Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

Lunedì, 23 Giugno 2025 21:22

Ss. Pietro e Paolo

(Mt 16,13-19)

Matteo 16:13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?».

Matteo 16:14 Risposero: «Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti».

Matteo 16:15 Disse loro: «Voi chi dite che io sia?».

Matteo 16:16 Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Matteo 16:17 E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.

Matteo 16:18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa.

Matteo 16:19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

 

I Vangeli non sono opere scritte di getto, ma la meticolosità con cui sono stati composti e strutturati dice che essi sono stati studiati e composti a tavolino da persone veramente esperte e capaci nell'arte della narrativa e della comunicazione. Sono opere di alto spessore intellettuale, ed hanno finalità squisitamente teologiche, dottrinali e pastorali.

In questo brano viene riportata in modo solenne ed elaborato - per bocca di Pietro - la confessione di Gesù come vero Messia e vero Figlio di Dio. Tuttavia, il brano è anche uno dei più discussi e contestati nell'ambito della storia del cristianesimo dalla Riforma protestante in poi, per le parole che Gesù proferì a Pietro e che gli conferirono un'incredibile autorità. Vi è, dunque, da una parte, il mondo cattolico, che vede in essa il fondamento teologico e divino del papato; dall'altra, il mondo protestante che cerca di sminuirne la portata, arrampicandosi spesso sugli specchi. Tempo e spazio, purtroppo, non permettono di trattare questa tematica.

Gesù introdurrà i suoi discepoli nella verità della sua Persona, attraverso una domanda in apparenza semplice che sembra buttata lì. Egli chiede cosa la gente dice del Figlio dell’uomo, cioè di lui, Gesù. I vv. 13-14 riportano le voci che ricorrevano sulla sua persona, una sorta di indagine statistica casereccia, da cui risulta un condensato di titoli che mette in rilievo il complesso e multiforme mistero della sua persona: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta. Siamo nel cuore della questione cristologica del Vangelo di Matteo, che vede a confronto due gruppi di persone: gli uomini, estranei al gruppo dei discepoli, e i discepoli stessi. I primi propongono delle soluzioni secondo lo schema veterotestamentario; i secondi indicano una nuova prospettiva. Un confronto, quindi, che si svolge tra un gruppo che fonda la sua comprensione di Gesù sull'Antico Testamento, che tende quindi a spiegare Gesù secondo gli schemi del passato; e un gruppo, che staccandosi e contrapponendosi al primo, indica in Gesù il nuovo evento salvifico del Padre. Un confronto che avviene a Cesarea di Filippo.

La città sorgeva ai piedi del monte Hermon, nei pressi della sorgente di Nahr Banyas, una delle tre sorgenti del fiume Giordano,  una delle quali si riteneva che fosse l’accesso al regno della  morte. In epoca ellenistica, la grotta, da cui scaturiva il fiume, era sacra al dio greco Pan. Gesù porta i discepoli nel posto più lontano possibile dall’influsso dei farisei e sadducei, e la confessione di Pietro avviene in zona pagana.

La gente, vedendo i miracoli che Gesù faceva, pensava che fosse uno di quei personaggi straordinari che dovevano preparare il popolo alla venuta del Messia. Gesù è considerato un uomo del passato, e se è un uomo del passato di certo compirà le stesse opere che hanno compiuto in passato tutti quei servi del Signore. La risposta della gente indica la sua incapacità di staccarsi dai canoni veterotestamentari, non riesce a leggere la realtà se non attraverso il filtro della Legge mosaica.

Anche oggi si vorrebbe Gesù uguale a tutti gli altri uomini. Se è uguale a tutti gli altri uomini, non potrà fare nulla di speciale. Farà ciò che fanno tutti gli altri uomini, alla maniera di tutti gli altri uomini. L'uomo, istintivamente, è abituato a pensare Dio, il Signore Gesù, in tutte le proprie categorie religiose, trovandogli un posto nello schedario.

“Ma voi chi dite che io sia?”. A Gesù non interessa cosa pensa la gente. A Gesù interessa che i suoi discepoli sappiano chi Lui sia, perché ogni falsità da loro introdotta nella sua Persona e nella sua missione avrà conseguenze per tutta l’umanità. La salvezza dell’umanità è legata alla verità su Gesù.

Pietro dà una risposta immediata: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Tu sei il Messia di Dio. Il Messia di Dio è il Figlio del Dio vivente. Siamo nel vertice della fede cristologica: Gesù non è il Battista risuscitato dai morti, non è Elia, né Geremia o uno degli antichi profeti, visione che tende a ricondurre l'evento Gesù all'interno della più comprensibile e tranquilla fede giudaica, ma egli è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Gesù non è un uomo del passato. In Cristo c’è un mistero che va ben oltre tutto il passato di Israele. In Cristo c’è una novità assoluta. Gesù non è solo il Messia di Israele. È il Messia di Israele perché è il Figlio del Dio vivente.

Chiamare Gesù «Figlio di Dio», fa compiere una riqualificazione al termine stesso di Messia, in cui si riconosce non semplicemente un uomo inviato da Dio, ma Dio stesso, che si fa incarnazione in Gesù e del quale se ne riconosce la natura divina, così che Gesù diviene il “Davar” del Padre. Il termine ebraico «davar» significa “parola”, ma non nel senso di semplice voce o suono, ma come una parola che è anche azione, in cui il parlare e l'agire coincidono. Il Davar, quindi, designa un evento che si compie per mezzo della Parola e nella stessa Parola; una Parola che si fa evento. Per questo Gesù può essere definito e ritenuto come l'agire stesso del Padre.

Il legare insieme i due titoli “Cristo e Figlio di Dio”, costituisce il vertice della fede cristologica, poiché significa far convergere le attese messianiche nella novità sconvolgente della figliolanza divina dell'uomo Gesù, che in tal modo viene anche confessato Dio. Significa attribuire al Messia, concepito sempre come un uomo, la divinità stessa di Yahweh.

A fronte della professione di fede, che svela la vera identità di Gesù, Pietro viene dichiarato beato. La beatitudine delineava sempre lo stretto rapporto che intercorre tra l'uomo e Dio. L'uomo viene dichiarato beato perché è adombrato dalla presenza di Dio. Beato indica, quindi, una sorta di elezione che Dio pone sul suo fedele, ma dice anche la scelta che quell'uomo ha operato a favore di Dio, ponendosi dalla sua parte. Si tratta, comunque, di un rapporto e di una condizione di privilegio in cui il beato viene posto. La dichiarazione di beatitudine di Pietro, dunque, inserisce Pietro nella sacralità stessa di Dio e lo definisce una sorta di persona a Lui consacrata.

La beatitudine di Pietro, quindi, dipende da una elezione divina, che gli ha consentito di accedere ai misteri del disegno salvifico, che si sta compiendo in Gesù. Per questo Pietro è beato, perché viene reso partecipe del progetto salvifico e, pertanto, posto in una condizione di privilegio divino. Particolarmente interessante è la contrapposizione delle due espressioni “carne e sangue” e “Padre mio nei cieli”. Come dire che il mistero della persona di Gesù non può essere raggiunto con le forze umane, poiché tale mistero le supera ampiamente in quanto si pone nel segreto stesso del Padre che è nei cieli. La comprensione di Gesù è, dunque, dono dall'alto, è rivelazione, che si realizza  soltanto se l'uomo si pone nei confronti di Dio in un umile atteggiamento di fede accogliente, senza avere la pretesa di capire, poiché Dio dona, ma non si lascia derubare. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 16 Giugno 2025 22:18

Corpus Domini (1Cor 11,23-26)

Corpo e Sangue di Cristo

 

(1Cor 11,23-26)

 

1Corinzi 11:23 Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane

1Corinzi 11:24 e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».

1Corinzi 11:25 Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».

1Corinzi 11:26 Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.

 

Paolo ci tramanda l'antico racconto dell'istituzione dell'Eucarestia. «Io ho ricevuto… ho trasmesso» è la formula tecnica per parlare di cose tramandate: è la tradizione che si trasmette. Paolo non l’ha ricevuta da uomini. Egli afferma chiaramente che la sua fonte è il Signore in persona. Gesù stesso gli ha insegnato quanto è avvenuto nell’Ultima Cena. In questa tramandazione viene specificato un particolare importante. Gesù ha istituito l'Eucaristia nella notte in cui fu tradito. C'è una opposizione tra Cristo e Giuda. Giuda tradisce il Signore e lo consegna al sommo sacerdote che lo voleva uccidere. Gesù invece si consegna al mondo intero affinché per suo tramite riceva la vita.

Nell'Eucaristia, letta nel contesto del tradimento di Giuda, si comprende la grandezza del gesto che ha compiuto Gesù. È una consegna, sia quella di Giuda che quella di Cristo. Giuda lo consegna al male, a chi voleva ucciderlo; Gesù invece si consegna sotto le specie del pane e del vino all'umanità. Il gesto di Gesù, della consegna di se stesso, inizia con il prendere il pane tra le mani. Quello che avviene, non avviene accidentalmente; avviene per volontà. Gesù voleva istituire l'Eucaristia e lo ha fatto, prendendo il pane tra le mani, elevandolo dal tavolo.

Sul pane che ha tra le mani Gesù rende grazie. Questo è importante, perché si può prendere senza rendere grazie dicendo: è mio - cioè rubando, non riconoscendo che è un dono del Padre. «Rese grazie» è la parola greca «eucharistēsas», da cui «eucarestia». Assieme al rendimento di grazie, Gesù compie un altro rito sul pane: lo spezza. Spezzare il pane è il primo grande segno della comunione. Tutti mangiano di un unico pane.

Non solo Gesù prende il pane, rende grazie, e lo spezza, ma dice anche qualcosa di inaudito. Mai persona aveva detto una simile frase: quel pane è il suo corpo, e questo corpo è per loro. Gesù dona se stesso come nutrimento dei discepoli sotto la specie del pane. L'occhio vede pane, il tatto tocca pane, il gusto assaggia pane, l'anima mangia però il corpo di Cristo, vero, reale, sostanziale.

«Fate questo in memoria di me». Non solo i discepoli sono invitati a prendere il pane che è il corpo di Cristo e mangiarlo. Loro stessi dovranno da questo momento in poi fare ciò che ha fatto Cristo. Anche loro per l'avvenire devono prendere il pane, rendere grazie, spezzarlo e dire le stesse parole di Gesù Cristo, devono dirle in suo nome, con la sua autorità. Il comando di Gesù agli apostoli è un vero e proprio atto di consegna dell’autorità, a fare ciò che lui ha fatto. Quando il sacerdote riunisce la comunità e prende il pane, rende grazie, lo spezza, pronuncia le stesse parole proferite da Gesù, egli fa la stessa identica cosa che ha fatto Gesù nel Cenacolo: trasforma quel pezzo di pane in corpo di Cristo. Questo è il miracolo che si compie nell'Eucaristia.

Apparentemente tutto sembra come prima. I sensi però ingannano. Essi non vedono oltre, occorre lo spirito formato nella retta fede per cogliere la verità di quel gesto e portare l'uomo a un profondo atto di fede nel mistero che Cristo ha realizzato nel Cenacolo, e soprattutto nell'altro mistero e cioè nella potestà che egli ha dato ai suoi apostoli di fare altrettanto in sua memoria, agendo nel nome e nella persona di Cristo.

Ciò che Gesù ha fatto per il pane, lo fa anche per il calice, simbolo del sangue che inaugura la nuova alleanza. Compie sul calice gli stessi gesti che per il pane. Ogni sacrificio nell'antica Legge comportava la morte violenta dell'animale che veniva sacrificato. Facendo del suo corpo un sacrificio, Gesù anticipa la sua morte in croce. Il giorno dopo egli viene fatto ‘sacrificio di espiazione’ a favore dell'umanità.

L'Eucarestia è la nuova alleanza, perché Dio dà la vita per l'uomo mentre l'uomo lo uccide. Per cui non si può più rompere questa alleanza. Se tu mi uccidi, io dò la mia vita per te, quindi non puoi più rompere questa alleanza ed è in questa alleanza che conosciamo chi è Dio: amore infinto. Nell'antica Legge il sangue veniva asperso. Dio era simboleggiato dall'altare sul quale il sangue veniva versato, sul popolo invece veniva asperso. Così Dio e il popolo erano uniti da un patto di sangue.

Con Cristo il sangue viene versato per la nuova alleanza, ma a differenza del sangue dei vitelli e dei capri, che univa Dio e il popolo, questa volta è il sangue di Dio che unisce il popolo a Dio, ma non per aspersione, bensì per assunzione - viene bevuto. Il discepolo di Gesù è invitato a bere il sangue di Cristo, che è sangue di Dio. È invitato a berlo per fare alleanza con Dio. Il sangue, per la Legge, era la vita, ed è la vita di Cristo che il discepolo beve per divenire ciò che Cristo è: vita divina ed eterna, vita santa e vera.

Dobbiamo capire il valore enorme che tutto questo ha nella Chiesa. Non è un rito: è la vita. Poi c'è gente che va alla messa perché c'è il prete simpatico, perché fa una bella messa: ci si va per qualcos'altro alla messa, non perché mi piace il prete!

Per due volte Gesù dice: «Fate questo». È l'imperativo: questo è da farsi!

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Martedì, 10 Giugno 2025 05:46

Ss. Trinità  (Rm 5,1-5)

Romani 5:1 Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo;

Paolo vede il credente in una situazione di grazia. Questo stato di grazia lo esprime con: "[siamo] giustificati", la giustificazione si è compiuta. È questa la verità che Paolo grida. Il passaggio dalla vita alla morte, dal peccato alla grazia avviene, è avvenuto, avverrà sempre per la fede in Gesù Cristo. Cristo con la sua morte e risurrezione ci ha donato gli effetti della sua opera, siamo stati "giustificati". Usando l'aoristo participio passivo (= essendo stati giustificati) Paolo sottolinea che quest'opera ormai ci appartiene. Allude a un momento preciso della vita dei cristiani che appartiene al passato: si tratta del battesimo. Questo è un dato biblico fondamentale.

Siamo giustificati “ek pisteōs”, "dalla fede". È un moto da luogo e indica la fonte da cui sgorga questa giustificazione. Gesù Cristo morto-risorto è il luogo sacramentale dove si attua questa giustificazione, a cui si accede per mezzo della fede e non attraverso le opere della legge. Siamo giustificati nel momento in cui crediamo e accogliamo Gesù Cristo come unica e sola Parola di vita eterna.

Cosa avviene nel momento in cui si compie la nostra giustificazione? Siamo in pace con Dio. L'autore della salvezza è anche l'autore della pace: non c'è vera pace se non in Cristo. Questa pace si è instaurata quando noi, nemici di Dio, siamo stati riconciliati con Dio da Gesù Cristo. La pace non è uno stato di equilibrio interiore e neppure il nostro comportamento pacifico. La pace è il ristabilimento della relazione con Dio, perché riappacificati a seguito della giustificazione.

Quando si è in pace con Dio si ritrova anche la pace con gli uomini; si ritrova anche la pace con il creato, da custodire e da coltivare, in quanto affidato da Dio alle nostre cure perché sappiamo farne la casa dove l'uomo possa abitare con dignità, sapienza, e nella gioia. L'errore dell'uomo, oggi, è pensare che vi possa essere pace tra gli uomini e con il creato, rimanendo l'uomo nella sua falsità e nel suo peccato. La pace nasce solo dalla giustificazione e finché l'uomo vive da giustificato. 

Si è nella pace se si è in Cristo, si è nella pace se si vive nella Parola di Cristo, si è nella pace solo per mezzo di Cristo. Questo è il grido che Paolo fa risuonare nelle sue chiese, perché si convincano che fuori di Cristo nessuna pace sarà mai possibile. L'illusione è pensare una pace senza giustificazione, pensare una pace fuori di Cristo. La pace è Cristo, è in Cristo, è per mezzo di Cristo. È lui la via attraverso la quale un uomo può andare in pace verso un altro uomo. Chi esclude Cristo, si preclude la strada della vera pace. Senza Cristo non vi potrà mai essere pace, perché l'uomo non è nella verità.

La fede pertanto è fede in Dio che ha costituito Cristo unica via per avere la salvezza. Quindi la nostra fede è in Dio, ma diventa operativa solo se è fede nell'opera di Cristo. Dio Padre e Gesù Cristo sono un unico principio di fede, un'unica fede che salva. Non c'è fede nel Padre che non sia fede nel Figlio e non c'è fede nel Figlio che non sia fede nel Padre. Questa unità deve essere sempre salvaguardata, proclamata e difesa.

È attraverso questa fede che si ottiene il dono della pace, perché è attraverso questa fede che siamo giustificati, Dio cioè cancella il nostro debito, ci fa suoi figli in Cristo, ci ristabilisce nella sua amicizia. Questa è la pace.

Da notare che Gesù Cristo è chiamato Kyrios - Signore - ad indicare la sovranità, la natura divina del Messia. Kyrios è un termine ripetutamente usato dalla Bibbia dei LXX per Yahweh, ed accredita Gesù come l'Emmanuele, Dio con noi.

 

 

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Martedì, 03 Giugno 2025 22:26

Pentecoste (Rm 8,8-17)

(Rm 8,8-17) 

Romani 8:8 Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio.

Romani 8:9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.

 

Paolo non vuole che qualcuno si faccia illusioni: quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio. Questa è la verità. Dall'accettazione di questa verità nasce in noi la possibilità di un cammino nuovo. Se invece ci lasciamo conquistare dall'illusione, finisce tutto; ogni cammino verso l'alto diventa impossibile, e sarà sempre impossibile finché l'uomo avrà l'illusione di piacere a Dio, mentre a Dio non piace perché è guidato e condotto dalla sua carne.

La carne vuole l'affermazione di sé e l'annullamento di Dio, vuole la divinizzazione dell'uomo e di conseguenza la sottrazione dell'uomo a Dio. Chi vive secondo la carne è in rivolta a Dio, anzi Dio è considerato un nemico, colui che toglie spazio all'uomo perché ne vuole governare la vita. Costui per affermarsi nella sua carne vuole la morte di Dio.

Questa drammaticità divenne realtà con Gesù Cristo. Egli fu messo in croce, fu condannato a morte, perché la sua presenza richiedeva la morte della carne nella quale l'uomo è caduto. La carne uccise Dio, lo appese al legno della croce, lo tolse di mezzo. Questa opposizione tra la carne e Dio accompagnerà l'uomo per tutti i giorni della sua vita, poi si trasformerà o in morte eterna o in vita eterna, o per sempre lontano da Dio, o per sempre vicino a Dio.

Noi possiamo e dobbiamo piacere a Dio, perché non siamo sotto il dominio della carne, ma sotto il dominio dello Spirito Santo che abita in noi: «Voi però non siete sotto il dominio della carne». Con il battesimo l'uomo è morto al dominio della carne, è risorto con Cristo alla vita nuova. Questa è la verità che deve essere fatta propria da ogni cristiano. Con il battesimo è avvenuto un cambiamento di regno, dal regno della carne si è passati al regno dello Spirito. Questo passaggio è reale, vero, anche se rimane da compierlo fino alla fine, fino alla risurrezione del corpo. Questa fede deve essere la luce che muove ogni azione del cristiano, la forza che lo spinge verso la conquista della piena libertà in Cristo. Egli è ormai libero; la schiavitù è finita, è iniziato il cammino lungo, faticoso, pieno di pericoli che dovrà condurlo verso la patria del cielo, nella completa libertà da ogni schiavitù.

«...ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi». La verità che Paolo non smette di ricordare è che il cristiano è sotto il dominio dello Spirito, e lo attesta il fatto che lo Spirito di Dio abita in lui. Però Paolo non dice "dal momento che", ma “eiper”, "se davvero", o "se è così". A Paolo piace insinuare il dubbio, per farci più attenti e più solleciti alle cose di Dio.

C'è ormai un solo principio di vita che deve regnare nel cristiano e questo principio è la stessa vita divina che deve divenire vita del credente. La carne è menzogna, egoismo, disobbedienza, allontanamento da Dio. Lo Spirito invece crea libertà, amore, comunione, obbedienza, sottomissione a Dio; crea nell'uomo la morte della sua carne che lo rende schiavo del peccato. Questa è la missione dello Spirito nel cristiano. Per questo ogni battezzato nel quale dimora lo Spirito del Signore non può essere sotto il dominio della carne, perché lo Spirito è la distruzione della carne. Quando si parla di essere nella carne o nello Spirito si va a toccare l'ontologia del credente e, quindi, la sua stessa essenza, ed evidenzia come l'essere credenti e l'essere stati battezzati coinvolgono profondamente la persona ad ogni livello, facendone una nuova creatura.

«Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene». Affermazione ovvia e banale, se non fosse per il fatto che troppo facilmente si presume di essere di Cristo. Se lo Spirito opera la distruzione della carne, se lo Spirito crea l'uomo nuovo, se lo Spirito conduce il credente verso la pienezza della vita e della verità, è anche vero che chi è senza lo Spirito di Cristo non può appartenere a Cristo. Non appartiene a Cristo perché appartiene alla carne, e anche se Cristo lo ha comprato a caro prezzo spargendo il suo sangue sulla croce, se l'uomo è ricaduto ed è ritornato per sua volontà sotto il dominio della carne, quest'uomo non può appartenere a Cristo. Appartenere a Cristo non è semplicemente un'appartenenza dovuta al fatto che con il sacramento del battesimo l'uomo è uscito dal dominio della carne per entrare in quello dello Spirito. Questa è appartenenza iniziale, incipiente. È necessario che questa appartenenza si trasformi in dimora abituale dello Spirito dentro di noi. Siamo di Cristo, apparteniamo a Lui perché Lui ci ha comprati con il suo sangue preziosissimo, ma noi possiamo liberamente uscire da questa appartenenza attraverso la nostra consegna al peccato e alla morte.

In questo caso lo Spirito non abita più in noi e noi non siamo più di Cristo, non gli apparteniamo più. È pertanto vera appartenenza a Cristo solo quella che si trasforma in dimora abituale dello Spirito. Ogni altra appartenenza non è vera, è falsa, perché lo Spirito non guida i nostri passi, non illumina la nostra mente.

Ecco allora tutto il fine della predicazione, dell'evangelizzazione, della celebrazione dei sacramenti: appartenere a Dio non per sacramentalizzazione, non per aggregazione, non perché siamo Chiesa visibile, bensì per ascolto, per compimento della Sua volontà, per realizzazione della Sua parola. Questa opera la può compiere solo lo Spirito Santo che ci è stato dato.  

 

 

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Lunedì, 26 Maggio 2025 12:33

Ascensione del Signore (anno C)

(Lc 24,46-53;  At 1,1-11)

 

Luca 24:46 «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno

Luca 24:47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.

Luca 24:48 Di questo voi siete testimoni.

Luca 24:49 E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».

Luca 24:50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.

Luca 24:51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo.

 

Atti 1:4 Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre «quella, disse, che voi avete udito da me:

Atti 1:5 Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni».

Atti 1:8 ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra».

 

Da Gerusalemme, in modo espansivo, si diffonde l'annuncio della salvezza, che abbraccia l'intera umanità. La centralità di Gerusalemme è evidente in Luca fin dagli inizi del suo Vangelo, che si apre nel cuore stesso di Gerusalemme, il Tempio, e nel momento più sacro, quello del culto, e attorno alla quale gira l'intera infanzia di Gesù. Ora, con il v. 48 vi è l'investitura dell'intero gruppo apostolico a testimone ufficiale degli eventi della salvezza, di cui essi sono costituiti depositari. In altri termini, il gruppo apostolico riceve il mandato per la sua missione, venendo costituito in autorità dal Risorto stesso. Una investitura da cui si genera non solo la missione, ma funge anche da fondamento costitutivo della Chiesa stessa, che trae origine proprio dal mandato del Risorto.

A fronte dell'affidamento della missione, posta a fondamento della Chiesa, costituendola in autorità presso Dio e presso gli uomini, il v. 49 preannuncia come tale missione assumerà piena efficacia con l'unzione dello Spirito Santo: “E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso”. Gesù non accenna allo Spirito Santo, ma soltanto alla “promessa del Padre mio”.

Luca definisce lo Spirito Santo quale “promessa del Padre”, benché da nessuna parte nel Vangelo di Luca compaia in termini espliciti una simile promessa. Per poter comprendere a quale promessa Luca faccia riferimento e dove questa sia stata menzionata nel suo Vangelo, è necessario proseguire la ricerca in At 1,4-5 dove dice che “Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”. Il riferimento qui è a Lc 3,16: “Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Una promessa, che vedrà il suo attuarsi in At 1,8 dove si parla dell'investitura dello Spirito Santo sui discepoli. 

La fine del Vangelo di Luca sta qui toccando gli inizi degli Atti degli Apostoli e congiungendosi con questi. Gli estremi, quindi, si toccano tra loro e tra loro si congiungono, creando una sorta di vasi comunicanti in cui l'evento Gesù, ora Risorto, travasa se stesso nella Chiesa, continuando in essa la sua azione salvifica. 

Alla promessa del Padre - il dono dello Spirito Santo - segue la raccomandazione: “restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto”. La città di cui si parla è chiaramente Gerusalemme, il luogo del compiersi del mistero della salvezza, attuatosi nella morte-risurrezione di Gesù, ma la cui efficacia trova il suo pieno compimento soltanto nel dono dello Spirito Santo, che è potenza di Dio che opera in coloro che credono. 

 

Luca chiude il suo Vangelo in modo inconsueto rispetto alla tradizione evangelica, raccontando dell'ascensione di Gesù al cielo. Unico tra gli evangelisti che ne faccia una trattazione specifica a parte. 

L'ascensione mette fine all'attività di Gesù a Gerusalemme, per lasciarla in eredità ai suoi. Per questo Gesù compie un'azione benedicente (v. 50), il cui senso è trasmettere la sua eredità spirituale sulla comunità apostolica, che dovrà proseguire la sua missione, proprio partendo da Gerusalemme. La benedizione posta sul gruppo apostolico richiama da vicino l'immagine genesiaca della creazione dell'uomo, sul quale Dio pose la sua benedizione, accompagnata dal comando di essere fecondi e di moltiplicarsi, riempendo tutta la terra. È questa la missione di cui è stato investito l'intero gruppo apostolico, e la benedizione non va intesa quindi come un semplice e commovente gesto di saluto, ma imprime su quel gruppo germinale della chiesa nascente il segno della fecondità divina. Il termine benedizione in ebraico è, infatti, “berakah”, che deriva da “berek”, che significa “ginocchio”, un eufemismo per indicare gli organi genitali, che sono gli organi preposti alla generazione e quindi, per loro natura e funzione, sinonimi di fecondità. 

 

 

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Martedì, 20 Maggio 2025 05:52

6a Domenica di Pasqua (Ap 21,10-14.22-23)

6a Domenica di Pasqua (anno C)

Ap 21,10-14.22-23

Apocalisse 21:10 L'angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.

Apocalisse 21:11 Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.

Apocalisse 21:12 La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d'Israele.

 

Un angelo conduce Giovanni a contemplare in visione la sposa, la moglie dell'Agnello, su di un alto monte, per poter ammirare dall'alto la città, sottolineando l'importanza e il carattere trascendente della sposa. Per poter contemplare questa rivelazione, occorre un influsso particolare dello Spirito, che spinga verso l'alto, in direzione del divino. Il monte grande e alto è infatti il luogo della rivelazione di Dio, si veda per esempio Mosè che sale sul monte Nebo da dove Dio gli mostra la terra di Canaan. 

La città santa, la Gerusalemme celeste, scende dal cielo, “risplendente della gloria di Dio”. La prima indicazione che l'angelo ci dà non potrebbe essere più elevata. Provenendo da Dio, la città-sposa ne possiede la "gloria". Cristo risorto, unico portatore adeguato della gloria del Padre, ha comunicato questa gloria alla sua città-sposa. Risulta particolarmente illuminante un richiamo al quarto Vangelo, dove, riferendosi a tutti quelli che crederanno in lui, Gesù si esprime così: "E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola" (Gv 17,22). 

Dio ha rivestito Gerusalemme della sua gloria, e la gloria di Dio è la sua divinità. Gerusalemme è stata come divinizzata da Dio, ammantata della sua luce, ammantata della redenzione di Cristo luce del mondo.  

È importante conoscere il concetto di città. Parlare della città significa parlare della dinamica che ha sostenuto la storia umana, a partire dalla costruzione della prima città al tempo di Caino, che "divenne costruttore di una città" (Gn 4,17). La storia dell'umanità può essere raffigurata come la storia della costruzione di una città che, da Caino in poi, assume caratteristiche preoccupanti. Caino, dopo aver ucciso il fratello mette in piedi una realtà che ha sì il suo fascino, in quanto luogo ove si sviluppa una civiltà, ma porta in sé un seme di violenza, che per quanto nascosto, al momento opportuno esplode immancabilmente. L'Apocalisse parla anche della caduta Babilonia, nella quale "fu trovato il sangue... di tutti coloro che furono uccisi sulla terra" (Ap 18,24); il sangue di tutti gli uccisi da Abele in poi, il sangue di tutti i fratelli rifiutati: la città, da Caino in poi, è costruita su un fondamento impregnato di quel sangue. Adesso, viene mostrata la nuova Gerusalemme, che nel nome ricorda l'antica Gerusalemme, città che nella storia della salvezza ha visto versare il sangue di Cristo, ma che portava in sé un valore sacramentale, una promessa: Dio vuole manifestarsi e portare a compimento le sue intenzioni nuziali con l'umanità.    

 

L'illuminazione della nuova città viene messa in rapporto di corrispondenza con il riflesso di una gemma preziosa, di cui viene sottolineata la straordinaria qualità – "preziosissima" – e il suo splendore. Ciò che raffigura quanto c'è di più bello, viene usato per descrivere la magnificenza di Gerusalemme. Cosa c'è di più bello di una gemma preziosissima e di una pietra di diaspro cristallino? Niente. Cosa c'è di più bello di Dio? Niente. Dio è la stessa bellezza, è l'autore di ogni bellezza. Gerusalemme è vestita della stessa bellezza di Dio.  

"Come pietra di diaspro cristallino": Il diaspro è una pietra bellissima, preziosa, di diversa coloritura, per lo più rossiccia, talvolta verde, bruna, azzurra, gialla e bianca, che comunica un senso di bellezza e di gioia. La città è edificata in modo tale da attrarre, e questo dipende proprio dal fatto che la gloria di Dio abita in essa.    

Il confronto inevitabile è con la "vecchia" Gerusalemme che, con la monarchia, il tempio e il sacerdozio era divenuta il simbolo del popolo, dell'alleanza con Dio e della stessa dimora divina tra gli uomini. Il rinnovamento della città significa il rinnovamento dell'alleanza. Giovanni, con i simboli biblici e in linguaggio apocalittico, annuncia la novità dell'alleanza, ovvero il nuovo rapporto con Dio.    

 

Il muro grande e alto indica delimitazione e nello stesso tempo stabilità, sicurezza e protezione, ma non chiusura; giacché dodici, tre per ogni punto cardinale, sono le aperture che collegano la città con il resto del mondo.

I dodici angeli indicano la protezione angelica, essi stanno a guardia delle dodici porte come delle sentinelle. Poiché la città è di origine celeste deve avere dei guardiani celesti. Secondo Gn 3,24 i cherubini erano i guardiani dell'Eden, il giardino di Dio, e poiché la nuova Gerusalemme è la controparte escatologica dell'Eden, le guardie angeliche alle sue porte sono decisamente appropriate. Il muro, le porte, le guardie, servivano alla protezione e alla difesa delle città; qui dove non c'è più da temere i nemici, tutto ciò sta a rappresentare l'idea della perfetta pace e sicurezza di cui godono i salvati, perché niente di pericoloso potrà mai entrare nella santa città. 

Le dodici porte hanno i nomi scritti delle dodici tribù dei figli di Israele, sebbene non vi siano specificati i nomi, perché Giovanni è interessato al significato simbolico del numero dodici e non alle singole tribù. Le tante porte stanno a sottolineare l'importanza dell'accesso alla città. L'associazione dei nomi delle dodici tribù d'Israele con le porte della nuova Gerusalemme, sta a significare che l'Antico Testamento è la porta necessaria per entrare nella fede in Cristo, ma sta anche a significare che Dio non ha rinnegato il suo popolo, esso è parte integrante della nuova Gerusalemme. Giovanni allude alla continuità perfetta tra il popolo di Dio dell'Antico Testamento e la Chiesa del Nuovo Testamento.

Nella città di Dio si entra attraverso la porta della rivelazione che Dio ha dato ai patriarchi d'Israele. Culmine di questa rivelazione è Gesù Cristo. Antico e Nuovo Testamento sono l'unica e sola rivelazione di Dio, l'unica e sola Parola del Signore, l'unica e sola via di salvezza e di redenzione per tutto il genere umano. 

 

 

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Lunedì, 12 Maggio 2025 21:22

5a Domenica di Pasqua (Ap 21,1-5a)

5a Domenica di Pasqua (anno C)

 (Ap 21,1-5a)

Apocalisse 21:1 Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più.

Apocalisse 21:2 Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.

 

Giovanni contempla il compimento della profezia di Isaia: "Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra" (Is 65,17; 66,22). Dio aveva già manifestato la sua volontà di fare un nuovo cielo e una nuova terra nel contesto del ritorno degli Israeliti dall'esilio babilonese, celebrando un nuovo splendore per Gerusalemme come la gioia di una sposa che si prepara per le nozze. L'Apocalisse ne riprende le immagini per annunciare il compimento: l'abitazione dell'umanità peccatrice deve subire una trasformazione che la renda adatta ad essere la dimora di una umanità rinnovata e santa. Il concetto apocalittico della ri-creazione del cielo e della terra trova un'applicazione antropologica con l'apostolo Paolo, che parla dei cristiani come di una "nuova creazione" (2 Cor 5,17; Gal 6,15).  

Giovanni dice anche che “il mare non c'era più”, ossia non c'è più la presenza del negativo e del male, sinonimo del demoniaco. Il mare rappresenta i pericoli, il caos. Ricordiamo l'abisso primigenio di Gn 1,2 ("le tenebre ricoprivano l'abisso") e le acque del diluvio di Gn 7,11 ("eruppero tutte le sorgenti del grande abisso"). Scomparirà la caotica e inquietante potenza da cui era emersa la bestia satanica (Ap 13,1). Il mare, inoltre, separa e tiene lontani i popoli gli uni dagli altri, mentre la futura umanità formerà una sola famiglia.

In questo nuovo cielo e nuova terra, anche Gerusalemme, la città di Dio, la sua dimora sulla terra, sarà nuova. Con l'aggettivo greco "kainēn" non si vuole indicare una novità cronologica, bensì una novità qualitativa: una cosa mai esistita prima. Gerusalemme, scende dal nuovo cielo sulla nuova terra, adorna come una sposa che attende il suo sposo per celebrare le nozze. Giovanni ricapitola tutto lo svolgimento della storia umana al modo di una fidanzata che esce dalla casa paterna per andare incontro al suo sposo. L'immagine della sposa indica che il rapporto con Dio è fondato sull'amore e sul servizio, e non più sulle leggi e sui riti.  

La sposa non è Israele, un popolo che considerava il Regno come una conquista umana fondata sui meriti religiosi, ma è la nuova umanità che possiede lo Spirito, ricreata da Gesù. La nuova Gerusalemme sono tutti i giusti, i santi, i martiri; è la società gloriosa dei risorti nella gloria, che salita trionfalmente al cielo, scende per celebrare le nozze eterne con l'Agnello e prendere possesso della creazione nuova. La nuova Gerusalemme è la Chiesa gloriosa in ognuno dei suoi figli. Gloriosa nell'anima, ma anche nel corpo, che è stato risuscitato e creato nuovo in tutto simile al corpo glorioso di Cristo. La Sposa (nymphēn) è pronta per lo Sposo perché la consumazione delle nozze si ha nella gloria della risurrezione.

Per i santi del Signore non vi sarà più alcuna possibilità di caduta nella disubbidienza, in quanto fatti uno in Cristo, e questa unità tra Dio e le sue creature avviene attraverso la celebrazione di un eterno matrimonio, di cui quello terreno è solo immagine. Non ha più importanza essere uomo o donna, il matrimonio avviene non a livello del singolo ma a livello del genere umano. Potremmo chiederci quale senso può avere nell'eternità essere ancora uomo o donna fatti non l'uno per l'altra ma entrambi per il Signore. La risposta ci è data da Gesù stesso allorché dice che nel regno dei cieli non ci sarà né chi sposa né chi è sposato ma saremo tutti come angeli. Riguardo agli angeli va però compreso che vi è una diversità spirituale che li vuole distinti in gruppi e anche in gerarchie, di cui la Scrittura ci dà alcuni nomi: principati, potestà, dominazioni, troni, ecc. Pertanto, se pur vi è un unico modo di rapportarsi a Cristo, la relazione che ne discende non può essere uniforme e indifferenziata.

La nuova Gerusalemme indica sia il popolo di Dio nella sua pienezza di gloria, sia l'ambiente nuovo in cui esso si trova. Così quella che sulla terra era la "città santa", resa tale dall'appartenenza a Dio e dalla presenza del tempio, diventa adesso la nuova Gerusalemme. La Gerusalemme terrestre è superata, la "nuova" Gerusalemme, infatti, non ha, come la prima, una origine terrestre: proviene direttamente dal "cielo". Mentre Gerusalemme era il centro del regno di Dio sulla terra, la nuova Gerusalemme è il centro del nuovo regno di Dio nei cieli nuovi e nella terra nuova. Nuovi sono i cieli, nuova è la terra, nuovo è il regno, nuova è la città capitale del regno. Nuovo è tutto ciò che appartiene a questo regno e a questa creazione. 

La nuova Gerusalemme, per il fatto che discende dal cielo, è di origine divina: Dio è l'architetto e il costruttore della città. È "santa" perché è consacrata a Dio. Anche S. Paolo parla della Gerusalemme di lassù e la chiama la nostra madre, indicando come per la comunità cristiana la nuova creazione abbia già avuto inizio. 

La nuova Gerusalemme non rimane in cielo, nella trascendenza, è vista "scendente", e la discesa indica un movimento verso l'immanenza. Ma l'immanenza non è più quella di prima; ora è adeguata ad accogliere il divino. Giovanni vede questa Gerusalemme che scende dal cielo con un'azione continuata (“katabainousan” è un participio presente), in altre parole, la nuova Gerusalemme non è creata dal nulla e all'istante. Inoltre, all'azione propria di Dio si affianca in parallelo un'azione propria del popolo di Dio - la "sposa" dell'Agnello - che durante il corso della storia confeziona il suo abito nuziale per prepararsi alle nozze.  

Il simbolismo della nuova Gerusalemme è complesso. Simboleggia i santi, ma nello stesso tempo è distinta dai santi: la città è "come" una sposa; se è come una sposa non è la sposa o almeno non è solo sposa. Essa è nel contempo città e sposa; città in quanto rappresenta l'abitazione o lo stato glorioso del salvati dopo il giudizio finale; sposa in quanto personifica gli abitanti della città celeste, oggetti di un amore ineffabile e uniti per sempre al loro Salvatore in un rapporto sponsale.    

 

 

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Lunedì, 05 Maggio 2025 10:45

4a Domenica di Pasqua (Ap 7,9.14b-17)

(Ap 7,9.14b-17)

4a Domenica di Pasqua (anno C)

 

Apocalisse 7:9 Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani.

Apocalisse 7:14 ...E lui: «Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello.

Apocalisse 7:15 Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.

 

Una moltitudine immensa proveniente da tutti i popoli e nazioni sta davanti al trono di Dio e dell'Agnello. Da chi è costituita? Il gruppo è composto da cristiani perché, secondo il v. 14, essi "hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello". La moltitudine immensa dei salvati è di provenienza universale. 

Le vesti candide (en leukois, "in bianco") simboleggiano la dignità di appartenere al cielo. Il bianco s'indossava durante le occasioni festive perché si credeva fosse il colore di cui si vestivano gli esseri celesti, incluso Dio stesso. 

La palma è il segno della vittoria. Anche nel mondo greco ai vincitori degli antichi giochi si dava spesso una palma. In tutto il mondo mediterraneo la palma significava "vittoria". Quando la folla accolse Gesù a Gerusalemme agitando rami di palma, era in occasione della festa di Pasqua.  

Il popolo dei credenti è ormai introdotto nella gloria del Dio vivente e partecipa alla liturgia celeste; una liturgia grandiosa, stupenda, che viene celebrata davanti al trono e all'Agnello. Stanno di fronte al trono (una circonlocuzione per il nome di Dio), ma anche di fronte all'Agnello, di cui sono stati imitatori, riportando la palma della vittoria. 

Lo stare in piedi, secondo il simbolismo di questa posizione, significa essere in uno stato di risurrezione. Essi partecipano della stessa vita di Dio e dell'Agnello. Questo è il popolo dei credenti nel suo aspetto glorioso, ovvero la Chiesa trionfante che in cielo partecipa della vittoria di Cristo. Sono coloro che hanno portato a termine il viaggio, coloro che già condividono la vittoria piena e definitiva dell'Agnello.  

 

"Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello". La presentazione dei salvati sottolinea la loro provenienza e li definisce con un participio presente: "coloro che vengono" (hoi erchomenoi), strettamente affine alla formula divina "ho erchomenos" ("Colui che viene"). Ormai sono una sola cosa con l'Agnello perché hanno realizzato, attraverso la loro tribolazione, la chiamata ad immergersi nella morte e nella risurrezione del Figlio di Dio.  

La grande tribolazione è la persecuzione, il martirio. La grande tribolazione alludeva storicamente alle persecuzioni subite dai cristiani, di cui quella di Nerone fu il prototipo, ma si riferisce in maniera particolare alla grande tribolazione che precederà il giudizio finale. 

Questa tribolazione viene chiamata «grande» perché supererà in intensità tutte le precedenti, sarà la più terribile di tutte, è quella che si estenderà ai credenti del mondo intero e in cui Satana si servirà dei suoi più potenti strumenti e metterà in opera i mezzi più efficaci per abbattere la fede cristiana. La Chiesa è sempre perseguitata, ma negli ultimi tempi lo sarà ancora di più, e ogni vero cristiano deve aspettarsi una parte più o meno grande di tribolazione. 

Poiché la moltitudine immensa viene dalla grande tribolazione, è ragionevole dedurre che essi, o almeno la maggioranza di essi, siano martiri.  

“Hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello”. Notiamo una cosa interessante: il testo non dice che hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il versamento del proprio sangue, ma con il sangue dell'Agnello. Costoro hanno lavato le loro vesti (gr.: stolàs) nel sangue dell'Agnello, ossia si sono santificati e hanno purificato la loro anima (stola) mediante i meriti di Gesù al quale si sono avvicinati con fede. È implicito, nel loro «hanno lavato», che le stole/vesti erano sporche, cioè che essi erano peccatori. Se ora possono comparire in vesti bianche alla presenza di Dio, ciò non è dovuto ai loro meriti, ma alla virtù espiatrice e purificatrice del sangue di Cristo.  

Con questa immagine paradossale del sangue dell'Agnello che rende bianche le vesti dei credenti, si vuol dire che essi partecipano al valore salvifico della morte espiatrice di Gesù, in virtù della quale sono stati preservati dal soccombere nella prova. Non sono dunque solo i martiri, ma  tutti i membri della Chiesa che sono rimasti fedeli nella persecuzione. Infatti, ripetiamo ancora una volta: non è scritto che hanno lavato le loro vesti nel loro stesso sangue, bensì in quello dell'Agnello. Il "sangue" è simbolo della morte di Cristo e dell'efficacia della sua opera salvifica. Il greco ha "en tō" ("nel sangue"), formula che probabilmente deriva dalla liturgia eucaristica (1 Cor 11,25 "nel mio sangue").

I cristiani non sono giustificati per una qualsiasi osservanza della Legge o per adempienza di tutti quei riti che fanno da corollario alla fede, ma per la loro assimilazione alla croce di Cristo.

 

"Per questo stanno davanti al trono di Dio". "Per questo", non per altro: dovrebbe farci riflettere seriamente. In un tempo in cui si parla molto di ecumenismo, va ribadita la centralità del Cristo crocifisso come conditio sine qua non per la salvezza. 

 

 

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Martedì, 29 Aprile 2025 14:40

3a Domenica di Pasqua  (Ap 5,11-14)

3a Domenica di Pasqua (anno C)

(Ap 5,11-14)

Apocalisse 5:11 Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia

Apocalisse 5:12 e dicevano a gran voce: «L'Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». 

Apocalisse 5:13 Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all'Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».

Apocalisse 5:14 E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E i vegliardi si prostrarono in adorazione.

 

Questo brano rivela la grandezza del nostro Dio. Il nostro Dio è il Creatore di una moltitudine immensa di angeli (v. 11). Questi angeli proclamano la grandezza, la gloria del loro Dio e Signore, testimoni di un'opera di redenzione che non riguarda loro ma l'umanità. Gli angeli del cielo sono preposti per la nostra salvezza. Essi sono a servizio del sacerdozio di ogni fedele discepolo di Gesù. Questo è il loro ministero. Gli angeli proclamano il sacerdozio di Cristo in cielo, aiutano a vivere il nostro sacerdozio sulla terra. Questi angeli, che sono l'esercito celeste di Dio, le sue schiere, potrebbero annientare tutto l'universo in un solo istante, se solo Dio lo volesse.

«L'Agnello che fu immolato» (= Gesù Cristo crocifisso e risorto) è collocato sullo stesso piano di Dio: «Potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione», sono sette qualità che appartengono a Dio. Dagli angeli, Gesù Cristo è proclamato degno di ricevere gli stessi titoli di Dio, degno di essere rivestito della sua stessa gloria, senza alcuna differenza. Le creature angeliche, nella loro moltitudine incalcolabile, proclamano la divinità dell'Agnello. Gli abitanti del cielo proclamano chi è Gesù in cielo: è l'Agnello immolato che viene posto accanto a Dio, è l'Agnello immolato che viene proclamato Dio. Cristo è nostro Dio, questa è la verità da affermare.

L'adorazione nel v. 13 si estende a tutte le creature del cielo e della terra. Tutto il creato è chiamato all'adorazione, è una lode cosmica. Non solo gli angeli, innumerevoli, proclamano la verità di Cristo, ma tutte le creature, dalle più piccole alle più grandi, fanno la stessa confessione di fede: l'Agnello è uguale a Dio. L'inno di gloria già cantato in onore di Dio, è cantato in onore dell'Agnello. Dio e l'Agnello sono accomunati. Se qualcuno nega questa verità commette un gravissimo peccato.

Questa verità è confermata dai quattro esseri viventi (v. 14). Il loro "Amen", il loro "sì", attesta che l'universo intero dice la verità su Dio e su Cristo. Essi sono i rappresentanti delle creature dotate di vita. Sono quattro, è l'universalità che dice "amen". I «vegliardi», simbolo dell'antico e del nuovo popolo di Dio, prostrandosi in adorazione dinanzi all'Agnello riconoscono la sua divinità. Nei vegliardi, il popolo di Dio fa silenzio e contempla in adorazione il Dio vivente.

Cielo e terra, antica e nuova alleanza, tempo ed eternità, sono concordi nella professione di una sola fede: Gesù, l'Agnello immolato, è Dio. Giovanni in questa visione contempla la posizione e la dignità immensa di Cristo, ottenute mediante la sua morte e risurrezione. L'Apocalisse contempla il significato profondo di tutta la storia, riconducendola a due misteri: quello della creazione e quello della redenzione. Ciò che viene preannunciato nel capitolo 4 e appare come realizzato nel capitolo 5 è la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo, fine e senso di tutta la storia, attraverso l'opera di redenzione da Lui stesso compiuta con il suo sacrificio.

Attraverso un cambiamento di prospettiva, l'Apocalisse opera una trasposizione: quello che sulla terra si attua nei segni, in cielo – presso Dio – si attua nella realtà; in altre parole, quello che in terra si contempla mediante la fede e i segni sacramentali, in cielo si contempla mediante la visione, la partecipazione, nella realtà. In particolare:

• Se in terra il luogo della celebrazione è un edificio, con al centro un altare, in cielo il luogo della liturgia è lo stesso cielo, con al centro il trono di Dio. 

• Se in terra l'assemblea liturgica è costituita dai (soli) fedeli, in cielo essa è costituita da ogni essere che esiste (vivente), la cui lode coinvolge progressivamente tutto l'universo. 

• Se in terra il mistero dell'Agnello si percepisce, si celebra, e si comunica attraverso i segni sacramentali, in cielo esso si percepisce e si celebra in se stesso, ossia nella realtà della visione e della comunione. L'Apocalisse dunque ‘trasferisce’ in cielo la liturgia terrena; questo, conseguentemente, non fa altro che rendere presente e autenticare la stessa liturgia celeste sulla terra, conferendo significato e contenuto a quanto in quest'ultima si celebra. In terra, cioè, si compie, attraverso i segni liturgici e sacramentali, ciò che in cielo si celebra nella realtà. Allo stesso tempo, mediante i segni sacramentali e liturgici, la liturgia celeste si trasmette e coinvolge la terra.

Celebrando la liturgia terrena il lettore, così come ogni credente, contempla la liturgia celeste e, mediante questa contemplazione è in grado di cogliere il senso e il contenuto della prima. Secondo la prospettiva dell'Apocalisse, dunque, l'evento di salvezza, storicamente avvenuto in terra e perciò passato, permane perennemente in cielo, raggiungendo e operando sulla terra mediante i segni sacramentali e i gesti liturgici.

Va da sé che la liturgia terrena che meglio si identifica con la liturgia celeste, è quella della Messa solenne “Vetus Ordo”: il decoro degli abiti e del portamento dei sacerdoti, la presenza invasiva dei profumi d'incenso, il silenzio composto dei fedeli, la musica spianata dell'organo, le voci dei cantori che intonano il gregoriano, uomini e donne inginocchiati e silenti; austerità, fila ai confessionali, ecc. ecc. 

 

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Lunedì, 21 Aprile 2025 20:40

2a Domenica di Pasqua (anno C)

(Ap 1,9-11a.12-13.17-19)

Apocalisse 1:9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù.

 

Chi scrive è Giovanni. Come molti scritti profetici dell'Antico Testamento cominciano con il racconto della chiamata dei loro autori, così anche Giovanni colloca all'inizio del suo libro il compito che gli è stato affidato e che lo autorizza a scrivere. È lui che riceve la rivelazione di Dio, e prende direttamente la parola in prima persona.  Giovanni è "fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù". È “fratello” perché in Cristo è una cosa sola insieme agli altri discepoli. In Cristo siamo tutti figli dell'unico Dio e quindi tutti fratelli gli uni degli altri. È il corpo di Cristo che ci costituisce una cosa sola in Lui. Con ciò viene presentato il contesto in cui il messaggio è nato: l'Apocalisse è in sostanza un messaggio riguardo la tribolazione, ed è un messaggio di speranza rivolto a una comunità perseguitata.

Giovanni è “compagno”, cioè è in comunione con loro, “nella tribolazione”, perché anche lui è perseguitato come loro, insieme a loro. Lui non scrive da fuori della persecuzione, da uomo libero, scrive da dentro la persecuzione. Secondo una tradizione, Giovanni uscì sano e salvo da una botte piena di olio bollente senza la benché minima ustione, e così fu relegato in esilio dall'Imperatore Domiziano, successore di Tito e suo fratello germano.

È compagno “nel regno”, la "basileia", la regalità. C'è una fierezza, una dignità, una regalità che è strutturale nella vita cristiana. Anche Giovanni come loro appartiene a quel regno di sacerdoti costituito da Dio. Tribolazione e regalità sembrano contraddirsi. Non siamo trionfanti eppure ci riconosciamo nell'essere dignitosi, fieri, liberi anche nelle vicende più drammatiche. Giovanni addita la regalità della vita cristiana come un modo di stare dentro a tutte le situazioni più disperate con regalità di vita.

È compagno “nella costanza in Gesù”, perché vuole perseverare sino alla fine come Gesù. Lui di Gesù è il discepolo amato. Lui ha accompagnato Gesù fino alla croce. Ora Giovanni sta amando Gesù nella persecuzione, nel dolore e nella sofferenza. Lo sta amando nella costanza, cioè nella perseveranza sino alla fine. La costanza è la capacità di tener duro, di star sotto ai pesi, di sostenere il carico, la capacità di perseverare anche là dove il carico diventa gravoso. In attesa del glorioso evento della manifestazione del regno, la paziente sopportazione è la virtù specifica dei perseguitati. Incorporati in Cristo per mezzo del battesimo, i cristiani diventano partecipi della sua passione, ma in attesa di partecipare alla sua stessa gloria.

Giovanni è in esilio. Il luogo del suo esilio è l'isola chiamata Patmos. È un'isola rocciosa di circa 26 km quadrati, a circa 100 Km a sud di Efeso, facente parte delle Sporadi. Nell'isola si mostra ancora oggi una grotta dove si dice che l'apostolo abbia ricevuto queste rivelazioni. Eusebio, lo storico della chiesa, scrive che dopo la morte di Domiziano, il senato romano aveva richiamato tutti quelli che erano stati esiliati, e Giovanni da Patmos andò a Efeso. Egli dice anche che Giovanni sopravvisse fino al regno di Traiano. Infatti, l'uso del tempo passato, "mi trovavo nell'isola" suggerisce che lui non si trovava più a Patmos quando ha messo per iscritto le sue visioni. L'isola è una bella figura della Chiesa di Cristo. Come un'isola è continuamente sbattuta dalle onde del mare, così la Chiesa è afflitta dalle persecuzioni. L'apostolo è esiliato in questo luogo di pena “a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù”. Giovanni si presenta come un testimone di Gesù. Lui è il testimone di Gesù che trasmette coraggio a tutti gli altri testimoni di Gesù, perché perseverino nella loro testimonianza sino alla fine.

La parola "testimonianza" evoca l'atmosfera di un processo o di un pubblico dibattito: si testimonia un fatto accaduto e una realtà vissuta personalmente. Non è valida una testimonianza per sentito dire. La testimonianza cristiana è inoltre legata alla sofferenza, al pagare di persona: testimonianza vuol dire martirio. Decidendo di porsi dalla parte di Cristo, il testimone deve sapere che sarà coinvolto nel suo rifiuto da parte del mondo incredulo. È questo l'aspetto che l'Apocalisse sottolinea maggiormente. Giovanni sa che solo chi avrà avuto la forza di andare fino in fondo, come Gesù Cristo, entrerà nel suo regno. Per questo non si risparmia dall'aiutare i suoi fratelli. Il discepolo di Gesù può essere perseguitato per una sola ragione: "a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù", cioè, può essere perseguitato solo perché vero, autentico, fedele discepolo di Gesù. Chi fa questa scelta, dal mondo sarà sempre avversato. È questa, però, la scelta della vita eterna. 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
  • Tutte le generazioni mi chiameranno beata
  •  Cattolici e Protestanti a confronto – In difesa della fede
  •  La Chiesa e Israele secondo San Paolo – Romani 9-11

 

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Family is the heart of the Church. May an act of particular entrustment to the heart of the Mother of God be lifted up from this heart today (John Paul II)
La famiglia è il cuore della Chiesa. Si innalzi oggi da questo cuore un atto di particolare affidamento al cuore della Genitrice di Dio (Giovanni Paolo II)
The liturgy interprets for us the language of Jesus’ heart, which tells us above all that God is the shepherd (Pope Benedict)
La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore (Papa Benedetto)
In the heart of every man there is the desire for a house [...] My friends, this brings about a question: “How do we build this house?” (Pope Benedict)
Nel cuore di ogni uomo c'è il desiderio di una casa [...] Amici miei, una domanda si impone: "Come costruire questa casa?" (Papa Benedetto)
Try to understand the guise such false prophets can assume. They can appear as “snake charmers”, who manipulate human emotions in order to enslave others and lead them where they would have them go (Pope Francis)
Chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti? Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro (Papa Francesco)
Every time we open ourselves to God's call, we prepare, like John, the way of the Lord among men (John Paul II)
Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini (Giovanni Paolo II)
Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Papa Benedetto)
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)

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