere dalla fede in Cristo, deve crescere e abbondare nell’amore, deve fare della sua vita un sacrificio di amore, una oblazione pura e santa per il nostro Dio e Padre.

Chi non ama, cade, si perde, non ha forza, perché il nutrimento della fede è l’amore, come anche della verità, della giustizia, della santità, di ogni altra virtù. Chi ama veramente nutre il suo spirito. Il suo spirito alimentato dall’amore diventa robusto, forte, irreprensibile, invincibile. Nessuno potrà mai vincere un cuore che ama, perché l’amore sarà in lui l’elemento che dona ogni fortezza alla sua volontà perché perseveri sino alla fine.

«Al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi». Qui abbiamo un orientamento escatologico. La venuta del Signore Gesù dobbiamo sempre averla all’orizzonte. «Con tutti i suoi santi» è una frase presa dal profeta Zaccaria (Zc 14,5): «Verrà allora il Signore mio Dio e con lui tutti i suoi santi». Nel testo di Zaccaria, i santi – in ebraico qedoshim – possono essere sia gli angeli che assistono il Signore, oppure i giusti risuscitati. Paolo, quando usa la parola santi nelle sue lettere – hagioi – al plurale, indica i cristiani.

Ci sembra dunque probabile che Paolo intenda parlare degli uni e degli altri, perché gli uni e gli altri formeranno la corte del Giudice divino, e anche i santi giudicheranno il mondo. In altre parole, i cristiani vivono nell’attesa del Signore Gesù, che viene non solo con i suoi angeli, ma anche circondato da tutti i giusti risorti che sono associati alla sua gloria. L'augurio dell'apostolo è che i tessalonicesi siano sempre santi, in modo da poter un giorno dividere con gli altri santi la gloria di accompagnare il Giudice supremo nel giudizio che verrà a pronunciare sul mondo.

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

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Lunedì, 18 Novembre 2024 20:40

N.S. Gesù Cristo, Re dell'universo

Ap 1,5-8

Apocalisse 1:5 e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.

A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue,

 

Gesù Cristo è presentato con tre titoli che ne evidenziano il suo ruolo salvifico: il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra. Questi tre titoli che gli sono attribuiti, prendono in considerazione i momenti principali della sua vita: la passione (il testimone fedele); la risurrezione (il primogenito dei morti); la glorificazione (principe dei re della terra).

Gesù Cristo è innanzitutto «il testimone fedele» perché ha portato a compimento la missione che gli era stata affidata nella storia degli uomini, condividendo la condizione umana. Egli è il testimone fedele perché ha sostenuto la sua testimonianza fino alla morte. È il testimone fedele della volontà del Padre. È il testimone fedele perché ha compiuto pienamente, in ogni cosa, sempre, le parole e le opere del Padre. È talmente fedele al Padre, che è lo stesso Padre che opera e parla per mezzo di Lui.

Parla Lui ed è come se parlasse il Padre. Opera Lui ed è come se operasse il Padre. Chi vuole conoscere veramente il Padre, lo può solo per mezzo di Gesù Cristo. Nessun altro uomo al mondo potrà dirsi testimone vero di Dio. La suprema testimonianza al Padre, Gesù la rese dinanzi a Ponzio Pilato: testimonianza ufficiale, formale, in un tribunale, durante un interrogatorio, al prezzo della sua stessa vita. Dalla fine del primo secolo verrà denominato "martire" [in greco "testimone" è "màrtys"] il cristiano che si lascia uccidere per non tradire la propria fede in Gesù. 

«Il primogenito dei morti». Gesù Cristo è il primogenito dei morti in quanto ha condiviso la sorte mortale degli uomini e ha dato origine alla nuova generazione dei viventi, poiché ha trionfato sulla morte ed è risorto alla vita eterna con il corpo trasfigurato. Egli è anche il primogenito dei morti perché tutti risusciteremo in Lui e per Lui. Egli è il primogenito dei morti perché sarà Lui a chiamarci dal sepolcro e a rivestirci della sua risurrezione. Egli è primogenito dei morti perché ci ha preceduti nella gloria del Padre e ci attende perché dove è Lui siamo anche noi.

«E il principe dei re della terra», cioè sovrano dominatore di tutte le potenze che continuano ad operare nel mondo e nella storia. Con queste parole viene proclamata la regalità universale di Gesù Cristo. Lui non è re e principe in quanto Dio. In quanto Dio è Creatore e Signore di ogni uomo, ogni cosa è stata fatta per mezzo di Lui, ogni cosa è sua. Gesù è il principe dei re della terra, perché nella sua umanità è stato costituito giudice dei vivi e dei morti.

Essendo Lui il Sovrano dei sovrani e il Re di tutti i re, ogni governante un giorno dovrà presentarsi al suo cospetto per rendere ragione di come ha amministrato la giustizia. Ma anche oggi, nel tempo della storia, egli vigila attentamente. Modi e forme di questa vigilanza di Gesù Cristo sono avvolti dal mistero. Solo quando i veli della storia saranno passati e si aprirà il sipario dell'eternità, vedremo ogni azione di Dio e di Cristo a favore della nostra salvezza e della redenzione dell'umanità. Ora però è il tempo della fede e dobbiamo credere che Gesù è il Principe dei re della terra, è il Signore di ogni altro signore, è il Sovrano di ogni altro sovrano.

L'Apocalisse parla della maestà di Gesù glorificato e del suo potere universale non solo per esprimere una realtà di fede, ma anche per trasmettere alla chiesa perseguitata che Cristo è il Re di tutti i re della terra: per questo la chiesa deve rimanere fiduciosa durante le persecuzioni e perseverante nella lode. A Lui sempre dobbiamo rivolgerci perché porti la consolazione del suo amore e della sua grazia contro ogni tirannia e abuso di potere che tanto male arrecano agli uomini.

Chi è ancora Gesù? È «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue». Questa è una dossologia [dal greco doxologia = gloria, esaltazione; è una formula liturgica per glorificare Dio, o Cristo, o la SS. Trinità]. Con queste parole viene annunciato tutto il mistero dell'amore di Cristo per l'uomo. Gesù è definito "Colui che ci ama": in greco "tō agapōnti hēmas". Il verbo "agapaō" significa "aver caro" qualcuno; da qui la parola "carità" (agàpē). L'amore di Gesù per l'uomo è a prezzo del suo sangue. Il suo amore per noi è liberazione dai nostri peccati operata sulla croce, a prezzo di una morte atroce.

Il suo sangue è il prezzo della remissione dei nostri peccati. L'immagine richiama l'agnello il cui sangue steso sugli stipiti delle porte salvò gli ebrei. Dio salva oggi la sua chiesa così come aveva salvato gli ebrei dalla schiavitù: con il sangue dell'agnello. Gesù viene così riportato dall'Apocalisse al Patto del Sinai, al primo gesto di salvezza operato da Dio (la liberazione dalla schiavitù d'Egitto), ma che oggi libera dalla schiavitù del peccato. L'espressione «Colui che ci ama» è al presente. Il tempo presente indica che l'amore di Cristo è perpetuo; è una corrente continua di grande amore che intercorre tra lui e noi. L'Apocalisse è anche il libro che insegna ai discepoli di Gesù questo amore. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Sal 15 (16)

«Miktam. Di Davide. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio». Miktām è una parola discussa. Deriva da “katam” (incidere, intagliare). La parola indica qualcosa che è stato scolpito e quindi una scrittura permanente, scolpita per la sua importanza. La Bibbia dei LXX traduce “stēlographia”, una scrittura incisa; stēlē era la parola per pietra tombale (per l’iscrizione scolpita su di essa). Perciò “miktām” indica che questo tipo di Salmi sono collegati con la morte, ma vanno verso la speranza della risurrezione. Questo è particolarmente vero del Salmo 15; comunque quello che d’importante è “scolpito” in questi Salmi, va ricavato dalla lettura del Salmo stesso. Il riferimento è al Figlio di Davide; e specialmente alla sua morte e risurrezione; questa è la verità “scolpita” in questo Salmo miktām.

È un salmo di fiducia, la preghiera in cui un giusto esprime la propria fiducia nel Signore. A Dio si chiede protezione. In Dio ci si vuole rifugiare: Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio. Il giusto si rifugia in Dio, e gli chiede protezione.

Notiamo il duplice movimento: a) da una parte Dio protegge il fedele (movimento discendente); b) dall'altra, il fedele si affida totalmente a Dio (movimento ascendente). Questo salmo, potremmo quasi dire, ci descrive il concetto dei Sacramenti: il punto di incontro tra la grazia di Dio che scende (quindi il Signore che opera) e l'uomo che attinge alla grazia e rende culto al Signore.

Il v. 2 è una bellissima professione di fede: “Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene”. Ecco la fede del giusto, del timorato di Dio. Dio è il Suo Signore. Nessun altro è il suo Signore. Se Dio è il suo Signore, vuol dire che lui camminerà sempre secondo la volontà del suo Dio e Signore. ‘Senza di te non ho alcun bene’. Dio che ci ha dato la vita non è solo la fonte dalla quale proviene il bene, ma è "il bene". Questa è vera professione di fede, non è solo una fede pensata, ma testimoniata anche alla comunità, è una professione pubblica. D’altronde la fede deve essere pubblica, dovrà sempre essere proclamata dinanzi a tutti, sempre.

“Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore” (v. 3). I "santi" e i "nobili" sono le persone con cui si accompagna il giusto. Egli riconosce il valore che si trova nella comunione con i santi, con coloro che Dio ha messo a parte, e in cui si riflette la Sua santità. La nuova traduzione CEI (quella del 2008), traduce: “agli idoli del paese, agli dèi potenti andava tutto il mio favore”, rendendo del tutto incomprensibile il testo che già in ebraico è difficile. È difficile comprendere come l'ebraico “qeḏôšîm” possa essere tradotto “idoli” invece che “santi”. La traduzione dei LXX e della Volgata avevano fatto una scelta ben chiara, ed è quella emersa nella traduzione del 1974: “Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore”.

Nel v. 4 la professione di fede è fatta al contrario. Il pio adoratore si impegna a non favorire il culto idolatrico. “Io non spanderò le loro libazioni di sangue”. Una delle caratteristiche dell'idolatria era la "libazione di sangue", che poteva riferirsi anche al sacrificio umano, soprattutto di bambini. “Né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. La distanza deve essere netta. Con gli idoli non si deve avere alcuna comunione, di nessun genere. Neanche il loro nome deve essere pronunciato. Sulla bocca del vero adoratore ci deve essere solo il nome del suo Dio. Gli idoli non meritano l'onore di essere nominati. Oggi, potremmo dire, il giusto evita di partecipare a un falso culto.

“Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (v. 5). Qui ci sono dei simboli sacerdotali. Sappiamo che nella spartizione della terra di Canaan, dopo la conquista, la tribù di Levi non ebbe un suo territorio specifico ma solo delle città di residenza. Chi era consacrato al culto non doveva essere impegnato nelle strutture sociali ma doveva fare da intermediario tra Dio e il popolo. La terra dei sacerdoti era Dio stesso e questo concretamente significava il diritto di ricevere le decime offerte dalle tribù per il proprio sostentamento. Il salmista, quindi, attraverso delle immagini esprime questa dedizione del sacerdote al suo Dio.

1.  Il Signore è per lui “parte di eredità” cioè “parte di un territorio”. 

2.  Il Signore  è per lui il suo “calice”, cioè il suo ospite, il suo familiare che lo accoglie.

Il "calice" è segno dell'ospitalità di Dio al suo fedele. È Dio che porge il calice, così come - dal punto di vista strettamente umano - è colui che riceve in casa propria che offre all'ospite il calice. Nell'ultima cena chi offre il calice? È Gesù il padrone di casa, è l'ospite inteso alla latina (per i romani, infatti, l'ospite è colui che ospita e non colui che viene ospitato).

Per l'uomo giusto e pio, il Signore è la sua parte di eredità e il suo calice. Non è la terra l’eredità del giusto e neanche le cose di questo mondo. Sua eredità è solo il Signore. Solo il Signore è il suo calice di salvezza, di vita vera. Quest’uomo non si attende nulla dalla terra. È il Signore, nel presente e nel futuro, la sua vita, il suo benessere, la sua prosperità, per questo la pone nelle mani del suo Dio. Questo è abbandono totale. Lui vuole essere solo di Dio, sempre nelle sue mani. 

 

 

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Lunedì, 04 Novembre 2024 19:39

32a Domenica del Tempo Ordinario (B)

Mc 12,38-44

Marco 12:38 Diceva loro mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze,

Marco 12:39 avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.

Marco 12:40 Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave».

 

Marco 12:41 E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte.

Marco 12:42 Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.

Marco 12:43 Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.

Marco 12:44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

 

Il v. 38 si apre ricordando al lettore che si è in un contesto di insegnamento, rilevando nel contempo il clima di tensione che lo anima. Un insegnamento che trae spunto dal modo contraddittorio di vivere degli scribi, che amano pavoneggiarsi in pubblico e presentarsi come gente perbene, ma in realtà sono persone prive di scrupoli morali, che si mascherano dietro una vita pubblica religiosa, manifestando in tal modo tutti i danni che può creare la devozione non vissuta nello spirito e nella sincerità del cuore. Un simile comportamento è caratterizzato da una sostanziale amoralità, in cui l'ego vive e si alimenta a spese dell'altro, soprattutto nei confronti di chi non si sa difendere o non ne ha i mezzi per farlo. Per questo, il tutto diventa ancor più deprecabile e condannabile.

Il v. 40 racconta come gli scribi fossero dei divoratori di case delle vedove. Un pensiero questo che serve a Marco per agganciarsi con l'altro racconto (vv. 41-44), dove c'è come protagonista una vedova, la quale saprà impartire, nonostante la sua precaria condizione di vita, una lezione di totale abnegazione di sé in favore del Tempio, in ultima analisi di Dio stesso.

Due comportamenti contrapposti, narrativamente infilati uno dietro l'altro, perché meglio risalti il contrasto tra predatori e prede e tra ricchi e poveri. Un confronto da cui emerge come le offerte fatte dai donatori benestanti non vanno ad intaccare il loro patrimonio e comunque non incidono sulla qualità della loro vita, anzi ne traggono un pubblico vantaggio, perché tutti vengono a sapere della loro “generosa” offerta. Contrariamente, la vedova, dà tutto ciò che ha e nulla trattiene per se stessa.

Il v. 41 apre il racconto sulla vedova presentando Gesù che, seduto di fronte alla tesoreria del Tempio, stava osservando quelli che portavano le loro offerte. Il sedersi di Gesù in questo contesto assume un duplice significato: da un lato, egli sta continuando il suo insegnamento. Il sedersi, infatti, è la caratteristica posizione del maestro che impartisce il suo insegnamento; dall'altro, la posizione di Gesù, seduto davanti alla tesoreria del Tempio, mentre osserva attentamente quelli che compiono la loro offerta, lascia trasparire la postura propria del giudice che si pone di fronte all'imputato o al ricorrente e ne valuta la posizione, per poi emettere la sua sentenza, esposta ai vv. 43-44, ma che nel contempo è anche insegnamento ai suoi discepoli.

Il v. 42 presenta il personaggio principale, una vedova, che Marco definisce povera. Un aggettivo qualificativo che lascia trasparire la condizione sociale di questa vedova, una delle categorie sociali  più a rischio in quella società, e più esposte alle angherie e ai soprusi. La sua offerta, solo due spiccioli, testimonia il suo stato di indigenza. Tale offerta è equiparabile a pochi centesimi, ma rappresentava tutto il suo avere, a cui era legata la sua esistenza e poteva costituire la differenza tra il vivere e il morire. Ed è a tal punto che il giudice e maestro convoca attorno a sé i suoi discepoli (v. 43) per impartire il suo insegnamento ed emettere nel contempo la sua sentenza: “questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri”. Una sentenza che vede contrapposte due parti: questa povera vedova, nella parte vincente, contro tutti gli altri offerenti, soccombenti.

Un rovesciamento di valori e di prospettiva, di cui viene data la motivazione: “tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. La valutazione, quindi, non è posta sul valore venale dell'offerta, ma su quanto questa ha a che vedere con la sincerità del proprio cuore e della propria vita. Ciò che assegna valore o disvalore alle cose è ciò che risiede nel cuore dell'uomo e non nelle cose. La sentenza capovolge i parametri di valutazione degli uomini, mostrando tutta la distanza che li separa da quelle di Dio, fino a giungere al paradosso: il niente che questa povera donna ha dato sopravanza di gran lunga le cospicue offerte dei ricchi.

E il motivo di questo paradosso sta nel fatto che “essa invece, nella sua povertà, vi ha meso tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Questa vedova trasse tutto quello che aveva “nella sua povertà”, o meglio “dalla sua povertà” (ek tēs histerēseōs autēs). In altri termini, il suo stato di privazione non le impedì di raschiare il fondo della sua povertà, raccogliendo tutto quello che aveva, due monetine, che definiscono ancor prima che il valore dell'offerta, lo spessore del suo stato di penuria. Non si tratta, dunque, di una indigenza qualsiasi, come tanta ve n'era a quel tempo, ma di un grave stato di povertà, che metteva in discussione la sua stessa sopravvivenza. In ultima analisi, questa vedova, gravemente indigente, tra se stessa e Dio ha anteposto Dio alla sua stessa vita.

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Lunedì, 28 Ottobre 2024 22:27

31a Domenica del Tempo Ordinario (B)

Sal 17 (18)

Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.

Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.

Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo  baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.

La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.

Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.

L’arma  vincente  di  Davide  è la  fede  che si  trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco  cosa  fa  Davide:  nell’angoscia  non  si  perde,  non  si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.

Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei  monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.

Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.

«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.

«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.

«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.

«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.

Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.

 

 

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Martedì, 22 Ottobre 2024 21:08

30a Domenica del Tempo Ordinario (B)

(Mc 10,46-52)

Marco 10:46 E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.

Marco 10:47 Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».

Marco 10:48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

 

Marco 10:49 Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».

Marco 10:50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.

 

Il v. 46 incornicia la scena dell'incontro tra Gesù e Timeo, un nome contratto che doveva essere “Timoteo”, cioè “colui che onora Dio”. Si tratta di un nome greco dato a un giudeo, che dice quanto profonda sia stata l'ellenizzazione della Palestina.

Lo stesso verso si apre con una nota geografica: la comitiva di Gesù con i suoi discepoli e la folla, entra in Gerico e ne esce subito. Un modo strano di comportarsi, poiché Gerico, in quanto ultima stazione prima della lunga salita a Gerusalemme, era in genere un luogo di soggiorno dove riposarsi e rifocillarsi prima di salire a Gerusalemme. Una città molto affollata e rumorosa se si pensa al via vai di sacerdoti e leviti che salivano e scendevano da Gerusalemme per il servizio al Tempio o che si davano il cambio settimanale nel servizio. Una città dove confluivano i pellegrini che salivano o discendevano da Gerusalemme. Città, quindi, molto trafficata, ricca, sontuosa, benestante e ospitale, ma Marco sottolinea in apertura del suo racconto come Gesù vi entri e vi esca subito, imprimendo in tal modo al cammino di Gesù verso Gerusalemme una forte accelerazione, lasciandosi alle spalle un mondo che non appartiene né a lui né a quanti hanno deciso di seguirlo. Ma è proprio su questa strada che si trova un cieco, Timeo, che “sedeva lungo la strada”.

Il verbo “sedere” è posto all'imperfetto, un tempo che indica la persistenza di quell'essere seduto del cieco, che pur trovandosi sulla stessa strada di Gesù, quella che porta a Gerusalemme, di fatto non lo seguiva, perché “sedeva”. Ma è proprio su questa strada che avviene l'incontro risolutore.

Il v. 47 presenta due titoli di Gesù, il primo dei quali è quello per cui era conosciuto dalla gente: Gesù Nazareno, un Gesù conosciuto per le sue origini storiche e la sua provenienza geografica. Ma in Israele si era venuta a formare una lunga tradizione, che stimolava le attese, le speranze e le fantasie attorno alla mitica figura del Messia davidico. Si trattava però di riconoscerlo e di aderirvi esistenzialmente, ritenendo in tal modo adempiuta in Gesù la promessa, che Dio fece a Davide per mezzo del profeta Natan. Ed è ciò che farà il cieco di Gerico.

Infatti Timeo, saputo di Gesù in cammino sulla strada per Gerusalemme, non esitò a invocarlo come il Messia davidico: “cominciò a gridare e a dire” e, quindi, a dare apertamente la sua testimonianza di fede nel messianismo di Gesù: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”. Un atto di fede nel messianismo di Gesù, contro tutto e contro tutti.

La testimonianza del cieco su Gesù, sotto forma di invocazione, si trasforma in un incontro con Gesù, un'esperienza salvifica, che cambierà radicalmente la vita di questo cieco, poiché Gesù, vista la sua fede, lo chiama a sé. Ci si trova, qui, di fronte ad una chiamata alla sequela. Marco, al v. 49, ripeterà il verbo “chiamare”: “chiamatelo”, lo “chiamarono”, “ti chiama”. Significativo quel sollecito: “Coraggio! Alzati, ti chiama”. Un pressante invito ad alzarsi da quella sua condizione di cieco, metafora del non credente, per rispondere alla chiamata di Gesù. Una sorta di preludio a quello che avverrà al v. 50: “Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. Il mantello, come gli abiti in genere, nel linguaggio degli evangelisti sono la metafora della condizione della propria vita. Questo “gettare il mantello” indica, pertanto, l'aver abbandonato la propria vita di prima, quello che lo aveva reso cieco, per poter accedere a Gesù; e lo fa “balzando in piedi”, quasi una sorta di risurrezione, l'inizio di una nuova vita. Si noti come egli non fu accompagnato a Gesù, come ci si aspetterebbe per un cieco, ma egli andò a Gesù in modo autonomo, perché illuminato dalla fede. Un avvicinarsi a lui, quindi, dettato dalla sua fede, certo, ancora incipiente, poiché vede in Gesù soltanto il figlio di Davide, il realizzarsi in lui di una promessa, un passaggio quindi dal giudaismo al cristianesimo, ma la strada per raggiungere Gesù, quale Messia e Figlio di Dio, è ancora lunga, e bisognerà arrivare sotto la croce per sentirlo proclamare: “Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
  • Tutte le generazioni mi chiameranno beata
  •  Cattolici e Protestanti a confronto – In difesa della fede

 

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“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses. He also teaches us that amid the tempests of life, we must never be afraid to let the Lord steer our course. At times, we want to be in complete control, yet God always sees the bigger picture» (Patris Corde, n.2).
«Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande» (Patris Corde, n.2).
Man is the surname of God: the Lord in fact takes his name from each of us - whether we are saints or sinners - to make him our surname (Pope Francis). God's fidelity to the Promise is realized not only through men, but with them (Pope Benedict).

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