Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

Lunedì, 11 Agosto 2025 11:13

20a Domenica T.O. (anno C)

(Lc 12,49-53)

 

Luca 12:49 Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!

Luca 12:50 C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!

Luca 12:51 Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione.

Luca 12:52 D'ora innanzi in una casa di cinque persone

Luca 12:53 si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

 

Il v. 49 è scandito in due parti: da un lato la venuta di Gesù porta con sé il fuoco; dall'altro, Gesù esprime il suo desiderio che questo fuoco fosse già acceso. Il fuoco nel linguaggio biblico è associato all'essere stesso di Dio e al suo agire, ed esprime il giudizio di condanna posto in atto da Dio stesso. Nel Nuovo Testamento il fuoco riproduce significati e immagini mutuati dall'Antico Testamento, ma assume anche nuovi aspetti con riferimento a contesti escatologici, segnati dall'azione dello Spirito Santo.

Di fronte ad una simile e variegata significanza del termine ‘fuoco’, come interpretare il senso che Luca attribuisce a tale sostantivo e tale che possa accordarsi con il resto del brano? Due sono gli elementi che ci aiutano a comprenderne il significato: questo fuoco posto sulla terra, intendendo per terra questa dimensione spazio-temporale abitata dall'uomo, è stato portato da Gesù, che è manifestazione e rivelazione del Padre. È Azione di Dio in mezzo agli uomini; un Gesù che con gli esorcismi dichiara che egli è venuto a distruggere il regno di Satana e a ricostituire in mezzo agli uomini il Regno di Dio, e tutto ciò lo fa con la potenza di Dio che gli è propria. Forse è proprio questo che Luca intendeva significare con quel fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra. Da qui il desiderio di Gesù: “e come vorrei che fosse già acceso!”, cioè già affermato. Un desiderio che va oltre il suo tempo e si proietta in quello post pasquale della Chiesa, qualificata da questo fuoco che è lo Spirito Santo, la cui potenza rigeneratrice opera nella Parola.

Ma tra l'oggi di Gesù e il tempo della Chiesa vi è di mezzo la passione e morte di Gesù, significata dal battesimo con cui Gesù deve essere battezzato. Una passione e morte che assumono un significato escatologico, in quanto che la morte di Gesù è unica, irripetibile e definitiva ed è decisiva per l'uomo che, suo malgrado, ne è direttamente coinvolto.

Sulla morte di Gesù, infatti, è stato posto il giudizio di Dio, divenendo in tal modo discriminante per gli uomini: accoglierla e viverla nella propria vita, diventa una promessa di risurrezione per il credente. Diversamente, la morte di Gesù diviene un elemento di condanna. È significativo in tal senso quanto l'assemblea risponde all'annuncio del celebrante: “Annunciamo, Signore, la tua morte; proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta”.

Il credente, dunque, è chiamato ad annunciare nella quotidianità del proprio vivere la morte di Gesù, che è morte all'uomo vecchio; ma che diviene nel contempo una proclamazione della risurrezione di Gesù, la proclamazione che in questa morte-risurrezione si sono inaugurati dei tempi nuovi, che preludono a quelli definitivi. E il tutto, annuncio della morte e proclama della vita nuova, avvengono nell'attesa della sua venuta.

Definito il senso della missione del Gesù storico (vv. 49-50), Luca passa ad esaminare i riflessi e le conseguenze di questa sulla Chiesa, in particolare le divisioni e gli sconvolgimenti all'interno della cerchia familiare. Di certo, l'annuncio che Gesù è venuto a portare il Fuoco di Dio su di una terra profondamente segnata dal peccato e che ragiona in termini antitetici a quelli di Dio, non è molto rassicurante e certamente non promette un mondo idilliaco per il credente. Ed ecco dunque l'annuncio, che viene scandito su tre livelli:

 

  1. a. L'affermazione di principio: Gesù non è venuto a portare la pace, ma la divisione. Il tono è chiaramente escatologico e richiama da vicino la comunità di Qumran, che aveva dettagliatamente elaborato la “regola della guerra” dei figli della luce contro i figli delle tenebre, preparando i propri adepti allo scontro finale in un clima di forte tensione escatologica.

 

  1. b. Tale guerra sarà posta all'interno della famiglia. “D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre”. Quel “D'ora innanzi” riguarda il tempo della Chiesa. È da questo momento che ha inizio la guerra, che da contro Gesù si è trasferita ora contro la Chiesa. Luca qui parla di cinque componenti della famiglia, probabilmente, di una famiglia tipo, in cui si combattono tra loro “tre contro due e due contro tre”.

 

  1. c. Gli avversari all'interno della famiglia: padre-figlio, madre-figlia, suocera-nuora. Un intreccio di parentela molto stretto, ma che proprio per questa intima e profonda unione e comunione di rapporti, risalta ancor più quanto questa guerra sconvolga in profondità non solo l'assetto familiare, ma con questo, anche l'assetto sociale. Si noti come le conflittualità avvengono tra persone dello stesso sesso: padre e figlio, madre e figlia, nuora e suocera. Quasi a dire che qui lo sconvolgimento non conflagra soltanto all'interno della stretta cerchia familiare, ma anche all'interno della stessa identità sessuale, che è identità propria della persona. 

 

Vi è in questa descrizione della disgregazione familiare, preludio di quella sociale o forse suo riflesso, una progressività che dall'affermazione generale del v. 51 penetra sempre più in profondità, passando per il v. 52 e raggiungendo, infine, il v. 53, all'interno dell'intimità familiare e della stessa identità sessuale e dei ruoli familiari propri dei componenti, quasi a dire che nulla si sottrarrà a questa guerra, che travolgerà anche i rapporti più intimi e più cari dell'uomo e in cui tutto verrà messo in discussione e stravolto. Uno sconvolgimento, quindi, da cui non si salva nessuno, togliendo ogni sicurezza e ogni identità.

 

Questo testo di Luca sembra essere stato scritto l'altro ieri, e non duemila anni fa, tanto si adatta alla situazione familiare e sociale di oggi.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 04 Agosto 2025 14:55

19a Domenica T.O. C (Lc 12,32-48)

19a Domenica T.O. anno C (Lc 12,32-48)

 

Luca 12:32 Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno.

 

Luca 12:33 Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma.

Luca 12:34 Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.

 

Luca 12:35 Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese;

Luca 12:36 siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa.

Luca 12:37 Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.

Luca 12:38 E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro!

 

Il v. 32 si apre con un sollecito a “Non temere”. Un'espressione questa che ogniqualvolta compare apre ad un annuncio, che prospetta un intervento di Dio sull'uomo e sulla sua storia, che lo rende partecipe della sua azione salvifica. Non fa eccezione neppure questa volta, in cui Dio apre il credente a una nuova prospettiva, di cui già in qualche modo fa parte fin d'ora: quella del suo Regno. Il credente, dunque, appartiene già alla dimensione di Dio, anche se non ancora in termini pieni e definitivi. Ma è questa la prospettiva in cui si muove e verso cui è incamminato e dalla quale è qualificato. Al Padre, infatti, “è piaciuto di darvi il suo regno”. In quel “piaciuto” è racchiuso il senso di un progetto eterno riservato a chi crede. Il verso si prospetta, dunque, come una rassicurazione che sollecita il credente a non temere, poiché egli fa parte ora di un progetto divino, che lo vede erede e partecipe della vita stessa di Dio, per cui tutta la sua vita acquista un nuovo significato.

Inquadrati all'interno delle rassicurazioni e delle prospettive spirituali del v. 32, i vv. 33-34 indicano la via maestra per rendersi degni eredi del Regno: vendere e dare in elemosina i propri beni materiali, creando in tal modo una tesaurizzazione spirituale. I beni venduti, pertanto, diventano strumento di arricchimento spirituale. Per capire questo è necessario considerare che l'elemosina veniva concepita ancor prima che un'alienazione di propri beni materiali, un sincero dono di se stessi all'altro. La qualità dell'elemosina, pertanto, trova il suo valore nel cuore di chi la compie: essa si radica nella sincerità di cuore e si fa dono per l'altro, arricchendolo spiritualmente, prima ancora che materialmente, perché in quella elemosina il credente dona, ancor prima che un bene materiale, se stesso; e proprio per questo diviene per lui fonte di tesaurizzazione spirituale.

Il v. 35 introduce un nuovo tema, e lo fa dipingendo la condizione di vita del servo, che arrotola la sua veste, che gli poteva arrivare alle ginocchia o fino alle caviglie, fissandone i lembi ai fianchi con una cinta, per essere maggiormente libero nel muoversi, evitando che gli si attorcigliasse intorno alle gambe, e d’inciampare. Esso viene presentato con la lucerna accesa: “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese”. I fianchi cinti stanno ad indicare lo stato di servizio e di prontezza in cui si trova il servo; mentre la lucerna indica come questo servizio si prolunghi anche lungo le ore notturne, mettendo in evidenzia lo stato di costante veglia di questo servo. Un servizio, quindi, che non conosce pause; una veglia finalizzata al servizio. Un sevizio che è illuminato dalla lucerna, che in qualche modo metaforizza la Parola di Dio, che dà sostanza al servizio del credente, illuminandolo e tenendolo desto. Fianchi cinti e lucerna accesa sono due immagini emblematiche che indicano lo stato di costante, ininterrotto e solerte servizio di questo servo.

Luca, letteralmente dice: “Stiano i vostri fianchi cinti”. Il verbo greco usato è estōsan, che dà il senso della fermezza e della solidità, del restare fermi sulla propria posizione. Un'immagine, dunque, che delinea l'atteggiamento del vero discepolo, che si qualifica per il suo essere al servizio di Dio, sempre e con determinazione.

Il v. 36, infatti, inizia con una congiunzione, “kai” (= e), che lo lega a quello precedente e ne trae le conseguenze: dalla descrizione dell'abbigliamento si passa all'esortazione dei discepoli a tenere un comportamento conseguente: quello dell'attesa, che implica un “ad tendere”, un tenersi in tensione verso qualcosa o qualcuno; un orientare la propria vita verso qualcuno o qualcosa in modo tale che questa tensione e questo orientamento esistenziale “verso...” caratterizzi la vita del discepolo. L'oggetto di tale attesa è il padrone che torna dalle nozze. Una precisazione questa che qui non ha significati metaforici o simbolici, ma si riferisce al tempo incerto delle nozze stesse. Parlando di nozze senza alcuna precisazione, Luca fa riferimento a quell'insieme di cerimonie e celebrazioni, accompagnate da lunghi festeggiamenti, che culminavano nel banchetto nuziale. Precisando che il padrone era andato alle nozze e che i servi erano in attesa del suo ritorno, Luca ha voluto dire che il tempo del ritorno di quel padrone non era conosciuto. Da qui la necessità di quei servi di vegliare in ogni istante per essere pronti ad accogliere il ritorno del loro padrone.

I vv. 37-38 definiscono lo stato di beatitudine dei servi vigilanti. I versetti presentano un graduale e crescente riconoscimento da parte del padrone nei confronti di quei servi che hanno saputo attendere vigilanti il suo ritorno e si sono mostrati pronti ad accoglierlo. Per due volte vengono definiti “beati”, cioè partecipi della beatitudine del loro padrone, entrando così in qualche modo a condividerne la stessa vita, che per definizione è di beatitudine. Una partecipazione ed una condivisione che vengono realizzate quando il padrone li fa sedere alla sua stessa mensa e, rovesciando i ruoli padrone-servi, si mette egli stesso a servirli, segno che quei servi sono entrati a far parte della vita del loro padrone e la condividono.

Vi è, infine, un crescendo sempre più premiante a seconda che il padrone rientri durante il giorno, facendoli sedere subito a mensa e mettendosi a servirli; o durante la notte, rinunciando al riposo. Questi servi hanno saputo mettere da parte le loro naturali e legittime esigenze per porsi a totale servizio del loro padrone, dimostrando come la loro fedeltà e la loro attenzione fossero sempre e comunque presenti anche nei momenti più impegnativi e difficili. Per questo Luca termina questa esaltazione dei servi con un'esclamazione, che accentua ancor più la loro beatitudine: “beati loro!”.

 

 

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Mercoledì, 30 Luglio 2025 03:36

18a Domenica T.O. (Qo 1,2; 2,21-23)

(Qo 1,2; 2,21-23)

Ecclesiaste 1:2 Vanità delle vanità, dice Qoèlet,

vanità delle vanità, tutto è vanità.

Ecclesiaste 2:21 perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura.

Ecclesiaste 2:22 Allora quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?

Ecclesiaste 2:23 Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!


La parola ebraica Qoèlet deriva dal verbo qahal. Un commentario giudaico spiega che Qoelet si chiamava così perché fa riferimento a 1Re 8:1, dove qahal è l'assemblea alla quale Salomone predica. Così il Qoèlet è il Predicatore. Il corrispondente termine Ecclesiaste deriva dal greco “ekklesia”, che significa “chiesa” o “assemblea”. Qoèlet è il maestro predicatore, che offre una riflessione sulla vita dell’uomo.

È  una  verità  forte  quella  con  la  quale  il  Qoèlet  inizia  la  sua riflessione. Afferma che tutto è vanità. La parola “vanità” (ebraico: “hevel”) è la prima del discorso di Qoèlet ed è anche la parola chiave dell'intero libro. Il significato primario della parola è “vapore/soffio”, e, in senso figurato, il termine viene utilizzato per descrivere qualcosa che non ha consistenza, qualcosa che è, ma subito dopo non è, qualcosa di evanescente, vuoto, fugace. Oggi diremmo “fregatura”. Per Qoèlet tutta la vita è un immenso vuoto, una nebbia, un soffio, un’illusione, un’assurdità, una fregatura.

Secondo Gianfranco Ravasi - nel suo commento al Qoèlet - l’espressione «vanità delle vanità» sarebbe un po’ l’antitesi del Cantico dei Cantici. In entrambi i casi i sostantivi che formano la frase sono presentati nella loro forma superlativa ma, mentre Qoèlet parla di un «vuoto dei vuoti», il Cantico dei Cantici «è invece il Cantico superlativo dell'amore». Come Cantico dei Cantici è il superlativo della gioia data dall’amore, così vanità delle vanità è il superlativo della frustrazione  data dal vuoto della vita.

“Hevel” è anche il nome (ebraico) di un altro personaggio biblico - Abele - secondogenito di Adamo. Abele è un vapore sfuggente che scomparirà senza lasciare traccia. Hevel è stato tradotto con “vanità” per dare l'idea di vuoto.

Come sostantivo, hevel viene utilizzato in riferimento agli idoli, proprio per descriverli come vuoti di significato, inutili, inefficaci. In confronto al Dio d’Israele che, nel corso della storia, è intervenuto a favore del suo popolo, le altre divinità vengono descritte come hevel, hanno la stessa consistenza del vapore.

Il fatto che “vanità” sia ripetuto diverse volte, il Qoèlet vuole che l’ascoltatore fermi la sua mente e si dedichi solo a questo pensiero. Se anche l’ascoltatore rifletterà come lui ha riflettuto, vedrà che le cose stanno così. La vanità è la vita umana, essa è una cosa vuota, manca del suo contenuto vitale. Le cose ci sono, manca però ciò che dona valore alle cose. Il Qoèlet comincia a meditare, si interroga, perde le sue certezze. Cosa cerco? Per cosa lotto? Per la vanità! Per cosa mi affatico? Per la vanità!

Nella tradizione ebraica il libro dell'Ecclesiaste si legge a Sukkot, durante la Festa delle Capanne (o Tabernacoli), la festa che ricorda la transitorietà della vita, quando gli Israeliti vivevano sotto le capanne nel deserto.

Per esempio, quando il frutto di un onesto ed intelligente lavoro cade in possesso del pigro e dell’ozioso (v. 21), a quale scopo tanto affanno? È come se il Qoèlet avvertisse una grande ingiustizia in ciò che avviene al momento della morte. Uno lavora con sapienza e con successo e al momento della morte dovrà lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Non solo è una ingiustizia. È anche un grande male. È vanità. Una esistenza onesta ed operosa, che non risparmia a se stessa alcuna fatica e dolore, che pensa sempre per il meglio, poco concedendo al riposo, non dovrà poi concludere con amarezza che tutto è stato perfettamente vano e inutile?

Cosa vuole insegnarci il Qoèlet, o meglio, la Parola di Dio? Prima di tutto essa ci rivela le conseguenze della morte. La morte spoglia l’uomo di qualsiasi cosa che è materiale. L’anima si presenterà “nuda” al cospetto di Dio. Se lasciare agli altri i frutti del proprio sudore è un male, come fare per trasformare la fatica in un bene eterno o in qualcosa che l’uomo porta con sé? Tutto ciò che è materia appartiene alla terra e alla terra lo si deve lasciare. L’anima porta con sé solo ciò che è spirituale, sia in bene che in male. È proprio questa la saggezza: trasformare in realtà spirituale il frutto del proprio lavoro. La Parola di Dio indica questa via nella carità. Chi fa della propria vita un atto di carità, nulla perde, tutto porta con sé, acquisisce un guadagno eterno.

La  vita  dell’uomo  sulla  terra  è  dolori  e fastidi  penosi.  Il  suo  cuore  neppure  di notte riposa. Se poi deve lasciare la terra spoglio, è il vuoto assoluto. È questo il motivo per cui è necessario trovare una soluzione per trasformare la vanità in pienezza. Se questa soluzione non viene trovata, la vita rimane vuota. Nessun uomo deve vivere una vita vuota. Egli ha bisogno di pienezza. La via però è sempre e una sola. La trasformazione della materia in spirito, in virtù, in amore, dà il vero compimento alla vita. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Martedì, 22 Luglio 2025 10:26

17a Domenica T.O.  (Gen 18,20-32)

Gen 18,20-32

Genesi 18:20 Disse allora il Signore: «Il grido contro Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave.

Genesi 18:21 Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».

Genesi 18:22 Quegli uomini partirono di lì e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora davanti al Signore.

Genesi 18:23 Allora Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio?

Genesi 18:24 Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?

Genesi 18:25 Lungi da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».

Genesi 18:26 Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città».

Genesi 18:27 Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere...

Genesi 18:28 Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne trovo quarantacinque».

Genesi 18:29 Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta».

Genesi 18:30 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta».

Genesi 18:31 Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti».

Genesi 18:32 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

 

Il male che si compie grida al Signore. Possiamo definire il peccato di Sodoma e di Gomorra come l’abisso ultimo in cui può cadere la natura umana. Il testo della Genesi presenta Dio che vuole accertarsi che le cose stanno veramente secondo il grido che è giunto fino a Lui.

«Disse allora il Signore: Il grido contro Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave». Queste parole sottolineano il motivo dell'imminente distruzione di Sodoma e Gomorra. Per Dio, la peccaminosità di quelle città ha raggiunto un livello che richiede il giudizio. Il "grido" di cui si parla simboleggia il grido di ingiustizia e immoralità che è giunto agli orecchi del Signore.

L'attenzione sui peccati delle città rivela il principio che la corruzione morale e l'ingiustizia si scontrano con la punizione divina. Questo implica che il giudizio di Dio non è arbitrario, ma è una risposta all'effetto cumulativo della malvagità e del decadimento della società.

L'applicazione pratica del v. 20 va oltre il contesto storico e teologico, e riguarda il concetto della giustizia divina e della responsabilità morale dell'uomo. Ci ricorda che le azioni hanno conseguenze e che esiste un ordine morale divino che ritiene gli individui e le società responsabili del loro comportamento.

Inoltre, incoraggia la riflessione sull'etica personale e comunitaria. È un invito all'autoesame e al pentimento, ed esorta gli individui e le comunità ad affrontare i fallimenti morali e le ingiustizie prima che raggiungano un punto di non ritorno. Sottolinea anche l'importanza di promuovere la giustizia e la rettitudine nel proprio ambiente di vita. Proprio come il grido di Sodoma e Gomorra fu notato da Dio, anche il clima etico delle nostre comunità viene osservato e valutato.

Il v. 20 ha una notevole rilevanza nel contesto di oggi. È un potente promemoria delle conseguenze del fallimento morale collettivo e dell'importanza della condotta etica. In un mondo che affronta numerose sfide morali e sociali, questo versetto richiama l'attenzione sulla necessità del pentimento personale e sociale. Invita gli individui e le comunità a riflettere sulle loro azioni e sui valori della società, incoraggiando un cammino verso la rettitudine e l'equità. Inoltre, il racconto di Sodoma e Gomorra stimola discussioni su questioni come la corruzione, l'ingiustizia e il ruolo della comunità di fede nell'affrontare le questioni morali. Sfida i lettori contemporanei a considerare se le loro azioni e le strutture sociali si allineano con i principi divini di giustizia e compassione.

È un versetto profondo che racchiude le ragioni che motivano il giudizio divino di Sodoma e Gomorra. Mette in evidenza l'importanza del comportamento morale e il principio della retribuzione divina in risposta a gravi trasgressioni. Il "grido" di Sodoma e Gomorra è un grido morale che va oltre la percezione umana e invoca l'intervento divino. La natura "molto grave" del loro peccato evidenzia l'intensità della loro corruzione morale, e serve da monito per tutte le società sui pericoli della malvagità incontrollata.

In termini pratici, bisogna trarre lezione sull'importanza di vivere secondo gli standard divini e di mantenere la giustizia sociale, sostenendo l'integrità, la compassione e la rettitudine nella vita personale e comunitaria. La profonda connessione tra il comportamento umano e il giudizio divino, sfida i credenti a vivere una vita che rifletta la giustizia e l'integrità morale.

Dopo di che nasce biblicamente, con questo racconto della vita di Abramo, la preghiera di intercessione. Nasce anche la richiesta di perdono dell’empio a motivo del giusto. È questo il cuore della nostra cristologia. È questo il cuore del Vangelo. Dio non può far morire insieme l’empio e il giusto a motivo dell’empio. Dio però può far vivere insieme l’empio e il giusto a motivo del giusto. 

Chi ama il Signore e ha fede in Lui, non può accettare una giustizia sommaria che accomuna in un’unica condanna l’empio con il giusto.

Alla base di questa discussione vi è un interrogativo preciso: davanti a Dio ha maggior peso la cattiveria di molti o la bontà di pochi? Dio è pronto a dare più importanza al bene, anche se minoritario, perché il suo amore precede la sua giustizia. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 14 Luglio 2025 14:05

16a Domenica T.O.  anno C  (Sal 14)

Sal 14)

Salmi 14:1 Salmo. Di Davide.

Signore, chi abiterà nella tua tenda?

Chi dimorerà sul tuo santo monte?

Salmi 14:2 Colui che cammina senza colpa,

agisce con giustizia e parla lealmente,

Salmi 14:3 non dice calunnia con la lingua,

non fa danno al suo prossimo

e non lancia insulto al suo vicino.

Salmi 14:4 Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,

ma onora chi teme il Signore.

Anche se giura a suo danno, non cambia;

Salmi 14:5 presta denaro senza fare usura,

e non accetta doni contro l'innocente.

Colui che agisce in questo modo

resterà saldo per sempre.

 

Il salmo è di Davide. Per mezzo di lui lo Spirito Santo ha espresso queste parole. Questo salmo elenca undici azioni che fanno di un uomo un giusto. Alcune di queste azioni, come il divieto del prestito a interesse o della corruzione in tribunale, sono previste dalla Torah, ma altre no, a dimostrazione che Davide è profeta, va oltre la linea di giustizia tracciata dalla Torah. Da un punto di vista cultuale, è un salmo liturgico, un vero e proprio “atto penitenziale” perché il pellegrino per entrare nel tempio doveva avere 1'animo purificato. Si tratta di un gesto che si compie anche all'inizio della Messa ("Confesso a Dio onnipotente... ") che precede la celebrazione vera e propria del rito.

Per entrare nel tempio, la Torah richiedeva una purità esteriore, che era legata all'osservanza di determinate pratiche. Il salmista va oltre: Dio esige la purità interiore. A Dio interessa il cuore dell'uomo, la purezza del cuore. Davide manifesta quella legge scritta nei cuori che sarà portata a compimento da Gesù. Il salmo esprime il camminare verso Dio, il giungere nella tenda del Signore, e qui sostare. Il pellegrino va al tempio, ma alla fine vi dimora anche, non nel senso di abitare nel tempio ma nel senso che incontra il Signore ed ha comunione con Lui. È quello che sperimentiamo nell'Eucarestia.

Le domande del salmista - Chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte? - sono domande che riguardano il futuro dell'uomo. L'uomo non vive solo di presente o di futuro storico. Vive anche di un futuro eterno, dopo la sua morte. Questo futuro lo si potrà vivere sul monte della vita che è del Signore, oppure nella valle della perdizione e della morte senza il Signore. Chi abiterà con il Signore per l'eternità? Chi dimorerà per sempre nella sua casa? A questa domanda bisogna dare una risposta. Il Salmo dà la risposta con molta chiarezza.

Per vivere in eterno con Dio occorre che vengano osservate delle leggi ben precise: camminare senza colpa, praticare la giustizia, dire la verità (v. 2). La prima richiesta ("Colui che cammina senza colpa") condiziona tutte le altre. L'ebraico «tāmîm» significa "rettamente". Cammina senza colpa (cioè rettamente) e pratica la giustizia… colui che osserva la Parola di Dio e vive nell'osservanza dei comandamenti. Dice la verità… colui che è giusto, perché solo il giusto ha nel cuore Dio che è la verità. Se l’uomo mette Dio nel suo cuore, sempre parlerà con verità. Se Dio però non è nel cuore, o addirittura si pensa che non esista, quale verità potrà proferire con la bocca se è assente dal cuore? 

Per salire e abitare sul monte del Signore si deve avere sempre una lingua pura, santa (v. 3). Mai con essa si devono spargere calunnie, falsità, diffamazioni. Non si deve fare alcun danno al prossimo, né fisico e né spirituale. Non si devono lanciare insulti al proprio vicino. Il vicino deve essere aiutato, mai calpestato, mai insultato. Con il vicino si deve vivere in serena fraternità.

Chi vuole salire sul monte del Signore non deve avere alcuna connivenza con il malvagio (v. 4). Il malvagio deve essere ritenuto spregevole ai suoi occhi. Nessuna comunione con lui. Piuttosto si deve sempre onorare chi teme il Signore. Chi vuole abitare con Dio deve starsene lontano dagli empi, e deve frequentare chi teme il Signore.

Altra cosa necessaria che deve essere fatta: dovrà osservare i giuramenti. Deve mantenere sempre la parola data, anche se è a suo danno, anche se contro i propri interessi. Il giusto dovrà essere sempre giusto. Poiché dovrà abitare nel regno della luce, il suo dovrà essere un cammino di luce. Quanto distante è oggi la concezione di molti cristiani da quella del salmista. È come se avessimo distrutto in pochi anni un patrimonio di verità costruito in millenni.

L'usura è un peccato condannato severamente dalla Chiesa, che è stata sempre contraria agli usurai, tanto è vero che nel Medio Evo questo tipo di prestito era praticato soltanto dagli ebrei. Il v. 5 sembra scritto oggi. Per gli usurai non c'è posto sul monte santo del Signore. Essi si sono nutriti, come vampiri assetati, del sangue dei loro simili, per loro non ci potrà essere posto presso Dio perché nel loro cuore non c'è stato posto per i bisognosi.

Non salirà sul monte santo di Dio neanche chi si lascia corrompere da doni e regali, contro l’innocente. Chi condanna gli innocenti, qualunque sia il motivo, sappia che per lui non c'è posto sul monte di Dio. Il problema della corruzione della magistratura era di attualità anche nella Bibbia. I giudici che ricevevano compensi davano ragione al forte e torto al debole. Il giusto, invece, abbraccia la causa dell'innocente senza incentivi monetari. Se il cristiano avesse il coraggio di annunciare queste antiche verità, il mondo respirerebbe di una luce diversa. Purtroppo il cristiano predica una salvezza a basso prezzo, anzi senza alcun prezzo, addirittura al prezzo del peccato, e il mondo sta precipitando nel caos per mancanza di verità e moralità.

Il salmo, con tutte le sue richieste molto concrete, evidenzia che liturgia e vita, preghiera ed esistenza, non devono mai essere separate. Un cristiano che si limita soltanto ad andare alla Messa domenicale non è un buon cristiano, perché la pratica del culto non può essere separata dalle opere. Ci sarebbe una frattura grandissima tra la sua preghiera (liturgia) e la sua vita (esistenza).

Il contenuto del salmo ci induce a non avere una visione magica della liturgia e della preghiera; il salmista vuole inculcare il concetto che la liturgia-preghiera senza la coerenza di vita è vuota. Gli atti indicati in questi versetti non si devono compiere al momento dell'ingresso nel tempio; piuttosto sono comportamenti che devono contraddistinguere la vita del credente. Inoltre, la nostra non può essere una fede intimistica [io e il mio Dio] per il fatto che il nostro rapporto con Dio vale proprio in quanto ci sono gli altri. Se non si vive in una dimensione comunitaria, non si può nemmeno amare il Signore. 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Martedì, 08 Luglio 2025 05:07

15a Domenica T.O.  (Sal 18)

Sal 18

Salmi 18:1 Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.

Salmi 18:2 I cieli narrano la gloria di Dio,

e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento.

Salmi 18:3 Il giorno al giorno ne affida il messaggio

e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Salmi 18:4 Non è linguaggio e non sono parole,

di cui non si oda il suono.

Salmi 18:5 Per tutta la terra si diffonde la loro voce

e ai confini del mondo la loro parola.

Salmi 18:6 Là pose una tenda per il sole

che esce come sposo dalla stanza nuziale,

esulta come prode che percorre la via.

Salmi 18:7 Egli sorge da un estremo del cielo

e la sua corsa raggiunge l'altro estremo:

nulla si sottrae al suo calore.

 

Questo Salmo è stato diviso dalla liturgia in 18 A e 18 B. Nella prima parte del Salmo (vv. 2-7) c’è il canto al Creatore dell'universo. Nella seconda (vv. 8-15) c’è un inno alla Torah, cioè alla  legge  divina,  alla  parola  del  Signore. Le due parti del salmo trattano di come l'uomo può attingere la conoscenza di Dio; prima per deduzione osservando i cieli visibili e poi mediante l'insegnamento della Torah, la Parola di Dio. Sono rispettivamente la sfera materiale e quella spirituale. L’unità  tra  le  due  parti è  fatta  attraverso il simbolismo del sole: Senza la luce fisica del sole e la luce spirituale della Parola di Dio, non vi sarebbe vita sulla terra. Dio si rivela a tutti illuminando l’universo con il fulgore del sole e illumina il fedele con lo sfolgorare della sua Parola contenuta nella sua legge rivelata. È significativo, infatti, che la legge, nella seconda parte del Salmo, sia tratteggiata con attributi solari: Come  il  sole dà  la  luce  fisica alla terra  (vv.  6-7),  così  la  legge  è  la  lampada  che  dà  luce spirituale all’uomo (vv. 8-9).

L’ordine, la bellezza, l’armonia dell’universo narrano la gloria di Dio. Il firmamento si autoproclama opera delle mani di Dio. L’esistenza dei cieli è un canto alla gloria di Dio. Chi guarda il firmamento non può non confessare che esso è opera della mani del Signore. La maestà della creazione fornisce la prova di un Dio creatore ancora più maestoso del creato. Chi dalla bellezza del creato non vede la bellezza infinita del suo Creatore è uno stolto. Ma chi non è stolto innalza un grande inno di lode al Creatore.

Il giorno che va trasmette la notizia che esiste un Creatore al giorno che viene, gliela affida perché la trasmetta a sua volta. Anche la notte che va ne trasmette notizia alla notte che viene, perché anch’essa gridi questa verità e la consegni a sua volta alla notte che le succederà. Nessun  giorno  vuole  che  l’altro  giorno  si  dimentichi  del  suo  Signore  e  così nessuna notte vuole che l’altra notte smetta di narrare le meraviglie di Dio. La verità  di  Dio deve  rimanere  stabile  per sempre.

Giorno  e  notte  si  trasmettono  la  notizia  in  modo  silenzioso.  Nessuno li ode parlare. Si trasmettono la notizia naturalmente, per il fatto di succedersi, di essere. Basta che la notte si alzi e il cielo stellato brilla in tutto il suo splendore e subito inizia l’inno di lode per il suo Creatore e Signore. Basta  che  il  giorno  spunti  e  la  contemplazione  delle  opere  di  Dio  diviene  un canto di lode e di benedizione per il suo Autore. Questa verità dovrebbe valere anche per l’uomo. Basta che un uomo venga alla luce perché si canti un inno di ringraziamento al suo Autore e Dio. Non vi è prodigio più grande nella natura della nascita di una nuova vita umana. Eppure l’uomo è l’unico essere che non trasmette questa notizia.

Non  vi  è  un  luogo  sulla  terra  dove  giorno  e  notte  non  cantino  la  gloria  del Signore. Da ogni angolo dell’universo appare la straordinaria grandezza di Dio. Da ogni angolo dell’universo sale a Dio l’inno di gloria e di benedizione. Il messaggio del creato riguardo la gloria di Dio raggiunge tutte le nazioni ed è comprensibile a tutti.

Nel cielo vi è qualcosa di straordinariamente bello, grande, luminoso. Nel cielo Dio ha posto la tenda per il sole (v. 6). È come se il sole fosse al centro delle opere di Dio. È come se fosse l’opera più eccelsa. La sua luce e il suo calore riflettono la potenza di Dio. Il sole è anche paragonato a uno sposo che esce dal suo talamo. È l’immagine dello sposo che ama la sua sposa e che dalla sua sposa è amato. Il sole esce per dare gioia, calore, a tutta la terra. Esce per risvegliarla dal suo torpore della notte. Esce per rimetterla in vita. Il sole è la vita materiale della terra. Per questo è simbolo di Dio. Il sole si alza e compie il suo giro per dare vita a tutta la terra. Così è Dio. Si alza e viene a portare la sua luce di verità a tutti gli uomini.

Il sole passa e la terra si riscalda. È Dio la luce eterna che dona vita e calore. Ma soprattutto dona vita di verità ad ogni uomo. Il sole è simbolo di Dio, ma soprattutto è simbolo della Parola di Dio. È la Parola di Dio la vera luce che illumina ogni uomo. Come le piante e gli animali e anche gli uomini attingono la loro vita dal calore del sole, così la Parola di  Dio deve generare vita in ogni uomo. Basta ascoltarla, viverla. È sufficiente che ci si lasci riscaldare dalla sua luce e la vita fiorisce in noi. Non si deve fare nient'altro. Basta solo viverla, assorbirla. La luce del sole si assorbe. Anche la luce della Parola di Dio va assorbita. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Lunedì, 30 Giugno 2025 20:46

14a Domenica T.O. (Gal 6,14-18)

(Gal 6,14-18)

Galati 6:14 Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.

 

Mentre gli altri si possono vantare perché sono bravi, perché hanno tanti discepoli, perché osservano la legge, perché si circoncidono, Paolo dice: io vorrei vantarmi di una cosa, della croce del Signore nostro Gesù Cristo. È questo il programma spirituale di Paolo. Ogni azione, ogni gesto deve servire solo a dare compimento a questa sua scelta fondamentale: la scelta di essere crocifisso con Cristo e di crocifiggere il mondo in Cristo. Un crocifisso è un uomo maledetto, ma uno crocifisso in Cristo è un benedetto e un eletto del cielo. Da Cristo in poi la croce, segno di morte, sarà portata come segno di vita e segno di gloria. Chiunque volgerà lo sguardo a Colui che è stato trafitto sarà salvo.

La croce è il contrario del vanto, è una ignominia; è come dire: io mi vanto della cosa peggiore che ci sia, perché la croce è la cosa peggiore che ci sia. Paolo si vanta della croce perché nella croce egli ha capito l’essenza di Dio; ha capito che sulla croce il Signore Gesù ci ha amato. Questo è il vanto del cristiano: capire il mistero della croce e capire il mistero dell’amore di Dio. Chi capisce questo amore dice: io sono crocifisso per il mondo; ma cosa vuol dire che io sono crocifisso per il mondo? Il mondo per me, è morto attraverso la croce, non ha più il suo fascino, non ha più la sua attrattiva, perché io ormai non vivo più del mio io, del mio egoismo, del mio vecchio uomo, io vivo di questo amore che Lui mi dà gratuitamente, quindi sono morto al mio io, vivo di Lui; non sono più io che vivo, Cristo vive in me; la vita che vivo nella carne, la vivo nell’amore del Signore che mi ha amato e ha dato sé stesso per me.

Chi sceglie la croce si dona pienamente al Signore e il dono si concretizza non nel fare questa o quell’altra cosa, ma nel mettersi a disposizione del Signore, nel porsi in ascolto della sua volontà. Scegliere la croce è rinunciare ai propri progetti, alle proprie idee, ai propri pensieri, alle proprie vedute - in modo che lo Spirito possa guidare la nostra vita dove e quando Lui vuole. Così, crocifiggere il mondo significa che noi lo rinneghiamo, lo condanniamo, lo rifiutiamo, lo seppelliamo perché non regni più su di noi, perché non invada la nostra vita, perché non ci tenti e ci faccia abbandonare Cristo, unica sorgente di vita e di benedizione.

Questo mondo è il mondo della carne, del peccato e della morte, che sta in contrasto con la nuova creazione in Cristo. Il mondo lo si crocifigge togliendo dal nostro cuore i suoi pensieri, le sue idee, ogni influenza e ogni sentimento che contrasta con la volontà di Dio espressa e manifestata nella parola di Cristo. Il mondo si crocifigge condannando apertamente le sue opere, il suo essere contro Dio, la sua volontà satanica di opporsi a tutto ciò che è riferimento morale nella condotta dell’uomo. Oggi si condanna il mondo… ma lo si crocifigge? La risposta è negativa. Non si crocifigge perché ci si è omologati al suo pensiero che è pensiero di satana e non di Cristo.

La Chiesa in questo deve registrare molti fallimenti nei suoi figli. Costoro vivono di riti ma non di fede; di funzioni, ma non di Parola; di tradizioni, ma non di santità; vivono di esteriorità e di formalismi, ma non di ascolto della Parola di Cristo. Il mondo non si crocifigge se non si vive di fede, di Parola, di ascolto, di santità, di grande interiorità, di costante mozione dello Spirito Santo.

«Il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo». Paolo è un crocifisso, cioè un morto nei confronti di questo vecchio mondo del male, il quale è impossibilitato ad allontanarlo da Cristo, e lui stesso è stato crocifisso nel confronti del mondo, poiché il mondo da lui nulla può più prendere, se non la testimonianza della croce di Cristo. E questa è l’esperienza profonda che Paolo propone a tutti e di questo si vanta, di questo è giusto vantarsi e voglia il cielo che tutti ci possiamo vantare di questo.

Se il discepolo di Gesù non crocifigge il mondo, dal mondo non viene crocifisso. Le due crocifissioni sono l’una la causa dell’altra. Il discepolo di Gesù crocifigge il mondo, il mondo crocifigge il discepolo di Gesù. Prima deve essere il discepolo di Gesù a scegliere di seguire Cristo con fedeltà, ed è in questa scelta che il mondo viene crocifisso, ma è anche nella realizzazione di questa scelta che il mondo crocifigge il cristiano. Tutto pertanto dipende dal discepolo di Gesù, e se il mondo non ci crocifigge è segno che noi non abbiamo crocifisso il mondo.

Pertanto è assai facile sapere se siamo di Cristo o se non lo siamo. Basta che osserviamo come ci tratta il mondo. Se il mondo ci crocifigge, è segno evidente che noi abbiamo crocifisso il mondo. Quando il mondo non ci crocifigge più, è manifesto che noi abbiamo rallentato il nostro cammino nella fede, o addirittura ci siamo allontanati dalla retta via e ci siamo immersi (anche noi) nei pensieri e nella logica del mondo.

Praticamente in questo versetto Paolo riassume l’esperienza profonda della vita cristiana e il nocciolo di tutta la Lettera ai Galati, cioè il senso della croce, come vanto, cioè come gloria, come rivelazione di Dio e come cambiamento radicale di vita: muore l’uomo vecchio e nasce l’uomo nuovo che ha come misura l’amore di Dio e non più il proprio egoismo, i propri desideri.

 

 

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Lunedì, 23 Giugno 2025 21:22

Ss. Pietro e Paolo

(Mt 16,13-19)

Matteo 16:13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?».

Matteo 16:14 Risposero: «Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti».

Matteo 16:15 Disse loro: «Voi chi dite che io sia?».

Matteo 16:16 Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Matteo 16:17 E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.

Matteo 16:18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa.

Matteo 16:19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

 

I Vangeli non sono opere scritte di getto, ma la meticolosità con cui sono stati composti e strutturati dice che essi sono stati studiati e composti a tavolino da persone veramente esperte e capaci nell'arte della narrativa e della comunicazione. Sono opere di alto spessore intellettuale, ed hanno finalità squisitamente teologiche, dottrinali e pastorali.

In questo brano viene riportata in modo solenne ed elaborato - per bocca di Pietro - la confessione di Gesù come vero Messia e vero Figlio di Dio. Tuttavia, il brano è anche uno dei più discussi e contestati nell'ambito della storia del cristianesimo dalla Riforma protestante in poi, per le parole che Gesù proferì a Pietro e che gli conferirono un'incredibile autorità. Vi è, dunque, da una parte, il mondo cattolico, che vede in essa il fondamento teologico e divino del papato; dall'altra, il mondo protestante che cerca di sminuirne la portata, arrampicandosi spesso sugli specchi. Tempo e spazio, purtroppo, non permettono di trattare questa tematica.

Gesù introdurrà i suoi discepoli nella verità della sua Persona, attraverso una domanda in apparenza semplice che sembra buttata lì. Egli chiede cosa la gente dice del Figlio dell’uomo, cioè di lui, Gesù. I vv. 13-14 riportano le voci che ricorrevano sulla sua persona, una sorta di indagine statistica casereccia, da cui risulta un condensato di titoli che mette in rilievo il complesso e multiforme mistero della sua persona: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta. Siamo nel cuore della questione cristologica del Vangelo di Matteo, che vede a confronto due gruppi di persone: gli uomini, estranei al gruppo dei discepoli, e i discepoli stessi. I primi propongono delle soluzioni secondo lo schema veterotestamentario; i secondi indicano una nuova prospettiva. Un confronto, quindi, che si svolge tra un gruppo che fonda la sua comprensione di Gesù sull'Antico Testamento, che tende quindi a spiegare Gesù secondo gli schemi del passato; e un gruppo, che staccandosi e contrapponendosi al primo, indica in Gesù il nuovo evento salvifico del Padre. Un confronto che avviene a Cesarea di Filippo.

La città sorgeva ai piedi del monte Hermon, nei pressi della sorgente di Nahr Banyas, una delle tre sorgenti del fiume Giordano,  una delle quali si riteneva che fosse l’accesso al regno della  morte. In epoca ellenistica, la grotta, da cui scaturiva il fiume, era sacra al dio greco Pan. Gesù porta i discepoli nel posto più lontano possibile dall’influsso dei farisei e sadducei, e la confessione di Pietro avviene in zona pagana.

La gente, vedendo i miracoli che Gesù faceva, pensava che fosse uno di quei personaggi straordinari che dovevano preparare il popolo alla venuta del Messia. Gesù è considerato un uomo del passato, e se è un uomo del passato di certo compirà le stesse opere che hanno compiuto in passato tutti quei servi del Signore. La risposta della gente indica la sua incapacità di staccarsi dai canoni veterotestamentari, non riesce a leggere la realtà se non attraverso il filtro della Legge mosaica.

Anche oggi si vorrebbe Gesù uguale a tutti gli altri uomini. Se è uguale a tutti gli altri uomini, non potrà fare nulla di speciale. Farà ciò che fanno tutti gli altri uomini, alla maniera di tutti gli altri uomini. L'uomo, istintivamente, è abituato a pensare Dio, il Signore Gesù, in tutte le proprie categorie religiose, trovandogli un posto nello schedario.

“Ma voi chi dite che io sia?”. A Gesù non interessa cosa pensa la gente. A Gesù interessa che i suoi discepoli sappiano chi Lui sia, perché ogni falsità da loro introdotta nella sua Persona e nella sua missione avrà conseguenze per tutta l’umanità. La salvezza dell’umanità è legata alla verità su Gesù.

Pietro dà una risposta immediata: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Tu sei il Messia di Dio. Il Messia di Dio è il Figlio del Dio vivente. Siamo nel vertice della fede cristologica: Gesù non è il Battista risuscitato dai morti, non è Elia, né Geremia o uno degli antichi profeti, visione che tende a ricondurre l'evento Gesù all'interno della più comprensibile e tranquilla fede giudaica, ma egli è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Gesù non è un uomo del passato. In Cristo c’è un mistero che va ben oltre tutto il passato di Israele. In Cristo c’è una novità assoluta. Gesù non è solo il Messia di Israele. È il Messia di Israele perché è il Figlio del Dio vivente.

Chiamare Gesù «Figlio di Dio», fa compiere una riqualificazione al termine stesso di Messia, in cui si riconosce non semplicemente un uomo inviato da Dio, ma Dio stesso, che si fa incarnazione in Gesù e del quale se ne riconosce la natura divina, così che Gesù diviene il “Davar” del Padre. Il termine ebraico «davar» significa “parola”, ma non nel senso di semplice voce o suono, ma come una parola che è anche azione, in cui il parlare e l'agire coincidono. Il Davar, quindi, designa un evento che si compie per mezzo della Parola e nella stessa Parola; una Parola che si fa evento. Per questo Gesù può essere definito e ritenuto come l'agire stesso del Padre.

Il legare insieme i due titoli “Cristo e Figlio di Dio”, costituisce il vertice della fede cristologica, poiché significa far convergere le attese messianiche nella novità sconvolgente della figliolanza divina dell'uomo Gesù, che in tal modo viene anche confessato Dio. Significa attribuire al Messia, concepito sempre come un uomo, la divinità stessa di Yahweh.

A fronte della professione di fede, che svela la vera identità di Gesù, Pietro viene dichiarato beato. La beatitudine delineava sempre lo stretto rapporto che intercorre tra l'uomo e Dio. L'uomo viene dichiarato beato perché è adombrato dalla presenza di Dio. Beato indica, quindi, una sorta di elezione che Dio pone sul suo fedele, ma dice anche la scelta che quell'uomo ha operato a favore di Dio, ponendosi dalla sua parte. Si tratta, comunque, di un rapporto e di una condizione di privilegio in cui il beato viene posto. La dichiarazione di beatitudine di Pietro, dunque, inserisce Pietro nella sacralità stessa di Dio e lo definisce una sorta di persona a Lui consacrata.

La beatitudine di Pietro, quindi, dipende da una elezione divina, che gli ha consentito di accedere ai misteri del disegno salvifico, che si sta compiendo in Gesù. Per questo Pietro è beato, perché viene reso partecipe del progetto salvifico e, pertanto, posto in una condizione di privilegio divino. Particolarmente interessante è la contrapposizione delle due espressioni “carne e sangue” e “Padre mio nei cieli”. Come dire che il mistero della persona di Gesù non può essere raggiunto con le forze umane, poiché tale mistero le supera ampiamente in quanto si pone nel segreto stesso del Padre che è nei cieli. La comprensione di Gesù è, dunque, dono dall'alto, è rivelazione, che si realizza  soltanto se l'uomo si pone nei confronti di Dio in un umile atteggiamento di fede accogliente, senza avere la pretesa di capire, poiché Dio dona, ma non si lascia derubare. 

 

 

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Lunedì, 28 Ottobre 2024 22:27

31a Domenica del Tempo Ordinario (B)

Sal 17 (18)

Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.

Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.

Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo  baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.

La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.

Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.

L’arma  vincente  di  Davide  è la  fede  che si  trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco  cosa  fa  Davide:  nell’angoscia  non  si  perde,  non  si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.

Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei  monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.

Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.

«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.

«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.

«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.

«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.

Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
  • Tutte le generazioni mi chiameranno beata
  •  Cattolici e Protestanti a confronto – In difesa della fede

 

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Addressing this state of mind, the Church testifies to her hope, based on the conviction that evil, the mysterium iniquitatis, does not have the final word in human affairs (Pope John Paul II)
Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane (Papa Giovanni Paolo II)
Jesus reminds us today that the expectation of the eternal beatitude does not relieve us of the duty to render the world more just and more liveable (Pope Francis)
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo (Papa Francesco)
Those who open to Him will be blessed, because they will have a great reward: indeed, the Lord will make himself a servant to his servants — it is a beautiful reward — in the great banquet of his Kingdom He himself will serve them [Pope Francis]
E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli [Papa Francesco]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
There is work for all in God's field (Pope Benedict)
C'è lavoro per tutti nel campo di Dio (Papa Benedetto)
The great thinker Romano Guardini wrote that the Lord “is always close, being at the root of our being. Yet we must experience our relationship with God between the poles of distance and closeness. By closeness we are strengthened, by distance we are put to the test” (Pope Benedict)
Il grande pensatore Romano Guardini scrive che il Signore “è sempre vicino, essendo alla radice del nostro essere. Tuttavia, dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova” (Papa Benedetto)
The present-day mentality, more perhaps than that of people in the past, seems opposed to a God of mercy, and in fact tends to exclude from life and to remove from the human heart the very idea of mercy (Pope John Paul II)
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia (Papa Giovanni Paolo II)
«Religion of appearance» or «road of humility»? (Pope Francis)
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? (Papa Francesco)
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)

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don Giuseppe Nespeca

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