Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.
(Es 17,8-13)
Esodo 17:8 Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim.
Esodo 17:9 Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio».
Esodo 17:10 Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle.
Esodo 17:11 Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek.
Esodo 17:12 Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l'altro dall'altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.
Esodo 17:13 Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada.
Questo racconto segue la mormorazione del popolo d'Israele nel deserto per la mancanza di acqua. Quali furono le conseguenze di aver ceduto alla tentazione? La liberazione delle forze del Maligno rappresentate da Amalek. C’è una lotta e una fatica per rimanere nella fede donata dal Signore, e c’è la guerra che è scatenata dal satana, quando vede che la nostra fede in Dio vacilla. Amalek, re di una popolazione che abitava ai margini del deserto, a sud della terra di Canaan, che viene a combattere contro Israele a Refidim, rappresenta tutto questo.
La battaglia contro il nemico non è combattuta da tutti gli uomini, ma soltanto da coloro che sono scelti/eletti da Giosuè (figura di Gesù) e si mettono sotto il suo comando. È una guerra che comporta un’uscita (“esci in battaglia”) dalla vita quotidiana, l’abbandono di ogni occupazione, per un impegno totale. Non si combatte contro il maligno da soli, ma insieme con la Chiesa tutta, sotto la guida di chi è preposto dal Signore, sotto la tutela del “bastone di Dio” che dà la vittoria: bastone che nel racconto è posto nella mano di Mosè.
In precedenza, Mosè aveva dovuto toccare la roccia con il suo bastone per far scaturire l'acqua, ora deva fare la stessa cosa con il suo Dio e Signore: Mosè deve con il bastone toccare Dio, perché da Dio possa scaturire la vittoria per gli israeliti. La roccia fu colpita due volte e l’acqua uscì con abbondanza da essa. Per avere la vittoria su Amalek, Dio dovrà essere toccato fino a completa vittoria. Quando il bastone non tocca Dio, la vittoria è di Amalèk. Quando invece il bastone tocca Dio la vittoria è di Giosuè e degli israeliti. Una vittoria momentanea non serve a Israele. Occorre la vittoria definitiva, il ritiro di Amalek e la pace in Israele.
«Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle» (v. 10). Giosuè esegue quanto gli ordina Mosè. Si sceglie le sue truppe migliori e va a combattere contro Amalek. Mosè non sale sulla cima del colle da solo. Fa venire con sé Aronne e Cur. Essi non vanno contro il nemico, ma si portano vicini a Dio. Soltanto la vicinanza del Signore è garanzia di vittoria, ma bisogna salire sul monte, per toccare il cielo e arrivare a Lui.
Quanto avviene sul monte è immagine della realtà che si compie sul campo di battaglia. Quando Mosè alza le mani e tocca Dio, la vittoria è per Israele. Quando invece Mosè abbassa le mani, lasciandole cadere, prevale e vince Amalek. Quando Dio non è toccato, non sgorga la grazia, non viene fuori la vittoria. Quando Dio è toccato, viene fuori la grazia e la vittoria.
Ma l’uomo si stanca a tenere le braccia sempre alzate per toccare il Signore. Se però il Signore non è toccato, la battaglia volgerà sempre verso il male per noi, non più verso il bene. Ecco allora che viene in aiuto all'uomo l’intelligenza. Aronne e Cur trovano il modo perché Mosè non si stanchi. Non dalle nostre forze è vinto il satana, ma dalla preghiera incessante che il servo di Dio fa salire al cielo. Non ha valore e non è efficace una preghiera che si fermi a metà: dev'essere in un impegno incessante e in una pienezza continua.
Poiché Mosè si stanca a tenere sempre le braccia alzate verso il Cielo, Aronne e Cur prendono una pietra, la collocano sotto di lui ed egli si siede. Loro due, uno da una parte e l'altro dall'altra, sostengono le sue mani. In questo modo le mani di Mosè stanno sempre alzate fino al tramonto del sole. Qui vediamo che intelligenza e sapienza vengono poste a servizio di un bene più grande. Mosè vi mette la parte spirituale, Aronne e Cur la parte materiale. Parte materiale e parte spirituale devono sempre divenire una cosa sola.
Le mani dell’uomo non riescono a stare continuamente alzate verso Dio: non ci sono forze adeguate. C'è bisogno di un sostegno per la nostra stanchezza che ci consenta di essere sempre presenti alla lotta pur in una posizione di riposo. Tutto questo è dato da Cristo, pietra di salvezza.
Fin che dura la battaglia, cioè fino al tramonto di questa esistenza, non bisogna abbandonare uno spirito di preghiera continua. È garanzia di una sicura vittoria contro il nemico. Il Signore combatte per noi, ci dà forza e coraggio per contrastare il maligno, fa in modo che non siamo sopraffatti dalla stanchezza di una lotta che non sembra aver fine.
«Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada» (v. 13). Sorretto dalla forza di Dio, invocata senza interruzione da Mosè, sostenuto da Aronne e Cur, Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo, passandoli a fil di spada. La vittoria è ottenuta. Essa è però il frutto di una triplice comunione: Mosè, Aronne e Cur, Giosuè. Mosè tocca Dio. Aronne e Cur lo aiutano materialmente, fisicamente. Giosuè ottiene la vittoria, combattendo, rischiando la sua stessa vita. Ecco la vera comunione: Dio e l’uomo che lavorano insieme. Così vengono messi in fuga i nostri nemici. Il maligno e i suoi figli sono costretti a desistere dal loro intento malvagio.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Lc 17,11-19)
Luca 17:11 Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea.
Luca 17:12 Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza,
Luca 17:13 alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!».
Luca 17:14 Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati.
Luca 17:15 Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce;
Luca 17:16 e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Luca 17:17 Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?
Luca 17:18 Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse:
Luca 17:19 «Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!».
La venuta di Gesù, la sua vita, la sua predicazione, il suo muoversi tra gli uomini hanno come finalità primaria e unica la loro salvezza che si compie a Gerusalemme, dove egli sta andando.
La scena descritta in questo brano ha come oggetto un gruppo di persone colpite dalla lebbra. Se si tratti della lebbra così come oggi noi la intendiamo, come l'infezione causata dal Bacillo di Hansen, non ci è dato di sapere. Il termine che ricorre nel testi biblici è sāra'at che la LXX traduce con “lépra”. Termini entrambi generici molto imprecisi per indicare delle macchie e delle rugosità che potevano comparire sulla pelle, ma anche sugli abiti e sugli stessi muri domestici. La Legge prevedeva che la diagnosi dovesse essere fatta dal sacerdote.
Una volta che il sacerdote dichiarava immondo chi si sottoponeva alla sua valutazione, l'uomo colpito doveva abitare fuori dalla città o dal villaggio e vivere in segregazione o assieme ad altri sfortunati, gridando a tutti il suo essere immondo al fine di evitare che altri gli si avvicinassero. Ma il grido di “immondo” è qui sostituito da una invocazione di aiuto: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Questa sostituzione che Luca ha registrato non va trascurata, poiché è indice di come la nuova fede che ha per fondamento Gesù, di fatto ha sostituito le stesse prescrizioni della Legge mosaica, la quale permetteva all'uomo colpito soltanto un grido che rilevava il suo stato di condanna e non gli dava alcuno scampo. Come dire che la Legge condanna, ma Gesù salva.
Ciò che qui appare è un gruppo di dieci lebbrosi. Il dieci in termini simbolici dice totalità, pienezza, compiutezza e sta a simboleggiare il mondo giudaico preso nel suo insieme e valutato nel suo rapporto con Gesù. Sono lebbrosi che invocano il nome di Gesù, gli vanno incontro, ma rimangono lontano da lui, sono ancora legati alla Legge mosaica, ritenendo che la vera salvezza si possa ottenere soltanto attraverso di essa. Infatti, nel loro andare dai sacerdoti, cioè nel loro continuare a sottostare alla Legge mosaica, i dieci non sono veramente guariti, ma soltanto purificati. Non c'è stato contatto con Gesù, non ci sono state parole di guarigione da parte di Gesù, ma soltanto un comando, quello di continuare sotto la Legge mosaica, che può garantire la purificazione, ma non produce la vera salvezza. Gesù, del resto, non disconosce la Legge mosaica, ma non le attribuisce un potere salvifico intrinseco, che solo lui può dare. Una Legge, quindi, che salva a metà, cioè è capace di indicare la retta via all'uomo; di indicare ciò che è bene e ciò che è male, ma la vera capacità di salvezza, che trascende le capacità umane, dipende soltanto dalla fede in Gesù, dal proprio aprirsi esistenzialmente a lui, accogliendolo nella propria vita. Ed è ciò che farà il Samaritano.
Il brano mette in luce una fondamentale distinzione tra guarigione e salvezza: la prima riguarda soltanto l'aspetto fisico, ma non dice niente di più; mentre la seconda dà un significato nuovo alla guarigione, essa diventa segno di una rigenerazione interiore. La guarigione dice soltanto ciò che il guarito riesce a vedere, ma per lui non diventa segno, è soltanto un colpo di fortuna per aver trovato un guaritore a buon mercato. Per cui il guarito è soltanto risanato, ma non salvato. Ma non è questo che avviene per il Samaritano, che ritornato sui suoi passi riconosce nella sua guarigione l'operare della potenza di Dio, manifestatasi in Gesù. Per questo egli non è solo guarito, ma anche salvato (v. 19).
Significativi per la comprensione della dinamica della salvezza sono i vv. 15-16, scanditi in tre parti: a) la presa di coscienza da parte del risanato: “vedendosi guarito”. Il verbo è qui posto al passivo teologico o divino (“iathē” = fu guarito), che nel linguaggio dei vangeli rimanda a Dio l'azione del guarire. Il risanato, pertanto, riconosce che quanto è avvenuto in lui non è opera di un semplice guaritore, ma è opera di Dio stesso. b) Il suo lodare Dio a gran voce, dando pubblica testimonianza di quanto è avvenuto in lui. c) Una lode che è preceduta e accompagnata da due movimenti, che rivelano quanto è avvenuto in quest'uomo: “tornò indietro” e “si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo” (v. 16). Quel “tornare indietro” descrive l'atto proprio della conversione e del riavvicinamento a Gesù. Quest'uomo, alla pari degli altri, si fermò lontano da Gesù e assieme agli altri lo aveva lasciato per sottoporsi alla ritualità mosaica. Ma la lettura di fede che egli ha sviluppato sulla sua guarigione (“visto che fu guarito”), lo spinge a rientrare in se stesso e ripercorrere il cammino inverso: dal giudaismo al cristianesimo. Un ritorno che si conclude con il suo prostrarsi davanti a Gesù ringraziandolo per la salvezza che gli aveva donato.
Il v. 16 si conclude con una nota polemica, che contrappone il mondo pagano a quello giudaico: “Era un Samaritano”, ritenuto dai giudei un eretico, un traditore della fede dei Padri ed equiparato ai pagani. Una polemica che prosegue con i vv. 17-18, finalizzati a mettere in rilievo la figura del Samaritano, volutamente posto in un duro confronto vincente con il giudaismo e che suonano come un giudizio di condanna del giudaismo stesso.
Il v. 19 fornisce la chiave di lettura della guarigione, che per questo Samaritano si trasforma in vera e propria salvezza, la cui natura è significata tutta in quel “alzati” (Anastàs), un termine tecnico che nel linguaggio della chiesa primitiva alludeva alla risurrezione di Gesù. La guarigione di questo Samaritano, pertanto, è in qualche modo equiparata alla risurrezione di Gesù ed è ad essa legata - e da questa fluisce in lui. Questa guarigione, pertanto, assume i connotati di una vera e propria rigenerazione a vita nuova, che fa del Samaritano una nuova creatura in Cristo, mentre il suo risanamento fisico ne diventa segno. E ciò che produce questa salvezza è la fede di questo Samaritano: “la tua fede ti ha salvato”. Gesù è fonte di salvezza per tutti, ma la sua salvezza opera efficacemente soltanto nella fede, cioè in chi si apre esistenzialmente a lui, riconoscendosi bisognoso di guarigione (“abbi pietà di noi”) e vedendo in Gesù la sua guida e il suo fondamento sicuro (“Gesù, maestro”).
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(Lc 17,5-10)
Luca 17:5 Gli apostoli dissero al Signore:
Luca 17:6 «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
Luca 17:7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola?
Luca 17:8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu?
Luca 17:9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Luca 17:10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Due sono qui gli elementi fondamentali che vengono evidenziati e solo apparentemente giustapposti: la crescita della fede (vv. 5-6) e il servizio, intendendo per tale l'incarico che gli apostoli ricoprono all'interno della comunità credente di cui sono responsabili. Questo va speso a favore della comunità e non di se stessi (vv. 7-10). Crescita di fede e servizio alla comunità sono strettamente correlati tra loro proprio per la natura stessa del servizio, la cui attuazione deve svolgersi alla luce di una fede matura per evitare degli scadimenti e dei soprusi nei confronti dei credenti. Non vi può essere un servizio autentico, indenne da secondi fini e interessi personali, se non è sostenuto da una fede forte, matura e coerente con la propria vita e la missione a cui si è chiamati.
Ma come si concilia una fede forte con una fede “piccola” quanto un granellino di senapa, ma che è in grado di sradicare un gelso e trapiantarlo nel mare? Qual è la verità che soggiace a questa risposta di Gesù? La fede, quando è viva e vitale, quando contiene in essa il germe della vita allo stesso modo che lo contiene un granellino di senape, essa è capace di grandi cose, e Gesù vuole dai suoi discepoli una fede viva e vitale in ogni cosa.
La questione si sviluppa attraverso una breve parabola posta sotto forma di domanda retorica, per cui già nel suo formularsi il lettore conosce la risposta. Questa si sviluppa su tre livelli finalizzati a dimostrare come il servo è soltanto un servo ed è in funzione del suo padrone e che nulla egli può pretendere. Il primo (v. 7) mette in rilievo come nessun padrone concede tregua al suo servo; il secondo (v. 8) si contrappone al primo mettendo in tal modo maggiormente in rilievo quello che effettivamente e naturalmente il padrone pretenderà dal suo servo: farsi servire, perché ogni servo è tale perché è in funzione del suo padrone e mai di se stesso; il terzo livello (v. 9) conclude la parabola rilevando come il padrone non ha da essere grato al suo servo per averlo servito, poiché questo rientra nella sua natura e nei suoi doveri di servo.
La parabola è finalizzata a chiarire il rapporto che intercorre tra i responsabili di comunità e Dio stesso, il vero padrone. La loro autorità e responsabilità nelle comunità credenti è pertanto considerato un servizio che essi esercitano in nome e per conto di Dio. L'invito a considerarsi soltanto dei servi inutili dopo aver espletato tutto ciò che era loro dovere compiere, non va letto come un dispregio nei confronti di questi servi, che si dedicano al loro padrone, ma dice tutta la distanza che intercorre tra loro e Dio stesso, di cui sono servi e in nome e per conto del quale espletano tale servizio. La comunione di vita con Dio trascende ogni prestazione umana e non può essere svilita con una concezione terrena del salario. Dio non si lascia vincere in generosità: il premio ci sarà, ma gratuito e in una misura infinitamente superiore ai meriti dell'uomo.
Ma si può fare anche una lettura allargata ad ogni singolo credente, non solo ai responsabili. Gesù vuole che ogni suo discepolo si consideri servo dinanzi agli altri. La sua umiltà è il servizio. Il servizio è la sua obbedienza. La sua utilità è nell'obbedienza e nel servizio. Dopo aver obbedito e servito, egli si deve considerare inutile. Perché inutile? Perché la sua essenza è il servizio e l'obbedienza. Fuori del servizio e dell'obbedienza, egli non serve più. Non ha altra mansione. Egli si deve in tutto considerare simile ad un utensile. Qual è l'utilità di un utensile? Quella di servire. Finito il suo servizio, esso è inutile. Non serve più al padrone. Viene conservato in un cassetto o in un ripostiglio. Ma non serve più se non per il prossimo servizio e la prossima obbedienza. Se la volontà del padrone se ne serve, egli è utile. Se non se ne serve, egli è inutile. E così è utile ed inutile allo stesso tempo. L'utilità gli viene dalla volontà del padrone. L'inutilità gli viene anch'essa dalla volontà del padrone. Come l'utensile non si lamenta quando viene usato e non si lamenta quando non viene usato, così è di ogni vero servo del Signore, di ogni suo discepolo. Se viene usato, obbedisce. Se non viene usato, obbedisce ugualmente. Così, sia che venga usato sia che non venga usato, egli è sempre nell'obbedienza del suo padrone. Se ha bisogno di lui, lui dirà sempre: “eccomi”. Se non ha bisogno di lui, se ne starà in pace, perché è questa la volontà del suo padrone: che sia servo inutile, ovvero umile.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Lc 16,19-31
Luca 16:19 C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente.
Luca 16:20 Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe,
Luca 16:21 bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe.
Luca 16:22 Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
Luca 16:23 Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui.
Luca 16:24 Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura.
Luca 16:25 Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.
Luca 16:26 Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi.
Luca 16:27 E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre,
Luca 16:28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento.
Luca 16:29 Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro.
Luca 16:30 E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno.
Luca 16:31 Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».
“C'era un uomo ricco”. Un uomo questo, che a differenza del povero, non è definito dal suo nome, la quale cosa lo priva di una sua personale identità, ma lo presenta fin da subito come una persona avvolta nel suo anonimato e destinata all'oblio, che è la peggiore condanna per un uomo e che caratterizza il regno dei morti. Per contro, questo uomo è definito soltanto dal suo stato di vita: ricco, vestito di porpora e di bisso, che banchetta tutti i giorni. Uno stato di vita formato da cose effimere, sulle quali ha fondato la sua vita e alle quali la sta dedicando e oltre le quali non va, subendo il destino della loro ineluttabile deperibilità. Di lui, infatti, si dice soltanto che viene sepolto, a differenza di Lazzaro, che invece, viene elevato dagli angeli. Un uomo, quindi, che vive in modo immanentistico senza alcuna prospettiva futura, sciupando il suo tempo in frivolezze.
Giustapposto a questo personaggio, che viveva nello sfarzo e nelle mollezze della vita, Luca ne presenta un altro diametralmente opposto. All'uomo ricco si contrappone ora quello povero, agli abiti di porpora e bisso che ricoprono il corpo del ricco, si contrappongono le piaghe che rivestono quello del povero; al banchettare sfarzoso del ricco si contrappone il desiderio del povero di potersi sfamare con qualche avanzo di questo banchetto, mentre i cani con la loro lingua leccano il suo corpo piagato. Ma diversamente dal ricco avvolto nel suo anonimato e destinato all'oblio dell'inferno, questo povero ha un suo nome, che lo identifica, dandone consistenza, poiché il nome nell'antichità esprimeva l'essenza della persona stessa che lo portava: Lazzaro.
Il v. 22 è caratterizzato da due movimenti contrapposti, ascendente per Lazzaro e discendente per il ricco, e nel contempo funge da spartiacque tra due mondi tra loro incomunicanti. In tale contesto la morte costituisce il passaggio obbligato dal “di qui” al “di là”. Ma se il morire accomuna i due personaggi, diverse sono le modalità con cui avviene il passaggio: Lazzaro “fu portato dagli angeli nel seno di Abramo”; mentre il ricco fu soltanto sepolto. In realtà non ci fu per quest'ultimo una vera e propria transizione, ma semplicemente una sepoltura; viene associato, in attesa della sua più completa assimilazione, a quella terra per la quale egli aveva speso la sua vita. Ben diversa fu la sorte per Lazzaro, che venne accompagnato nel seno di Abramo dagli angeli. Una sorta di apoteosi sottolineata da due elementi: dagli angeli traghettatori e dal seno di Abramo. I primi richiamano da vicino il Caronte della mitologia greca, il traghettatore delle anime dei morti, che accompagnava nella loro ultima dimora, attraversando il fiume Stige, che segnava il confine tra i due mondi... ma questo è un altro discorso.
Il secondo elemento riguarda la destinazione di Lazzaro, “nel seno di Abramo”, il patriarca che fu depositario della promessa, ricolmato della benedizione divina per la sua fede e la sua obbedienza, padre di un popolo numeroso come le stelle del cielo e la sabbia del mare. Il seno di Abramo, pertanto, diviene l'immagine di un luogo sicuro, permeato da Dio stesso, che in Abramo ha dato l'avvio alla storia della salvezza. Lazzaro, dunque, traghettato dagli angeli entrerà a far parte di questo mondo salvifico, che non ci viene descritto, ma è lasciato soltanto intuire. Del resto non era intenzione di Luca descrivere l'aldilà, ma semplicemente costruire, attraverso delle immagini, un contesto di riflessione sui destini della vita futura, che vengono giocati qui sulla terra.
I vv. 23-26 si aprono con una nota topografica, che funge da cornice entro la quale viene collocata la scena del dialogo tra Abramo e il ricco: Luca usa la parola “Hadē”, piuttosto che “inferno”, ed era il regno dei morti per il mondo greco-ellenistico, a cui Luca stava scrivendo e che difficilmente avrebbe compreso il corrispondente termine ebraico “Sheol”. Si trattava di un mondo sotterraneo, posto in un luogo imprecisato e irraggiungibile dall'uomo, dove sono stipate le anime che vivono in uno stato larvale e la cui consistenza è quella di un'ombra, avvolte dall'oblio e dall'oscurità delle tenebre, che toglie loro ogni speranza e dove non è più possibile rendere lode a Dio.
L'Hadē, pertanto, come il suo corrispondente ebraico Sheol, non va inteso come un luogo di dannazione eterna, ma soltanto come una sorta di magazzino, di deposito in cui vengono raccolte e stipate le anime in attesa del giudizio finale. Già nella letteratura giudaica intertestamentaria, benché il luogo sia unico per tutti, si prospetta una divisione tra buoni e cattivi, tra giusti e ingiusti, una sorta di anticipazione di ciò che sarà il giudizio finale. Ed è ciò che attesta il v. 26: “tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. Un abisso, il quale più che una demarcazione fisica, definisce una sorta di barriera invalicabile, che separa i giusti dagli ingiusti e che, in qualche modo, rappresenta il giudizio divino, che già grava su queste ombre.
L'ultima parte del brano, quella con cui si chiude il racconto, è la più interessante dal punto di vista catechetico, poiché presenta una fede fondata non sul miracolismo sensazionalistico, bensì sulle Scritture, la roccia salda su cui fondare la casa della propria vita: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. Abramo richiama l'attenzione sulle Scritture, quale guida sicura per la propria vita. In altre parole, chi ha il cuore ingolfato nelle ricchezze terrene, non riesce a percepire la volontà di Dio, contenuta nelle Scritture. Nemmeno l'apparizione di un morto potrebbe portarlo al pentimento e alla conversione.
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Lc 16,1-13
Luca 16:1 Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
Luca 16:2 Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore.
Luca 16:3 L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno.
Luca 16:4 So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua.
Luca 16:5 Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo:
Luca 16:6 Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta.
Luca 16:7 Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta.
Luca 16:8 Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Luca 16:9 Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
L'amministratore infedele, venuto a trovarsi in una situazione esistenziale molto critica, rientra in se stesso, compie una valutazione della sua vita e giunge ad una decisione, sulla quale giocherà tutto se stesso e il suo futuro: “So io che cosa fare” (v. 4). Una sorta di illuminazione di cui si riesce a beneficiare nella misura in cui si rientra in se stessi, poiché è qui, nel sacrario della propria coscienza, che si incontra Dio e si riceve le illuminazioni determinanti per la propria vita. E benché ciò che qui Luca intenda evidenziare è l'accortezza e la determinazione con cui questo amministratore opera nella sua vita, tuttavia non va trascurata, in seconda battuta, la fonte primaria di tale determinazione, che comunque l'evangelista sottolinea: “L'amministratore disse tra sé: Che farò”? Da qui, dal suo interiore, dal suo interrogarsi sulla vita, dal suo chiedersi che cosa fare per il proprio futuro, per evitare il fallimento della vita, parte la riscossa che gli consentirà di rialzarsi e di dare attuazione al suo progetto. In ultima analisi, vi è in gioco il successo o il fallimento esistenziale. Luca, dunque, sembra indicare come elemento decisivo delle proprie scelte la via della riflessione, del silenzio interiore, del sapersi confrontare con se stessi e, soprattutto, con la Parola, qui simboleggiata dalla sentenza del padrone che viene emessa sull'operare del suo amministratore, a seguito della quale tutto cambia per lui.
“So io che cosa fare”. Che cosa egli intenda fare viene raccontato dai vv. 5-7: chiamare i debitori del suo padrone riducendo loro il debito. Qui Luca fa rilevare l'abilità, l'accortezza, l'impegno che quest'uomo, giunto ormai alla fine della sua amministrazione, mette nel poco tempo che gli resta per costruirsi un futuro sicuro.
L'apprezzamento del padrone nei suoi confronti, non riguarda la frode che ha subito, bensì la scaltrezza di questo suo amministratore, che in qualche modo è riuscito a parare il colpo, rovesciando a suo favore una situazione di drammatica precarietà.
L'applicazione della parabola si gioca tutta sul raffronto tra i figli di questo mondo e i figli della luce, da cui traluce una certa amarezza dovuta allo scarso impegno dei credenti in questo mondo, che dovrebbero, invece, far fermentare come lievito all'interno della pasta; come sale che dà sapore; come luce di lampada che illumina tutti quelli in mezzo ai quali si trova. In altri termini testimoniare la propria fede nel mondo così da divenirne lievito, sale e luce.
La “disonesta ricchezza” del v. 9, letteralmente è “mamōna tes adikias” (mammona dell'iniquità). Che cos'è il mammona dell'iniquità da cui trarre degli amici che abbiano la capacità tale da accogliere nelle dimore eterne? Quale legame c'è tra questo mammona dell'iniquità e le dimore eterne in cui si verrà accolti? E quel “quand'essa verrà a mancare” a cosa allude? E, infine, chi sono questi amici acquistabili con il mammona dell'iniquità?
Il termine “mammona” è aramaico, ed ha un significato simile a quello di “patrimonio”. Non indica soltanto il denaro accumulato, ma anche la proprietà. Noi diremmo “beni mobiliari e immobiliari”. Tutto questo è mammona, che qui viene definito “dell'iniquità”, cioè che appartiene a questo mondo corrotto dal peccato. Non è pensabile, infatti, che Gesù solleciti a procurarsi degli amici trafficando illegalmente e in modo immorale, cercando di creare delle associazioni a delinquere. L'espressione “mammona dell'iniquità”, quindi, va intesa come “beni terreni; beni di questo mondo”. Il suggerimento offerto da Luca è quello di procurarsi degli amici con questi beni materiali. L'unico modo per procurarsi questi amici con i “beni materiali” che si possiede è elargirli. In altri termini, spogliarsi dei propri beni materiali dandoli in elemosina a chi ne ha bisogno.
Queste persone beneficate sono definite “amici”, cioè persone che si relazionano a noi con una relazione benefica, quale è l'amicizia - che in questo contesto va intesa nel senso che il beneficio da loro ricevuto ha come conseguenza quella di accoglierci nelle “dimore eterne”. In tal senso queste persone beneficate diventano per noi “amici”. Il verbo “vi accolgano” significa che è l'elemosina loro elargita che procura il beneficio dell'eternità divina, qui definita con “dimore eterne”. In altri termini, lo spogliarsi dei propri beni a favore degli altri ha una risonanza positiva nei cieli, dove si sta costruendo, proprio attraverso questi gesti di amore, la propria dimora eterna, nella quale si sarà accolti “quando verrà a mancare” il mammona dell'iniquità, ossia quando non sarà più possibile usare dei beni di questo mondo, perché il cammino della propria vita è giunto al termine e i beni terreni non hanno più alcun valore, se non quello spirituale prodotto dal loro buon uso.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Gv 3,13-17)
Giovanni 3:13 Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo.
Giovanni 3:14 E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo,
Giovanni 3:15 perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna».
Giovanni 3:16 Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.
Il v. 13 si apre con il verbo “anabébēken” (è salito); si tratta di un perfetto indicativo, che per la sua natura indica uno stato presente, quale conseguenza di un'azione passata, che qui Giovanni pone come esclusiva del Figlio dell'uomo: “nessuno è mai salito al cielo, fuorché...”. Quel “nessuno” toglie di mezzo ogni possibile concorrenza o confronto con il Figlio dell'uomo, assegnandogli una posizione unica. Il Figlio dell'uomo, dunque, è colto nel suo stato di glorificazione definitiva, come colui che è già salito al cielo e lo è in modo definitivo e permanente a seguito di un evento passato, accaduto qui nella storia e che viene specificato nel seguente v. 14.
Se la prima parte del v. 13 contempla l'evento unico ed esclusivo della glorificazione del Figlio dell'uomo, esaltandone in tal modo la divinità, la seconda parte lo coglie agli inizi della sua avventura terrena, cioè nel suo discendere, con chiaro riferimento alla sua incarnazione. Il verbo “katabás” (disceso), infatti, è un participio passato aoristo, che esprime l'accadere di un evento colto nel suo iniziale apparire temporale.
Se il v. 13 presenta i due estremi dell'azione salvifica di Dio, l'incarnazione e l'ascensione del Figlio dell'uomo, il v. 14 colloca tra i due eventi quelli intermedi della morte e della risurrezione di Gesù, e lo fa partendo da un'immagine tratta da Nm 21,6-9, dove Mosè fece un serpente di rame e lo mise sopra un'asta; quando un serpente mordeva un israelita, se questi guardava il serpente di rame restava in vita. Il contesto in cui è inserito l'episodio veterotestamentario è quello di una rivolta del popolo contro Mosè e contro Dio, il quale mandò dei serpenti velenosi a punire con la morte gli israeliti. Il racconto richiama da vicino la caduta di Adamo ed Eva: anche là vi fu una rivolta contro Dio; anche là vi fu un serpente che inoculò in loro il veleno mortale della ribellione a Dio; anche là vi fu un atto di misericordia divina, che prospettò all'uomo, mortalmente decaduto, la vittoria della Donna e della sua Stirpe sul Serpente (Gn 3,15). Il richiamo dell'innalzamento del serpente da parte di Mosè evoca questo insieme di racconti antichi, così che la figura del Figlio dell'uomo innalzato diviene la definitiva attuazione di quelle immagini e la risposta alle attese e alle speranze dell'umanità decaduta e corrotta dal peccato.
Il v. 14, infatti, innesca un confronto tra l'innalzamento del serpente da parte di Mosè e quello avvenuto per Gesù; ma mentre l'innalzamento mosaico è espresso con un aoristo (“hípsōsen”, innalzò), che circoscrive l'evento salvifico nel tempo, l'innalzamento di Gesù presenta alcune particolarità, che gli assegnano un senso unico ed esclusivo, che travalica il tempo: “hipsōthēnai dei”, “bisogna che sia innalzato”. Due verbi, l'uno posto all'aoristo infinito passivo (hipsōthēnai) “essere innalzato”, che nel linguaggio neotestamentario rimanda l'azione a Dio stesso; l'altro al presente indicativo (“deî”), “bisogna”, ed esprime uno stato di necessità, che lascia sottintendere come l'innalzamento di Gesù, nel suo duplice significato di morte-risurrezione, rientra in un prestabilito piano divino, che si attua nell'innalzamento dello stesso Gesù. Ma se l'innalzamento mosaico era racchiuso nel tempo, rendendo i suoi effetti salvifici relativi alla circostanza, quello di Gesù travalica i limiti spazio-temporali, rendendo gli effetti salvifici del suo innalzamento universali, poiché vengono sottratti alla relatività della storia.
Il v. 15 riporta l'attestazione che il credere in Gesù consente di accedere alla vita eterna. Una fede che per Giovanni non è un concetto astratto, ma un'azione, che si radica nella vita e la qualifica come vita credente, nella quale, proprio perché credente, si rispecchia la vita di Dio che è essenzialmente vita di amore. Il credente, pertanto, diviene una sorta di riflesso di Dio in mezzo agli uomini, testimone della sua vita divina, in cui è collocato e vive proprio per il suo credere. Non è un caso che il termine “fede” non ricorra mai, neppure una volta, in Giovanni, ma esso è sempre sostituito dal verbo “credere”. Il verbo, infatti, esprime sempre un'azione ed è, quindi, più confacente alla dinamica stessa della vita.
L'innalzamento di Gesù, dunque, punta al recupero di ogni uomo alla vita divina per mezzo della fede nell'Innalzato. Il senso dell'universalità del progetto divino è reso con quel “pâs” (chiunque), che coinvolge l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Si tratta, dunque, di un'azione salvifica universale, rivolta a tutti e che ha come presupposto il “credere in lui”. Significativa è l'espressione greca “ho pisteúōn en autō”, “il credente in lui”. Il verbo al participio presente indica come l'azione del credere diventi una costante, che qualifica la vita dell'uomo e ne determini l'orientamento esistenziale. Il verbo credere è qui seguito dall'espressione “en autō”, che indica uno stato in luogo: “in lui”. La finalità del credere, dunque, è quella di collocare il credente “in lui” e per per mezzo suo ottenere la “vita eterna”.
Il v. 16 costituisce il vertice del pensiero di Giovanni su Gesù, che vede la discesa dal cielo del Figlio dell'uomo come la conseguenza di un atto di amore del Padre; un amore che si fa dono e un dono che si fa salvezza per il credente. Non si tratta, dunque, di un amore etereo o mistico, ma concreto, che assume storicamente il volto di Cristo e in esso si rende visibile e raggiungibile da tutti; e il dono è la vita stessa di Dio.
L'esclusività di questo donare viene rimarcata nell'attributo con cui viene qualificato il Figlio: Unigenito; un'espressione che esprime l'unicità non soltanto del Figlio nei confronti del Padre, ma anche del rapporto che li lega in una stretta comunione di amore.
Il verbo “dídomi”, tuttavia, non significa soltanto “dare, donare”, ma anche “consegnare, affidare”. Il dono, quindi, che il Padre fa del proprio Figlio non esprime soltanto la sua natura di amore, ma è anche un consegnarlo agli uomini, un consegnarlo che possiede in se stesso una valenza sacrificale e redentiva, “perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.
La frase “chiunque crede in lui” viene ripresa sostanzialmente identica dal v. 15, ma qui viene apportata una piccola variante, molto significativa: la particella “in” resa al v. 15 con “en” , viene qui sostituita dalla particella “eis”. La prima (en) indica uno stato in luogo, sottolineando come il credere collochi il credente nella stessa vita divina (vita eterna); la seconda (eis) esprime un moto a luogo ed imprime al credere del credente un forte dinamismo, che lo orienta esistenzialmente verso Cristo. La particella “eis” evidenzia, pertanto, una fede in cammino verso la salvezza, che non ha ancora definitivamente acquisito, poiché appare come in filigrana anche la prospettiva della perdizione, sia pur espressa in forma negativa (“non muoia”).
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Lc 14,25-33)
Luca 14:25 Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse:
Luca 14:26 «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Luca 14:27 Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.
Luca 14:28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?
Luca 14:29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo:
Luca 14:30 Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.
Luca 14:31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?
Luca 14:32 Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace.
Luca 14:33 Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Luca precisa la posizione di Gesù rispetto alla gente che lo segue, raccontando che “si voltò e disse”. Questo suo voltarsi dice come Gesù preceda questa gente, come una sorta di pastore che guida le sue pecore; come un maestro che precede e guida i suoi discepoli che camminano con lui.
Poi Gesù presenta la prima regola riguardante la sequela, che in modo radicale taglia corto con i rapporti familiari e affettivi del discepolo, ed è accompagnata da una modalità di sequela che la inquadra in una cornice di sofferenza. Il motivo per cui si rende necessario superare il legame affettivo per accedere al Regno di Dio, nasce dal fatto che il contesto familiare può costituire un impedimento.
Per poter comprendere come ciò possa accadere è necessario porsi nel contesto storico della chiesa nascente: chi intendeva farsi discepolo usciva in genere da una famiglia giudaica o pagana, che difficilmente comprendeva la scelta del proprio familiare. Vi era, poi, il contesto sociale, civile e religioso in cui si collocava il neo credente e la sua famiglia, il quale, avverso ai credenti, li perseguitava. Da qui la necessità di saper superare i propri legami familiari ed affettivi, e le proprie origini carnali per abbracciare con determinazione il Regno di Dio.
Se il v. 26 stabilisce la prima regola per la sequela, il superamento dei legami carnali parentali, il v. 27 stabilisce le modalità sia di accesso che di conduzione della sequela: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Si tratta di una sequela che ha per sfondo la croce. Quanto qui viene detto assume una particolare significatività proprio perché Gesù si sta muovendo all'interno del suo viaggio verso Gerusalemme, dove si compiranno i misteri della salvezza, che passano attraverso la sofferenza e la morte in croce. Ed è proprio all'interno di questo viaggio verso la sofferenza e la morte in croce salvifiche, che Luca afferma che “molta gente andava con lui”, proiettando in tal modo il lettore all'interno di un discepolato che si sta muovendo verso Gerusalemme.
A questo punto, Gesù, attraverso due domande retoriche induce il discepolo a valutare attentamente la scelta di seguirlo, al fine di non trovarsi poi nella triste e vergognosa necessità di dover abbandonare. La prima riguarda la costruzione di una torre; la seconda riguarda una guerra che sta per scoppiare tra due re. Entrambe sono, da un lato, una esortazione alla prudenza e a soppesare attentamente la propria scelta; ma, dall'altro, ognuna di esse dice che cos'è la sequela: si tratta di costruire non tanto una torre, quanto piuttosto un rapporto nuovo con se stessi, con gli altri e, ancor prima, con Gesù, che è in cammino sulla via della croce; una sequela, che si prospetta inoltre come una dura battaglia con il mondo avverso. Anche quest'ultimo aspetto il discepolo deve valutare.
Dopo questa attenta riflessione su che cos'è la sequela e la necessità di soppesarla attentamente, Gesù introduce la terza e ultima regola, che contiene in se stessa una sorta di giudizio di condanna: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. La scelta della povertà per la sequela è di fatto una scelta di libertà, che consente l'intera offerta di se stessi a Dio, senza remore e senza ripensamenti. Da qui il sollecito di Gesù, a chi ha deciso di seguirlo, di liberarsi dai beni materiali.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Sal 17 (18)
Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.
Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.
Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.
La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.
Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.
L’arma vincente di Davide è la fede che si trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco cosa fa Davide: nell’angoscia non si perde, non si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.
Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.
Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.
«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.
«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.
«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.
«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.
Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Raw life is full of powers: «Be grateful for everything that comes, because everything was sent as a guide to the afterlife» [Gialal al-Din Rumi]
La vita grezza è colma di potenze: «Sii grato per tutto quel che arriva, perché ogni cosa è stata mandata come guida dell’aldilà» [Gialal al-Din Rumi]
It is not enough to be a pious and devoted person to become aware of the presence of Christ - to see God himself, brothers and things with the eyes of the Spirit. An uncomfortable vision, which produces conflict with those who do not want to know
Non basta essere persone pie e devote per rendersi conto della presenza di Cristo - per vedere Dio stesso, i fratelli e le cose con gli occhi dello Spirito. Visione scomoda, che produce conflitto con chi non ne vuol sapere
An eloquent and peremptory manifestation of the power of the God of Israel and the submission of those who did not fulfill the Law was expected. Everyone imagined witnessing the triumphal entry of a great ruler, surrounded by military leaders or angelic ranks...
Ci si attendeva una manifestazione eloquente e perentoria della potenza del Dio d’Israele e la sottomissione di coloro che non adempivano la Legge. Tutti immaginavano di assistere all’ingresso trionfale d’un condottiero, circondato da capi militari o schiere angeliche…
May the Holy Family be a model for our families, so that parents and children may support each other mutually in adherence to the Gospel, the basis of the holiness of the family (Pope Francis)
La Santa Famiglia possa essere modello delle nostre famiglie, affinché genitori e figli si sostengano a vicenda nell’adesione al Vangelo, fondamento della santità della famiglia (Papa Francesco)
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athinagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict)
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
don Giuseppe Nespeca
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