Mag 3, 2025 Scritto da 

Ci sono prove

Ci sono prove che vive: lo vedi nel Pastore

(Gv 10:1-10. 10:11-18 10:27-30)

 

La regola religiosa sviluppava l’idea che la Torah potesse pulire la mente dagli errori, e l’inclinazione delle persone dalle impurità - onde cesellare un popolo gradito a Dio.

Tutto ciò che turbava l’equilibrio prescritto andava subito condannato e punito, in quanto deleterio per la stabilità fissata, la coesione di massa, la sua stessa efficienza.

La completa configurazione della proposta pia indiscutibile e la stessa magnificenza delle strutture del culto ufficiale garantivano l’eloquenza e l’imperturbabilità dei condizionamenti [sui disadattati].

Insicurezze e dubbi venivano immediatamente bollati come fattori di disturbo del panorama rassicurante, da reprimere sin dall’adolescenza.

Il nuovo Rabbi invece non voleva sterilizzare emozioni o situazioni. Il mondo interiore e le inquietudini non andavano affatto tacitate, bensì incontrate e conosciute.

Del resto, guardandosi attorno si accorgeva (come noi oggi) che proprio nelle persone manierate, osservanti o ‘trasgressive’, portabandiera dell’etica o degli eventi, che reprimevano i moti spontanei o si concedevano alle mode… aumentavano sotterfugi, egoismi celati, grettezza, disturbi.

Proprio coloro che affrontavano la via spirituale moltiplicando dirigismi, eticismi, attivismi, e controllo, diventavano esageratamente conflittuali, e segretamente inaffidabili.

Gravato di norme soffocanti, il popolo pur ingenuo era ridotto all’infelicità; tutti sentivano inquietudine e arsura - proprio perché  l’ossessione di peccato o di mancata performance impediva l’integrazione dei desideri.

Tutto ciò che doveva essere ridotto e annientato per ragioni di conformità sociale e votata, finiva per penetrare nelle anime in maniera più intima, riaffiorando qua e là in modo paradossale, con doppiezza e squilibri - questi sì - gravissimi.

Gesù autentica Guida era invece «amico di pubblicani e peccatori» nel senso che insegnava ad allargare l’armonia dell’essere creaturale, e imparare a guardare senza pregiudizio; fare tesoro di varie esperienze, perfino opposte: di tutto quanto emerge anche nell’intimo.

La perfezione che predicava era nell’imperfezione e nella irrazionalità dell’amore - che ovunque raggranella perle di esperienza da ogni dove.

Anzi, secondo il Pastore vero era importante proprio essere turbati, invece che impassibili o sicuri: per imparare nel tempo a dare senso anche ai segni che preoccupano la mentalità conformista o à la page - così completarci.

Il Maestro e Amico autentico sa che - imparando ad accogliere, non a stabilire - solo quanto tocca, coinvolge e turba in prima persona riuscirà a farci spostare lo sguardo, per crescere e fare esodo verso pascoli ubertosi; la terra della libertà, anche di relazione.

 

In un discorso dell’aprile ‘68 Paolo VI si chiedeva:

«Chi è Gesù? Gesù è il Buon Pastore. Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina. Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio. Conosce le sue pecorelle, e le chiama per nome. Poiché noi siamo del suo gregge Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui. La bontà del Signore si palesa qui in maniera sublime, ineffabile».

In una udienza generale del marzo ‘75 il Pontefice stimolava a «dare una tonalità di coraggio alla vita cristiana, privata e pubblica, per non diventare insignificanti sul piano spirituale e persino complici del crollo. La croce è sempre innalzata davanti a noi: essa ci chiama al vigore».

Il Vescovo di Roma intendeva sollecitarci a non vivere di mediazioni e concordismi.

Malgrado le apparenze, è questa seconda citazione la più pertinente a descrivere il carattere della liturgia della Parola nella quarta Domenica di Pasqua; vediamo perché.

 

Siamo abituati a immaginare Gesù come Pastore attorniato dal gregge con una pecorella sorretta sulle spalle o tra le braccia. Tale la riproduzione della parabola di Lc 15 e Mt 18.

In alternativa ai sinottici, il quarto Vangelo parla del tratto distintivo di Gesù quale Pastore vero, prendendo spunto dal carattere audace di Davide nell’episodio riportato da 1Sam 17,32-36:

«Davide disse a Saul: "Nessuno si perda d’animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo". Saul rispose a Davide: "Tu non puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza". Ma Davide disse a Saul: "Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso».

Il «Pastore quello Bello» [nel senso orientale di affascinante ma pure autentico, vero e giusto, forte e ardito] di Gv 10 non accarezza il gregge. Come direbbe Papa Francesco: «Non sta a pettinare le pecore!».

È piuttosto la guida e il protettore che non solo sfida le intemperie, ma soprattutto non teme gli animali feroci, che vogliono profittare anche di una sola pecorella.

Non mette la coda fra le gambe davanti alle bestie, e nel caso strappa le prede dalle fauci delle bande di lupi [a volte travestiti da agnellini e uomini di Dio; gente pericolosissima, spacciatori d’illusione].

 

Nelle scorse domeniche i Vangeli hanno messo in evidenza come anche oggi possiamo vedere il Risorto.

Nell’episodio di Tommaso, in che modo si manifesta nella comunità riunita per il culto; la settimana scorsa, come percepirlo in giorno feriale e negli ambienti ordinari dove si svolge la vita quotidiana.

Oggi possiamo notare come il Risorto si riveli in un «pastore» in carne e ossa, che decide di non fare il ninnolo da salotto - e di non scodinzolare se arriva qualche prepotente o finto padrone.

S. Agostino scrive: «Tu uomo devi riconoscere che cosa eri, dove eri, a chi eri sottoposto [...] eri affidato a un mercenario che al sopraggiungere del lupo non ti proteggeva [...] Questo pastore non è come il mercenario sotto il quale stavi quando ti travagliava la tua miseria e tu dovevi temere il lupo».

Notizia Lieta del tempo di Pasqua è che la nostra vita da salvati viene assicurata dalla decisa intrepidezza di fratelli che al pari di Gesù (solo qui simile a Davide) non temono di lottare, sino ad esporre se stessi per tutelare i senza-voce del gregge.

 

Pastore autentico è colui che ha fegato di fronteggiare sia falsari che predoni, per strappare i disorientati e indifesi dai loro artigli.

La sua credibilità si riconosce fin dalla Voce decisa, che non si lascia tacitare dai ricatti. Non si lascia mettere paura dagli smaliziati, né a cuccia per la scarsa presa sociale.

La sua Parola-evento prolunga l’attività creatrice del Padre, che restituisce vita, arricchisce la vita, rallegra la vita dei figli.

Questa la sua Bellezza, ossia la sua pienezza d’Amore che permane, colmandoci di senso - nel tempo della transumanza e nel cambiamento di stagione.

«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando.

In tal guisa, il Maestro non ha mai invitato nessuno [neppure fra gli apostoli] a fare il “pastore”, ossia colui che dirige e comanda il gregge.

I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini». Interessati alla realtà delle persone.

Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.

 

 

L’ovile dei pastori di Palestina era un recinto di pietre a secco, sopra le quali venivano lasciati crescere rovi o posti fasci di spine, per impedire lo scavalcamento, sia delle pecore che dei ladri.

Il muretto poteva delimitare uno spazio davanti a una casa, o nel caso di permanenze all’aperto, lungo un pendio. In tale fattispecie poteva essere rifugio notturno di vari greggi e più pastori.

Uno di essi vegliava a turno, ponendosi all’entrata del recinto, sbarrando l’accesso - come fosse una porta. Stava lì armato di bastone reso più efficace da schegge di pietra conficcati.

Al mattino ogni gregge si ricompattava spontaneamente alla sola voce del proprio pastore, che - per il fatto di passare molto tempo insieme in luoghi isolati - veniva immediatamente riconosciuta.

Le pecore lo seguivano, sicure di essere guidate a pascoli e oasi: ogni giorno ne facevano esperienza.

 

Il ‘pastore’ coraggioso conosce le pecore in modo passionale, «una per una» - ma vi sono tanti banditi che ancora intendono approfittarsi.

Per loro uno vale l’altro - non sono disposti a lottare, se non per il prestigio. Né hanno cognizione alcuna del nostro ‘nome’.

Viceversa, nel pensiero del Signore non esistono masse anonime, bensì persone; anime tutte significative.

Egli tien conto del carattere e delle possibilità di ciascuno. Comprende le nostre difficoltà; non forza i tempi, rispetta i ritmi individuali.

Capi religiosi e politici del tempo - lusingatori e autentici predoni - non avevano a cuore i pregi e le fatiche di ciascuno dei loro sudditi.

Si atteggiavano a sacri benefattori; cercando esclusivamente il proprio tornaconto - anche attraverso l’apparente opera di soccorso.

Malgrado le clamorose parvenze che appunto volevano sottolineare il rango conquistato, il loro obbiettivo e i metodi erano segnati dalla brama di affermazione, da un esclusivo interesse personale e di ceto.

Cristo si distingue dagli impostori, pataccari di contrabbando, che volevano trascinare il popolo allo sfruttamento, alla spersonalizzazione, allo smarrimento, quindi alla completa subordinazione - non solo dell’immaginario.

 

Colui che in mezzo al frastuono di tante voci si fa ostaggio di convinzioni esterne, viene plagiato e non riesce più a riattivare il proprio Esodo. 

Così dovrà sempre prenderlo a prestito.

Ma infilare l'anima e la vita nell’armatura altrui, già confezionata, non realizza l’irripetibile vocazione; non rende felice l’innocente.

Chi segue Gesù non solo entra, ma «esce» (v.9) dal «recinto sacro»: tranello che veniva cesellato per sfruttare ingenui e malfermi.

In Lui veniamo resi autonomi, veri, liberi; in grado di camminare sulle nostre gambe, quindi capaci di attivare percorsi di un’umanità forse ancora distante.

Educati nel ‘Figlio dell’uomo’ a sentirci adeguati, a vivere intensamente e rallegrare l’esistenza anche altrui, non sentiamo più alcun bisogno di umilianti paternalismi.

 

Ai tempi di Gesù, nel caso che il pastore fosse un salariato, di fronte al pericolo grave [es. banditi, o grandi bestie feroci] gli era consentito fuggire.

E lo faceva ben volentieri, perché il gregge non gli apparteneva.

Insomma, chi si attiene agli obblighi minimi fissati dal “contratto” non è davvero coinvolto - non ha a cuore nulla, né la proposta di Cristo, né le persone.

Di contro, l’amore genuino non si ferma; non ha confini: «un solo gregge, un solo pastore» (v.16).

Ossia: tutti sono chiamati a coinvolgersi; benedetti, e “perfetti” in ordine alla propria missione.

«Unico pastore» nei Vangeli non è il Papa, né un qualche Patriarca. Neppure un piccolo principe-feudatario locale.

Ma l’intero gregge, ministeriale senza eccezioni - in Cristo destinato alla pienezza di vita nella libertà (vv.17-18).

 

Gesù è Pastore genuino perché non teme di esporre la propria vita in difesa dei suoi fratelli.

Egli è l’uomo forte che non si lascia strappare dalle mani i suoi indifesi (v.28): non concede che ci perdiamo.

Forse per noi non è neppure tanto semplice cedere, farsi salvare, lasciarsi accompagnare, trasportare, guidare dall’Amico interiore.

Eppure, malgrado la nostra mancanza di docilità, la salvezza è garantita: dalla sua iniziativa incondizionata.

Questo il perno affidabile della nostra avventura: donne e uomini che in tale rapporto nuziale e creativo fanno il balzo dal senso religioso alla Fede.

Questa la grande notizia, la buona novella che annunciamo.

La nostra radice vocazionale non è scalfita dalle manchevolezze.

Nemico di Dio non è il peccato, dunque, bensì il cullarsi d’illusioni e il seguire ciarlatani; o il malaffare, l’interesse, l’autocompiacimento, che attecchiscono e si diffondono proprio in zone d’ombra e cordate che non t’aspetti.

 

Non è facile fidarsi di Cristo e con Lui essere in comunione col Padre (v.30) come unico Popolo di Dio, laici e clero.

Egli non bara: non promette carriere, benemerenze, titoli, ruoli, zucchero filato, vita facile, trionfi, riconoscimenti, e scorciatoie.

A volte arrivano le belve e non si scherza; bisogna decidere e - perché no - talora essere duri.

 

Ricordo anni fa una strage di pecore nella zona di Accumoli - non troppo distante da me.

Quando le anziane si accorsero dei lupi, si posero a cerchio intorno agli agnelli, e furono sbranate - per salvare i loro piccoli.

Nelle religioni è fondamentale il rispetto dei veterani - non di rado soci in affari con qualche idolo spacciato per “Dio”.

Essi pretendono essere difesi, tutelati, serviti e riveriti; qualsiasi nefandezza abbiano combinato o ancora stiano coltivando in animo.

Per questo motivo - come detto - il Maestro non ha mai invitato nessuno a fare il “pastore” (colui che dirige e comanda il gregge).

I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini».

Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.

Strano vedere nella storia come tutte le denominazioni cristiane si siano immediatamente riempite di “pastori” (che non mollano).

«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando avida e piramidale.

 

Popolo buon Pastore

 

La difesa del gregge minuto, e il Popolo tutto che diventa Pastore

(Gv 10,11-18)

 

All’inizio del cap.10 Gv mette a nudo la differenza tra pastore vero e ladro [falsi maestri rapaci e profittatori cui non interessa la vita altrui].

L’autentica guida ha a cuore il gregge minuto, si espone per difenderlo e farlo prosperare; lo conduce ad abbeverarsi, e in verdi pascoli.

Così, dalla similitudine iniziale della Porta, Gesù passa al paragone del Pastore che difende il gregge errante e facile preda di prepotenti.

La gente coglie d’istinto chi è la vera guida, nelle variazioni di stagione e nella transumanza: ne ha percezione esistenziale immediata, vibrante.

Donne e uomini del popolo hanno sempre un discernimento pratico assai più affidabile di quello artificioso, sprezzante, delle autorità ufficiali che suppongono di sé.

Nessuno di loro avrebbe dato o rischiato nulla per la vita del gregge affidato, che ritenevano ignorante, segnato a vita; maledetto (Gv 7,49. 9,34).

Forte di tale finezza d’intelligenza concreta, ecco la mèta cui Gesù mira nel Dono di sé: sarà il Popolo stesso a diventare Pastore (v.16b).

Quindi anche il gregge-pastore di Cristo non schiverà i colpi, né sarà passivo e conformista - bensì come Lui: audace e battistrada.

In tale sorpresa si aggiunge un’ulteriore apertura d’orizzonte, che chiameremmo di ecclesiologia universale.

Prospettiva inquietante per opportunisti e installati sazi degli “edifici” allestiti dalla religione - e dal suo indotto - allarmati unicamente per quelli costruiti nella Fede.

Ma il Signore ci strappa dai lupi.

In aggiunta, non si limita alle folle che gli sono vicine.

La chiamata e la cura del Pastore autentico valica qualsiasi confine; non solo quello artefatto e mestierante del Tempio.

La vocazione di Dio riguarda persino le persone ancora lontane da recinti sacri (v.16a testo greco), anch’esse valutate membri necessari e a pieno titolo del suo Popolo.

Il nuovo principio di appartenenza è l’Ascolto (v.3): immediatezza anche delle proprie intime e naturali istanze di vita.

Ciò vale più di un’anima già ripulita dagli errori, o di una folla impeccabile.

Tale il preludio creaturale e spontaneo di mutua Comunione [convivialità delle differenze] che soppianta le appartenenze religiose antiche.

 

«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando avida e piramidale.

Le fraternità di Fede viva avevano ben compreso che l’esistere nello Spirito del Cristo e la vita dell’anima avevano risvolti inattesi - del tutto incompatibili con l’attaccamento all’effimero che le autorità ufficiali si concedevano.

L’irriverente Luciano di Samosata (120-190) dona uno sprazzo assai significativo di questa originalità - ancora in fieri - che lascia emergere la semplicità, il clima di fiducia reciproca e la qualità di vita dei primi credenti, trascinati dal buon esempio dei responsabili di comunità.

Il noto autore satirico, contrario a superstizioni e credulonerie tra le quali annoverava anche il Cristianesimo, porge una testimonianza indiretta e paradossale del motivo per il quale l’inattesa proposta di Condivisione a partire dai coordinatori di chiesa - così alternativa, incomprensibilmente magnanima e liberale - venisse riconosciuta.

Con linguaggio scanzonato che ancora ci fa pensare alla distanza dall’ideale, malgrado i millenni trascorsi - l’antico scrittore greco-siriano ha acutamente descritto l’impatto concreto della Fede nel vero Dio, la quale notava sempre più diffusa tra la gente.

Gesù voleva che per l’instaurazione di una società alternativa - non verticistica, non esclusiva, anzi capace di felice Convivenza - si facesse leva sul cuore popolare, a partire dalla testimonianza di ‘maestri’ autentici.

In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] il polemista del II sec. così si esprime:

«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».

Sembrava una pazzia per l’ideale di uomo ellenista, individualista e facitore di sé, nonché per l’immagine stessa d’un amico di Dio che meritasse gloria e cortigianerie - pertanto suo protetto in “benedizioni” [convinzione che permane purtroppo quasi inalterata].

Ma come si nota fra le righe, le nuove ‘guide’ in Cristo effettivamente stavano iniziando a soppiantare la credibilità degli altri leaders più rinomati in cultura, tuttavia assai meno interessati alla realtà delle persone.

Nella vita dei ‘cristiani’ si rendeva palese un equilibrio, un venirsi incontro, un benessere e una «Via della completezza» affatto diversa da quella dell’antica ‘perfezione’ sterilizzata, unilaterale.

 

Il di più della Fede?

Non le belle maniere. Piuttosto, lo spunto e la freschezza di chi espone la propria vita senza retrocedere, per difendere gli innocenti, ultimi arrivati.

Nessun dirigismo.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua comunità ti senti giudicato sulle perfezioni esterne, e braccato da lupi giudicanti, o valorizzato in prima persona, e nella via della completezza a tutto tondo?

 

 

Vanno proprio insieme

 

Il Vangelo che abbiamo ascoltato in questa domenica è soltanto una parte del grande discorso di Gesù sui pastori. In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità. Prima di riflettere su queste tre caratteristiche essenziali dell'essere pastori, sarà forse utile ricordare brevemente la parte precedente del discorso sui pastori nella quale Gesù, prima di designarsi come Pastore, dice con nostra sorpresa: "Io sono la porta" (Gv 10, 7). È attraverso di Lui che si deve entrare nel servizio di pastore. Gesù mette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: "Chi... sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante" (Gv 10, 1). Questa parola "sale" - "anabainei" in greco - evoca l'immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. "Salire" - si può qui vedere anche l'immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare "in alto", di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l'immagine dell'uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l'immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l'umile servizio di Gesù Cristo. Ma l'unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la vera ascesa, è questa la vera porta. Non desiderare di diventare personalmente qualcuno, ma invece esserci per l'altro, per Cristo, e così mediante Lui e con Lui esserci per gli uomini che Egli cerca, che Egli vuole condurre sulla via della vita. Si entra nel sacerdozio attraverso il Sacramento - e ciò significa appunto: attraverso la donazione di se stessi a Cristo, affinché Egli disponga di me; affinché io Lo serva e segua la sua chiamata, anche se questa dovesse essere in contrasto con i miei desideri di autorealizzazione e stima. Entrare per la porta, che è Cristo, vuol dire conoscerlo ed amarlo sempre di più, perché la nostra volontà si unisca alla sua e il nostro agire diventi una cosa sola col suo agire. Cari amici, per questa intenzione vogliamo pregare sempre di nuovo, vogliamo impegnarci proprio per questo, che cioè Cristo cresca in noi, che la nostra unione con Lui diventi sempre più profonda, cosicché per il nostro tramite sia Cristo stesso Colui che pasce.

Guardiamo ora più da vicino le tre affermazioni fondamentali di Gesù sul buon pastore. La prima, che con grande forza pervade tutto il discorso sui pastori, dice: il pastore dà la sua vita per le pecore. Il mistero della Croce sta al centro del servizio di Gesù quale pastore: è il grande servizio che Egli rende a tutti noi. Egli dona se stesso, e non solo in un passato lontano. Nella sacra Eucaristia ogni giorno realizza questo, dona se stesso mediante le nostre mani, dona sé a noi. Per questo, a buona ragione, al centro della vita sacerdotale sta la sacra Eucaristia, nella quale il sacrificio di Gesù sulla croce rimane continuamente presente, realmente tra di noi. E a partire da ciò impariamo anche che cosa significa celebrare l'Eucaristia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte in croce e così si dona a ognuno di noi. È molto importante per il sacerdote l'Eucaristia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone se stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che Egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta, mi dà la mano, se stesso. L'Eucaristia deve diventare per noi una scuola di vita, nella quale impariamo a donare la nostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. Noi dobbiamo donarla giorno per giorno. Occorre imparare giorno per giorno che io non possiedo la mia vita per me stesso. Giorno per giorno devo imparare ad abbandonare me stesso; a tenermi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti. Donare la vita, non prenderla. È proprio così che facciamo l'esperienza della libertà. La libertà da noi stessi, la vastità dell'essere. Proprio così, nell'essere utile, nell'essere una persona di cui c'è bisogno nel mondo, la nostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova.

Come seconda cosa il Signore ci dice: "Io conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre " (Gv 10, 14-15). Sono in questa frase due rapporti apparentemente del tutto diversi che qui si trovano intrecciati l'uno con l'altro: il rapporto tra Gesù e il Padre e il rapporto tra Gesù e gli uomini a Lui affidati. Ma entrambi i rapporti vanno proprio insieme, perché gli uomini, in fin dei conti, appartengono al Padre e sono alla ricerca del Creatore, di Dio. Quando si accorgono che uno parla soltanto nel proprio nome e attingendo solo da sé, allora intuiscono che è troppo poco e che egli non può essere ciò che stanno cercando. Laddove però risuona in una persona un'altra voce, la voce del Creatore, del Padre, si apre la porta della relazione che l'uomo aspetta. Così deve essere quindi nel nostro caso. Innanzitutto nel nostro intimo dobbiamo vivere il rapporto con Cristo e per il suo tramite con il Padre; solo allora possiamo veramente comprendere gli uomini, solo alla luce di Dio si capisce la profondità dell'uomo. Allora chi ci ascolta si rende conto che non parliamo di noi, di qualcosa, ma del vero Pastore. Ovviamente, nelle parole di Gesù è anche racchiuso tutto il compito pastorale pratico, di seguire gli uomini, di andare a trovarli, di essere aperti per le loro necessità e le loro domande. Ovviamente è fondamentale la conoscenza pratica, concreta delle persone a me affidate, e ovviamente è importante capire questo "conoscere" gli altri nel senso biblico: non c'è una vera conoscenza senza amore, senza un rapporto interiore, senza una profonda accettazione dell'altro. Il pastore non può accontentarsi di sapere i nomi e le date. Il suo conoscere le pecore deve essere sempre anche un conoscere con il cuore. Questo però è realizzabile in fondo soltanto se il Signore ha aperto il nostro cuore; se il nostro conoscere non lega le persone al nostro piccolo io privato, al nostro proprio piccolo cuore, ma invece fa sentire loro il cuore di Gesù, il cuore del Signore. Deve essere un conoscere col cuore di Gesù e orientato verso di Lui, un conoscere che non lega l'uomo a me, ma lo guida verso Gesù rendendolo così libero e aperto. E così anche noi tra uomini diveniamo vicini. Affinché questo modo di conoscere con il cuore di Gesù, di non legare a me ma di legare al cuore di Gesù e di creare così vera comunità, che questo ci sia donato, vogliamo sempre di nuovo pregare il Signore.

Infine il Signore ci parla del servizio dell'unità affidato al pastore: "Ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore" (Gv 10, 16). È la stessa cosa che Giovanni ripete dopo la decisione del sinedrio di uccidere Gesù, quando Caifa disse che sarebbe stato meglio se uno solo fosse morto per il popolo piuttosto che la nazione intera perisse. Giovanni riconosce in questa parola di Caifa una parola profetica e aggiunge: "Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (11, 52). Si rivela la relazione tra Croce e unità; l'unità si paga con la Croce. Soprattutto però emerge l'orizzonte universale dell'agire di Gesù. Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani. La missione di Gesù riguarda l'umanità intera, e perciò alla Chiesa è data una responsabilità per tutta l'umanità, affinché essa riconosca Dio, quel Dio che, per noi tutti, in Gesù Cristo si è fatto uomo, ha sofferto, è morto ed è risorto. La Chiesa non deve mai accontentarsi della schiera di coloro che a un certo punto ha raggiunto, e dire che gli altri stiano bene così: i musulmani, gli induisti e via dicendo. La Chiesa non può ritirarsi comodamente nei limiti del proprio ambiente. È incaricata della sollecitudine universale, deve preoccuparsi per tutti e di tutti. Questo grande compito in generale lo dobbiamo "tradurre" nelle nostre rispettive missioni. Ovviamente un sacerdote, un pastore d'anime, deve innanzitutto preoccuparsi di coloro, che credono e vivono con la Chiesa, che cercano in essa la strada della vita e che da parte loro, come pietre vive, costruiscono la Chiesa e così edificano e sostengono insieme anche il sacerdote. Tuttavia, dobbiamo anche sempre di nuovo - come dice il Signore - uscire "per le strade e lungo le siepi" (Lc 14, 23) per portare l'invito di Dio al suo banchetto anche a quegli uomini che finora non ne hanno ancora sentito niente, o non ne sono stati toccati interiormente. Questo servizio universale, servizio per l'unità, ha tante forme. Ne fa parte sempre anche l'impegno per l'unità interiore della Chiesa, perché essa, oltre tutte le diversità e i limiti, sia un segno della presenza di Dio nel mondo che solo può creare una tale unità.

La Chiesa antica ha trovato nella scultura del suo tempo la figura del pastore che porta una pecora sulle sue spalle. Forse queste immagini fanno parte del sogno idillico della vita campestre che aveva affascinato la società di allora. Ma per i cristiani questa figura diventava con tutta naturalezza l'immagine di Colui che si è incamminato per cercare la pecora smarrita: l'umanità; l'immagine di Colui che ci segue fin nei nostri deserti e nelle nostre confusioni; l'immagine di Colui che ha preso sulle sue spalle la pecora smarrita, che è l'umanità, e la porta a casa. È divenuta l'immagine del vero Pastore Gesù Cristo. A Lui ci affidiamo. A Lui affidiamo Voi, cari fratelli, specialmente in quest'ora, affinché Egli Vi conduca e Vi porti tutti i giorni; affinché Vi aiuti a diventare, per mezzo di Lui e con Lui, buoni pastori del suo gregge. Amen!

[Papa Benedetto, omelia ordinazione presbiterale 7 maggio 2006]

6
don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

In today’s Gospel passage (cf. Jn 10:27-30) Jesus is presented to us as the true Shepherd of the People of God. He speaks about the relationship that binds him to the sheep of the flock, namely, to his disciples, and he emphasizes the fact that it is a relationship of mutual recognition […] we see that Jesus’ work is explained in several actions: Jesus speaks; Jesus knows; Jesus gives eternal life; Jesus safeguards (Pope Francis)
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca […] vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce (Papa Francesco)
To enter into communion with God, before observing the laws or satisfying religious precepts, it is necessary to live out a real and concrete relationship with him […] And this “scandalousness” is well represented by the sacrament of the Eucharist: what sense can there be, in the eyes of the world, in kneeling before a piece of bread? Why on earth should someone be nourished assiduously with this bread? The world is scandalized (Pope Francis)
Per entrare in comunione con Dio, prima di osservare delle leggi o soddisfare dei precetti religiosi, occorre vivere una relazione reale e concreta con Lui […] E questa “scandalosità” è ben rappresentata dal sacramento dell’Eucaristia: che senso può avere, agli occhi del mondo, inginocchiarsi davanti a un pezzo di pane? Perché mai nutrirsi assiduamente di questo pane? Il mondo si scandalizza (Papa Francesco)
What is meant by “eat the flesh and drink the blood” of Jesus? Is it just an image, a figure of speech, a symbol, or does it indicate something real? (Pope Francis)
Che significa “mangiare la carne e bere il sangue” di Gesù?, è solo un’immagine, un modo di dire, un simbolo, o indica qualcosa di reale? (Papa Francesco)
What does bread of life mean? We need bread to live. Those who are hungry do not ask for refined and expensive food, they ask for bread. Those who are unemployed do not ask for enormous wages, but the “bread” of employment. Jesus reveals himself as bread, that is, the essential, what is necessary for everyday life; without Him it does not work (Pope Francis)
Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona (Papa Francesco)
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]

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