Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

Martedì, 21 Gennaio 2025 11:21

3a Domenica T.O. (1Cor 12,12-30)

(1Cor 12,12-30)

 

1Corinzi 12:12 Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo.

1Corinzi 12:13 E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.

 

Attraverso la similitudine del corpo, Paolo vuole che i Corinzi comprendano il grande principio della comunione che lega tutti i battezzati in Cristo. La prima regola del principio della comunione è questo: il corpo è uno, le membra sono tante. Nessun membro da solo forma il corpo, nessun corpo è formato da un solo membro. Non c’è nessuna contrapposizione tra unità e diversità. Anzi, l’unità è data dalla diversità, e la diversità è fatta per l’unità, proprio come nel corpo umano.

La diversità è importantissima, se no, esisterebbe solo Dio. Quindi, la condizione stessa per potere esistere è che siamo diversi e distinti, e guai ad abolire la diversità, perché la vita di un membro, la sua funzionalità, deriva dalla vita dell’altro membro e dalla sua funzionalità. Nessun membro lavora per se stesso, ogni membro lavora per le altre membra. Ogni membro riceve un aiuto vitale dalle altre membra e vive finché è capace di ricevere questo aiuto vitale. Così la vita dell’uno dipende dalla vita dell’altro.

C’è una reciprocità nel corpo umano che per Paolo deve essere anche reciprocità nel corpo di Cristo, che è la Chiesa: “così anche è di Cristo”. Dato che Paolo ha usato il corpo umano come analogia della chiesa, si sarebbe aspettato che avesse concluso dicendo: "Così anche è della chiesa", invece dice “così anche è di Cristo”, ed è proprio questo che l’Apostolo vuole chiarire, e cioè che la "chiesa" è il corpo di Cristo, per cui, dire che siamo di Cristo, equivale a dire che siamo chiesa.

Nella lettura di domenica scorsa, l’apostolo Paolo aveva ricordato ai Corinzi che vi è un solo Dio, un solo Signore e un solo Spirito. Adesso aggiunge un’altra grande verità: esiste un solo corpo, cioè una sola chiesa. Il corpo di Cristo è uno, non due, non tre, non molti, e sarà uno fino alla consumazione della storia. Tutto è stato fatto in Cristo, per Cristo, e con Cristo - e noi tutti siamo in lui, membra del suo corpo. E l'immagine di chiesa come corpo unico, non è una semplice immagine: è la realtà mistica e profonda dell’umanità redenta.

Purtroppo si vive la diversità come incubo perché diciamo che l’altro ha una cosa che io non ho, quindi c’è una differenza, quindi devo appropriarmi di quello che ha. Quindi i doni che abbiamo diventano il luogo del litigio e della lotta, e l’uomo attraverso i doni domina e fa il male.

La chiesa non è un "club" formato da persone che hanno deciso di accordarsi su che cosa credere, per pensare tutti allo stesso modo. Al contrario, la chiesa è formata da cristiani che sono stati oggetto di una precisa operazione divina. Il battesimo simboleggia questa verità. Si fa parte del corpo di Cristo nel momento in cui si nasce da acqua e da Spirito Santo. Il Battesimo è il sacramento della nostra incorporazione in Gesù Cristo. Quando usciamo dalle acque non siamo più noi, usciamo come corpo di Cristo, usciamo come sue membra. Questa è la nuova realtà che si compie nel battesimo.

Battezzare vuol dire andare in fondo, immergersi, in che cosa? Nell’unico Spirito! Siamo immersi nella vita dello Spirito che ci è donato dalla croce. Noi ci immergiamo in questo amore che Dio ha per noi; questo è ciò che ci unisce. Viviamo di questo amore che è uno per tutti. Questo dà la mia identità di figlio, mi fa amare il Padre, e amare i fratelli; questo è il senso profondo del battesimo. E questo fa di noi un solo corpo, perché uniti da un solo respiro (lo Spirito). Uno solo è il respiro, una sola è la vita, uno solo è il corpo.

Formiamo un unico corpo dove ognuno è un membro distinto dall’altro, sia che siamo Giudei, sia che siamo Greci (le grandi differenze religiose); sia che siamo schiavi, sia che siamo liberi (le grandi differenze sociali); sia che siamo maschi o femmine (le grandi differenze naturali). Anzi, queste differenze sono fondamentali perché il corpo riesca articolato. Se siamo battezzati, se ci siamo immersi nell’amore che Dio ha per noi e viviamo di questo amore che ci unisce a Cristo, viviamo la vita di Dio, e insieme agli altri che vivono la stessa vita formiamo un’unica persona in Dio; ed è il Cristo totale. E questa è la Chiesa.

Come la mano destra e la mana sinistra e le altre parti del corpo, sono distinte e diverse tra loro, ma hanno un’unica vita e formano un’unica persona, così noi abbiamo un’unica vita e siamo una sola persona. Da questa verità nasce un duplice obbligo per chi ha accettato di essere parte del corpo di Cristo. Il primo è quello di vedersi e pensarsi corpo di Cristo, membro di Lui. Pensarsi come membro di Cristo: significa vivere la legge della comunione in tutti i suoi aspetti.

Il secondo obbligo è quello di alimentarsi quotidianamente di Spirito Santo, attraverso la preghiera personale e comunitaria, e soprattutto attraverso l’Eucaristia – il sacramento della vita nuova – in modo che l’assimilazione a Cristo avvenga in modo perfetto; integra, senza lacune. Questa configurazione a Cristo è necessaria per abolire quel passato che potrebbe sempre ritornare e renderci schiavi, e alimentare i pensieri dell’uomo vecchio. La forza dell’uomo nuovo è invece nell’abbeverarsi costantemente alle acque dello Spirito Santo. Questo è il segreto dei santi. Questo deve essere il segreto di ogni membro del corpo di Cristo. Se berrà costantemente dell’acqua dello Spirito, il vecchio uomo avrà sempre meno forza, e in lui crescerà Cristo sempre più.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Martedì, 14 Gennaio 2025 07:40

2a Domenica T.O. (1Cor 12,4-11)

(1Cor 12,4-11)

2a Domenica T.O. (C)

 

1Corinzi 12:4 Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito;

1Corinzi 12:5 vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore;

1Corinzi 12:6 vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.

1Corinzi 12:7 E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune:

 

Si parla tre volte di diversità e tre volte di unità. L’unità è attribuita allo Spirito che è lo Spirito Santo, al Signore che è Gesù, e a Dio che è il Padre. Praticamente la Trinità fa da sottofondo alla nostra diversità e unità, perché la Trinità è il primo luogo della diversità e unità. La distinzione, la diversità è necessaria alla relazione, all’amore. La diversità, nell’amore diventa unità, che mantiene la diversità. Siccome Dio è amore, allora l’amore necessita della diversità; e la diversità è il luogo stesso dell’unione, mentre molto spesso per noi la diversità è il luogo del litigio, perché non accettiamo la diversità.

“C’è diversità di doni, ma vi è un medesimo Spirito”. Qui abbiamo la parola charismatōn. Derivando dalla stessa radice del termine “grazia”, charis, significa “manifestazioni della grazia” e dunque “doni”. Il carisma è una particolare grazia attraverso la quale possiamo manifestare al mondo la ricchezza di Dio. Il carisma è grazia perché dato gratuitamente all’uomo. Nessuno può farsene un vanto personale.

Affermata questa prima verità, Paolo ne afferma subito un’altra. Se i carismi sono tanti, uno solo però è il suo autore: lo Spirito Santo di Dio. Perché Paolo tiene a precisare questa verità? I pagani credevano che le diverse doti di una persona dovessero attribuirsi a diversi dèi, l'uno dei quali dava la sapienza, l'altro la forza, ecc. Affinché i cristiani non pensassero che qualcosa di analogo avvenisse per i diversi doni loro dati, l'apostolo li avvisa che, benché i doni siano diversi, uno però è lo Spirito da cui procedono.

“Vi è diversità di ministeri”. Ministeri, diakoniōn, vuol dire: diaconie, servizi (quegli degli apostoli, dei vescovi, dei presbiteri, ecc.). Quindi introduce un altro concetto: ogni carisma, ogni dono che abbiamo è un servizio agli altri. Quindi c’è una diversità di servizi perché i doni si manifestano nel servizio che si fa ai fratelli.

“Non v’è che un medesimo Signore”. Tutti questi servizi sono stabiliti e regolati dalla volontà suprema dell’unico capo della Chiesa: il Signore Gesù. Quindi ogni servizio trova la sua origine in Gesù, che si è fatto servo di tutti, e ogni dono trova il modello in Gesù.

“E vi è varietà di operazioni”. Operazioni traduce il termine energēmàtōn, che deriva dalla parola normalmente usata per indicare “opera”. Le opere che facciamo per il servizio del Regno devono essere ricondotte a Dio Padre Onnipotente, il quale dall’alto dei cieli fortifica la nostra volontà, infonde energia e vigore al corpo, santità all’anima perché si possa operare secondo Dio.

“Ma non v’è che un medesimo Iddio”. Per la terza volta Paolo asserisce che non vi possono essere divisioni tra i cristiani in base ai “doni”, perché è lo stesso Dio che elargisce i doni in tutta la loro diversità. E appunto perché tutti i doni procedono da Dio, non possono essere diretti che ad un fine degno di Dio.

Ogni uomo è uno strumento nelle mani di Dio. Se Dio usa uno strumento per una cosa e un altro strumento per un’altra cosa, forse che lo strumento può entrare in gelosia, può comportarsi con invidia, può dire al Signore perché usi me e non l’altro, oppure perché usi l’altro e non me? Se Dio ha disposto che uno eserciti un ministero con un carisma particolare e un altro agisca secondo un altro ministero e con un carisma differente, chi è l’uomo perché possa dire a Dio perché mi hai fatto così e perché mi hai fatto in modo differente dagli altri?

Se è Dio che opera in noi, allora è giusto pregare Dio che agisca in noi secondo il dono di cui ci ha arricchiti, ma anche che dia vigore al dono con cui ha arricchito gli altri.

In questi versetti abbiamo l’impalcatura profonda della struttura di una vita comunitaria e anche di coppia, cioè la diversità e l’unità. Esse non sono una insidia l’una all’altra, ma sono necessarie l’una all’altra, se no, è impossibile vivere. Il discorso è grade perché vale sia al livello strettamente personale, sia a livello sociale. Sono valori di fondo nei quali è in gioco il destino dell’umanità, cioè come vivi ciò che sei. Oggi si cerca di abolire la diversità. C’è unità, ma nella stoltezza, nella non identità, nella distruzione della persona.

«Or a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per l'utile comune». Questo è un criterio di discernimento dei doni: l’utilità comune. Tutto ciò che ho e sono, serve per amare Dio e il prossimo, e se non porta in questa direzione, me ne sto appropriando indebitamente, e quindi lo sto usando diabolicamente. Tutti i doni sono doni di Dio, ma possiamo farne un uso giusto o sbagliato. Un ministero, un dono, un carisma, una grazia non sono per la persona che li riceve, sono per l’utilità comune. Ognuno deve sentirsi arricchito dal carisma dell’altro, poiché l'altro, il suo carisma, Dio non gliel’ha dato per se stesso, ma per il bene della Chiesa.

Da questo principio enunciato da Paolo nasce per ogni cristiano un problema serio di coscienza. Se il carisma dell’altro è per la mia utilità, posso io trascurarlo, posso non servirmene se esso mi è necessario? Ignorare il carisma dell’altro, non servirsene, non volere che questo carisma porti frutto, è un peccato che si riversa contro di me. Se il carisma dell’altro è per me, privandomene, mi privo del nutrimento di cui necessito.

Il rifiuto del carisma dell’altro, e soprattutto il rifiuto per motivi di cattiva coscienza, mi pone in un serio pericolo di fallire nella mia vita cristiana, perché mi privo del sostegno e del nutrimento che il Signore mi ha posto accanto.

 

 

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Martedì, 07 Gennaio 2025 20:23

Battesimo del Signore (anno C)

(Lc 3,15-16.21-22)

Luca 3:15 Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo,

Luca 3:16 Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.

Luca 3:21 Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì

Luca 3:22 e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

 

La questione che qui viene posta e che costituirà motivo di rivelazione è l'identità di Giovanni: “se non fosse lui il Cristo”, cioè il Messia atteso da Israele. Il v. 16 pone in diretto confronto, da un lato, Giovanni con Gesù; dall'altro due diverse tipologie di battesimi. Gesù è presentato come il “più forte” di me. Il titolo de “il più Forte”, è riconosciuto nell'Antico Testamento a Dio (Dt 10,17). Se, dunque, Gesù è definito “il più Forte” ora Luca quantifica la distanza che intercorre tra Giovanni e colui che è “il più Forte”, commisurandola con l'espressione: “non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali”. Un lavoro da schiavi. Ebbene, la distanza è tale che a confronto de “il più Forte”, Giovanni non è neppure degno di essere qualificato come schiavo. Questa è la distanza che separa Giovanni da Gesù.

Gli effetti di questo divario tra i due sono indicati dal confronto tra le modalità dei due battesimi: “Io vi battezzo con acqua […] egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Una espressione quest'ultima che può essere letta come endiadi: lo Spirito Santo che è fuoco. Dio appare a Mosè sul monte Oreb sotto forma di fuoco che non brucia e guida il suo popolo nel deserto sotto forma di una colonna di fuoco che lo illumina e lo protegge dai suoi nemici. Un fuoco che esprime anche sia l'ira che la giustizia di Dio contro le infedeltà e i nemici del suo popolo. Questo fuoco è accostato allo Spirito Santo e, letto come endiadi, è lo Spirito Santo ed esprime la forza della sua natura dirompente, ma nel contempo esso si colloca in mezzo agli uomini come azione di giudizio divino.

Si noti l'uso dei tempi che Luca fa del verbo battezzare: il battesimo di acqua è retto dal presente indicativo e dice lo stato attuale delle cose; un battesimo di penitenza e di preparazione in vista di un altro battesimo, ma in se stesso privo di ogni forza rigenerante. Un battesimo, quindi, ancora imperfetto. Per contro, il battesimo di Spirito Santo e fuoco è retto dal verbo al futuro, poiché riguarda i tempi successivi a Giovanni, inaugurati da “il più Forte” di lui.

Uno Spirito Santo che tutti gli evangelisti descrivono con riferimento alla colomba. Il richiamo alla colomba è alquanto singolare, poiché in nessuna parte della Bibbia Dio viene riferito alla colomba. La scelta della colomba probabilmente nasce da due immagini bibliche: da Gen 1,2 in cui si dice che “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”; e nel racconto del diluvio universale, dove si narra che Noè liberò una colomba per verificare se la terra fosse ancora coperta dalle acque. In entrambi i casi l'aleggiare e la colomba di Noè hanno a che fare con l'acqua, così come lo Spirito ha a che fare con le acque battesimali, quelle del Giordano.

Il v. 22 presenta l'investitura pubblica di Gesù, una sorta di unzione profetica nello Spirito, fornendogli tutta l'autorità e il potere divini, di cui è rivestito non solo per mandato, ma anche per sua natura. Luca fornisce qui la chiave di lettura non solo della persona di Gesù, ma anche della sua stessa missione: Gesù non opera per conto proprio, ma in forma trinitaria. Vi è infatti qui la presenza sia del Padre, sotto forma di voce, che riconosce in Gesù suo Figlio: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”; vi è lo Spirito Santo che scende su Gesù e vi rimane; e infine, vi è Gesù stesso, il Figlio del Padre. Padre e Spirito Santo, pertanto, operano in e con Gesù, che è azione del Padre, lo spazio storico dove il Padre opera con la potenza del suo Spirito. L'intera missione di Gesù acquista pertanto una valenza marcatamente trinitaria.

 

 

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Lunedì, 30 Dicembre 2024 22:02

2a Domenica dopo Natale

(Gv 1,1-18)

Giovanni 1:1 In principio era il Verbo,

il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio.

 

Giovanni 1:2 Egli era in principio presso Dio:

 

Giovanni 1:3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,

e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

 

Giovanni 1:4 In lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini;

 

Giovanni 1:5 la luce splende nelle tenebre,

ma le tenebre non l'hanno accolta.

 

Nei vv. 1-5 vi è una logica discendente, che vede il Logos, dapprima, in rapporto con Dio (vv. 1-2), poi, in rapporto con se stesso (vv. 3-4), infine, in rapporto con gli uomini (v. 5), così che da quel suo essere presso Dio si ritrova ad essere presso gli uomini. Una discesa, quindi, spesa a favore degli uomini.

Si parla di un principio, che richiama per la sua formulazione - «En archē» - quello genesiaco (Gen 1,1) e a questo intenzionalmente rimanda. Qui (Gv 1,1), infatti, come là (Gen 1,1), si inizia con «En archē»; si prosegue con un richiamo alla luce e alle tenebre (Gv 1,5), che in qualche modo riflettono Gen 1,3-5; la Parola del prologo è l'esclusiva protagonista creatrice di tutto ciò che esiste, possedendo in se stessa la vita; così similmente, la Parola genesiaca, che si ripete, quasi come una litania, per ben nove volte (“E Dio disse”), è potenza creatrice, che promana vita. Vi è in Giovanni una chiara intenzionalità nell'assimilare le vicende degli inizi del suo Vangelo a quelle della creazione genesiaca, quasi a voler indicare al lettore come l'accadere dell'evento Gesù costituisce l'inizio di una Nuova Creazione.

Benché vi sia un sostanziale richiamo al primo capitolo della Genesi, i due «En archē» sono sostanzialmente diversi, costituendo due contesti completamente differenti tra loro. Il genesiaco «En archē» si costituisce come l'inizio temporale della creazione, limitandosi ad indicarne l'origine divina. Non si tratta di un'origine metafisica, bensì storica. Di diversa natura è l' «En archē» di Giovanni, il cui contenuto è l'esistenza trascendente, metafisica, della Parola. Si tratta di un principio assoluto, che ci porta non alle origini della creazione, bensì della vita stessa di Dio. Non c'è più il fare di Dio, bensì l'Essere di Dio, che è Parola. Il verbo unico e dominante nei vv. 1-2, infatti, è il verbo «essere», che per sua natura indica sempre l'essenza del suo soggetto, dice sempre qualcosa del suo essere e ci trasporta nell'area dell'ontologia. Esso è posto qui sempre all'imperfetto indicativo («era»), evidenziando la persistenza dell'Essere della Parola, che viene posta in un principio che non ha inizio, ma che indica l'assolutezza della Parola e la sua preminenza.

Il v. 1 presenta la Parola, o Verbo, nella sua relazionalità con Dio, che in Giovanni indica il Padre: “il Verbo era presso Dio”. Anche qui compare il verbo ‘essere’ per indicare un aspetto costitutivo dell'essere della Parola. Anche qui il verbo è posto all'imperfetto indicativo, per significare come l'essere della Parola presso Dio sia una condizione permanente e persistente, il proprium dell'esistenza della Parola, evidenziandone la coeternità. Il suo rapporto con Dio è qualificato dalla particella «pros», che qui regge l'accusativo («ton theon», Dio), aprendo in tal modo la relazione ad una pluralità di significati, che descrivono in diversi modi il rapportarsi della Parola nei confronti del Padre. La particella esprime un moto a luogo; possiede, quindi, in se stessa una sua dinamicità, che indica la direzione della Parola: essa non si trova soltanto presso il Padre, da cui proviene, ma è rivolta, per sua natura, verso il Padre, esprimendo una forte tensione relazionale, che l'attrae verso di Lui e a Lui lo lega inscindibilmente. La particella «pros», inoltre, assume in sé anche il significato di causa, ragione, finalità, evidenziando un altro aspetto della Parola nel suo relazionarsi con il Padre: la sua ragion d'essere è il suo essere per il Padre, in sua funzione e in suo favore; in Lui trova il senso del suo esistere e in Lei il Padre si riflette e si ritrova. È una Parola che si nutre della volontà del Padre, così che il fare la sua volontà diventa elemento essenziale e costitutivo del suo stesso vivere e del suo stesso esserci, anzi lei è lo stesso Dabar (ebr.: = parola) del Padre. Non vi sono personalismi o iniziative private, ma il Dabar del Padre, per sua natura, riflette in se stesso il Padre e ne dà attuazione nel suo dire/agire, divenendone testimone e rivelatore in mezzo agli uomini.

“E il Verbo era Dio”. Il nome “Dio” non è preceduto dall'articolo determinativo come, invece avviene per “Il Verbo” (kai theos ēn ho logos), lasciando intendere come il nome “Dio” sia predicato della Parola, che è soggetto del verbo, sottolineandone, quindi, la divinità alla pari del Padre.

L'intento del v. 2, «Egli era in principio presso Dio», è quello di accentrare l'attenzione sulla relazionalità Parola-Padre, relazione che era tale fin da principio. L'attenzione, quindi, si sposta sulla relazionalità della Parola con il Padre, della quale si attesta l'eternità con l'espressione «en archē». Non più la Parola, dunque, è «en archē», bensì la relazione di Questa con Dio.

Se i vv. 1-2 contemplano la Parola nella sua triplice condizione di eternità, di relazionalità con Dio, e di natura divina, accentrando l'attenzione sull'aspetto relazionale, i vv.3-5 evidenziano la doppia dinamicità della Parola, ponendola in stretta relazione agli uomini (v. 4), che si attua nel suo apparire in mezzo ad essi (v. 5).

Il v. 3 si apre con un assoluto al plurale «panta» (tutte le cose), privo di articolo determinativo, quindi onnicomprensivo, che non ha limiti e che tutto abbraccia senza nulla escludere, facendo della Parola la fonte esclusiva, prima ed ultima, di tutto ciò che esiste. Tale esclusività di questa origine originante del Tutto viene rafforzata dall'espressione seguente, posta in forma negativa, con cui si esclude che qualcosa sia avvenuta senza il suo intervento. Questa assolutezza va ben oltre alla semplice creazione, per abbracciare l'intero esistente sia in quanto già in essere, che in divenire o semplicemente in potenza. Ma ciò che maggiormente viene sottolineata è l'azione di mediazione propria della Parola. L'accento, quindi, va a cadere non tanto sul «panta», bensì sulle preposizioni «dià» (per mezzo) e «chōrìs» (senza), che sottolineano la natura mediatrice della Parola.

«In lui [nel Verbo] era la vita e la vita era la luce degli uomini». Luce e vita, un binomio che richiama da vicino la dimensione stessa dell'Essere divino. Luce perché con il suo apparire si è resa visibile e raggiungibile dagli uomini; luce perché diventa rivelatrice del volere di Dio nei confronti degli uomini; luce perché questa è la dimensione di Dio, in cui viene collocata la nuova creazione, alla quale gli uomini sono chiamatati ad aderire esistenzialmente. Una luce che richiama il genesiaco v. 1,3. Anche lì compare la luce, che costituisce il contesto ambientale entro cui venne collocata la prima creazione. Non si tratta della luce degli astri, che comparirà soltanto nel quarto giorno, bensì della dimensione stessa di Dio, in cui la creazione genesiaca venne posta, rivestita e permeata. Per questo, al suo termine, Dio si ritroverà in essa e in essa si rifletterà, riconoscendo che “quanto aveva fatto era cosa molto buona” (Gen 1,31). Una creazione, dunque, rivestita e incandescente - di Dio.

Il v. 5 chiude la concatenazione discendente della Parola, che, contemplata nel suo essere in principio presso Dio, appare ora in mezzo alle tenebre. Questo bipolarismo fa parte dello schema della mente umana, che al positivo associa per contrapposizione il negativo, aprendo tra questi due poli un'ampia gamma di sfumature. La coesistenza e la convivenza della luce con le tenebre appartengono al primordiale contesto della creazione genesiaca. Anche lì la luce apparve in mezzo alle tenebre. Essa non ha dissolto le tenebre, ma ha creato un nuovo contesto, una nuova realtà, che si è contrapposta ad esse, così che Dio le ha separate (Gen 1,4), assegnando loro un proprio ruolo (Gen 1,5). Luce e tenebre, dunque, si pongono alle origini della vita come due entità a se stanti e inconciliabili, poiché esse hanno a che fare con le dinamiche più profonde dell'uomo e della vita. Luce e tenebre dicono la dialettica di contrapposte vedute tra Dio e l'uomo decaduto. Le tenebre, oltre che descrivere la condizione dell'uomo dopo la caduta primordiale, dicono tutta la sua incapacità di saper cogliere la luce, poiché le tenebre, per loro natura sono cieche e racchiudono tutto nella loro cecità. È proprio questa dialettica di contrapposizione luce-tenebre, che caratterizza la storia della salvezza. Per questo “le tenebre non l'hanno accolta” (v. 5).

Due sono i significati di tenebre nel v. 5: nella prima parte si indica in senso generale la condizione umana decaduta, avvolta nell'ignoranza di Dio, così che l'apparire della luce in questo contesto sottolinea la funzione illuminatrice e rivelativa della Parola incarnata, togliendo all'uomo decaduto ogni alibi, portandolo a conoscenza del volere divino, di fronte al quale è chiamato a prendere posizione. Nella seconda parte del v. 5 le tenebre sono storicizzate e incarnate nel mondo pagano e in quello giudaico, quali luoghi storici in cui esse si sono radicate e si sono contrapposte alla Parola. Il primo “tenebre”, dunque, indica lo stato, la condizione dell'uomo prima della venuta della Parola; il secondo “tenebre” individua storicamente gli attori che le incarnano.

 

 

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Lunedì, 28 Ottobre 2024 22:27

31a Domenica del Tempo Ordinario (B)

Sal 17 (18)

Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.

Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.

Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo  baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.

La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.

Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.

L’arma  vincente  di  Davide  è la  fede  che si  trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco  cosa  fa  Davide:  nell’angoscia  non  si  perde,  non  si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.

Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei  monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.

Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.

«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.

«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.

«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.

«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.

Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.

 

 

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Domenica, 12 Novembre 2023 14:47

3a Domenica di Avvento (anno B)

1Ts 5,16-24

1Tessalonicesi 5:16 State sempre lieti,

1Tessalonicesi 5:17 pregate incessantemente,

1Tessalonicesi 5:18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.

1Tessalonicesi 5:19 Non spegnete lo Spirito,

 

«State sempre lieti». Il tema della gioia è il clima spirituale della comunità cristiana. Il cristianesimo è gioia, letizia spirituale, gaudio del cuore, serenità della mente. «Sempre» significa in ogni circostanza. Da un punto di vista esteriore c’era ben poco per cui i credenti a quei tempi potessero rallegrarsi. Ma la gioia è un frutto dello Spirito, non è qualcosa che il cristiano possa procurarsi traendola fuori dalle proprie risorse.

Il cristiano è chiamato ad essere sempre lieto. Questa qualità del suo nuovo essere è possibile ad una sola condizione: che vi sia nel cuore una fede così forte da pensare in ogni momento che tutto ciò che avviene, avviene per un bene più grande per noi. Chi non possiede questa fede, si perde, perché la tribolazione, senza la fede, non genera speranza, ma delusione, tristezza, lacrime e ogni altra sorta di amarezza.

La letizia matura solo sull’albero della fede e chi cade dalla fede cade anche dalla letizia e precipita nella tristezza. Sapendo che il male fisico o morale permesso da Dio deve generare in noi la santificazione, il cristiano lo accoglie nella fede e lo vive nella preghiera.

Infatti l'apostolo aggiunge: «pregate incessantemente». In questa brevissima esortazione è nascosto il segreto della vita del cristiano. La preghiera deve scandire la vita della comunità e dei singoli; un’attitudine continua. Non è la preghierina fatta ogni tanto, ma è una preghiera regolare, fatta secondo un ritmo costante. Se si fa questo possiamo andare anche oltre, e cioè vivere in uno spirito di preghiera, consci della presenza di Dio con noi ovunque siamo.

È perso quel momento che è senza preghiera. È un momento affidato solo alla nostra volontà, razionalità, è un momento perso perché non fatto secondo la volontà di Dio ma secondo la nostra. È perso quell’attimo vissuto, ma non affidato a Dio nella preghiera. È perso quel momento fatto da noi stessi, ma non fatto come un dono di Dio per noi e per gli altri. Questa è la verità della nostra vita.

Poiché oggi non si prega più, o si prega solo per alcuni interessi personali, tanta parte della nostra vita viene sciupata, è persa, non è vissuta né per il nostro bene, né per il bene dei nostri fratelli. Imparare a pregare è la cosa più necessaria per un uomo. Insegnare a farlo è l’opera primaria del sacerdote, o di chi guida la comunità.

«In ogni cosa rendete grazie», è il modo di vivere in un clima gioioso e orante. Abbiamo il verbo eucharistein («rendere grazie»). In ogni situazione rendere grazie, perché anche nelle nostre difficoltà e nelle nostre prove Dio ci insegna lezioni preziose. Non è facile vedere il lato positivo di una prova, ma se Dio è sopra ogni cosa, allora è sovrano anche nella prova.

Perché di tutto si faccia un rendimento di grazie, occorre che il cuore si rivesta di umiltà. È proprio dell’umiltà riconoscere quanto il Signore ha fatto e fa per noi. Ma è proprio della preghiera innalzare al Signore l’inno per il rendimento di grazie, per la benedizione, per la glorificazione del suo nome che è potente sulla terra e nei cieli.

Chi non rende grazie è un idolatra. Pensa che tutto sia da lui, dalle sue capacità, e quindi si attribuisce ciò che è semplicemente e puramente un dono del Signore. Esempio di come si ringrazi il Signore, lo si benedica, lo si esalti e lo si magnifichi è la Vergine Maria. Il suo Magnificat è quotidianamente recitato dalla Chiesa. Bisogna che non solo venga recitato, quanto imitato, pregato, fatto propria vita.

A chiusura di questa triade di imperativi sulla vita spirituale, si dà una motivazione che abbraccia tutte e tre le esortazioni: «questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi». In questo contesto l’espressione «volontà di Dio» implica uno stile di vita corrispondente al progetto di salvezza rivelato in Gesù Cristo. La volontà di Dio viene fatta conoscere in Cristo, e in Cristo ci viene data la motivazione e la forza per cui ci è possibile fare quella volontà.

 

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Domenica, 12 Novembre 2023 12:12

2a Domenica di Avvento (anno B)

Mc 1,1-8

Marco 1:1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.

Marco 1:2 Come è scritto nel profeta Isaia:

Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,

egli ti preparerà la strada.

Marco 1:3 Voce di uno che grida nel deserto:

preparate la strada del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri,

 

Il racconto di Marco inizia in un modo insolito e apparentemente banale, dicendo al lettore che quello che sta leggendo è l'inizio del vangelo di Gesù. Un'affermazione questa che lascia perplessi, dato che tutti i libri cominciano dal loro inizio e non è il caso che si sprechi un versetto per dirlo. Ma evidentemente quel “archē” (inizio) assume per l'evangelista un significato del tutto particolare. L'inizio di cui si parla non è soltanto l'inizio di un racconto, ma un "arché", cioè un principio da cui tutto discende. Il termine greco "arché" ci riporta alle origini della creazione: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1) e fu proprio in questo principio, assoluto e unico, che risuonò la parola creatrice. Marco, quindi, vede in Gesù l'inizio di una nuova creazione.

L'inizio di cui si parla è quello di un "vangelo", cioè l'inizio di un lieto annuncio, il cui contenuto è Gesù stesso: «di Gesù Cristo, Figlio di Dio», cioè appartiene a Gesù e si origina da lui. Marco fin da subito mette in chiaro chi è l'eroe del suo racconto e, quindi, come va letta e compresa la sua figura e, di conseguenza, la sua missione. Il suo personaggio è innanzitutto chiamato Gesù, dichiarandone, in tal modo, la dimensione storico-umana: egli è un vero uomo, che si muove ed opera in mezzo agli uomini. Gesù, dunque, non è una realtà metafisica, piovuta dal cielo chissà in quale modo, ma ha profonde radici umane ed è, grazie alla sua umanità, incardinato nella storia, che condivide con il resto degli uomini. In ciò Gesù dimostra tutta la sua solidarietà con il genere umano. In tale nome, poi, è racchiuso il senso più vero e profondo della sua missione. In ebraico, infatti, il nome Gesù (Yeshua) significa "Dio salva"; il lettore, pertanto, è invitato a cogliere in questo uomo l'azione salvifica di Dio stesso.

Ed ecco, quindi, che accanto al nome Gesù compare subito l'attributo "Cristo". Il profeta Natan aveva promesso a Davide una discendenza, che avrebbe reso stabile il suo regno. Da quel momento il popolo ebreo attendeva questa "discendenza", questo "Unto del Signore", a lui consacrato. Nell'immaginario del popolo le attese erano rivolte ad una sorta di super uomo, politico, militare e religioso, che avrebbe dato lustro, splendore e stabilità ad Israele sopra tutti gli altri popoli, e che avrebbe fondato sulla terra il regno di Dio. Marco vede in Gesù il realizzarsi di questa antica profezia, che supera, però, le ristrette visioni storiche e terrene del popolo. Certo, Gesù è il vero Messia atteso, ma la sua messianicità non è così come è sempre stata pensata dagli uomini, ma è posta al servizio di Dio e si rivelerà gradualmente nel doloroso cammino verso la croce, che lascerà sbigottiti, increduli e riluttanti i suoi stessi discepoli. Marco, quindi, vede in Gesù l'Unto di Dio, l'uomo che Dio aveva promesso a Davide e che aveva pensato da sempre per il suo popolo e per l'intera umanità.

Capire, quindi, che Gesù è il Cristo atteso è il primo passo per poter accedere all'altra incredibile realtà, presente in lui: egli è anche Figlio di Dio. L'essere "figlio di Dio" era uno dei titoli attribuiti al Messia; era anche il titolo riconosciuto ai re. Ma Gesù nel corso della sua vita ha dimostrato che il suo essere "Figlio di Dio" aveva radici molto profonde, sconosciute fino ad allora, testimoniando una relazione unica, privilegiata ed esclusiva con Dio, che chiamava "Padre" in senso reale e non metaforico, denunciando, in tal modo la sua vera origine e natura.  

Il vangelo di Marco, quindi, diventa un cammino alla scoperta della vera natura e del vero essere di Gesù. Si parte dalla sua umanità, definita e contenuta nel nome Gesù, per accedere alla sua messianicità, condensata nel titolo di «Cristo», per giungere alla scoperta del titolo dei titoli: «Figlio di Dio» e, quindi, Dio lui stesso.

Il racconto di Marco continua poi con un solenne e autorevole “Come è scritto nel profeta Isaia...”. Alla base di tutto, dunque, ecco la Scrittura, la Parola creatrice di Dio, che trova nell'evento Gesù la sua incarnazione e la sua piena manifestazione. Gesù, dunque, è la Parola del Padre che si fa storia e diviene azione redentrice di Dio in mezzo agli uomini.

Il profeta Isaia esortava il popolo d'Israele, prigioniero a Babilonia, ad aprirsi alla speranza e a preparare la via del ritorno in patria come una sorta di secondo esodo, attraverso il deserto, dove il resto d'Israele, quello rimasto fedele a Dio, avrebbe visto la gloria del Signore.

Ed è proprio sulla spinta del profeta Isaia che il “maestro di Giustizia”, l'enigmatica figura della comunità di Qumran, creò la sua comunità in mezzo al deserto, in attesa della venuta del Messia. Una sorta di comunità monacale animata da forti tensioni escatologiche ed apocalittiche.

Il “deserto” è una parola emblematica e molto significativa nella storia di Israele, perché è da lì che è partita la sua storia della salvezza; lì ha ricevuto la sua identità diventando proprietà di Dio; ed è sempre lì, nel deserto, che Israele viene messo alla prova e trova il suo riscatto e la sua rigenerazione spirituale. In tal guisa, è ancora da qui, dal deserto, che parte ora la storia di un nuovo Israele, a cui Marco allude, richiamandosi ai testi profetici. Ecco perché Marco vede la sua opera come un “archē”, come un inizio.

 

 

 

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Domenica, 12 Novembre 2023 10:04

1a Domenica di Avvento (anno B)

1Cor 1,3-9

1Corinzi 1:3 grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

1Corinzi 1:4 Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù,

 

Il saluto iniziale di Paolo non è semplice forma, ma un Annuncio, «grazia a voi e pace». Questo binomio è una novità assoluta, non ha precedenti, perché i greci salutavano con «charis» mentre gli ebrei salutavano con «shalom». Paolo mette insieme le due cose, unendo il saluto ebraico a quello greco.

La «grazia» è il dono gratuito della riconciliazione dell'uomo con Dio, con se stesso e con gli altri. La «pace» è quella messianica, portata da Gesù, con tutta la pienezza di vita che ci ha guadagnato attraverso la sua morte e risurrezione; è la calma profonda che riempie il cuore di chi sa e si sente riconciliato con Dio. Questi doni vengono dal Padre e dal Signore Gesù Cristo. Gesù viene considerato, unitamente al Padre, fonte di benedizioni.

Facilmente si dice che la grazia e la pace sono un dono di Dio; difficilmente invece si afferma che esse possono maturare solo nella volontà dell’uomo e nella sua perseveranza, e che sono date a noi sotto forma di granellino di senapa. Se mancano i frutti dell’uomo, il dono ricevuto diviene come un seme che cade sulla strada. Esso è mangiato dagli uccelli del cielo. Questo deve significare per tutti noi una cosa: Dio dona la sua grazia, dona il suo amore, ma è dovere di ogni uomo non solo accogliere questo dono gratuito della misericordia del Padre, quanto di farlo sviluppare nel suo cuore e nella sua vita.

Paolo dice: «rendo del continuo grazie». La comunità di Corinto ha tanti problemi, tanti peccati, tante difficoltà, ma ecco che l'apostolo non va a guardare subito queste cose, guarda per prima cosa il bene che questa comunità ha. È fatta di persone che hanno accettato che Dio è Padre. E Paolo ringrazia: in greco c'è la parola «eucharistō», fare eucarestia, ringraziare. L'atteggiamento fondamentale del credente è sempre un atteggiamento di rendimento di grazie. I numerosi difetti esistenti nella chiesa non nascondono all’occhio dell’apostolo quello che vi è di buono.

Di solito, questo non è il modo normale con il quale noi consideriamo le cose. Invece di star lì sempre nelle proprie angustie e nei patemi del misurarsi con l'altro continuamente, vedere cos'ha, cosa non ha e nell'invidiare quelle due che ha e nel criticarlo per le cinque che non ha, ma dico, perché stiamo al mondo? Per invidiare e criticare? L'atteggiamento costante della vita che c’insegna Paolo è l'eucarestia, cioè il rendere grazie e godere del dono di Dio.

Paolo non ha una concezione della vita ottimistica, ove tutto finisce bene - adesso piove ma dopo verrà sereno... No, Paolo concepisce la vita come un dono. Allora dice grazie! In genere noi abbiamo il carisma della lagna, vediamo sempre quello che manca.

Paolo non solo ringrazia Dio per quanto ha fatto per lui, ma ringrazia Dio continuamente anche per tutti coloro che sono stati arricchiti dalla sua grazia e dalla sua verità. Cristo e la Chiesa sono un corpo unico, non due corpi, non molti corpi. Lutero ha separato Cristo dalla sua Chiesa, Cristo dal suo corpo. Ma se avesse ragione non siamo più in Cristo. Non è veramente in Cristo chi non è veramente nella sua Chiesa; non è veramente nella sua Chiesa, chi non è veramente in Cristo Gesù e si è in Cristo Gesù se si è nella pienezza della sua grazia e della sua verità.

La ragione per cui Paolo ringrazia continuamente Dio si trova in questa unità perfetta tra Cristo e la sua Chiesa. Paolo è corpo di Cristo, e in quanto corpo di Cristo ringrazia Dio. Ringraziando Dio come corpo di Cristo, lo ringrazia per se stesso e per gli altri, ma lo ringrazia dal corpo di Cristo e nel corpo di Cristo, lo ringrazia cioè da santo.

Se noi riuscissimo a capire questa verità che Paolo trasforma in preghiera, faremmo fare alle nostre comunità un salto di qualità veramente notevole nella santità. Cesserebbero gelosie, invidie, dissensi, discrepanze ed ogni altro genere di divisione. Tutti sapremmo che c’è un solo Cristo, un solo corpo di Cristo, una sola Chiesa, e tutti noi siamo quest’unico Cristo, quest’unico corpo, quest’unica Chiesa… E i poteri forti di questo mondo tremerebbero.

 

 

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Domenica, 12 Novembre 2023 08:11

XXXIV Domenica T.O. - Cristo Re (anno A)

Mt 25,31-46

Matteo 25:31 Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria.

Matteo 25:32 E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri,

Matteo 25:33 e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra.

 

Il brano si apre con l'espressione hotan de elthē, "quando poi verrà", che proietta il lettore nel tempo ultimo, è il quando finale. È un tempo che non appartiene più agli uomini, ma a Dio, poiché riempito della sua onnipotenza e della sua gloria, ed è il contenitore entro il quale gli uomini saranno riuniti per subire il giudizio divino. Il vero problema non è il tempo, ma il significato della venuta del Figlio dell'uomo e la conseguente necessità di essere preparati, perché la sua venuta nella gloria significherà giudizio.

Qui il titolo Figlio dell'uomo perde il suo significato messianico, che lo definiva nella dimensione terrena come l'atteso Messia, per assumere il significato di uomo glorificato o, per meglio dire, di un Dio che si è ripresa la sua primordiale condizione di vita divina, assorbendo in essa anche la sua umanità. Gesù Cristo è ritornato alla gloria divina da cui era venuto; un ritorno che lo vede, tuttavia, rivestito ancora della sua inseparabile umanità, glorificata, ora, dalla potenza del Padre. Ed è proprio in questa ultima e definitiva condizione che Matteo presenta Gesù, il Figlio dell'uomo/Re seduto sul "trono della sua gloria", immagine questa che nel linguaggio veterotestamentario alludeva alla presenza di Dio nel Tempio di Gerusalemme, ma in Matteo, nel giorno del giudizio, tale privilegio è accordato al Figlio dell'uomo. È, dunque, quella che l'evangelista ci presenta, una visione escatologica ed apocalittica insieme, perché rivelativa della vera natura dell'uomo-Dio Gesù, il cui sedersi sul trono della sua gloria indica la definitiva acquisizione della sua onnipotenza divina, conseguita e riconquistata dopo la glorificazione per mezzo della risurrezione e ascesa al cielo.

La presenza degli angeli accompagna il suo irrompere improvviso, glorificato della stessa vita divina che gli è propria, e sottolinea la sua regalità e la sua onnipotenza. L'immagine che ci viene presentata è quella di una fastosa corte imperiale dove il Re siede onnipotente in mezzo ai suoi servi pronti per servirlo. Il Figlio dell'uomo siede sul trono della sua gloria mentre gli angeli rimangono in piedi. Questo evento prepara la grande scena del giudizio che segue, in cui Gesù funge da giudice, un ruolo che nell'Antico Testamento era ristretto a Yahweh.

Abbiamo, quindi, nel nostro testo, un intreccio tra Dio e il Figlio dell'uomo, i quali condividono la stessa autorità e potere sovrano. Inoltre, il fatto che il Figlio dell'uomo sia accompagnato dagli angeli nella sua venuta, si adatta perfettamente all'immagine del giudizio divino, poiché nella parabola del grano e della zizzania, gli angeli sono i "mietitori". Ammiriamo l'alta cristologia del Vangelo di Matteo: il Figlio dell'uomo viene con la stessa gloria e autorità del Padre.

Per ricapitolare, Gesù si insedia sul trono della sua maestà, che è il trono del giudizio, ed insieme a lui c'è tutta la corte celeste degli angeli. È finito ormai e concluso il tempo della storia e il Dio Salvatore si porrà nei confronti dell'uomo come il Dio che viene a giudicare i vivi e i morti. Nessuno potrà più sottrarsi al confronto con Lui, e coloro che non hanno voluto ascoltare la parola di salvezza saranno costretti ad ascoltare la parola di condanna.

È una raffigurazione grandiosa, al centro della quale c'è Gesù, il Signore. Dinanzi a Lui si presenterà ogni uomo: piccolo o grande, famoso o sconosciuto, libero o schiavo, nato prima della sua gloriosa risurrezione o dopo, credente o pagano, religioso o ateo, osservante della Legge o suo trasgressore, santo o peccatore, giusto o ingiusto, dotto o ignorante. Dinanzi a Gesù si presenterà ogni fondatore di religione, ogni teologo, ogni maestro e inventore di dottrine, ogni uomo di scienza e di tecnica, ogni filosofo e pensatore. Dinanzi a Gesù comparirà l'umanità intera.

Nel giudizio ci sarà una divisione all'interno dell'umanità. "Tutte le genti" vengono radunate davanti a Gesù presentato nei suoi attributi di re e pastore. Il giudizio implica una separazione tra i giusti e i malvagi di tutte le genti. Il pastore separa le persone le une dalle altre, categorizzandole come pecore e capri, dividendo tutta l'umanità in due categorie sulla base delle loro opere.

L'intera umanità è, dunque, sospinta da Dio davanti al trono di suo Figlio, "davanti a lui". Egli è qui colto come il punto di convergenza di tutta la storia umana, quello che lo scienziato e gesuita Teilhard de Chardin ha chiamato punto Omega, un termine da lui coniato per descrivere il massimo livello di complessità e di coscienza al quale sembra che l'universo tenda nella sua evoluzione. Appare dunque chiaro il disegno del Padre: "ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,10).

Da Adamo fino all'ultimo uomo nato sulla terra, saranno tutti riuniti davanti a Lui. Tutti vivevano nello stesso campo, come il buon grano e la zizzania, ora invece c'è la separazione. Non c'è più alcuna possibilità di potersi confondere, nascondere, mimetizzare. Non ci sono più finzioni, né ipocrisie, né ambiguità. C'è separazione eterna. Questo è il giudizio: "egli separerà gli uni dagli altri".

Il Figlio dell'uomo non è un pastore che va alla ricerca della pecora perduta, non è un'azione salvifica; ma è l'azione di chi divide il suo gregge, poiché il tempo della misericordia si è compiuto, così come la porta delle dieci vergini fu definitivamente chiusa. Anche lì vi fu una separazione operata dallo sposo. Questa separazione comporta il mettere le pecore in una condizione di privilegio (alla destra), rispetto ai capri, posti alla sinistra, cioè in una posizione opposta. Le pecore sono figura di coloro che sono obbedienti alla parola del pastore; nei capri invece è raffigurato lo spirito di disobbedienza. Infatti, non parla di capre ma di capri, animali che cozzano con le corna.

In questa scena di giudizio non ci sono le bilance per pesare le azioni di coloro che sono giudicati, per scoprire chi è giusto e chi no. Piuttosto, il Giudice agisce in base alla sua stessa onniscienza. Egli mette le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra. La destra è sempre il posto d'onore nelle culture semitiche, ma lo vediamo anche nella letteratura ellenistica, nella Repubblica di Platone i giudici nell'aldilà mandano i giusti "a destra e in alto nel cielo" mentre gli ingiusti sono mandati "in basso a sinistra". In tutta la Bibbia, comunque, la destra è sempre il posto d'onore, anche se non sempre "la sinistra" indica una posizione sfavorevole.

Si noti come il pastore si limita a separare le pecore dai capri, ma non stabilisce lui chi è pecora e chi è capro. Sono proprio gli stessi animali, ad essere definiti pecora e capro dalla loro stessa natura. Ognuno sa chi è pecora e chi è capro. Essi si presentano al pastore che sono già pecore e già capri. Al pastore non resta che separarli. È significativo questo particolare, poiché suggerisce come il giudizio divino non stabilisce chi è buono e chi cattivo, ma si limita a definire la destinazione di ciascuno in base al suo presentarsi come pecora o come capro. In altri termini, è il proprio orientamento esistenziale sviluppato nel corso della vita, che ci fa essere per Dio o contro Dio, e reso definitivo e assoluto nel momento in cui l'uomo, attraverso la morte, passa nella dimensione dove non c'è più tempo, dove non c'è più divenire, ma soltanto essere. È chiaro che non tutti quelli che sembrano far parte del regno sono veri cittadini del regno; quando Gesù tornerà separerà gli uni dagli altri, e con ciò non farà altro che suggellare per sempre quella divisione che già era in essere nel tempo della nostra vita.

 

 

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Domenica, 12 Novembre 2023 06:20

XXXIII Domenica T.O. (anno A)

Mt 25,14-30

Matteo 25:14 Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni.

Matteo 25:15 A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì.

 

Il tema di fondo della parabola è subito introdotto: l'assenza del padrone e la responsabilità dei servi, mentre l'insegnamento è che ognuno dovrà rendere conto a Dio in misura di quanto ha ricevuto. Tutti ricevono i doni, ma non tutti ricevono gli stessi doni, "a ciascuno secondo la sua capacità". Il padrone conosce i suoi servi, e per questo dà ad ognuno secondo la loro capacità di gestire le responsabilità. Se i doni sono diversi, diversi sono anche i frutti, diversa è la vita. Non a tutti si devono chiedere gli stessi frutti, ma ad ognuno è dato il tempo sufficiente per mettere a frutto i doni di Dio. Il padrone sta "partendo per un viaggio" e chiamò i suoi servi per dare loro «tà hyparchonta autou», "ciò che apparteneva a lui".

Il viaggio è il tempo concesso ai servi per far fruttare i beni ricevuti; l'uomo che parte per un lungo viaggio è metafora del Gesù morto-risorto e tornato al Padre. Il suo ritorno è la parousia, i servi sono i suoi discepoli. Egli prima di andarsene consegnò ai suoi servi i suoi averi.

È interessante notare come il verbo greco usato è «parédōken», tradotto con "consegnare" o "dare". Non si tratta di un semplice affidamento dei beni, ma di una consegna che presuppone un potere reale su questi beni e, quindi, una capacità legale di gestione degli stessi. In altre parole, i servi vengono resi capaci di operare in nome e per conto del loro padrone. Questo pieno potere è il presupposto per cui essi possono gestire liberamente tali beni come meglio credono e, pertanto, sono anche resi pienamente responsabili della gestione. Tutto ciò è la premessa su cui poi si baseranno e si giustificheranno le pretese prima, e il giudizio poi, del padrone.

Il v. 15 annuncia implicitamente qualcosa di come sarà la comunità cristiana. Non tutti sono uguali e non a tutti viene affidata la stessa quantità di beni. Questa diversa distribuzione di talenti ai vari servi, sta a quantificare il diverso grado di responsabilità ricoperto da ciascuno all'interno della comunità cristiana stessa. Ognuno è chiamato a gestire i beni che Dio gli ha assegnato, e Dio assegna in base alle capacità di ognuno. Ecco dunque che chi era capace di ricevere cinque, ne riceve cinque e così gli altri due. A questo punto non facciamoci problemi che non ci sono, dicendo che ha lasciato a uno cinque, all'altro due, all'altro uno, ma non poteva dare a tutti cinque? Questo non è possibile; per ricevere un dono bisogna essere capaci di gestirlo; il padrone è molto saggio, non dà ai suoi servi una responsabilità più grande di quella che possono gestire.

Quale è il significato dei talenti ricevuti? In Mt 10,7-8 Gesù, nel dare il mandato ai suoi discepoli, li esortava:

«E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

L'annuncio del Regno, accompagnato dalle guarigioni, faceva toccare con mano la forza rigeneratrice della parola di Gesù, che stava generando una nuova umanità. Un dono che gli apostoli avevano ricevuto gratuitamente da Dio, e che essi avevano l'obbligo morale - che poi diventerà anche istituzionale - di trasmettere agli altri. Così è anche in Mt 13,11-12 dove Gesù, rispondendo ai discepoli che gli chiedevano perché parlasse in parabole, diceva:

«Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».

In questo contesto di rivelazione-dono e di annuncio-missione non è difficile individuare come i beni di questo ricco padrone sono i beni dello Spirito e del Regno, che egli lasciava in gestione ai propri discepoli; ciascuno responsabile in base al ruolo ricoperto, ma tutti egualmente responsabili di fronte all'unico e comune Signore, al quale tutti sono chiamati a rendere conto, perché tutti hanno comunque ricevuto la loro parte da far fruttare.

Quindi non si tratta di doti o di qualità naturali, ma del dono gratuito del regno, cioè il dono inestimabile della grazia di Cristo che deve essere annunciato a tutto il mondo e fatto fruttare abbondantemente. È molto limitativo vedere in questi talenti i doni naturali. Di naturale vi è solo il modo in cui ci approcciamo ad essi e come li usiamo, secondo la nostra intelligenza, cultura, carattere, tempo in cui viviamo. L'interesse della parabola non è concentrato sulla quantità dei talenti che ci sono stati dati: che ci appaiano pochi o molti, non ha importanza. Non è questo ciò che ha rilevanza davanti a Dio, quanto piuttosto il modo in cui noi ce ne sentiamo responsabili. Il confronto non è tra chi usa bene i suoi talenti naturali e chi non li usa per niente, ma tra coloro che usano bene il dono di grazia e fra coloro che pur essendo stati beneficiari del dono, non comprendono il suo valore né la novità di vita che porta con sé.

Per entrare ancora più nel particolare, possiamo anche dire che i talenti rappresentano il dovere di portare altre persone a Cristo, di fare altri discepoli. Ciò implica il compimento della promessa fatta ad Abramo, che "in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra". Gesù ha lasciato ai suoi discepoli l'incarico di portare a compimento questa promessa. Non per niente la partenza del padrone "per un viaggio" è simbolica dell'ascensione di Gesù al Padre - in tal guisa lasciando i discepoli (i suoi servi) a completare la missione per suo conto. Matteo sembra qui anticipare, in qualche modo, la parte finale del suo Vangelo, là dove il Gesù glorioso, rivolto ai suoi discepoli, assegna loro il Mandato, composto da tre elementi fondamentali: ammaestrare, battezzare e insegnare ciò che egli ha insegnato (Mt 28,18-20).

Per riassumere, questa parabola riprende una domanda implicita lasciata in sospeso da quella delle dieci vergini: cosa vuol dire "essere pronti"? Non si tratta di stare semplicemente e passivamente in attesa, ma di un operare responsabile, accompagnato da risultati che il Signore alla sua venuta possa vedere e approvare. Infatti, in questa parabola, il periodo dell'attesa non è inteso come un ritardo inspiegabile, ma come un periodo di tempo in cui fare buon uso dei talenti ricevuti. L'essere pronti perciò consiste nel portare fedelmente a termine le proprie responsabilità come discepoli, grandi o piccole che siano. È il Signore che assegna la scala delle responsabilità; il dovere del servo è solo quello di far fruttare quello che gli è stato affidato.

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Because of this unique understanding, Jesus can present himself as the One who reveals the Father with a knowledge that is the fruit of an intimate and mysterious reciprocity (John Paul II)
In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità (Giovanni Paolo II)
Yes, all the "miracles, wonders and signs" of Christ are in function of the revelation of him as Messiah, of him as the Son of God: of him who alone has the power to free man from sin and death. Of him who is truly the Savior of the world (John Paul II)
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo (Giovanni Paolo II)
It is known that faith is man's response to the word of divine revelation. The miracle takes place in organic connection with this revealing word of God. It is a "sign" of his presence and of his work, a particularly intense sign (John Paul II)
È noto che la fede è una risposta dell’uomo alla parola della rivelazione divina. Il miracolo avviene in legame organico con questa parola di Dio rivelante. È un “segno” della sua presenza e del suo operare, un segno, si può dire, particolarmente intenso (Giovanni Paolo II)
That was not the only time the father ran. His joy would not be complete without the presence of his other son. He then sets out to find him and invites him to join in the festivities (cf. v. 28). But the older son appeared upset by the homecoming celebration. He found his father’s joy hard to take; he did not acknowledge the return of his brother: “that son of yours”, he calls him (v. 30). For him, his brother was still lost, because he had already lost him in his heart (Pope Francis)
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore (Papa Francesco)
Doing a good deed almost instinctively gives rise to the desire to be esteemed and admired for the good action, in other words to gain a reward. And on the one hand this closes us in on ourselves and on the other, it brings us out of ourselves because we live oriented to what others think of us or admire in us (Pope Benedict)
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi (Papa Benedetto)
Since God has first loved us (cf. 1 Jn 4:10), love is now no longer a mere “command”; it is the response to the gift of love with which God draws near to us [Pope Benedict]
Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro [Papa Benedetto]

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