Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Riflessioni sul senso religioso.
Anche questa riflessione nasce da un dialogo con un signore della mia età circa.
Questo signore conosciuto e stimato nel suo paese incontrando una sua vecchia conoscenza, viene redarguito da quest’ultima perché non frequentava le funzioni religiose; secondo lei avrebbe dovuto farlo per il suo bene. Il signore ha risposto che non sentiva questo bisogno e che non gli sembrava che il suo comportamento potesse offendere il senso religioso generalmente inteso.
Discussioni del genere ce ne sono spesso fra gli esseri umani, non è una novità. La riporto perché mi ha fatto riflettere sul senso religioso nella vita dell’uomo. L’argomento tocca diverse discipline ed è complesso.
Studi di Fiorenzo Facchini dicono che vari comportamenti dell’uomo preistorico vengono letti in senso religioso. I nostri antenati davano sepoltura ai loro morti e dipingevano raffigurazioni sulle pareti.
Queste caverne avevano qualcosa di sacro. Manifestazioni religiose dell’antichità erano i canti e le danze.
In tutte le religioni troviamo un bisogno di rassicurazione sulla nostra vita e anche il bisogno di trovare delle risposte magiche ai nostri problemi.
Bettelheim sostiene che a livello individuale e soprattutto nell’infanzia la religione può dare quelle basi di stabilità e sicurezza con cui il bambino potrà evolversi verso l’autonomia.
La società in cui viviamo ci impone di correre, di essere al passo con i tempi; vuole darci i suoi valori.
Oggi esiste la moda dell’effimero, della competitività - e allora è psicologicamente rassicurante credere in una “madre-ambiente” che ci vuole bene, o essere dentro un disegno che dà significato alla nostra vita.
A differenza di Freud che non aveva una visione positiva, o del filosofo Carlo Marx il quale sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli, Jung nell’undicesimo volume “Psicologia e religione” dice testualmente:
“Poiché’ la religione è incontestabilmente una delle prime e universali espressioni dell’anima umana […] non è soltanto un fenomeno sociologico o storico, ma un’importante questione personale” (vol.XI, p.15).
Nella mia lunga pratica professionale ho incontrato spesso persone che hanno dovuto fare i conti con questa tematica.
Compito del terapeuta non è condizionare l’altro, ma chiarire le dinamiche sottostanti.
Ho incontrato persone che si definivano non credenti ma che a livello inconscio dovevano fare i conti con i loro sogni. Oppure individui che appartenevano a religioni diverse talmente rigide che inibivano il loro il senso vitale.
In tutti questi casi cresceva la conoscenza dell’animo umano, sia che esso si dichiarasse religioso o meno. Non stiamo discutendo della posizione filosofica di ciascuno.
Si notavano delle differenze tra la persona che si definiva religiosa da una che non lo era.
Tengo a precisare che tali differenze non costituiscono dei giudizi di valore, ma solo caratteristiche comportamentali.
lI religioso crede che esiste una realtà che è sacra e che va oltre questo mondo - e che la sua esistenza viene potenziata in base al suo credo.
Colui che si definiva non credente rifiutava la trascendenza, era uno il quale si fa da sé e crede che solamente lui si costruisce il proprio destino.
Una preoccupazione costante è quella di negare qualsiasi riferimento o battuta di spirito venisse riferita ad argomenti religiosi.
Addirittura ho incontrato qualcuno più preoccupato di quale fosse il mio credo più che dei suoi problemi personali. Ho sempre risposto che il mio ambito d’azione era la psiche in tutte le sue manifestazioni. Al di là di ogni manifestazione sacra o meno, il rispetto della persona è già un atteggiamento sacro.
“Desacralizzarsi“ del tutto non è neanche facile, poiché è difficile rinnegare del tutto la storia - sia per chi crede nella creazione e per chi crede nell’evoluzione.
Chissà se l’evoluzione include una creazione?
Dott. Francesco Giovannozzi Psicologo-psicoterapeuta
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Prima Domenica di Quaresima (anno C) 9 Marzo 2025
*Prima Lettura dal Libro del Deuteronomio (26, 4 – 10)
Mosè ordina un gesto di offerta, come avviene in tutte le religioni, ma per Israele si tratta di una reale professione di fede: “Prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole”. Segue poi un intero discorso sull’opera di Dio a favore del suo popolo, che si potrebbe riassumere in una semplice frase: tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è dono di Dio. Questa è la grande novità di tutta la Bibbia specialmente del libro del Deuteronomio. Se nelle religioni il rito dell’offerta è un gesto di richiesta alle divinità di benefici che loro possiedono, per Israele avviene il ribaltamento del senso del rito perché quest’offerta è un atto di gratitudine. Offrire i doni non significa concedere a Dio qualcosa che ci appartiene, ma riconoscere che tutto è suo dono e non ci presentiamo a lui con le mani piene di ricchezze nostre; anzi riconosciamo che senza di Lui le nostre mani resterebbero vuote. In questo spirito, portare le proprie offerte diventa un gesto di memoria. Il libro del Deuteronomio insiste su questa pratica forse perché il popolo sembrava aver in parte dimenticato Dio e i suoi benefici. Nel deserto Israele aveva ben compreso che la sua sopravvivenza dipendeva da Dio e solo da Lui. Giunto però nella terra promessa (la terra di Canaan, l’Israele di oggi) correva il rischio di dimenticare il vero Dio essendovi diffusi culti delle popolazioni locali adoranti Baal e il serio rischio della contaminazione da parte dell’idolatria costituiva una minaccia alla vera fede. I profeti hanno sempre cercato di mantenere la fedeltà all’Alleanza del Sinai (cf Es 20,2), ripetendo che c’è un solo Dio, il Dio di Mosè, che ha liberato il suo popolo dalla mano degli Egiziani, lo ha accompagnato lungo tutta la sua storia e, infine, gli ha donato la terra promessa. Sembra proprio che la preoccupazione del nostro testo sia quella di conservare la memoria di quanto Dio ha compiuto e, in realtà, il libro del Deuteronomio potrebbe essere definito il libro della memoria. Il rito dell’offerta delle primizie è pertanto soprattutto un gesto di memoria, accompagnato dall’enumerazione delle opere compiute da Dio a favore del suo popolo. Nella parola “primizie” è contenuta l’idea di “primo”, i primi frutti del nuovo raccolto, i primi covoni di grano, i primi grappoli d’uva, il primo nato della nuova cucciolata. Tutto questo costituisce l’inizio e la promessa: pesando il primo covone, il primo grappolo, si poteva capire se il raccolto sarebbe stato abbondante e il rito di offerta esisteva già ai tempi di Caino e Abele per ottenere le benedizioni della divinità. Mosè ne aveva trasformato il significato: da quel momento in poi, tutto veniva vissuto in funzione dell’Alleanza e per questo si capisce il discorso che accompagna l’offerta. Non si domandano a Dio benefici per il futuro, ma si riconoscono quelli avuti sin dalla chiamata di Abramo e il rito diventa una professione di fede che costituisce un riassunto della storia di Israele: «Mio padre era un Arameo errante…». Tutto iniziò con Abramo, l’Arameo scelto da Dio per diventare il padre del popolo dell’Alleanza: un nomade “errante” nel senso che, prima della sua chiamata da parte di Dio, non aveva ancora scoperto l’unico Dio, errante quindi in senso spirituale. La frase che segue «Mio padre era un Arameo errante, che scese in Egitto», non si riferisce più ad Abramo, il capostipite, ma al suo discendente Giacobbe: lui e i suoi figli si stabilirono in Egitto. Segue tutta la storia, fino all’ingresso nella terra promessa. A questo punto, il gesto dell’offerta assume il suo pieno significato: offrendo il primo covone, il primo grappolo, è come se si presentasse a Dio tutto il raccolto. L’ offertorio nella Messa ha lo stesso significato: riconoscere che tutto è dono di Dio: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questi doni: a ben vedere prepariamo e offriamo doni a Dio che non sono nostri ma suoi.
* Salmo Responsoriale 90 (91), 1-2, 10-11, 12-13, 14-15
Il salmo si presenta come un dialogo a tre voci. Israele dice: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio mia fortezza, mio Dio in cui confido”. I sacerdoti all’ingresso del Tempio proclamano: “Non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda”. Infine interviene Dio stesso: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.”. Nei primi versetti, se si fa attenzione, vengono dati quattro nomi diversi a Dio: l’Altissimo (Elyôn), l’Onnipotente (El Shaddai), il Signore (YHWH) e infine Dio (Elohim). Le divinità degli altri popoli utilizzano tre di questi nomi: l’Altissimo, l’Onnipotente ed Elohim. Israele riprende questi termini comuni per designare il proprio Dio, ma è l’unico popolo al mondo a poterlo chiamare con il quarto, il famoso Nome rivelato a Mosè nel roveto ardente: YHWH. Come dice Dio stesso nel libro dell’Esodo: «Mi sono rivelato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe come Dio Onnipotente (El Shaddai), ma con il mio nome, YHWH, non mi sono fatto conoscere da loro» (Es 6,3). Questi primi versetti sviluppano il tema della sicurezza del credente con l’abbraccio dell’Altissimo all’ombra dell’Onnipotente. Nel linguaggio dei salmi, l’abbraccio dell’Altissimo richiama il Tempio di Gerusalemme e l’ombra è quella delle ali delle statue dei cherubini che sovrastano l’arca dell’Alleanza. C’è però anche un’allusione alla presenza protettrice di Dio lungo tutto l’Esodo. Come annotano gli esegeti le «ali» richiamano quelle dell’aquila che incoraggia i primi voli dei suoi piccoli (Dt 32,10-11; cf. Es 19,4). E l’angelo Gabriele dirà alla Vergine di Nazaret: “Su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35). I termini “mio rifugio, mia fortezza, mio Dio in cui confido” esprimono una professione di fede e indicano una risoluzione contro l’idolatria che esige sempre l’impegno a non abbandonare l’abbraccio dell’Altissimo. Gesù è colui che non smette mai di rifugiarsi in Dio, come vediamo oggi nel vangelo delle tentazioni di Gesù. Insomma la lotta contro l’idolatria è un tema che attraversa tutta la Bibbia ed è un punto centrale della predicazione dei profeti. Anche in questo nostro tempo c’è da riflettere perché l’idolatria assume volti diversi e sempre nuovi. Nel salmo seguono due strofe che sono una sorta di catechesi rivolta dai sacerdoti a ogni pellegrino nel Tempio di Gerusalemme: “non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda” se tu resti sotto l’ombra dell’Altissimo perché Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi. Duplice è il messaggio: certa è la vittoria - calpesterai leoni e draghi - e a garantirla è Dio che non cesserà mai di proteggere il suo popolo che darà ordine agli angeli di custodire tutti i passi del pellegrino, anzi lo porteranno con le loro mani, perché il suo piede non inciampi nelle pietre. Alla fine, nell’ultima strofa parla Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta” Da notare il versetto finale “nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso” che mostra come Israele abbia compreso che Dio non elimina ogni prova con un colpo magico, ma è «con» noi nella difficoltà e nella prova. Nell’angoscia” sarò con lui” è esattamente il significato del nome «Emmanuele», che vuol dire Dio-con-noi. Proposto all’inizio della Quaresima, questo salmo c’invita a trovare rifugio nell’abbraccio dell’Altissimo, frequentando la liturgia nelle nostre chiese dove non c’è più l’arca dell’Alleanza, né le due statue dei cherubini – quegli esseri alati con testa d’uomo e corpo di leone, le cui ali unite formavano un trono per Dio -, ma qualcosa di molto più grande: la Presenza della Santissima Trinità
*Seconda lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (10,8-13)
San Paolo afferma una cosa importante: che siate giudei o pagani non c’è alcuna differenza perché ciò che vi accomuna è l’essere cristiani e invocate tutti lo stesso Signore, generoso verso coloro che lo cercano. Il problema esisteva a Roma come altrove e ci si chiedeva se occorreva trattare allo stesso modo giudei e pagani. Anche se Paolo desiderava che tutti i giudei accogliessero Gesù come il Messia, tuttavia soltanto una minoranza del popolo ebraico aderì a Gesù Cristo, mentre furono i pagani a costituire la parte più numerosa delle comunità cristiane. Si capisce allora che la convivenza tra cristiani di origini così diverse, ebraiche o pagane, poneva non poche difficoltà e nascevano interminabili discussioni su questioni come la Legge, la circoncisione e le norme alimentari. Il problema era più profondo dato che alcuni giudei convertiti al cristianesimo accettavano a malincuore l’ingresso di quelli che chiamavano «gli incirconcisi», essendo Israele il popolo eletto da cui sarebbe nato il Messia. La domanda era la seguente: accogliere i non giudei non è forse tradire l’Alleanza e l’elezione del popolo ebraico? Per Paolo impedire ai pagani di ricevere il battesimo, voleva dire che Gesù salva solo i giudei, mentre nell’ Antico Testamento già il profeta Gioele aveva affermato del Messia: “Effonderò il mio Spirito su ogni uomo. I vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sui servi e sulle serve, in quei giorni, effonderò il mio Spirito… Allora chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.» (Gl 3,1-5). Inoltre i contemporanei di Paolo trovavano strano che per essere salvati bastasse invocare il nome di Gesù mentre ritenevano si doveva essere circoncisi e osservare scrupolosamente la Legge. L’Apostolo risponde che, poiché Gesù Cristo è Signore (Dio), d’ora in poi chiunque lo invoca è salvato come lo stesso Cristo disse a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”, precisando proprio chiunque: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.» (Gv 3,16-17) e il termine «mondo» significa chiaramente «tutta l’umanità». L’Apostolo non esita a ripetere: ”se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”. Nell’Antico Testamento, «ottenere la giustizia» e «essere salvati» significavano la stessa cosa. Inoltre il verbo «credere» non ha qui il senso di un’opinione personale e il parallelo tra «bocca» e «cuore» su cui insiste indica che la fede è un impegno profondo e totale della persona. Così, secondo Paolo, si compie quanto si legge nel libro del Deuteronomio: “Questa parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore.» Mentre nel Deuteronomio si parla della Legge da osservare, ora questa parola è il messaggio della fede in Gesù Cristo e Paolo ricorda a coloro che hanno ricevuto il battesimo: la salvezza ci è donata gratuitamente da Dio senza alcun nostro merito,; dobbiamo solo accoglierla con fede e libertà: «Se con la tua bocca proclami che Gesù è Signore e se con il tuo cuore credi che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza
* Dal Vangelo secondo san Luca (4, 1 – 13)
Se leggiamo questa pagina evangelica alla luce dell’odierno salmo responsoriale, riconosciamo l’attitudine interiore con cui Gesù inizia la sua missione pubblica: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido”. Gesù si pone all’ombra dell’Altissimo, mentre la tentazione lo spinge a lasciare questo rifugio, a dubitare della sua sicurezza e a cercare altrove ripari e sicurezze: sono proprio queste le tre tentazioni che hanno segnato sempre la storia di Israele e anche la nostra vita. Il diavolo - in greco «diabolos» cioè colui che divide – lo tenta insinuando il dubbio e la sfiducia. Se veramente tu sei il Figlio di Dio, tu puoi fare tutto quello che vuoi e sei in grado da solo di provvedere alla tua felicità. Dì a questa pietra che diventi pane e così sazi subito la tua fame dopo un così lungo digiuno (prima tentazione); adorami e sicuramente potrai realizzare tutti i tuoi disegni e progetti (seconda tentazione). Infine “se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e “ ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra (terza tentazione). Gesù però non cede alle lusinghe sataniche perché è certo che solamente Dio sazia la fame vera dell’uomo e ha scelto di fidarsi, in altri termini, di abitare al riparo dell’Altissimo, come dice il salmo. Più in dettaglio nella prima tentazione, quando il Tentatore lo provoca Gesù risponde: “Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l’uomo”, una espressione nota a tutto il popolo ebraico perché è contenuta nel capitolo 8 del Deuteronomio, come una meditazione sull’esperienza d’Israele durante l’esodo sotto la guida di Mosè: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito con la manna che né tu né i tuoi padri conoscevate, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di tutto ciò che esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,2-3). Il popolo sa per esperienza cosa significa la beatitudine della povertà: Beati coloro che hanno fame, perché confidano solo in Dio per essere saziati e il Deuteronomio prosegue: «Riconosci dunque nel tuo cuore che il Signore tuo Dio ti educava come un uomo educa suo figlio.» (Dt 8,5). In questo modo Il Figlio di Dio, che ora comincia a guidare il suo popolo, rivive nella sua carne l’esperienza di Israele nel deserto. In altre parole, quando il Tentatore sfida Gesù dicendo: «Se sei Figlio di Dio, dimostralo!», la sua risposta è chiara: Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere le sue opere, come dirà ai discepoli nell’incontro con la Samaritana (cf Gv 4,32-34). Nella seconda tentazione, al Tentatore che gli promette tutti i regni della terra, Gesù risponde: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”, citando questo testo fra i più conosciuti dell’Antico Testamento, che segue lo Shema Israel, la professione di fede ebraica (Dt 6,10-13). Nella terza tentazione il diavolo provoca Gesù a gettarsi giù essendo il Figlio di Dio, poiché sta scritto che verranno gli angeli a custodirlo portandolo sulle mani, ma risponde: “È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo (Dt 6,16). Il Cristo sa di essere sempre al riparo dell’Altissimo, qualunque cosa accada. Di fronte alle provocazioni del Tentatore Gesù trae dalla parola di Dio la forza per resistere a chi vuole separarlo dal Padre; non discute mai con lui e le tre risposte sono esclusivamente citazioni della Scrittura. In questo si mostra erede autentico del suo popolo e a lui si applica la frase del Deuteronomio, ripresa da san Paolo nella Lettera ai Romani (vedi la seconda lettura): «La Parola è vicino a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore.» (Dt 30,14). Le tre le risposte si richiamano al libro del Deuteronomio, scritto proprio per ricordare agli Israeliti che Dio è loro Padre. Gesù, nella sua vita, ripercorre l’esperienza del suo popolo nel deserto, dal Battesimo, in cui viene rivelato come il Figlio fino al Getsemani dove il Tentatore tornerà per l’ultimo attacco. Leggiamo alla fine del nostro testo: «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento opportuno, ma Gesù rimarrà sempre sotto l’ombra dell’Altissimo e, con questo episodio, Luca mostra che è Gesù l’unico vero modello da seguire.
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Ecco il commento per le letture di Mercoledì delle Ceneri
5 Marzo 2025 (anno C)
La liturgia del mercoledì delle Ceneri, che apre la Quaresima, era segnata un tempo dall’inizio della penitenza pubblica che si svolgeva quest’oggi e dall’avvio dell’ultimo tratto della formazione dei catecumeni, che si preparavano a ricevere il battesimo nella Veglia Pasquale. A simboleggiare l’invito alla preghiera e alla conversione del cuore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, c’è il rito della cenere, segno di penitenza e di conversione. Si tratta di un “simbolo austero” con cui iniziamo il cammino spirituale della Quaresima riconoscendo che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale e per questo siamo invitati a rendere la nostra esistenza un sacrificio Dio in unione con la morte di Cristo Gesù. Ciò che illumina il mercoledì delle Ceneri e l’intera Quaresima è l’evento della Risurrezione di Gesù, che celebreremo con rinnovata speranza in quest’anno giubilare. il mercoledì delle ceneri è giorno di penitenza, di digiuno e di elemosina che va intesa come condivisione di ciò che siamo e di ciò che possediamo con i nostri fratellil a gloria di Dio. Questo richiede il coraggio di rinunciare a qualcosa che ci costa per vivere la Quaresima come tempo di vera purificazione interiore
*Prima Lettura dal Libero del profeta Gioele (Gl 2,12-18)
Ritornate al Signore con tutto il cuore! Ecco l’invito che oggi ci lancia il profeta Gioele. Il suo libro è molto breve (contiene in totale settantatré versetti suddivisi in quattro capitoli) ed è collocato intorno all’anno 600 a.C., cioè poco prima dell’esilio a Babilonia. Ci sono tre temi che si intrecciano costantemente: la prospettiva di terribili flagelli, appelli accorati al digiuno e alla conversione, e l’annuncio della salvezza di Dio. Oggi è il secondo tema che la liturgia ci propone all’inizio della Quaresima. Il solenne appello alla conversione spinge a prendere sul serio ciò che segue, cioè l’invito: “Ritornate a me”, e il popolo risponde e supplica: “Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti”. I profeti insegnano sempre a non accontentarsi di manifestazioni esteriori e anche Gioele non manca di sottolinearlo: “Laceratevi il cuore e non le vesti e ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso”. Questo afferma Isaia: “Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto: le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi. Allontanate dai miei occhi le vostre azioni malvagie cessate di fare il male. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia…” (Is 1,14-17). E il Salmo 50/51 commenta “Il sacrificio che piace a Dio è uno spirito contrito; un cuore affranto e umiliato, o Dio, tu non lo disprezzi”. Il profeta Ezechiele ci aiuta a comprendere cosa vuol dire il salmista: bisogna cioè spezzare i nostri cuori di pietra affinché possa emergere il cuore di carne e il profeta Gioele segue questa linea quando invita a lacerare i cuori e non le vesti per sfuggire a un castigo meritato. Scrive infatti: “chi sa che Dio non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?” E conclude annunciando che il perdono è già stato concesso. La traduzione liturgica dice: “Il Signore si mostra geloso per la sua terra” avendo avuto pietà del suo popol, ma la misericordia di Dio è destinata a tutti gli uomini, ed è proprio questo il messaggio che troviamo nel libro di Giona molto affine a quello di Gioele. Giona infatti narra la conversione di Ninive, la città pagana che aveva percorso un giorno di cammino proclamando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, e gli abitanti credettero subito in Dio. Proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, grandi e piccoli. Persino il re di Ninive depose il manto regale, si coprì di sacco e si sedette sulla cenere e quindi proclamò lo stato d’allerta e fece annunciare che tutti in Ninive si dovevano coprire di sacco e invocare Dio con forza. Dio vide la loro conversione e revocò il castigo che aveva minacciato di infliggere (Gn 3,4-10). Il segreto è che Dio trabocca di zelo e di amore, come ricorda Gioele, per tutti gli uomini, e san Paolo dirà: “Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).
*Salmo responsoriale (50 (51). Perdonaci, Signore: abbiamo peccato
Uniamoci anche noi al popolo d’Israele riunito nel Tempio di Gerusalemme per una grande celebrazione penitenziale. Sa di essere pieno di peccati, ma conosce per esperienza che la misericordia di Dio è inesauribile e allora chiede perdono con la certezza di essere esaudito. Fu proprio questa la scoperta del re Davide dopo aver peccato con Betsabea, sposa di un ufficiale, Uria, che in quel momento era in guerra. Betsabea fece sapere a Davide di essere incinta di lui e Davide organizzò la morte in battaglia del marito tradito, così da poter prendere definitivamente per sé la donna e il bambino che portava in grembo. Il profeta Natan non cercò subito di far ammettere a Davide il suo peccato, ma gli ricordò anzitutto i molti doni di Dio e gli annunciò il perdono prima ancora che Davide avesse il tempo di confessare la sua colpa (cf 2 Samuele 12). Oltre tutti i doni e privilegi che Dio gli aveva concesso, aggiunse pure che il Signore era pronto ad accordargli tutto ciò che desiderava. Nel corso della storia, Israele ha avuto occasione di registrare che Dio è davvero “il Signore misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e di lealtà”, come aveva rivelato a Mosè nel deserto (Es 34,6). Anche i profeti hanno ribadito questo messaggio, e i versetti del Salmo 50/51 ne sono pieni. Isaia, ad esempio, dice: “Io, io solo cancello le tue colpe per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25). L’annuncio del perdono gratuito di Dio ci sorprende sempre: ci sembra quasi troppo bello per essere vero. Per alcuni, addirittura, può sembrare ingiusto: se tutto è perdonabile, perché sforzarsi di vivere bene? Ma questo significa dimenticare che tutti, senza eccezione, abbiamo bisogno della misericordia di Dio e lui ci sorprende, poiché, come dice Isaia, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri. E proprio nel perdono Dio ci sorprende di più. Pensiamo alla parabola evangelica degli operai dell’ultima ora: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? O sei invidioso perché io sono buono?» (cf Mt 20,15), a quella del figliol prodigo (Lc 15): quando il figlio ingrato ritorna dal padre, animato da motivazioni tutt’altro che nobili, Gesù mette sulle sue labbra una frase del Salmo 50: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. E con questa sola frase, il legame spezzato viene riallacciato. Davanti all’annuncio sempre nuovo della misericordia di Dio, il popolo d’Israele, che nei Salmi parla a nome di tutti noi, si riconosce peccatore. Il suo pentimento non è dettagliato, non lo è mai nei Salmi penitenziali, ma esprime tutto in una semplice supplica: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”. E Dio, che è tutta misericordia, attratto dalla miseria dell’uomo, non aspetta altro che questa umile confessione della nostra povertà. Ed è utile ricordare che “pietà” ha la stessa radice di “elemosina” e questo ci ricorda che siamo mendicanti di amore e di perdono davanti a Dio. Cosa fare allora: ringraziare e perdonare. Ringraziare per il perdono che Dio ci offre continuamente. In ogni celebrazione penitenziale, la preghiera più importante è il riconoscimento dei doni e del perdono di Dio. Prima di tutto, dobbiamo contemplare Dio stesso, e solo dopo possiamo riconoscerci peccatori. Il rito della Riconciliazione afferma chiaramente che confessiamo l’amore di Dio insieme al nostro peccato e la lode scaturirà spontanea dalle nostre labbra: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode” (questa è la frase che apre la Liturgia delle Ore, ogni mattina ed è tratta proprio dal Salmo 50/51) in cui viene ricordato che la lode e la gratitudine nascono in noi solo se Dio apre il nostro cuore e le nostre labbra. E il secondo passo che Dio si aspetta da noi e costituisce il programma ascetico di tutta la vita è l’impegno a perdonare a nostra volta, senza indugi né condizioni.
*Seconda Lettura dalla Seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5,20-6,2)
“Lasciatevi riconciliare con Dio”! Paolo parla di riconciliazione ben consapevole della rottura dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’Antico Testamento il popolo sapeva che Dio non è in contrasto con gli uomini, come il Salmo 102/103 esprime chiaramente:”Il Signore non è sempre in lite, non conserva per sempre il suo sdegno; non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe… Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe… Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che siamo polvere”. Ugualmente leggiamo in Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore, che avrà misericordia di lui, al nostro Dio, che largamente perdona” (Is 55,7), nel Libro della Sapienza: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, e chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento… La tua sovranità su tutti ti rende indulgente verso tutti” (Sap 11,23; 12,16). Davide fece questa esperienza quando uccise Uria, marito di Betsabea e Dio gli inviò il profeta Natan che in sostanza questo gli comunicò: Tutto ciò che hai, te l’ho dato io; e se non fosse ancora abbastanza, sarei pronto a darti ancora tutto ciò che desideri. Dio non ignorava neppure che Salomone aveva ottenuto il trono eliminando i suoi rivali, eppure ascoltò la sua preghiera a Gabaon ed esaudì le sue richieste ben oltre ciò che il giovane re aveva osato domandare (1 Re 3). Ma c’è di più: il Nome stesso di Dio, “Misericordioso”, significa che ci ama tanto più quanto più siamo miseri. Dunque, Dio non è in lite con l’uomo. Eppure Paolo parla di riconciliazione, perché fin dall’inizio del mondo (Paolo dice «da Adamo», ma è la stessa cosa), è l’uomo che è in conflitto con Dio. Il racconto della Genesi (Gn 2-3) attribuisce al serpente l’origine di questa accusa contro Dio perché è geloso dell’uomo e non vuole il suo bene.: “Dio sa che quando ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,4) La Bibbia lascia intendere che questo sospetto non è naturale nell’uomo—è la voce del serpente, e dunque può essere curato. È proprio questo afferma san Paolo: “Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. E che cosa ha fatto Dio per rimuovere dal nostro cuore questa diffidenza? Continua l’apostolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2 Cor 5,21). Gesù non ha conosciuto il peccato anzi, come leggiamo nella lettera ai Filippesi, Gesù si fece obbediente (Fil 2,8), e rimase sempre fiducioso, anche nella sofferenza e nella morte. Per questo insegna agli uomini questa fiducia e rivela che Di è tutto amore e perdono: è Misericordia. Per un paradosso incredibile Gesù per questa rivelazione fu considerato un bestemmiatore, trattato da peccatore e giustiziato come un maledetto (cf Dt 21,23). L’odio e la cecità degli uomini si abbatterono su di lui e il Padre lasciò fare, perché questo era l’unico modo per farci toccare con mano fin dove “il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo” come afferma il profeta Gioele. Gesù ha affrontato il peccato degli uomini, la violenza, l’odio, il rifiuto di un Dio che è Amore e sulla croce appare fin dove arriva l’orrore del peccato umano e fin dove arrivano la dolcezza e il perdono di Dio. Ed è proprio da questa contemplazione che può nascere la nostra conversione, quella che Paolo chiama “giustificazione”. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, leggiamo nel libro del profeta Zaccaria (Zc 12,10), ripreso da Giovanni (Gv 19,37). In Gesù morente che perdona i suoi carnefici scopriamo il volto stesso di Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9) e, grazie a lui, siamo riconciliati da Dio. Compito dei battezzati è annunciare e testimoniare quest’amore, alla scuola di Paolo che grida: “Noi siamo ambasciatori di Cristo”, missione che coinvolge ognuno di noi. Chiude questo breve testo una citazione del profeta Isaia “Al momento favorevole ti ho esaudito
e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” che parlava agli esuli a Babilonia, annunciando loro che l’ora della salvezza era giunta. Mentre Israele doveva annunciare la liberazione, perché le false immagini di Dio imprigionano il cuore degli uomini, Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa la missione di annunciare al mondo la remissione dei peccati.
*Dal Vangelo secondo Matteo (6, 1-6. 16-18)
Il vangelo oggi riporta due brevi tratti del Discorso della Montagna, che occupa i capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo. Tutto il discorso ruota attorno a un nucleo centrale che è il Padre Nostro (Mt 6,9-13), la preghiera che dà senso a tutto il resto. Questo indica che le esortazioni, qui riportate, non sono semplici consigli morali, bensì conducono al cuore della fede e il messaggio è il seguente: tutte le nostre azioni devono radicarsi nella scoperta che Dio è Padre. Preghiera, elemosina e digiuno non sono quindi solo pratiche religiose, ma strade per avvicinarci al Dio-Padre: Digiunare significa imparare a spostare il centro da noi stessi e con la preghiera centriamo la nostra vita su Dio mentre l’elemosina apre il nostro cuore ai fratelli. Per tre volte Gesù usa espressioni che invitano a non essere come coloro che amano mettersi in mostra. Avevano certamente grande importanza le pratiche religiose nella società ebraica dell’epoca e il rischio era quello di dare troppo valore alle manifestazioni esteriori come taluni facevano. Matteo ricorda i rimproveri di Gesù a coloro che badavano più alla lunghezza delle loro frange che alla misericordia e alla fedeltà (Mt 23,5ss). Qui, Gesù invita i suoi discepoli a un’autentica purificazione interiore perché per essere veramente giusti bisogna evitate di agire davanti agli uomini per essere ammirati da loro. La giustizia era un tema fondamentale per i credenti e nelle Beatitudinine Gesù ne parla due volte: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.” (Mt 5,6) “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli.” (Mt 5,10) Ma nel linguaggio biblico, la vera giustizia non consiste nell’accumulare pratiche religiose, per quanto possano essere nobili. Vera giustizia è essere in armonia con il progetto di Dio come già leggiamo nella Genesi: “Abramo credette al Signore, e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15,6). Non quindi una giustizia che è moralismo, bensì una sintonia e un accordo profondo con Dio. Preghiera, digiuno, elemosina diventano tre vie per vivere la giustizia: Nella preghiera, lasciamo che Dio ci plasmi secondo il suo progetto:“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà.”E proprio per questo, Gesù raccomanda: “Quando pregate, non sprecate parole come fanno i pagani; il Padre vostro sa di cosa avete bisogno prima ancora che glielo chiediate.” (Mt 6,7-8) Il digiuno è sulla stessa linea: ci libera dall’illusione di ciò che crediamo essenziale per essere felici, ma che spesso finisce per imprigionarci. Gesù stesso, digiunando nel deserto, risponde a satana:“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.” (Mt 4,4) L’elemosina è il frutto del nostro cammino di giustizia, perché ci rende misericordiosi.Non a caso, il termine greco per elemosina deriva dalla stessa radice di eleison («abbi pietà») e fare elemosina significa aprire il cuore alla compassione. Poiché Dio ama tutti i suoi figli non ci può essere vera giustizia senza giustizia sociale. E questo lo vediamo chiaramente nel giudizio finale: “Venite, benedetti del Padre mio… Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…”E alla fine:“I giusti andranno alla vita eterna.” (Mt 25,31-46). In definitiva coloro che ostentano sono in contrasto con la vera giustizia perché mostrano una forma sottile di egoismo spirituale, un modo per rimanere centrati su sé stessi. E il vero dramma è che questo atteggiamento ci chiude il cuore all’azione santificatrice dello Spirito.
+Giovanni D’Ercole
Fede, Tentazioni: la nostra riuscita
(Mt 4,1-11; Mc 1,12-15; Lc 4,1-13)
Solo l’uomo di Dio è tentato.
Nella Bibbia la tentazione non è una sorta di pericolo o seduzione per la morte, ma un’opportunità per la vita. Anche più: un rilancio dai soliti lacci.
Quando l’esistenza fila via senza scossoni, ecco invece il ‘terremoto della lusinga’... cimento che ricolloca in bilico.
Spiritualità Quaresimale.
Nel disegno di Dio, la prova di Fede non viene per distruggere menti e vita, ma per disturbare la paludosa realtà degli obblighi contratti nella quiete del galateo conformista.
Infatti, nelle etichette non siamo noi stessi, ma un ruolo: qui è impossibile conformarci sul serio a Cristo.
Ogni periglio giunge per un salutare scossone anche d’immagine, e per smuoverci.
L’esodo stimola a fare un balzo in avanti; a non affossare l’esistenza nell’antologia dei meccanismi acritici sotto condizione.
Il passaggio è stretto e si fa pure obbligato; ferisce. Ma sperona affinché incontriamo di nuovo noi stessi, i fratelli e il mondo.
La Provvidenza incalza: ci sta educando a guardare in faccia sia ogni dettaglio che l’opzione fondamentale.
Per uscire da pericoli, ‘seduzioni’ o disturbi, siamo obbligati a guardare dentro e tirar fuori tutte le risorse, persino quelle ignote (o cui non abbiamo concesso credito).
La difficoltà e la crisi costringono a trovare soluzioni, dare spazio ai lati trascurati e in ombra; vedere bene, chiedere aiuto; informarsi, entrare in relazione qualitativa e confrontarci.
Di necessità, virtù: dopo l’attrazione e l’adescamento o la prova, il punto di vista rinnovato, ribadito da una nuova valutazione, interroga l’anima sul calibro delle scelte e sulle nostre stesse infermità.
Le situazioni malferme hanno qualcosa da dirci: vengono dagli strati profondi dell’essere, che dobbiamo incontrare - e si configurano come energie plasmabili, da investire.
Le chiamate a rivoluzionare le opinioni di sé e delle cose - le vocazioni a una ‘nuova nascita’ - non sono incitamenti al peggio, né umiliazioni spirituali.
Le “croci” e persino gli abbagli sono un territorio di doglie che guida al contatto intimo con la nostra Sorgente, che volta a volta ci ri-suscita.
L’uomo che sta sempre in ascolto del proprio Centro e permane fedele alla singolare dignità e unicità di Missione, deve però sostenere le pressioni di un genere di male che istiga solo morte.
Mt e Lc descrivono tali allettamenti (‘apparentemente amicali’, per il successo) in tre quadri simbolici:
il rapporto con le cose [pietre in pane]; con gli altri [tentazione dei regni]; con Dio [Fiducia nell’Azione del Padre].
Nelle Sacre Scritture emerge un dato curioso: le persone spiritualmente fiacche non sono mai tentate! E vale anche il viceversa.
È il modo di vivere e interiorizzare il fulmine o il tempo della Tentazione ciò che distingue la Fede dalla banalità della devozione qualsiasi.
[1.a Domenica di Quaresima, 9 marzo 2025]
Fede, Tentazioni: la nostra riuscita
(Mt 4,1-11; Mc 1,12-15; Lc 4,1-13)
Solo l’uomo di Dio è tentato.
Nella Bibbia la tentazione non è una sorta di pericolo o seduzione per la morte, ma un’opportunità per la vita. Anche più: un rilancio dai soliti lacci.
Ottica di Spiritualità Quaresimale:
Ogni giorno verifichiamo che un’insidia rilevante per l’esperienza della Fede sembra proprio “la fortuna”. Essa ci lega al buon fine immediato delle situazioni individuali.
Il viceversa invece fa routine: ecco il benessere, lo scampare da fallimenti e vicende infelici, la stasi dell’uguale-a-prima.
Una persona devota può perfino utilizzare la religione per sacralizzare il proprio mondo coartato, legato d’abitudini (considerate stabili).
Quindi - secondo circostanza - inserirsi anche volentieri nella pratica dei Sacramenti, purché restino parentesi che non significhino granché.
Quando l’esistenza fila via senza scossoni, ecco invece il terremoto della lusinga... cimento che ricolloca in bilico.
Nel disegno di Dio, la prova di Fede non viene per distruggere menti ed esistenza, ma per disturbare la paludosa realtà degli obblighi contratti nella quiete del galateo conformista.
Infatti, nelle etichette non siamo noi stessi, ma un ruolo: qui è impossibile conformarci sul serio a Cristo.
Ogni periglio giunge per un salutare scossone anche d’immagine, e per smuoverci.
L’Esodo stimola a fare un balzo in avanti - a non affossare l’esistenza nell’antologia dei meccanismi acritici sotto condizione, e sottoporsi ad influsso di cordate riconosciute; “utili”, ma che ci deviano la naturalezza.
Il passaggio è stretto e si fa pure obbligato; ferisce. Ma sperona affinché incontriamo di nuovo noi stessi, i fratelli, e il mondo.
La Provvidenza incalza: ci sta educando a guardare in faccia sia ogni dettaglio che l’opzione fondamentale.
Non cresciamo né maturiamo assestando l’anima sulle opinioni di tutti e mettendoci seduti in situazioni maggioritarie, abitudinarie, “perbene”, supposte veraci. Eppure poco spontanee, prive di trasparenza e di reciprocità col nostro Eros fondante.
Neppure diventiamo adulti abbracciando atletismi ascetici, o più facili scorciatoie di massa, di ceto, di cricche, o branco - che rendono esterni.
Per uscire da pericoli, seduzioni, disturbi, siamo obbligati a guardare dentro e tirar fuori tutte le risorse, persino quelle ignote o cui non abbiamo concesso credito.
La difficoltà e la crisi costringono a trovare soluzioni, dare spazio ai lati trascurati, in ombra; vedere bene e chiedere aiuto; informarsi, entrare in relazione qualitativa, e confrontarci a partire da dentro.
Di necessità, virtù: dopo l’attrazione e l’adescamento o la prova, il punto di vista rinnovato e ribadito da una nuova valutazione interroga l’anima sul calibro delle scelte - sulle nostre stesse infermità.
Esse stesse hanno qualcosa da dirci: vengono dagli strati profondi dell’essere, che dobbiamo incontrare - per non rimanere dissociati. E si configurano come energie plasmabili, poi da investire.
Le chiamate a rivoluzionare le opinioni di sé e delle cose - le vocazioni a una nuova nascita - non sono incitamenti ad annientare il proprio mondo di rapporti, o stimoli al peggio, né umiliazioni spirituali.
Le “croci” e persino gli abbagli sono un territorio di doglie che guida al contatto intimo con la nostra Sorgente - che volta a volta ci ri-suscita con nuove genesi, con differenti nascite.
L’uomo che sta sempre in ascolto del proprio centro e permane fedele alla singolare dignità e unicità di Missione, deve però sostenere le pressioni di una fattispecie di male che istiga solo morte.
Mt e Lc descrivono tali allettamenti apparentemente amicali, ovvero per il successo, in tre quadri simbolici:
Ecco il rapporto con le cose [pietre in pane]; con gli altri [tentazione dei regni]; con Dio [sulla Fiducia nell’Azione del Padre].
Le pietre in pane: la vita del Signore stesso ci dice che è meglio venire sconfitti che star bene per averla sfangata.
È sotto accusa il modo elusivo - anche pio, inerte, senza presa diretta - di porsi in relazione con le realtà materiali.
La persona anche religiosa ma vuota, si limita a dare o recepire indicazioni, o allettare con effetti speciali.
Fa uso del prestigio e delle proprie qualità e titoli, quasi per sfuggire le difficoltà che possono infastidirlo, coinvolgerlo in radice.
La persona di Fede è invece non solo empatica e solidale nella forma, bensì fraterna e autentica.
Non si mantiene a sicura distanza dai problemi, né da ciò che non sa; fa Esodo sul serio. Pagandolo.
Sente l'impulso a percorrere il duro cammino fianco a fianco di se stesso (in verità profonda) e con gli altri, senza calcolo o privilegi.
Né mette in campo risorse unicamente in proprio favore - staccandosi e ripiegandosi, o arrangiandosi; barcamenandosi, adeguandosi al club dei conformisti da zona relax e finte sicurezze.
Tentazione dei regni. La [nostra] controparte non sta esagerando (Mt 4,9; Lc 4,6): la logica che governa il regno idolatrico non ha nulla a che vedere con Dio.
Prendere, salire, comandare; arraffare, apparire, soggiogare: sono i modi peggiori di rapportarsi con gli altri, che sembra stiano lì solo per utilità, e fare da sgabelli, o seccarci.
La brama del potere è così irrefrenabile, tanto capace di sedurre, da sembrare attributo specifico della condizione divina: stare in alto.
Sebbene potesse fare carriera, Gesù non ha voluto confonderci dirigendo, ma accorciando le distanze.
Nella storia, purtroppo, diversi ecclesiastici non hanno avuto idee chiare. Scambiando volentieri il grembiule del servizio e l’asciugatoio dei nostri piedi con la poltrona strappata e una carica agognata.
Idoli fantoccio cui non bisognava rendere culto.
La tentazione finale - l’apice della “garanzia di protezione” del Tempio - sembra come le altre un banale consiglio a nostro favore. Anche per la “riuscita” nella relazione con Dio - dopo quella con le cose e la gente.
Ma qui è in gioco la piena Fiducia nell’Azione del Padre. Egli trasmette vita, senza posa rafforza e dilata il nostro essere.
Anche nelle opportunità che paiono meno appetibili, il Creatore incessantemente genera occasioni di completezza e realizzazione più genuina, che rielaborate senza isterismi accentuano l’onda vitale.
Egli preme in modo crescente, affinché i canoni vengano valicati. E l’essere creaturale traspaia. Lì c’è un segreto, un Mistero, una destinazione che si annidano.
La Sua è una spinta ben altro che piantata sullo spettacolo-miracolo, o sull’assicurazione sacrale [che poi scantona da approfondimenti sgraditi e rischi azzardati].
Nelle Sacre Scritture emerge un dato curioso: le persone spiritualmente fiacche non sono mai tentate! E vale anche il viceversa.
È il modo di vivere e interiorizzare il fulmine o il tempo della Tentazione ciò che distingue la Fede dalla banalità della devozione qualsiasi.
Cari fratelli e sorelle!
Mercoledì scorso, con il rito penitenziale delle Ceneri, abbiamo iniziato la Quaresima, tempo di rinnovamento spirituale che prepara alla celebrazione annuale della Pasqua. Ma che cosa significa entrare nell’itinerario quaresimale? Ce lo illustra il Vangelo di questa prima domenica, con il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Narra l’Evangelista san Luca che Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni, “pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito Santo nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo” (Lc 4,1-2). È evidente l’insistenza sul fatto che le tentazioni non furono un incidente di percorso, ma la conseguenza della scelta di Gesù di seguire la missione affidatagli dal Padre, di vivere fino in fondo la sua realtà di Figlio amato, che confida totalmente in Lui. Cristo è venuto nel mondo per liberarci dal peccato e dal fascino ambiguo di progettare la nostra vita a prescindere da Dio. Egli l’ha fatto non con proclami altisonanti, ma lottando in prima persona contro il Tentatore, fino alla Croce. Questo esempio vale per tutti: il mondo si migliora incominciando da se stessi, cambiando, con la grazia di Dio, ciò che non va nella propria vita.
Delle tre tentazioni cui Satana sottopone Gesù, la prima prende origine dalla fame, cioè dal bisogno materiale: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane”. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Lc 4,3-4; cfr Dt 8,3). Poi, il diavolo mostra a Gesù tutti i regni della terra e dice: tutto sarà tuo se, prostrandoti, mi adorerai. È l’inganno del potere, e Gesù smaschera questo tentativo e lo respinge: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” (cfr Lc 4,5-8; Dt 6,13). Non adorazione del potere, ma solo di Dio, della verità e dell’amore. Infine, il Tentatore propone a Gesù di compiere un miracolo spettacolare: gettarsi dalle alte mura del Tempio e farsi salvare dagli angeli, così che tutti avrebbero creduto in Lui. Ma Gesù risponde che Dio non va mai messo alla prova (cfr Dt 6,16). Non possiamo “fare un esperimento” nel quale Dio deve rispondere e mostrarsi Dio: dobbiamo credere in Lui! Non dobbiamo fare di Dio “materiale” del “nostro esperimento”! Riferendosi sempre alla Sacra Scrittura, Gesù antepone ai criteri umani l’unico criterio autentico: l’obbedienza, la conformità con la volontà di Dio, che è il fondamento del nostro essere. Anche questo è un insegnamento fondamentale per noi: se portiamo nella mente e nel cuore la Parola di Dio, se questa entra nella nostra vita, se abbiamo fiducia in Dio, possiamo respingere ogni genere di inganno del Tentatore. Inoltre, da tutto il racconto emerge chiaramente l’immagine di Cristo come nuovo Adamo, Figlio di Dio umile e obbediente al Padre, a differenza di Adamo ed Eva, che nel giardino dell’Eden avevano ceduto alle seduzioni dello spirito del male, di essere immortali senza Dio.
La Quaresima è come un lungo “ritiro”, durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire, di “agonismo” spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza. In questo modo potremo giungere a celebrare la Pasqua in verità, pronti a rinnovare le promesse del nostro Battesimo. Ci aiuti la Vergine Maria affinché, guidati dallo Spirito Santo, viviamo con gioia e con frutto questo tempo di grazia.
[Papa Benedetto, Angelus 21 febbraio 2010]
Io sarò con voi fino alla fine dei tempi (cfr Mt 28,20)
Fratelli e Sorelle!
1. La celebrazione della Quaresima, tempo di conversione e di riconciliazione, assume in questo anno un carattere del tutto particolare, perché si iscrive nel Grande Giubileo del 2000. Il tempo quaresimale rappresenta infatti il punto culminante di quel cammino di conversione e di riconciliazione che il Giubileo, anno di grazia del Signore, propone a tutti i credenti per rinnovare la propria adesione a Cristo ed annunciare con rinnovato ardore il suo mistero di salvezza nel nuovo millennio. La Quaresima aiuta i cristiani a penetrare più profondamente questo "mistero nascosto da secoli" (Ef 3, 9): li porta a confrontarsi con la Parola del Dio vivente e chiede loro di rinunciare al proprio egoismo per accogliere l'azione salvifica dello Spirito Santo.
2. Eravamo morti per il peccato (cfr Ef 2, 5): così san Paolo descrive la situazione dell'uomo senza Cristo. Ecco perché il Figlio di Dio ha voluto unirsi alla natura umana riscattandola dalla schiavitù del peccato e della morte.
E’ una schiavitù che l’uomo sperimenta quotidianamente, avvertendone le radici profonde nel suo stesso cuore (cfr Mt 7,11). Talora essa si manifesta in forme drammatiche ed inusitate, come è avvenuto nel corso delle grandi tragedie del secolo XX, che hanno profondamente inciso nella vita di tante comunità e persone, vittime di crudele violenza. Deportazioni forzate, eliminazione sistematica di popoli, disprezzo dei diritti fondamentali della persona sono le tragedie che ancora oggi purtroppo umiliano l'umanità. Anche nella vita quotidiana, si manifestano svariate forme di prevaricazione, di odio, di annichilamento dell'altro, di menzogna di cui l'uomo è vittima ed autore. L'umanità è segnata dal peccato. La sua drammatica condizione richiama alla mente il grido allarmato dell’Apostolo delle genti: "Non c'è nessun giusto, nemmeno uno" (Rm 3, 10; cfr Sal 13,3).
3. Di fronte all'oscurità del peccato ed all'impossibilità per l'uomo di liberarsi da solo, appare in tutto il suo splendore l'opera salvifica di Cristo: "Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia" (Rm 3, 25). Cristo è l'Agnello che ha preso su di sé il peccato del mondo (cfr Gv 1, 29). Egli ha condiviso l'umana esistenza "fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,8), per riscattare l'uomo dalla schiavitù del male e reintegrarlo nella sua originaria dignità di figlio di Dio. Ecco il mistero pasquale nel quale siamo rinati! Qui, come ricorda la Sequenza pasquale, "Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello". I Padri della Chiesa affermano che, in Gesù Cristo, il demonio attacca tutta l'umanità e la insidia con la morte, dalla quale però essa viene liberata grazie alla forza vittoriosa della risurrezione. Nel Signore risorto si spezza il potere della morte e all'uomo è offerta la possibilità, mediante la fede, di accedere alla comunione con Dio. A chi crede viene data la vita stessa di Dio, mediante l’azione dello Spirito Santo, "primo dono ai credenti" (Preghiera Eucaristica IV). La redenzione realizzata sulla croce rinnova così l'universo ed attua la riconciliazione tra Dio e l'uomo e degli uomini tra loro.
4. Il Giubileo è il tempo di grazia in cui siamo invitati ad aprirci in maniera particolare alla misericordia del Padre, che nel Figlio si è chinato sull'uomo, ed alla riconciliazione, grande dono di Cristo. Quest’anno, pertanto, deve diventare per i cristiani, ma anche per ogni uomo di buona volontà, un momento prezioso per sperimentare la forza rinnovatrice dell'amore di Dio che perdona e riconcilia. Dio offre la sua misericordia a chiunque la voglia accogliere, anche se lontano e dubbioso. All'uomo di oggi, stanco di mediocrità e di false illusioni, è offerta così la possibilità di intraprendere la via di una vita in pienezza. In tale contesto, la Quaresima dell'Anno Santo 2000 costituisce per eccellenza "il momento favorevole, il giorno della salvezza" (2 Cor 6, 2), l'occasione particolarmente propizia per "lasciarsi riconciliare con Dio" (2 Cor 5, 20).
Durante l'Anno Santo la Chiesa offre varie opportunità di riconciliazione personale e comunitaria. Ogni Diocesi ha indicato dei luoghi speciali, ove i credenti possono recarsi per sperimentare una particolare presenza di Dio riconoscendo alla sua luce il proprio peccato e per intraprendere, grazie al sacramento della Riconciliazione, un nuovo cammino di vita. Un significato particolare riveste il pellegrinaggio in Terra Santa e a Roma, luoghi privilegiati dell'incontro con Dio, per il loro singolare ruolo nella storia della salvezza. Come non incamminarsi, almeno spiritualmente, verso la Terra che, duemila anni or sono, ha visto il passaggio del Signore? Là "il Verbo si è fatto carne" (Gv 1, 14) ed è "cresciuto" in "sapienza, età e grazia" (Lc 2, 52); là "percorreva tutte le città e i villaggi,… predicando il vangelo del Regno e curando ogni malattia e infermità" (Mt 9, 35); là ha portato a compimento la missione affidatagli dal Padre (cfr Gv 19,30) ed ha effuso lo Spirito Santo sulla Chiesa nascente (cfr Gv 20, 22).
Anch'io mi riprometto, proprio nella Quaresima del 2000, di farmi pellegrino nella terra del Signore, alle sorgenti della nostra fede, per celebrarvi il Giubileo bimillenario dell’Incarnazione. Invito ogni cristiano ad accompagnarmi con la preghiera mentre, nelle varie tappe del pellegrinaggio, invocherò il perdono e la riconciliazione per i figli della Chiesa e per l'umanità intera.
5. L'itinerario della conversione conduce a riconciliarsi con Dio e a vivere in pienezza la vita nuova in Cristo. Vita di fede, di speranza e di carità. Queste tre virtù, dette "teologali" perché si riferiscono direttamente a Dio nel suo mistero, sono state oggetto di speciale approfondimento nel triennio di preparazione al Grande Giubileo. La celebrazione dell’Anno Santo richiede ora ad ogni cristiano di vivere e di testimoniare tali virtù in maniera più piena e consapevole.
La grazia del Giubileo spinge innanzitutto a rinnovare la fede personale. Essa consiste nell'adesione all'annuncio del mistero pasquale, attraverso cui il credente riconosce che in Cristo morto e risorto gli è data la salvezza; rimette a lui quotidianamente la propria vita; accoglie quanto il Signore dispone per lui, nella certezza che Dio lo ama. La fede è il "sì" dell'uomo a Dio, il suo "Amen".
Figura esemplare del credente per Ebrei, Cristiani e Musulmani è Abramo: fiducioso nella promessa, egli segue la voce di Dio che lo chiama per sentieri sconosciuti. La fede aiuta a scoprire i segni della presenza amorosa di Dio nella creazione, nelle persone, negli eventi della storia e, soprattutto, nell'opera e nel messaggio di Cristo, spingendo l'uomo a guardare oltre se stesso, oltre le apparenze verso quella trascendenza dove si dischiude il mistero dell'amore di Dio per ogni creatura.
Con la grazia del Giubileo il Signore ci invita, altresì, a ridestare la nostra speranza. In Cristo, infatti, il tempo stesso è redento e si apre ad una prospettiva di gioia senza fine e di comunione piena con Dio. Il tempo del cristiano è segnato dall'attesa delle nozze eterne, anticipate quotidianamente nel banchetto eucaristico. Con lo sguardo rivolto ad esse, "lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!" (Ap 22, 17), alimentando la speranza che sottrae il tempo alla pura ripetitività e gli conferisce il suo senso autentico. Con la virtù della speranza, il cristiano testimonia che, al di là di ogni male e di ogni limite, la storia reca in sé un germe di bene che il Signore farà germogliare in pienezza. Egli guarda, pertanto, al nuovo millennio senza paura, ma affronta le sfide e le attese del futuro con la fiduciosa certezza che nasce dalla fede nella promessa del Signore.
Con il Giubileo il Signore ci chiede, infine, di riaccendere la nostra carità. Il Regno, che Cristo manifesterà nel suo pieno splendore alla fine dei tempi, è già presente là dove gli uomini vivono secondo la volontà di Dio. La Chiesa è chiamata a testimoniare la comunione, la pace e la carità che lo contraddistinguono. In questa missione, la comunità cristiana sa che la fede senza le opere è morta (cfr Gc 2, 17). Così, mediante la carità, il cristiano rende visibile l'amore di Dio per gli uomini rivelato in Cristo e rende manifesta la sua presenza nel mondo "fino alla fine dei tempi". La carità per il cristiano non è soltanto un gesto, o un ideale, ma è, per così dire, il prolungamento della presenza di Cristo che dona se stesso.
In occasione della Quaresima, tutti - ricchi o poveri - sono invitati a rendere presente l'amore di Cristo con generose opere di carità. In quest'anno giubilare la nostra carità è chiamata, in modo particolare, a manifestare l'amore di Cristo ai fratelli che mancano del necessario per vivere, a quanti sono vittime della fame, della violenza e dell'ingiustizia. E' questo il modo per attualizzare le istanze di liberazione e di fraternità già presenti nella Sacra Scrittura, che la celebrazione dell'Anno Santo ripropone. L'antico giubileo ebraico, infatti, esigeva di liberare gli schiavi, di rimettere i debiti, di soccorrere i poveri. Oggi nuove schiavitù e più drammatiche povertà colpiscono moltitudini di persone, specie in Paesi del cosiddetto Terzo Mondo. E' un grido di dolore e di disperazione che deve trovare attenti e disponibili quanti intraprendono il cammino giubilare. Come possiamo chiedere la grazia del Giubileo se siamo insensibili alle necessità dei poveri, se non ci impegniamo a garantire a tutti i mezzi necessari per vivere dignitosamente?
Possa il millennio che inizia essere un'epoca nella quale finalmente l’appello di tanti uomini, nostri fratelli, che non possiedono il minimo per vivere, trovi ascolto e fraterna accoglienza. Auspico che i cristiani, ai diversi livelli, si facciano promotori di iniziative concrete per assicurare un’equa distribuzione dei beni e la promozione umana integrale per ciascun individuo.
6. "Io sarò con voi fino alla fine dei tempi". Queste parole di Gesù ci assicurano che nell'annunciare e vivere il vangelo della carità non siamo soli. Anche in questa Quaresima dell'Anno 2000 Egli ci invita a tornare al Padre, che ci aspetta con le braccia aperte, per trasformarci in segni viventi ed efficaci del suo amore misericordioso.
A Maria, Madre di ogni sofferente e Madre della divina Misericordia, affidiamo le nostre intenzioni ed i nostri propositi. Sia Lei la stella luminosa del nostro cammino nel nuovo millennio.
Con tali auspici, invoco su tutti la benedizione di Dio, Uno e Trino, principio e fine di tutte le cose, al quale "fino alla fine dei tempi" si eleva l'inno di benedizione e di lode: "Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a Te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen".
Da Castel Gandolfo, 21 settembre 1999.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Quaresima 2000]
Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima (cfr Lc 4,1-13) narra l’esperienza delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo aver digiunato per quaranta giorni, Gesù è tentato tre volte dal diavolo. Costui prima lo invita a trasformare una pietra in pane (v. 3); poi gli mostra dall’alto i regni della terra e gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso (vv. 5-6); infine lo conduce sul punto più alto del tempio di Gerusalemme e lo invita a buttarsi giù, per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina (vv. 9-11). Le tre tentazioni indicano tre strade che il mondo sempre propone promettendo grandi successi, tre strade per ingannarci: l’avidità di possesso – avere, avere, avere –, la gloria umana e la strumentalizzazione di Dio. Sono tre strade che ci porteranno alla rovina.
La prima, la strada dell’avidità di possesso. È sempre questa la logica insidiosa del diavolo. Egli parte dal naturale e legittimo bisogno di nutrirsi, di vivere, di realizzarsi, di essere felici, per spingerci a credere che tutto ciò è possibile senza Dio, anzi, persino contro di Lui. Ma Gesù si oppone dicendo: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”» (v. 4). Ricordando il lungo cammino del popolo eletto attraverso il deserto, Gesù afferma di volersi abbandonare con piena fiducia alla provvidenza del Padre, che sempre si prende cura dei suoi figli.
La seconda tentazione: la strada della gloria umana. Il diavolo dice: «Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (v. 7). Si può perdere ogni dignità personale, ci si lascia corrompere dagli idoli del denaro, del successo e del potere, pur di raggiungere la propria autoaffermazione. E si gusta l’ebbrezza di una gioia vuota che ben presto svanisce. E questo ci porta anche a fare “i pavoni”, la vanità, ma questo svanisce. Per questo Gesù risponde: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» (v. 8).
E poi la terza tentazione: strumentalizzare Dio a proprio vantaggio. Al diavolo che, citando le Scritture, lo invita a cercare da Dio un miracolo eclatante, Gesù oppone di nuovo la ferma decisione di rimanere umile, rimanere fiducioso di fronte al Padre: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore tuo Dio”» (v. 12). E così respinge la tentazione forse più sottile: quella di voler “tirare Dio dalla nostra parte”, chiedendogli grazie che in realtà servono e serviranno a soddisfare il nostro orgoglio.
Sono queste le strade che ci vengono messe davanti, con l’illusione di poter così ottenere il successo e la felicità. Ma, in realtà, esse sono del tutto estranee al modo di agire di Dio; anzi, di fatto ci separano da Dio, perché sono opera di Satana. Gesù, affrontando in prima persona queste prove, vince per tre volte la tentazione per aderire pienamente al progetto del Padre. E ci indica i rimedi: la vita interiore, la fede in Dio, la certezza del suo amore, la certezza che Dio ci ama, che è Padre, e con questa certezza vinceremo ogni tentazione.
Ma c’è una cosa, su cui vorrei attirare l’attenzione, una cosa interessante. Gesù nel rispondere al tentatore non entra in dialogo, ma risponde alle tre sfide soltanto con la Parola di Dio. Questo ci insegna che con il diavolo non si dialoga, non si deve dialogare, soltanto gli si risponde con la Parola di Dio.
Approfittiamo dunque della Quaresima, come di un tempo privilegiato per purificarci, per sperimentare la consolante presenza di Dio nella nostra vita.
La materna intercessione della Vergine Maria, icona di fedeltà a Dio, ci sostenga nel nostro cammino, aiutandoci a rigettare sempre il male e ad accogliere il bene.
[Papa Francesco, Angelus 10 marzo 2019]
La Conversione, le cose proibite e il Medico degli opposti
(Lc 5,27-32)
Nell’epoca in cui Lc redige il suo Vangelo (subito dopo metà anni 80) la comunità di pagani convertiti a Cristo di Efeso era pervasa da vive tentazioni e segnata da defezioni.
In aggiunta, nel dibattito interno di chiesa sorge un interrogativo sul genere di partecipazione ammissibile alle riunioni, e lo Spezzare il Pane.
L’evangelista narra l’episodio di «Levi», evitando di chiamarlo semplicemente Matteo - quasi ad accentuare la sua derivazione, semitica e paradossalmente cultuale.
Così Lc vuole descrivere come Gesù stesso aveva affrontato il medesimo conflitto: senz’alcuna attenzione rituale o sacrale, se non all’uomo.
Insomma, secondo il Maestro, nel cammino di Fede il rapporto coi lontani, diversi, e i nostri stessi disagi o abissi reconditi, hanno qualcosa da dirci.
Il Padre è Presenza amica. La sua iniziativa di vita salvata è per tutti, anche per chi non sa far altro che badare ai suoi registri.
Ciò sminuisce e supera l’ossessione di peccato che le religioni ritenevano barriera insuperabile per la comunione con Dio - marchiando la vita.
La Lieta Notizia è che l’Eucaristia (v.29) non è un premio per i meriti (v.30).
Mangiare insieme era segno di condivisione preziosa, anche sul piano religioso. Nei conviti, gli osservanti evitavano il contatto con i membri peccatori del loro stesso popolo.
Tutti invece sono chiamati e ciascuno può rinascere, addirittura superando i puri.
Quindi mettersi fra i peccatori non è una disfatta, bensì verità. E il peccato stesso non è più solo una deviazione da correggere.
Per questo la figura del nuovo Maestro toccava il cuore della gente: portava il segno della Grazia; la comunione ai perduti e colpevoli.
Ma con tali gesti il Figlio sembrava si mettesse al posto di Dio (v.30).
Infatti il Padre ci coglie senza steccati, nel punto in cui siamo: non bada alla condizione sociale e alla provenienza.
Fra i discepoli è probabile che ci fossero non pochi membri della resistenza palestinese [guerriglieri che lottavano contro gli occupanti romani].
Per contro, qui Gesù chiama un collaborazionista che si lasciava guidare dal vantaggio.
Come dire: la Comunità nuova dei figli e fratelli non coltiva privilegi, separazioni, oppressioni, odi.
Il Maestro si è sempre tenuto al di sopra degli urti politici, delle distinzioni ideologiche e delle dispute corrive del suo tempo.
Nella sua Chiesa c’è un segno forte di discontinuità.
Egli non invita alla sequela i migliori o i peggiori, ma gli opposti - anche della nostra personalità. Vuole disporci «a conversione» (v.32): farci cambiare punto di vista, mentalità, princìpi, modo di essere.
In tale avventura non siamo chiamati a forme di dissociazione: si parte da se stessi.
In tal guisa Gesù inaugura un nuovo tipo di relazioni, anche dentro di noi. Un’Alleanza Nuova, di feconde divergenze.
E Crea tutto la sola Parola «Segui Me» (v.27) [non altri].
Pertanto, in questa Quaresima possiamo mettere fra parentesi l’idea di appartenenza; per contare solo su Dio, rompere le barriere, e fare Festa.
Non è la ‘perfezione’ che ci fa amare l’Esodo.
[Sabato dopo le Ceneri, 8 marzo 2025]
Lent is like a long "retreat" in which to re-enter oneself and listen to God's voice in order to overcome the temptations of the Evil One and to find the truth of our existence. It is a time, we may say, of spiritual "training" in order to live alongside Jesus not with pride and presumption but rather by using the weapons of faith: namely prayer, listening to the Word of God and penance (Pope Benedict)
La Quaresima è come un lungo “ritiro”, durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire, di “agonismo” spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza (Papa Benedetto)
Thus, in the figure of Matthew, the Gospels present to us a true and proper paradox: those who seem to be the farthest from holiness can even become a model of the acceptance of God's mercy and offer a glimpse of its marvellous effects in their own lives (Pope Benedict)
Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza (Papa Benedetto)
Man is involved in penance in his totality of body and spirit: the man who has a body in need of food and rest and the man who thinks, plans and prays; the man who appropriates and feeds on things and the man who makes a gift of them; the man who tends to the possession and enjoyment of goods and the man who feels the need for solidarity that binds him to all other men [CEI pastoral note]
Nella penitenza è coinvolto l'uomo nella sua totalità di corpo e di spirito: l'uomo che ha un corpo bisognoso di cibo e di riposo e l'uomo che pensa, progetta e prega; l'uomo che si appropria e si nutre delle cose e l'uomo che fa dono di esse; l'uomo che tende al possesso e al godimento dei beni e l'uomo che avverte l'esigenza di solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini [nota pastorale CEI]
The Cross is the sign of the deepest humiliation of Christ. In the eyes of the people of that time it was the sign of an infamous death. Free men could not be punished with such a death, only slaves, Christ willingly accepts this death, death on the Cross. Yet this death becomes the beginning of the Resurrection. In the Resurrection the crucified Servant of Yahweh is lifted up: he is lifted up before the whole of creation (Pope John Paul II)
La croce è il segno della più profonda umiliazione di Cristo. Agli occhi del popolo di quel tempo costituiva il segno di una morte infamante. Solo gli schiavi potevano essere puniti con una morte simile, non gli uomini liberi. Cristo, invece, accetta volentieri questa morte, la morte sulla croce. Eppure questa morte diviene il principio della risurrezione. Nella risurrezione il servo crocifisso di Jahvè viene innalzato: egli viene innalzato su tutto il creato (Papa Giovanni Paolo II)
St John Chrysostom urged: “Embellish your house with modesty and humility with the practice of prayer. Make your dwelling place shine with the light of justice; adorn its walls with good works, like a lustre of pure gold, and replace walls and precious stones with faith and supernatural magnanimity, putting prayer above all other things, high up in the gables, to give the whole complex decorum. You will thus prepare a worthy dwelling place for the Lord, you will welcome him in a splendid palace. He will grant you to transform your soul into a temple of his presence” (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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