Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente si era messa a cercare Gesù e finalmente lo trova presso Cafarnao. Egli comprende bene il motivo di tanto entusiasmo nel seguirlo e lo rivela con chiarezza: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6, 26). In realtà, quelle persone lo seguono per il pane materiale che il giorno precedente aveva placato la loro fame, quando Gesù aveva fatto la moltiplicazione dei pani; non hanno compreso che quel pane, spezzato per tanti, per molti, era l’espressione dell’amore di Gesù stesso. Hanno dato più valore a quel pane che al suo donatore. Davanti a questa cecità spirituale, Gesù evidenzia la necessità di andare oltre il dono, e scoprire, conoscere il donatore. Dio stesso è il dono e anche il donatore. E così da quel pane, da quel gesto, la gente può trovare Colui che lo dà, che è Dio. Invita ad aprirsi ad una prospettiva che non è soltanto quella delle preoccupazioni quotidiane del mangiare, del vestire, del successo, della carriera. Gesù parla di un altro cibo, parla di un cibo che non è corruttibile e che è bene cercare e accogliere. Egli esorta: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna che il Figlio dell’uomo vi darà (v. 27). Cioè cercate la salvezza, l’incontro con Dio.
E con queste parole, ci vuol far capire che, oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (v. 35). Gesù non elimina la preoccupazione e la ricerca del cibo quotidiano, no, non elimina la preoccupazione di tutto ciò che può rendere la vita più progredita. Ma Gesù ci ricorda che il vero significato del nostro esistere terreno sta alla fine, nell’eternità, sta nell’incontro con Lui, che è dono e donatore, e ci ricorda anche che la storia umana con le sue sofferenze e le sue gioie deve essere vista in un orizzonte di eternità, cioè in quell’orizzonte dell’incontro definitivo con Lui. E questo incontro illumina tutti i giorni della nostra vita. Se noi pensiamo a questo incontro, a questo grande dono, i piccoli doni della vita, anche le sofferenze, le preoccupazioni saranno illuminate dalla speranza di questo incontro. «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (v. 35). E questo è il riferimento all’Eucaristia, il dono più grande che sazia l’anima e il corpo. Incontrare e accogliere in noi Gesù, “pane di vita”, dà significato e speranza al cammino spesso tortuoso della vita. Ma questo “pane di vita” ci è dato con un compito, cioè perché possiamo a nostra volta saziare la fame spirituale e materiale dei fratelli, annunciando il Vangelo ovunque. Con la testimonianza del nostro atteggiamento fraterno e solidale verso il prossimo, rendiamo presente Cristo e il suo amore in mezzo agli uomini.
La Vergine Santa ci sostenga nella ricerca e nella sequela del suo Figlio Gesù, il pane vero, il pane vivo che non si corrompe e dura per la vita eterna.
[Papa Francesco, Angelus 2 agosto 2015]
(Gv 6,22-29)
Non pochi cercano Gesù non per lo stupore della Persona e della sua Via, ma perché garantisce più sazietà di altri (v.26).
Allora si deve uscire dalla superficialità di corti pensieri. Al Maestro, il rapporto “corretto” sembra già un Amore “finito”.
La proposta di Cristo addita altre mete; non si abbina con l’entusiasmo momentaneo per un fatto sensazionale, né con l’egoismo quieto.
Nel Segno che alimenta la nuova Via [l’Esodo di «barchette» (vv.22-24) che seguono il Cristo] si cela una Vocazione e una Missione.
Al di là di dove si presume.
Una Mistica del Seme donato - per farci finalmente partire senza tutori (v.22) - spalanca il senso dell’esistere personale.
Il «Figlio dell’uomo» è la persona dotata di umanità piena, che raffigura l’uomo nella condizione divina.
Egli è sempre sorprendentemente sull’altra sponda (v.25) per farsi quel “non so che”: ‘Profumo’ della Chiesa in uscita.
Eros oltre, che vince attaccamenti, abitudine, equilibri consolidati.
Il Signore non identifica il benessere spirituale con lo spegnersi della fiamma dell’anima, nei vezzi anche dell’attivismo.
Pertanto l’Opera richiesta non riguarda affatto il soddisfacimento delle molte prescrizioni.
Essa non somiglia ai soliti lavori di allestimento [il «fare»: v.28], perché è piuttosto Azione singolare di Dio [Soggetto] in noi.
Le osservanze devono essere tediosamente ammucchiate una sull’altra.
L’Opera divina che si compie in ogni nostro gesto è invece Virtù preziosa, Energia inattesa.
Nuova opportunità per incontrare noi stessi, i fratelli, un altro litorale - e staccarci dall’esteriorità.
Gesù si autorivela nel segno della frazione del Pane.
«Cibo che dura per la Vita dell’Eterno» (v.27) ossia che sfocia in una esperienza che già qui e ora possiede la qualità indistruttibile della stessa intimità di Dio.
Per ricevere l’Alimento ben sminuzzato che sostiene e diviene in noi sorgente di vita completa, il “lavoro” da fare non appartiene al genere di quelli che possiamo apprestare - neppure secondo legge e devozioni.
Può essere solo una risposta all’opera che il Padre stesso svolge dentro ciascuno di noi; anche se non apparisse subito brillante e finalizzata.
Ed ecco il capovolgimento garantito dall’avventura di Fede:
La sottomissione religiosa viene scalzata dall’Accettazione, che ha un senso assai meno mortificante (e riduzionista); viceversa, rispettoso dei tentativi. E creativo.
Cambia la relazione con Dio.
Essa diviene di pura accoglienza; eppure inventiva, per Nome: irripetibile e personale.
Non più di rinuncia passiva, rimprovero, purificazione, obbedienza [apparenze da Signorsì].
L’Eros fondante non ci sgrida: è unicamente Dono. Per una Reciprocità sana, rispettosa del nostro carattere e ascendente.
In tal guisa l’attrazione non si spegnerà. Essa vuole ogni giorno i suoi picchi; non gli basta trasformarsi in normale simbiosi, poi abitudine.
Piuttosto, sogna un Cammino largo.
Il resto rimane purtroppo sequela inefficace o ambigua; portando l’anima sempre in guerra con se stessa e gli altri.
Binario che qua e là può manifestare solo caricature cieche, unilaterali, forzate, della Sua Immagine - malgrado le pretese d’eccellenza.
Meccanismi che fanno male.
[Lunedì 3.a sett. di Pasqua, 5 maggio 2025]
(Gv 6,22-29)
La folla va orientata, perché di fronte al «segno dei pani» la reazione sembra deludente. Non vale il sensazionalismo che dirige verso un regno terreno (v.15).
Non pochi cercano Gesù non per lo stupore della Persona e della sua Via, ma perché garantisce più sazietà di altri (v.26).
Allora si deve uscire dalla superficialità di corti pensieri. Al Maestro, il rapporto “corretto” sembra già un Amore “finito”.
La proposta di Cristo addita altre mete; non si abbina con l’entusiasmo momentaneo per un fatto sensazionale, né con l’egoismo quieto.
Nel Segno che alimenta la nuova Via [l’Esodo di «barchette» (vv.22-24) che seguono il Cristo] si cela una Vocazione e una Missione. Al di là di dove si presume.
Una Mistica del Seme donato per farci finalmente partire senza tutori (v.22) spalanca il senso dell’esistere personale.
Altrimenti la lotta per il «pane» non raggiunge la Sorgente, né le radici dell’essere e della relazione. Neppure dilata l’orizzonte del vivere totale.
Nel deserto Mosè aveva assicurato sostentamento al popolo: certo, un alimento fiacco e sempre identico sino alla noia - ma rassicurante.
Come la religione antica: buona per tutte le stagioni; che sta bene anche in superficie.
Il «Figlio dell’uomo» è la persona dotata di umanità piena, che raffigura l’uomo nella condizione divina.
Egli non ripete il passato: è sempre sorprendentemente sull’altra sponda (v.25) per farsi quel “non so che”: ‘profumo’ della Chiesa in uscita.
Eros oltre, che vince attaccamenti, abitudine, equilibri consolidati.
Insomma, Cristo non desidera amici passivi, quelli che non vogliono i disagi dell’ascolto e del dialogo; che scansano le sofferenze, gli affronti, o le conseguenze di nuove iniziative.
Il Signore non identifica il benessere spirituale con lo spegnersi (tossico) della fiamma dell’anima che non si misura, che non ama interrogarsi, e i confronti.
Nel nostro cammino, l’apprensione stessa verso situazioni che preoccupano e manifestano le vulnerabilità, sono segnali intimi preziosi.
Lo stesso vale per i fallimenti, che costringono a rielaborare gli “eventi no”, guardarci dentro, spostare lo sguardo.
‘Assemblee di Fede’ sono le Fraternità che nel dispiegarsi delle relazioni, degli orizzonti e persino delle insicurezze non ci lasciano condizionati e “regolati”, plasmati da sguardi epidermici, altrui.
Convivialità paritaria di persone che non trattengono cibo e tesori per sé, sperimentando insieme una speciale attitudine alla valorizzazione e completezza - senza dissociazioni segrete, isteriche, laceranti.
L’Opera richiesta non riguarda affatto gli adempimenti di legge, il mucchio delle “opere”, o il soddisfacimento delle molte prescrizioni... per «meritare».
Essa non somiglia ai soliti lavori di allestimento [il «fare»: v.28], perché è piuttosto Azione singolare di Dio [Soggetto] in noi.
Le osservanze devono essere tediosamente ammucchiate una sull’altra. L’Opera divina che si compie in ogni nostro gesto è invece Virtù preziosa.
Energia inattesa; nuova opportunità per incontrare noi stessi, i fratelli, un altro litorale - e staccarci dall’esteriorità.
Gesù si autorivela nel segno della frazione del Pane, «cibo che dura per la Vita dell’Eterno» (v.27) ossia che sfocia in una esperienza che già qui e ora possiede la qualità indistruttibile della stessa intimità di Dio.
Per ricevere l’Alimento ben sminuzzato che sostiene e diviene in noi sorgente di vita completa, il “lavoro” da fare non appartiene al genere di quelli che possiamo apprestare - neppure secondo legge e devozioni.
Può essere solo una risposta all’opera che il Padre stesso svolge dentro ciascuno di noi, anche se non apparisse subito brillante e finalizzata.
Ed ecco il capovolgimento garantito dall’avventura di Fede:
La sottomissione religiosa viene scalzata dall’accettazione, che ha un senso assai meno mortificante (o riduzionista); viceversa, rispettoso dei tentativi, e creativo.
Non presenta solo una sorta di spersonalizzazione elitista e normalizzata: ad es. “occhi aperti”, piaceri da non vivere, “conti da pagare”; così via.
Cambia la relazione con Dio.
Essa diviene di pura ‘accoglienza’. Eppur inventiva, per Nome: irripetibile e personale.
Non più di rinuncia passiva, rimprovero, purificazione, obbedienza [apparenze da Signorsì].
L’Eros fondante non ci sgrida: è unicamente Dono.
Ma solo la sua opera è affidabile, benché estrosa, non allineata, mutevole, totalmente imprevedibile.
E Noi? Corrispondenza spontanea, trasparente, non infastidita; non coperta dall’attivismo addomesticato.
Solo così il “cedere” non si somatizzerà in atti di protesta. Per una Reciprocità sana, rispettosa del nostro carattere e ascendente.
In tal guisa l’attrazione non si spegnerà. Essa vuole ogni giorno i suoi picchi; non gli basta trasformarsi in normale simbiosi, poi vezzo.
Piuttosto, sogna un Cammino largo; in profondità. Di rigenerazione e somiglianza - che coinvolge e proietta, ma non assorbe.
Il resto rimane purtroppo sequela inefficace o ambigua; portando l’anima sempre in guerra con se stessa e gli altri.
Binario che qua e là può manifestare solo caricature cieche, unilaterali, forzate, della Sua Immagine - malgrado le pretese d’eccellenza.
Meccanismi che fanno male.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come discerni la differenza qualitativa fra opere di legge e Opera della Fede?
Alimento dell’Eterno e Fede [di Teresa Girolami]
Nel brano di oggi, dopo la moltiplicazione dei pani, la folla insegue Gesù giunto all’altra riva, verso Cafarnao.
E subito il Signore mette il dito nella piaga sottolineando ch’esso Lo cerca non per i segni visti, bensì perché saziata.
Una ricerca spinta non dalla fede, ma forse dal bisogno.
E, a chi chiede cosa adempiere per fare le opere di Dio, il Signore sollecita all’opera per eccellenza: credere.
Gesù si smarca e sposta lo sguardo dalla legge alla Fede.
Meraviglioso contesto che ai tempi di Francesco e Chiara induceva i Poveri assisani a evolvere il loro cammino di fiducia e abbandono in Dio.
Nelle straordinarie Fonti francescane troviamo lo stesso Francesco chiamato dal Signore ad un balzo nella fede.
"Il Santo trovava grandissima consolazione nelle visite del Signore e da esse veniva assicurato che le fondamenta del suo Ordine sarebbero rimaste sempre stabili […]
Essendo turbato per i cattivi esempi, e avendo fatto ricorso un giorno, così amareggiato, alla preghiera, si sentì apostrofato a questo modo dal Signore:
«Perché tu, omiciattolo, ti turbi? Forse io ti ho stabilito pastore del mio Ordine in modo tale che tu dimenticassi che io ne rimango il patrono principale?
Per questo io ho scelto te, uomo semplice, perché quelli che vorranno, seguano le opere che compirò in te e che devono essere imitate da tutti gli altri.
Io vi ho chiamati: vi conserverò e pascolerò, supplirò con nuovi religiosi il vuoto lasciato dagli altri, al punto di farli nascere se non fossero già nati.
Non turbarti dunque, ma attendi alla tua salvezza, perché se l’Ordine si riducesse anche a soli tre frati, rimarrà il mio aiuto sempre stabile».
Da quel giorno era solito affermare che la virtù di un solo frate santo supera una quantità, sia pur grande, di imperfetti, come un solo raggio di luce dissipa le tenebre più fitte" (FF 742).
A chi crede in Colui che rende giusti, è la sua fede che gli viene calcolata a giustizia (cf. Rm 4,4-5).
S. Chiara, poi, visse alla lettera quanto Gesù suggerisce in questo brano evangelico: preoccupatevi del cibo che dura in eterno.
Infatti, papa Gregorio con la Bolla «Quo elongati» [Fino a che punto] del 28 settembre 1230, proibiva ai frati minori di accedere ai monasteri senza una speciale licenza della Santa Sede - e che potevano occuparsi delle Clarisse solo i frati a ciò deputati.
In tale contesto, ecco cosa attestano le Fonti:
"Una volta, avendo il signor Papa Gregorio proibito che qualsiasi frate si recasse ai monasteri delle Donne senza sua autorizzazione, la pia Madre si rammaricò che le sorelle avrebbero avuto più raramente il cibo della sacra dottrina e gemendo disse:
«Ce li tolga tutti, ormai, i frati, dopo che ci ha tolto quelli che ci davano il nutrimento di vita!».
E immediatamente rimandò tutti i frati al ministro, non volendo avere a disposizione i questuanti per provvedere il pane materiale, quando non avevano più chi provvedeva loro il pane dello spirito.
Ma quando lo venne a sapere papa Gregorio, subito rimise il divieto in potere del ministro generale" (FF 3232).
Solerzia di un’anima innamorata del cibo eterno e che per Esso è disposta a rinunciare a tutto.
«Operate non per il cibo che perisce, ma per il cibo che rimane per la vita dell’Eterno […]» (Gv 6,27).
«Questa è l’Opera di Dio: che crediate in colui che Egli ha mandato» (Gv 6,29).
[Teresa Girolami]
Aprire l’orizzonte
Siamo nella sinagoga di Cafarnao dove Gesù sta tenendo il suo noto discorso dopo la moltiplicazione dei pani. La gente aveva cercato di farlo re, ma Gesù si era ritirato, prima sul monte con Dio, con il Padre, e poi a Cafarnao. Non vedendolo, si era messa a cercarlo, era salita sulle barche per raggiungere l’altra riva del lago e finalmente l’aveva trovato. Ma Gesù sapeva bene il perché di tanto entusiasmo nel seguirlo e lo dice anche con chiarezza: voi «mi cercate non perché avete visto dei segni [perché il vostro cuore è stato impressionato], ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). Gesù vuole aiutare la gente ad andare oltre la soddisfazione immediata delle proprie necessità materiali, pur importanti. Vuole aprire ad un orizzonte dell’esistenza che non è semplicemente quello delle preoccupazioni quotidiane del mangiare, del vestire, della carriera. Gesù parla di un cibo che non perisce, che è importante cercare e accogliere. Egli afferma: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’Uomo vi darà» (v. 27).
La folla non comprende, crede che Gesù chieda l’osservanza di precetti per poter ottenere la continuazione di quel miracolo, e chiede: «Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?» (v. 28). La risposta di Gesù è chiara: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (v. 29). Il centro dell’esistenza, ciò che dà senso e ferma speranza al cammino spesso difficile della vita è la fede in Gesù, l’incontro con Cristo. Anche noi domandiamo: «cosa dobbiamo fare per avere la vita eterna?». E Gesù dice: «credete in me». La fede è la cosa fondamentale. Non si tratta qui di seguire un’idea, un progetto, ma di incontrare Gesù come una Persona viva, di lasciarsi coinvolgere totalmente da Lui e dal suo Vangelo. Gesù invita a non fermarsi all’orizzonte puramente umano e ad aprirsi all’orizzonte di Dio, all’orizzonte della fede. Egli esige un’unica opera: accogliere il piano di Dio, cioè «credere a colui che egli ha mandato» (v. 29). Mosè aveva dato ad Israele la manna, il pane dal cielo, con il quale Dio stesso aveva nutrito il suo popolo. Gesù non dona qualcosa, dona Se stesso: è Lui il «pane vero, disceso dal cielo», Lui, la Parola vivente del Padre; nell’incontro con Lui incontriamo il Dio vivente.
«Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?» (v. 28) chiede la folla, pronta ad agire, perché il miracolo del pane continui. Ma Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio da chiedere e accogliere.
Cari amici, nelle giornate cariche di occupazioni e di problemi, ma anche in quelle di riposo e di distensione, il Signore ci invita a non dimenticare che se è necessario preoccuparci per il pane materiale e ritemprare le forze, ancora più fondamentale è far crescere il rapporto con Lui, rafforzare la nostra fede in Colui che è il «pane di vita», che riempie il nostro desiderio di verità e di amore.
[Papa Benedetto, Angelus 5 agosto 2012]
Verbo “Credere”, sostantivo “Fede”
1. Il primo e fondamentale punto di riferimento della presente catechesi sono le professioni universalmente conosciute della fede cristiana. Esse si chiamano anche “simboli di fede”. La parola greca “symbolon” significava la metà di un oggetto spezzato (per esempio di un sigillo) che veniva presentata come il segno di riconoscimento. Le parti spezzate venivano messe insieme per verificare l’identità del portatore. Da qui provengono gli ulteriori significati del “simbolo”: la prova dell’identità, le lettere credenziali e anche un trattato o contratto di cui il “symbolon” era la prova. Il passaggio da questo significato a quello di raccolta o sommario delle cose riferite e documentate era abbastanza naturale. Nel nostro caso i “simboli” significano la raccolta delle principali verità di fede, cioè di ciò in cui la Chiesa crede. Nella catechesi sistematica sono contenute le istruzioni su ciò in cui crede la Chiesa, cioè sui contenuti della fede cristiana. Di qui anche il fatto che i “simboli di fede” sono il primo e fondamentale punto di riferimento per la catechesi.
2. Tra i vari “simboli di fede” antichi, il più autorevole è il “simbolo apostolico”, di origine antichissima e comunemente recitato nelle “preghiere del cristiano”. In esso sono contenute le principali verità della fede trasmessa dagli apostoli di Gesù Cristo. Un altro simbolo antico famoso è quello “niceno-costantinopolitano”: esso contiene le stesse verità della fede apostolica autorevolmente delucidate nei primi due Concili ecumenici della Chiesa universale: Nicea (325) e Costantinopoli (381). L’usanza dei “simboli di fede” proclamati come frutto dei Concili della Chiesa si è rinnovata anche nel nostro secolo: infatti, dopo il Concilio Vaticano II, il papa Paolo VI pronunciò la “professione di fede” nota come il Credo del popolo di Dio (1968), che contiene l’insieme delle verità dalla fede della Chiesa con particolare considerazione di quei contenuti ai quali aveva dato espressione l’ultimo Concilio, o di quei punti intorno ai quali erano stati affacciati dei dubbi negli ultimi anni.
I simboli di fede sono il principale punto di riferimento per la presente catechesi. Essi, però, rinviano all’insieme del “deposito della parola di Dio”, costituito dalla Sacra Scrittura e dalla tradizione apostolica, essendone soltanto una sintesi concisa. Attraverso le professioni di fede ci proponiamo, perciò, di risalire pure noi a quell’immutabile “deposito”, sulla scorta dell’interpretazione che la Chiesa, assistita dallo Spirito, ne ha dato nel corso dei secoli.
3. Ognuno dei menzionati “simboli” inizia con la parola “credo”. Ognuno di essi infatti serve non tanto come istruzione ma come professione. I contenuti di questa professione sono le verità della fede cristiana: tutte sono radicate in questa prima parola “credo”. E proprio su questa espressione “credo” desideriamo concentrarci in questa prima catechesi.
L’espressione è presente nel linguaggio quotidiano, anche indipendentemente da ogni contenuto religioso, e specialmente da quello cristiano. “Ti credo” significa: mi fido di te, sono convinto che dici la verità. “Credo in ciò che tu dici” significa: sono convinto che il contenuto delle tue parole corrisponde alla realtà oggettiva.
In questo uso comune della parola “credo” si mettono in risalto alcuni elementi essenziali. “Credere” significa accettare e riconoscere come vero e corrispondente alla realtà il contenuto di ciò che vien detto, cioè delle parole di un’altra persona (o anche di più persone), a motivo della sua (o della loro) credibilità. Questa credibilità decide in un dato caso della particolare autorità della persona: l’autorità della verità. Così dunque dicendo “credo”, esprimiamo contemporaneamente un duplice riferimento: alla persona e alla verità; alla verità, in considerazione della persona che gode di particolari titoli di credibilità.
4. La parola “credo” appare molto spesso nelle pagine del Vangelo e di tutta la Sacra Scrittura. Sarebbe molto utile confrontare e analizzare tutti i punti dell’Antico e del Nuovo Testamento che ci permettono di cogliere il senso biblico del “credere”. Accanto al verbo “credere” troviamo anche il sostantivo “fede” come una delle espressioni centrali di tutta la Bibbia. Troviamo perfino un certo tipo di “definizioni” della fede, come per esempio: “la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” della Lettera agli Ebrei (Eb 11, 1).
Questi dati biblici sono stati studiati, spiegati, sviluppati dai Padri e dai teologi nell’arco di duemila anni di cristianesimo, come ci attesta l’enorme letteratura esegetica e dogmatica che abbiamo a disposizione. Come nei “simboli” così in tutta la teologia, il “credere”, la “fede” è una categoria fondamentale. È anche il punto di partenza della catechesi, come primo atto con cui si risponde alla rivelazione di Dio.
5. Nel presente incontro ci limiteremo a una sola fonte, che però riassume tutte le altre. Essa è la costituzione conciliare Dei Verbum del Vaticano II. Vi leggiamo quanto segue: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne nello Spirito Santo, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura . . . (cf. Ef 2, 18; 2 Pt 1, 4)” (Dei Verbum, 2).
“A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede (cf. Rm 16, 26; 1, 5; 2 Cor 10, 5-6), con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero liberamente prestandogli “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà” (Concilio Vaticano I, Dei Filius, 3) e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da lui” (Dei Verbum, 5).
In queste parole del documento conciliare è contenuta la risposta alla domanda: che cosa significa “credere”. La spiegazione è concisa, ma condensa una grande ricchezza di contenuto. Dovremo in seguito penetrare più ampiamente in questa spiegazione del Concilio, che ha una portata equivalente a quella di una definizione per così dire tecnica.
Una cosa è prima di tutto ovvia: esiste un genetico e organico legame tra il nostro “credo” cristiano e quella particolare “iniziativa” di Dio stesso, che si chiama “rivelazione”.
Perciò la catechesi sul “credo” (la fede) deve essere portata avanti insieme con quella sulla divina rivelazione. Logicamente e storicamente la rivelazione precede la fede. La fede è condizionata dalla rivelazione. Essa è la risposta dell’uomo alla divina rivelazione.
Diciamo fin d’ora che questa risposta è possibile e doveroso darla, perché Dio è credibile. Nessuno lo è come lui. Nessuno come lui possiede l’autorità della verità. In nessun caso come nella fede in Dio si attua il valore concettuale e semantico della parola così usuale nel linguaggio umano: “Credo”, “Ti credo”.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 13 marzo 1985]
La fede in Cristo
1. Guardando all'obiettivo primario del Giubileo, che è "il rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani" (Tertio millennio adveniente, 42), dopo aver delineato nelle precedenti catechesi i tratti fondamentali della salvezza offerta da Cristo, ci fermiamo oggi a riflettere sulla fede che egli si attende da noi.
A Dio che si rivela - insegna la Dei Verbum - è dovuta "l'obbedienza della fede" (n. 5). Dio si è rivelato nell'Antica Alleanza, domandando al popolo da lui scelto una fondamentale adesione di fede. Nella pienezza dei tempi, questa fede è chiamata a rinnovarsi e svilupparsi, per rispondere alla rivelazione del Figlio di Dio incarnato. Gesù la richiede espressamente, rivolgendosi ai discepoli nell'ultima Cena: "Avete fede in Dio; abbiate fede anche in me" (Gv 14,1).
2. Gesù aveva già chiesto al gruppo dei dodici Apostoli una professione di fede nella sua persona. Presso Cesarea di Filippo, dopo aver interrogato i discepoli sui pareri espressi dalla gente circa la sua identità, egli domanda: "Voi chi dite che io sia?" (Mt 16,15). La risposta viene da Simone: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (16,16).
Immediatamente Gesù conferma il valore di questa professione di fede, sottolineando che essa non procede semplicemente da un pensiero umano, ma da un'ispirazione celeste: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16,17). Queste espressioni di forte colore semitico designano la rivelazione totale, assoluta e suprema: quella che si riferisce alla persona del Cristo Figlio di Dio.
La professione di fede fatta da Pietro rimarrà espressione definitiva dell'identità di Cristo. Marco ne riprende i termini per introdurre il suo Vangelo (cfr Mc 1,1), Giovanni vi fa riferimento alla conclusione del suo, affermando di averlo scritto perché si creda "che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio", e perché, credendo, si possa avere la vita nel suo nome (cfr Gv 20,31).
3. In che cosa consiste la fede? La Costituzione Dei Verbum spiega che con essa "l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli 'il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà' e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui" (n. 5). La fede non è, dunque, solo adesione dell'intelligenza alla verità rivelata, ma anche ossequio della volontà e dono di sé a Dio che si rivela. E' un atteggiamento che impegna l'intera esistenza.
Il Concilio ricorda ancora che per la fede sono necessari "la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità" (ibid.). Si vede così come la fede, da una parte, fa accogliere la verità contenuta nella Rivelazione e proposta dal magistero di coloro che, come Pastori del Popolo di Dio, hanno ricevuto un "carisma certo di verità" (Dei Verbum, 8). D'altra parte, la fede spinge anche ad una vera e profonda coerenza, che deve esprimersi in tutti gli aspetti di una vita modellata su quella di Cristo.
4. Frutto com'è della grazia, la fede esercita un influsso sugli avvenimenti. Lo si vede mirabilmente nel caso esemplare della Vergine Santa. Nell'Annunciazione la sua adesione di fede al messaggio dell'angelo è decisiva per la stessa venuta di Gesù nel mondo. Maria è Madre di Cristo perché prima ha creduto in Lui.
Alle nozze di Cana Maria per la sua fede ottiene il miracolo. Dinanzi a una risposta di Gesù che sembrava poco favorevole, Ella mantiene un atteggiamento fiducioso, diventando così modello della fede audace e costante che supera gli ostacoli.
Audace e insistente fu anche la fede della cananea. A questa donna, venuta a chiedere la guarigione della figlia, Gesù aveva opposto il piano del Padre, che limitava la sua missione alle pecore perdute della casa d'Israele. La cananea rispose con tutta la forza della sua fede e ottenne il miracolo: "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28).
5. In molti altri casi il Vangelo testimonia la potenza della fede. Gesù esprime la sua ammirazione per la fede del centurione: "In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande" (Mt 8,10). E a Bartimeo dice: "Va', la tua fede ti ha salvato" (Mc 10,52). La stessa cosa ripete all'emorroissa (cfr Mc 5,34).
Le parole rivolte al padre dell'epilettico, che desiderava la guarigione del figlio, non sono meno impressionanti: "Tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,23).
Il ruolo della fede è di cooperare con questa onnipotenza. Gesù chiede tale cooperazione al punto che, tornando a Nazaret, non opera quasi nessun miracolo per il motivo che gli abitanti del suo villaggio non credevano in lui (cfr Mc 6,5-6). Ai fini della salvezza, la fede ha per Gesù un'importanza decisiva.
San Paolo svilupperà l'insegnamento di Cristo quando, in contrasto con quanti volevano fondare la speranza di salvezza sull'osservanza della legge giudaica, affermerà con forza che la fede in Cristo è la sola fonte di salvezza: "Noi riteniamo, infatti, che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge" (Rm 3,28). Non bisogna, tuttavia, dimenticare che san Paolo pensava a quella fede autentica e piena "che opera per mezzo della carità" (Gal 5,6). La vera fede è animata dall'amore verso Dio, che è inseparabile dall'amore verso i fratelli.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 18 marzo 1998]
Siamo nella sinagoga di Cafarnao dove Gesù sta tenendo il suo noto discorso dopo la moltiplicazione dei pani. La gente aveva cercato di farlo re, ma Gesù si era ritirato, prima sul monte con Dio, con il Padre, e poi a Cafarnao. Non vedendolo, si era messa a cercarlo, era salita sulle barche per raggiungere l’altra riva del lago e finalmente l’aveva trovato. Ma Gesù sapeva bene il perché di tanto entusiasmo nel seguirlo e lo dice anche con chiarezza: voi «mi cercate non perché avete visto dei segni [perché il vostro cuore è stato impressionato], ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). Gesù vuole aiutare la gente ad andare oltre la soddisfazione immediata delle proprie necessità materiali, pur importanti. Vuole aprire ad un orizzonte dell’esistenza che non è semplicemente quello delle preoccupazioni quotidiane del mangiare, del vestire, della carriera. Gesù parla di un cibo che non perisce, che è importante cercare e accogliere. Egli afferma: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’Uomo vi darà» (v. 27).
La folla non comprende, crede che Gesù chieda l’osservanza di precetti per poter ottenere la continuazione di quel miracolo, e chiede: «Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?» (v. 28). La risposta di Gesù è chiara: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (v. 29). Il centro dell’esistenza, ciò che dà senso e ferma speranza al cammino spesso difficile della vita è la fede in Gesù, l’incontro con Cristo. Anche noi domandiamo: «cosa dobbiamo fare per avere la vita eterna?». E Gesù dice: «credete in me». La fede è la cosa fondamentale. Non si tratta qui di seguire un’idea, un progetto, ma di incontrare Gesù come una Persona viva, di lasciarsi coinvolgere totalmente da Lui e dal suo Vangelo. Gesù invita a non fermarsi all’orizzonte puramente umano e ad aprirsi all’orizzonte di Dio, all’orizzonte della fede. Egli esige un’unica opera: accogliere il piano di Dio, cioè «credere a colui che egli ha mandato» (v. 29). Mosè aveva dato ad Israele la manna, il pane dal cielo, con il quale Dio stesso aveva nutrito il suo popolo. Gesù non dona qualcosa, dona Se stesso: è Lui il «pane vero, disceso dal cielo», Lui, la Parola vivente del Padre; nell’incontro con Lui incontriamo il Dio vivente.
«Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?» (v. 28) chiede la folla, pronta ad agire, perché il miracolo del pane continui. Ma Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio da chiedere e accogliere.
Cari amici, nelle giornate cariche di occupazioni e di problemi, ma anche in quelle di riposo e di distensione, il Signore ci invita a non dimenticare che se è necessario preoccuparci per il pane materiale e ritemprare le forze, ancora più fondamentale è far crescere il rapporto con Lui, rafforzare la nostra fede in Colui che è il «pane di vita», che riempie il nostro desiderio di verità e di amore.
[Papa Benedetto, Angelus 5 agosto 2012]
1. Il primo e fondamentale punto di riferimento della presente catechesi sono le professioni universalmente conosciute della fede cristiana. Esse si chiamano anche “simboli di fede”. La parola greca “symbolon” significava la metà di un oggetto spezzato (per esempio di un sigillo) che veniva presentata come il segno di riconoscimento. Le parti spezzate venivano messe insieme per verificare l’identità del portatore. Da qui provengono gli ulteriori significati del “simbolo”: la prova dell’identità, le lettere credenziali e anche un trattato o contratto di cui il “symbolon” era la prova. Il passaggio da questo significato a quello di raccolta o sommario delle cose riferite e documentate era abbastanza naturale. Nel nostro caso i “simboli” significano la raccolta delle principali verità di fede, cioè di ciò in cui la Chiesa crede. Nella catechesi sistematica sono contenute le istruzioni su ciò in cui crede la Chiesa, cioè sui contenuti della fede cristiana. Di qui anche il fatto che i “simboli di fede” sono il primo e fondamentale punto di riferimento per la catechesi.
2. Tra i vari “simboli di fede” antichi, il più autorevole è il “simbolo apostolico”, di origine antichissima e comunemente recitato nelle “preghiere del cristiano”. In esso sono contenute le principali verità della fede trasmessa dagli apostoli di Gesù Cristo. Un altro simbolo antico famoso è quello “niceno-costantinopolitano”: esso contiene le stesse verità della fede apostolica autorevolmente delucidate nei primi due Concili ecumenici della Chiesa universale: Nicea (325) e Costantinopoli (381). L’usanza dei “simboli di fede” proclamati come frutto dei Concili della Chiesa si è rinnovata anche nel nostro secolo: infatti, dopo il Concilio Vaticano II, il papa Paolo VI pronunciò la “professione di fede” nota come il Credo del popolo di Dio (1968), che contiene l’insieme delle verità dalla fede della Chiesa con particolare considerazione di quei contenuti ai quali aveva dato espressione l’ultimo Concilio, o di quei punti intorno ai quali erano stati affacciati dei dubbi negli ultimi anni.
I simboli di fede sono il principale punto di riferimento per la presente catechesi. Essi, però, rinviano all’insieme del “deposito della parola di Dio”, costituito dalla Sacra Scrittura e dalla tradizione apostolica, essendone soltanto una sintesi concisa. Attraverso le professioni di fede ci proponiamo, perciò, di risalire pure noi a quell’immutabile “deposito”, sulla scorta dell’interpretazione che la Chiesa, assistita dallo Spirito, ne ha dato nel corso dei secoli.
3. Ognuno dei menzionati “simboli” inizia con la parola “credo”. Ognuno di essi infatti serve non tanto come istruzione ma come professione. I contenuti di questa professione sono le verità della fede cristiana: tutte sono radicate in questa prima parola “credo”. E proprio su questa espressione “credo” desideriamo concentrarci in questa prima catechesi.
L’espressione è presente nel linguaggio quotidiano, anche indipendentemente da ogni contenuto religioso, e specialmente da quello cristiano. “Ti credo” significa: mi fido di te, sono convinto che dici la verità. “Credo in ciò che tu dici” significa: sono convinto che il contenuto delle tue parole corrisponde alla realtà oggettiva.
In questo uso comune della parola “credo” si mettono in risalto alcuni elementi essenziali. “Credere” significa accettare e riconoscere come vero e corrispondente alla realtà il contenuto di ciò che vien detto, cioè delle parole di un’altra persona (o anche di più persone), a motivo della sua (o della loro) credibilità. Questa credibilità decide in un dato caso della particolare autorità della persona: l’autorità della verità. Così dunque dicendo “credo”, esprimiamo contemporaneamente un duplice riferimento: alla persona e alla verità; alla verità, in considerazione della persona che gode di particolari titoli di credibilità.
4. La parola “credo” appare molto spesso nelle pagine del Vangelo e di tutta la Sacra Scrittura. Sarebbe molto utile confrontare e analizzare tutti i punti dell’Antico e del Nuovo Testamento che ci permettono di cogliere il senso biblico del “credere”. Accanto al verbo “credere” troviamo anche il sostantivo “fede” come una delle espressioni centrali di tutta la Bibbia. Troviamo perfino un certo tipo di “definizioni” della fede, come per esempio: “la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” della Lettera agli Ebrei (Eb 11, 1).
Questi dati biblici sono stati studiati, spiegati, sviluppati dai Padri e dai teologi nell’arco di duemila anni di cristianesimo, come ci attesta l’enorme letteratura esegetica e dogmatica che abbiamo a disposizione. Come nei “simboli” così in tutta la teologia, il “credere”, la “fede” è una categoria fondamentale. È anche il punto di partenza della catechesi, come primo atto con cui si risponde alla rivelazione di Dio.
5. Nel presente incontro ci limiteremo a una sola fonte, che però riassume tutte le altre. Essa è la costituzione conciliare Dei Verbum del Vaticano II. Vi leggiamo quanto segue: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne nello Spirito Santo, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura . . . (cf. Ef 2, 18; 2 Pt 1, 4)” (Dei Verbum, 2).
“A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede (cf. Rm 16, 26; 1, 5; 2 Cor 10, 5-6), con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero liberamente prestandogli “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà” (Concilio Vaticano I, Dei Filius, 3) e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da lui” (Dei Verbum, 5).
In queste parole del documento conciliare è contenuta la risposta alla domanda: che cosa significa “credere”. La spiegazione è concisa, ma condensa una grande ricchezza di contenuto. Dovremo in seguito penetrare più ampiamente in questa spiegazione del Concilio, che ha una portata equivalente a quella di una definizione per così dire tecnica.
Una cosa è prima di tutto ovvia: esiste un genetico e organico legame tra il nostro “credo” cristiano e quella particolare “iniziativa” di Dio stesso, che si chiama “rivelazione”.
Perciò la catechesi sul “credo” (la fede) deve essere portata avanti insieme con quella sulla divina rivelazione. Logicamente e storicamente la rivelazione precede la fede. La fede è condizionata dalla rivelazione. Essa è la risposta dell’uomo alla divina rivelazione.
Diciamo fin d’ora che questa risposta è possibile e doveroso darla, perché Dio è credibile. Nessuno lo è come lui. Nessuno come lui possiede l’autorità della verità. In nessun caso come nella fede in Dio si attua il valore concettuale e semantico della parola così usuale nel linguaggio umano: “Credo”, “Ti credo”.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 13 marzo 1985]
La fede in Cristo
1. Guardando all'obiettivo primario del Giubileo, che è "il rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani" (Tertio millennio adveniente, 42), dopo aver delineato nelle precedenti catechesi i tratti fondamentali della salvezza offerta da Cristo, ci fermiamo oggi a riflettere sulla fede che egli si attende da noi.
A Dio che si rivela - insegna la Dei Verbum - è dovuta "l'obbedienza della fede" (n. 5). Dio si è rivelato nell'Antica Alleanza, domandando al popolo da lui scelto una fondamentale adesione di fede. Nella pienezza dei tempi, questa fede è chiamata a rinnovarsi e svilupparsi, per rispondere alla rivelazione del Figlio di Dio incarnato. Gesù la richiede espressamente, rivolgendosi ai discepoli nell'ultima Cena: "Avete fede in Dio; abbiate fede anche in me" (Gv 14,1).
2. Gesù aveva già chiesto al gruppo dei dodici Apostoli una professione di fede nella sua persona. Presso Cesarea di Filippo, dopo aver interrogato i discepoli sui pareri espressi dalla gente circa la sua identità, egli domanda: "Voi chi dite che io sia?" (Mt 16,15). La risposta viene da Simone: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (16,16).
Immediatamente Gesù conferma il valore di questa professione di fede, sottolineando che essa non procede semplicemente da un pensiero umano, ma da un'ispirazione celeste: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16,17). Queste espressioni di forte colore semitico designano la rivelazione totale, assoluta e suprema: quella che si riferisce alla persona del Cristo Figlio di Dio.
La professione di fede fatta da Pietro rimarrà espressione definitiva dell'identità di Cristo. Marco ne riprende i termini per introdurre il suo Vangelo (cfr Mc 1,1), Giovanni vi fa riferimento alla conclusione del suo, affermando di averlo scritto perché si creda "che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio", e perché, credendo, si possa avere la vita nel suo nome (cfr Gv 20,31).
3. In che cosa consiste la fede? La Costituzione Dei Verbum spiega che con essa "l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli 'il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà' e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui" (n. 5). La fede non è, dunque, solo adesione dell'intelligenza alla verità rivelata, ma anche ossequio della volontà e dono di sé a Dio che si rivela. E' un atteggiamento che impegna l'intera esistenza.
Il Concilio ricorda ancora che per la fede sono necessari "la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità" (ibid.). Si vede così come la fede, da una parte, fa accogliere la verità contenuta nella Rivelazione e proposta dal magistero di coloro che, come Pastori del Popolo di Dio, hanno ricevuto un "carisma certo di verità" (Dei Verbum, 8). D'altra parte, la fede spinge anche ad una vera e profonda coerenza, che deve esprimersi in tutti gli aspetti di una vita modellata su quella di Cristo.
4. Frutto com'è della grazia, la fede esercita un influsso sugli avvenimenti. Lo si vede mirabilmente nel caso esemplare della Vergine Santa. Nell'Annunciazione la sua adesione di fede al messaggio dell'angelo è decisiva per la stessa venuta di Gesù nel mondo. Maria è Madre di Cristo perché prima ha creduto in Lui.
Alle nozze di Cana Maria per la sua fede ottiene il miracolo. Dinanzi a una risposta di Gesù che sembrava poco favorevole, Ella mantiene un atteggiamento fiducioso, diventando così modello della fede audace e costante che supera gli ostacoli.
Audace e insistente fu anche la fede della cananea. A questa donna, venuta a chiedere la guarigione della figlia, Gesù aveva opposto il piano del Padre, che limitava la sua missione alle pecore perdute della casa d'Israele. La cananea rispose con tutta la forza della sua fede e ottenne il miracolo: "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28).
5. In molti altri casi il Vangelo testimonia la potenza della fede. Gesù esprime la sua ammirazione per la fede del centurione: "In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande" (Mt 8,10). E a Bartimeo dice: "Va', la tua fede ti ha salvato" (Mc 10,52). La stessa cosa ripete all'emorroissa (cfr Mc 5,34).
Le parole rivolte al padre dell'epilettico, che desiderava la guarigione del figlio, non sono meno impressionanti: "Tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,23).
Il ruolo della fede è di cooperare con questa onnipotenza. Gesù chiede tale cooperazione al punto che, tornando a Nazaret, non opera quasi nessun miracolo per il motivo che gli abitanti del suo villaggio non credevano in lui (cfr Mc 6,5-6). Ai fini della salvezza, la fede ha per Gesù un'importanza decisiva.
San Paolo svilupperà l'insegnamento di Cristo quando, in contrasto con quanti volevano fondare la speranza di salvezza sull'osservanza della legge giudaica, affermerà con forza che la fede in Cristo è la sola fonte di salvezza: "Noi riteniamo, infatti, che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge" (Rm 3,28). Non bisogna, tuttavia, dimenticare che san Paolo pensava a quella fede autentica e piena "che opera per mezzo della carità" (Gal 5,6). La vera fede è animata dall'amore verso Dio, che è inseparabile dall'amore verso i fratelli.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 18 marzo 1998]
La scena iniziale del Vangelo, nella Liturgia odierna (cfr Gv 6,24-35), ci presenta alcune barche in movimento verso Cafarnao: la folla sta andando a cercare Gesù. Potremmo pensare che sia una cosa molto buona, eppure il Vangelo ci insegna che non basta cercare Dio, bisogna anche chiedersi il motivo per cui lo si cerca. Infatti, Gesù afferma: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). La gente, infatti, aveva assistito al prodigio della moltiplicazione dei pani, ma non aveva colto il significato di quel gesto: si era fermata al miracolo esteriore, si era fermata al pane materiale: soltanto lì, senza andare oltre, al significato di questo.
Ecco allora una prima domanda che possiamo farci tutti noi: perché cerchiamo il Signore? Perché cerco io il Signore? Quali sono le motivazioni della mia fede, della nostra fede? Abbiamo bisogno di discernere questo, perché tra le tante tentazioni, che noi abbiamo nella vita, tra le tante tentazioni ce n’è una che potremmo chiamare tentazione idolatrica. È quella che ci spinge a cercare Dio a nostro uso e consumo, per risolvere i problemi, per avere grazie a Lui quello che da soli non riusciamo a ottenere, per interesse. Ma in questo modo la fede rimane superficiale e anche – mi permetto la parola – la fede rimane miracolistica: cerchiamo Dio per sfamarci e poi ci dimentichiamo di Lui quando siamo sazi. Al centro di questa fede immatura non c’è Dio, ci sono i nostri bisogni. Penso ai nostri interessi, tante cose… È giusto presentare al cuore di Dio le nostre necessità, ma il Signore, che agisce ben oltre le nostre attese, desidera vivere con noi anzitutto una relazione d’amore. E l’amore vero è disinteressato, è gratuito: non si ama per ricevere un favore in cambio! Questo è interesse; e tante volte nella vita noi siamo interessati.
Ci può aiutare una seconda domanda, quella che la folla rivolge a Gesù: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?» (v. 28). È come se la gente, provocata da Gesù, dicesse: “Come fare per purificare la nostra ricerca di Dio? Come passare da una fede magica, che pensa solo ai propri bisogni, alla fede che piace a Dio?”. E Gesù indica la strada: risponde che l’opera di Dio è accogliere Colui che il Padre ha mandato, cioè accogliere Lui stesso, Gesù. Non è aggiungere pratiche religiose o osservare speciali precetti; è accogliere Gesù, è accoglierlo nella vita, è vivere una storia d’amore con Gesù. Sarà Lui a purificare la nostra fede. Da soli non siamo in grado. Ma il Signore desidera con noi un rapporto d’amore: prima delle cose che riceviamo e facciamo, c’è Lui da amare. C’è una relazione con Lui che va oltre le logiche dell’interesse e del calcolo.
Questo vale nei riguardi di Dio, ma vale anche nelle nostre relazioni umane e sociali: quando cerchiamo soprattutto il soddisfacimento dei nostri bisogni, rischiamo di usare le persone e di strumentalizzare le situazioni per i nostri scopi. Quante volte abbiamo sentito da una persona: “Ma questa usa la gente e poi si dimentica”. Usare le persone per il proprio profitto: è brutto questo. E una società che mette al centro gli interessi invece delle persone è una società che non genera vita. L’invito del Vangelo è questo: piuttosto che essere preoccupati soltanto del pane materiale che ci sfama, accogliamo Gesù come il pane della vita e, a partire dalla nostra amicizia con Lui, impariamo ad amarci tra di noi. Con gratuità e senza calcoli. Amore gratuito e senza calcoli, senza usare la gente, con gratuità, con generosità, con magnanimità.
Preghiamo ora la Vergine Santa, Colei che ha vissuto la più bella storia d’amore con Dio, perché ci doni la grazia di aprirci all’incontro con il suo Figlio.
[Papa Francesco, Angelus 1 agosto 2021]
Mi ami? Ti voglio bene
(Gv 21,1-19)
Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.
Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.
La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo (Pietro). Qualcuno sta dentro e fuori (Tommaso), altri restano legati al passato (Natanaele), e non mancano i fanatici (i figli di Zebedeo); quindi gli anonimi, ossia tutti noi.
Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri decideranno spontaneamente (v.3).
Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta.
Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.
La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!
Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.
Richiamo per noi.
Quindi Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].
Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.
È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].
E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare chiunque.
Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e sa giustificare le resistenze all’Annuncio.
Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.
Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.
Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.
Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].
Dunque “nemico” di Dio è la ricerca della ‘vita media’. Pantano ove non ci si getta.
[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].
Adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.
Mi ami? Ti voglio bene
(Gv 21,15-19)
Gesù chiama Simone con l’attributo «di Giovanni» perché lo considera ancora spiritualmente allievo del Battista (!).
Malgrado le sue oscillazioni, il Signore lo rimette in piedi.
Anche con noi, il Figlio non si stanca di riproporre un Volto di Dio amabile e invitante, capace di stupire.
Ricordiamo infatti che l’apostolo capo era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9 con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].
Così, al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo è Gesù stesso che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».
L’amore umano attende un minimo di soddisfazione; non riesce a configurarsi in pura perdita. Aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.
Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.
‘Attendere’ è l’infinito del verbo amare, perché consente di ‘nascere’ ancora.
Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.
L’Amore divino recupera, aiuta a diventare un’altra persona - non rompe l’intesa.
La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni.
Anche attraverso le opere, dire «ti amo» è [purtroppo non di rado] una dichiarazione fatua.
O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.
È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia che tramuta la presunzione di sé in apostolato!
Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).
E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.
Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.
«Pascere» non è (appunto) dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).
Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta - poi si vedrà...
Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.
La pienezza del “risultato” è la Felicità di ogni singola persona reale - così com’è - non “come dovrebbe essere” secondo opinione.
Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?
Insomma, quale forza disumanizza l’uomo, invece di divinizzarlo?
‘Nemico’ di Dio non è l’incertezza, ma la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.
[3.a Domenica di Pasqua (C) 4 maggio 2025]
Collaboratori del grembiule, su una barchetta
Gv 21,1-19 (1-25)
Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 non riguarda la vicenda della Chiesa dopo la Pasqua, ma si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.
Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.
La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo [Pietro]. Qualcuno sta dentro e fuori [Tommaso], altri restano legati al passato [Natanaele], e non mancano i fanatici [i figli di Zebedeo]; quindi gli anonimi, ossia tutti noi.
Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri pur insubordinati decideranno spontaneamente (v.3), dilatando la loro vita.
Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta e non salva nessuno.
Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.
La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!
Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte verso una possibilità di respiro o stima di sé e vita piena, bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.
Richiamo per noi. Ogni cultura possiede molte qualità: si faccia leva su di esse, invece di approcciare donne e uomini, etnie o situazioni, evidenziando limiti e problemi.
Quindi il Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].
Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.
È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].
E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare tutti.
Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della notizia di Dio favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli di maniera.
Per la comunione con Dio e i fratelli, nel cammino della vita e nel senso di rinascita che vi si annida [ad es. dopo un dolore, i travagli, esperienze di rifiuto, pensieri di fallimento e morte...] Gesù aveva fatto emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno.
La sua proposta aveva soppiantato il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione, sostituite appunto con le nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro. Non: combattere, bensì accogliere. Non: obbedire, ma somigliare. E così via.
La chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di santi, ma di peccatori e indecisi. La vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.
È la risurrezione che ci manda fra gli uomini, appunto da rigenerare; proprio come noi. Quindi la condizione di apostolo non è sottoposta alla solita trafila dottrinale, moralistica, di costume, e religiosa; non tarda più ad essere assunta.
Malgrado il credere in sé rimanga fragile, facciamo di continuo esperienza di risuscitazione dalle nostre macerie - risollevando o nel migliore dei casi rigenerando l’intero organismo dello spirito, e l’universo interiore.
Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e in tal guisa sa giustificare le resistenze all’Annuncio.
Infatti è nel recupero dei lati opposti e nella sinergia delle contraddizioni che siamo diventati - nel proprio - esperti della difficoltà. Più in grado di cogliere i disagi; perfino il sentimento di sentirsi svuotati, che presto o tardi darà spazio al capovolgimento; inedito felice.
Poi abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni: l’intuirsi travolti - persino nelle idee. E la necessità di cogliere e perderci nei dolori, assurdi o insopportabili. Lati dignitosi; volti di noi stessi.
Insomma, al fine di una realizzazione vocazionale, ciascuno è già “perfetto”.
Nel suo portato di energie difformi, deve solo imparare a incontrare i rilievi di sé cui ancora non ha fatto largo.
Come se dentro di noi avessimo una molteplicità di aspetti, spesso tutti da scoprire, dietro un qualche guscio che resiste - i quali ci completano e guidano infallibilmente alla fioritura personale e sociale.
Così nell’esodo passiamo dall’esperienza di morte-risurrezione alla vera testimonianza - nella spontanea franchezza di venire abilitati come evangelizzatori.
Cosa che ci sorprende. Ma adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.
Diventa Richiamo di pace, però esplosivo - incredibile, e lo si vede più dai limiti (ora nulla da temere) che dall’abilità, o dallo stile esterno, dalla capacità di allestire cattedre sentenziose, nonché vetrine.
Dopo Cristo non bisogna più “migliorare” secondo accezione comune - né attesa, o proposito, che guardino e si abbeverino alla fonte del già detto da altri [in passato, o per la moda] che poi ricolloca nella medesima situazione prevedibile di sempre.
Per i malfermi apostoli, il consenso, la religione antica o glamour, l’identificazione, erano la negazione di se stessi nel cuore.
Viceversa la Chiamata per Nome diveniva lo sviluppo di ciò che ognuno era nel profondo e che non si era dato, manipolandosi.
Strada della realizzazione di sé, anche nel contributo ai fratelli. Anch’essi non intimamente dissociati.
Unica arma convincente, la genuinità - che arde dentro per farci santuari, inconsapevoli e incompleti ma viventi.
Contemplativi e in azione. Sola via per incontrare le anime.
Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.
Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.
Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.
Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo a capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].
Al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo con lo stesso Simone - «di Giovanni» perché ancora spiritualmente allievo del Battista (!) - è Gesù che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».
L’amore umano attende un minimo di soddisfazione, non riesce a configurarsi in pura perdita - aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.
Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.
‘Attendere’ è l’infinito del verbo ‘amare’, perché consente di nascere ancora.
Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.
L’Amore divino recupera; aiuta a diventare un’altra ‘persona’, a tutto tondo - non rompe l’intesa.
La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni: anche attraverso le opere, dire «ti amo» è (purtroppo non di rado) una dichiarazione fatua.
O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.
È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia, che tramuta la presunzione di sé in apostolato!
Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).
E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.
Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.
«Pascere» non è [appunto] dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).
Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta, poi si vedrà.
Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.
La pienezza del ‘risultato’ è la Felicità di ogni singola persona reale - così com’è - non come “dovrebbe essere” secondo opinione acclarata.
Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?
Dunque “nemico” di Dio non è l’incertezza o il peccato - ossessione che genera squilibrati - bensì la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.
[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Sei un inviato o un semplice ammiratore?
Qual è la tua personale Sorgente?
Qual è la Fonte delle tue relazioni?
E la radice della fedeltà e di ogni generosità che ti trascina, e mostri?
Amore totale e non
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.
In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).
Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.
(Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006)
L’unicità del Seme e la personalizzazione del Vangelo
(Gv 21,20-25)
Ancora una volta nel quarto Vangelo si fronteggiano il passo e il carattere petrino (incerto) con quello del discepolo amato dal Signore.
In lui anche noi siamo chiamati a una personalità sciolta e liberale (più tipica delle comunità giovannee dell’Asia Minore) che rifletta un animo meno rigido e profeticamente superiore rispetto alla chiesa apostolica ufficiale - ancora giudaizzante.
I primi cristiani attendevano imminente la cosiddetta seconda Venuta del Signore.
Alcune chiese, di fronte al decesso dei seguaci, iniziarono a immaginare che almeno alcuni di loro sarebbero sopravvissuti fino alla Parusia del Cristo.
Col passare del tempo e la morte non solo degli apostoli, ma anche dei discepoli di seconda e terza generazione, sorgevano dissidi sulle precedenze e l’interpretazione delle Scritture.
Tutto ciò, malgrado Gv abbia insistito sia sulla Presenza sempre attuale del Risorto (e storicità della Vita dell’Eterno) sia sull’attualità delle realtà ultime e del Giudizio. Viceversa, permaneva diffusa l’idea del loro carattere di futurità.
La morte dello stesso evangelista scosse non poco le comunità, sconcertando molti fedeli che immaginavano quel discepolo dovesse - almeno lui - essere presente al cosiddetto «Ritorno» (termine che nei Vangeli - in lingua originale - non esiste).
Questo il motivo dell’aggiunta di una seconda conclusione a Gv 20,30-31: ciò che designiamo «capitolo 21» - opera di scuola giovannea, che tenta di chiarire la Vicinanza del Signore, il senso delle «Manifestazioni» del Risorto, il servizio dell’autorità, la testimonianza del “discepolo amato”.
La pienezza di Dio traspare dall’intera Chiesa, se genuina. Le Vocazioni sono diverse. Nessuna in sé sufficiente.
Ciascuno sente l’Appello a portare avanti la propria Chiamata per Nome secondo carattere: passo dopo passo, ma senza arenarsi nei confronti.
L’opinione, la vicenda o curiosità altrui è un veleno per la Missione.
Attenzione dunque alle dicerie e all’opinione diffusa sul territorio, soprattutto in situazioni di monopolio culturale (come ancora in Italia): porterebbe all’omologazione, alla “vita media” e collasso.
Bando ai paragoni: «Me, segui» (v.22 testo greco) significa aderire a un Cielo che abita ciascun figlio (in comunione, non in branco).
A ogni energia, storia e sensibilità corrisponde un modo irripetibile di essere discepoli. Nessuno è modello superiore o viceversa destinato a facsimile: l’amore erompe in modo personale, sempre libero e inedito.
La via della sequela additata e il rimanere o trattenere indeterminato sono caratteristiche o polarità correlative e plasmabili, dalle quali sorgono risposte inattese a questioni vere, e la Novità di Dio.
Differenze e legami si ricompongono nello Spirito, che sa dove andare - chiamando ogni personalità singolare a dimensioni d’esistenza raccolta o estroversa… nella propria radice.
Chi è spinto più all’azione (o riflessione) non deve indugiare, né volgersi indietro; piuttosto, immergersi. Ciascuno è nel punto giusto. Non deve smarrire la strada unica.
Nel mio giardino ho dei pini grossi che danno ombra, ma uno di essi all’improvviso è seccato irreparabilmente. Sembrava chissà cosa, in un attimo è precipitato; da non credere. Succede anche nella vita religiosa.
Fra la mia erba campagnola noto fiorire - senza mai averle curate - diverse pianticelle che prive d’artificio scacciano gli insetti, offrendo al terreno una trama variegata e uno spettacolo cromatico delicato.
Se imponessi al sottobosco di crescere per dare ombra, si ammalerebbe, e il tutto non diventerebbe neanche un rovo: un intreccio innaturale di disagi (imposti di testa mia) che mai sfumerebbero.
A ogni seme corrisponde un suo sviluppo e una propria unicità, anche in rapporto con la situazione differente a contorno (alla luce o meno). Insomma, l’amore autentico ha fondamenta irripetibili, personali, inedite.
Si narra che s. Antonio Abate si arrovellasse sul Giudizio finale (chi si salva e chi no?). La risposta gli venne perentoria: «Antonio, bada a te stesso!» - a dire che l’interesse per le inclinazioni e preferenze altrui è ambiguo. Non sempre buono; talora inutile. Spesso funesto e letale.
Se a qualcuno è proposta in dono una vocazione di carità speciale - persino di sangue - ad altri è riservato un diverso genere di testimonianza irripetibile; es. martirio sapienziale o critico (degli osteggiati e pionieri).
Anche nella vita ecclesiale, invece di perdere il carattere della propria Chiamata per Nome (lasciandosi travolgere dalla prepotenza di forze in campo), viene spontaneo annunciare un altro regno rispetto a quello del pensiero unico, del consenso, dei furbetti del quartierino. Non c’entrano con la Vocazione.
Non dobbiamo distrarci dal nostro scopo naturale e spirituale innato. Il mistero che avvolge Cristo dispiegato nel suo Popolo è inesauribile, e anche noi siamo chiamati in prima persona a scrivere senza timori un caratteristico Vangelo (v.25; cf. Gv 20,29-30).
La differenza tra religiosità e Fede? Non siamo fotocopie d’una condotta persistente, ma inventori e battistrada. Cristo vuol essere reinterpretato in prima persona e nella convivialità delle differenze.
A ciascuno il Maestro riconosce un suo agire.
Invece spesso ci sediamo in armature esterne, e forse misuriamo anche il progetto di vita e il Mistero dei fratelli con la stessa miopia di programmi commisurati.
Dio si riserva appunto d’indicarlo Lui a ciascuno.
Poi, anche le “stabilità” sono parziali, attendono un compimento: chi scommette sulla Via della Fede sa di doversi allontanare dallo spirito di unilateralità. (Lo stesso vigore del cammino chiede la sosta quieta e il convergere. Anche il “restare” lancia infine una sua energia tranquilla proprio alle iniziative...).
I modi della sequela che risuonano in fondo all’anima sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita».
(Tradizione orale africana Peul)
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale Vangelo senti di dover scrivere con la tua vita?
Abbiamo riascoltato queste parole di Gesù nel brano evangelico appena proclamato. Esse sono inserite nel racconto della terza apparizione del Risorto ai discepoli presso le rive del mare di Tiberiade, che narra la pesca miracolosa. Dopo lo "scandalo" della Croce essi erano tornati alla loro terra e al loro lavoro di pescatori, cioè a quelle attività che svolgevano prima di incontrare Gesù. Erano tornati alla vita di prima e questo fa intendere il clima di dispersione e di smarrimento che regnava nella loro comunità (cfr Mc 14, 27; Mt 26, 31). Era difficile per i discepoli comprendere ciò che era avvenuto. Ma, mentre tutto sembrava finito, di nuovo, come sulla via di Emmaus, è ancora Gesù a venire verso i suoi amici. Stavolta li incontra sul mare, luogo che richiama alla mente le difficoltà e le tribolazioni della vita; li incontra sul far del mattino, dopo un'inutile fatica durata l'intera notte. La loro rete è vuota. In certo modo, ciò appare come il bilancio della loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, gli erano stati accanto, ed Egli aveva loro promesso tante cose. Eppure ora si ritrovavano con la rete vuota di pesci.
Ma ecco che all'alba Gesù va loro incontro; essi però non lo riconoscono subito (cfr v. 4). L'"alba" nella Bibbia indica spesso il momento di interventi straordinari di Dio. Nel Libro dell'Esodo, ad esempio, "alla veglia del mattino" il Signore interviene "dalla colonna di fuoco e di nube" per salvare il suo popolo in fuga dall'Egitto (cfr Es 14, 24). Ed ancora, è sul far del giorno che Maria Maddalena e le altre donne accorse al sepolcro incontrano il Signore risorto. Anche nel brano evangelico che stiamo meditando è ormai passata la notte e ai discepoli provati dalla fatica, delusi per non aver pescato nulla, il Signore dice: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete!" (v. 6). Normalmente i pesci cadono nella rete durante la notte, quando è buio, e non di mattina, quando l'acqua è ormai trasparente. I discepoli però si fidarono di Gesù e il risultato fu una pesca miracolosamente abbondante, tanto che non riuscivano più a tirare su la rete per la grande quantità di pesci raccolti (cfr v. 6). A questo punto Giovanni, illuminato dall'amore, si rivolge a Pietro e dice: "È il Signore!" (v. 7). Lo sguardo perspicace del discepolo che Gesù amava - icona del credente - riconosce il Maestro presente sulla riva del lago. "È il Signore!": questa sua spontanea professione di fede è anche per noi un invito a proclamare che Cristo risorto è il Signore della nostra vita.
Cari fratelli e sorelle, possa questa sera la Chiesa che è in Vigevano ripetere con l'entusiasmo di Giovanni: Gesù Cristo "è il Signore!". E possa la vostra Comunità diocesana ascoltare il Signore che, per bocca mia, vi ripete: "Getta la rete, Chiesa di Vigevano, e troverai!". Sono venuto infatti tra voi soprattutto per incoraggiarvi ad essere ardimentosi testimoni di Cristo. È la fiduciosa adesione alla sua parola che renderà fruttuosi i vostri sforzi pastorali. Quando il lavoro nella vigna del Signore sembra risultare vano, come la fatica notturna degli Apostoli, non bisogna dimenticare che Gesù è in grado di ribaltare tutto in un momento. La pagina evangelica, che abbiamo ascoltato, ci ricorda, da una parte, che dobbiamo impegnarci nelle attività pastorali come se il risultato dipendesse totalmente dai nostri sforzi. Dall'altra, ci fa comprendere, però, che il vero successo della nostra missione totalmente è dono della Grazia. Nei misteriosi disegni della sua sapienza, Dio sa quando è il tempo di intervenire. Ed allora, come la docile adesione alla parola del Signore fece sì che si riempisse la rete dei discepoli, così in ogni tempo, anche nostro, lo Spirito del Signore può rendere efficace la missione della Chiesa nel mondo […]
Vi sia di costante guida questa parola del Signore: "Tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13, 35). Portare i pesi gli uni degli altri, condividere, collaborare, sentirsi corresponsabili è lo spirito che deve costantemente animare la vostra Comunità. Questo stile di comunione esige il contributo di tutti: del Vescovo e dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, dei fedeli laici, delle associazioni e dei vari gruppi di impegno apostolico. Le singole parrocchie, come tessere di un mosaico, in piena sintonia tra loro, formeranno una Chiesa particolare viva, organicamente inserita nell'intero Popolo di Dio […]
"Gettate la rete... e troverete!". Questo comando di Gesù è stato docilmente accolto dai santi e la loro esistenza ha sperimentato il miracolo di una pesca spirituale abbondante. […] Rispecchiatevi in questi modelli, che rendono manifesta l'azione della Grazia e sono per il Popolo di Dio un incoraggiamento a seguire Cristo sul sentiero esigente della santità.
(Papa Benedetto, omelia Vigevano 21 aprile 2007)
1. "Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva" (Gv 21,4). Sul far del mattino, il Risorto apparve agli Apostoli, reduci da una nottata di vano lavoro sul Lago di Tiberiade. L'evangelista precisa che in quella notte "non presero nulla" (Gv 21,3), e aggiunge che niente avevano da mangiare. All'invito di Gesù: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete" (Gv 21,6) essi ubbidirono senza esitare. Pronta fu la loro risposta e grande la ricompensa, perché quella rete, rimasta vuota la notte, poi "non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci" (Gv 21,6).
Come non vedere in questo episodio, che san Giovanni riferisce nell'epilogo del suo Vangelo, un segno eloquente di ciò che il Signore continua a compiere nella Chiesa e nel cuore dei credenti, che confidano senza riserve in Lui?
2. "Quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore!"" (Gv 21, 7). Nel Vangelo abbiamo ascoltato, dinanzi al miracolo compiuto, un discepolo riconoscere Gesù. Anche gli altri lo faranno in seguito. Il passaggio evangelico, nel presentarci Gesù che "si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro" (Gv 21, 13), ci indica come e quando possiamo incontrare Cristo risorto: nell'Eucaristia, dove Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino. Sarebbe triste se questa presenza amorosa del Salvatore, dopo tanto tempo, fosse ancora disconosciuta dall'umanità.
3. "E nessuno dei discepoli osava domandargli: "Chi sei?", poiché sapevano bene che era il Signore" (Gv 21, 12). Quando i discepoli lo riconoscono sulle rive del lago di Tiberiade, si rafforza la loro fede nel fatto che Cristo è risorto ed è presente in mezzo ai suoi. La Chiesa, da millenni, non si stanca di annunciare e di ripetere questa verità fondamentale della fede.
6. "Signore, tu lo sai che ti amo" (Gv 21,15; cfr vv. 16.17).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 29 aprile 2001]
1. La promessa fatta da Gesù a Simon Pietro, di costituirlo pietra fondamentale della sua Chiesa, ha riscontro nel mandato che il Cristo gli affida dopo la risurrezione: “Pasci i miei agnelli”, “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21, 15-17). Vi è un oggettivo rapporto tra il conferimento della missione attestato dal racconto di Giovanni, e la promessa riferita da Matteo (cf. Mt 16, 18-19). Nel testo di Matteo vi era un annuncio. In quello di Giovanni vi è l’adempimento dell’annuncio. Le parole: “Pasci le mie pecorelle” manifestano l’intenzione di Gesù di assicurare il futuro della Chiesa da lui fondata, sotto la guida di un pastore universale, ossia Pietro, al quale egli ha detto che, per sua grazia, sarà “pietra” e che avrà le “chiavi del regno dei cieli”, col potere “di legare e di sciogliere”. Gesù, dopo la risurrezione, dà una forma concreta all’annuncio e alla promessa di Cesarea di Filippo, istituendo l’autorità di Pietro come ministero pastorale della Chiesa, a raggio universale.
2. Diciamo subito che in tale missione pastorale s’integra il compito di “confermare i fratelli” nella fede, di cui abbiamo trattato nella precedente catechesi. “Confermare i fratelli” e “pascere le pecore” costituiscono congiuntamente la missione di Pietro: si direbbe il proprium del suo ministero universale. Come afferma il Concilio Vaticano I, la costante tradizione della Chiesa ha giustamente ritenuto che il primato apostolico di Pietro “comprende pure la suprema potestà di magistero” (cf. Denz.-S. 3065). Sia il primato che la potestà di magistero sono conferiti direttamente da Gesù a Pietro come persona singolare, anche se ambedue le prerogative sono ordinate alla Chiesa, senza però derivare dalla Chiesa, ma solo da Cristo. Il primato è dato a Pietro (cf. Mt 16, 18) come - l’espressione è di Agostino - “totius Ecclesiae figuram gerenti” (Epist., 53,1.2), ossia in quanto egli personalmente rappresenta la Chiesa intera; e il compito e potere di magistero gli è conferito come fede confermata perché sia confermante per tutti i “fratelli” (cf. Lc 22, 31 s). Ma tutto è nella Chiesa e per la Chiesa, di cui Pietro è fondamento, clavigero e pastore nella sua struttura visibile, in nome e per mandato di Cristo.
3. Gesù aveva preannunciato questa missione a Pietro non solo a Cesarea di Filippo, ma anche nella prima pesca miracolosa, quando, a Simone che si riconosceva peccatore, aveva detto: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 10). In tale circostanza, Gesù aveva riservato a Pietro personalmente questo annuncio, distinguendolo dai suoi compagni e soci, tra i quali i “figli di Zebedeo”, Giacomo e Giovanni (cf. Lc 5, 10). Anche nella seconda pesca miracolosa, dopo la risurrezione, emerge la persona di Pietro in mezzo agli altri Apostoli, secondo la descrizione dell’avvenimento fatta da Giovanni (Gv 21, 2 ss), quasi a tramandarne il ricordo nel quadro di una simbologia profetica della fecondità della missione affidata da Cristo a quei pescatori.
4. Quando Gesù sta per conferire la missione a Pietro, si rivolge a lui con un appellativo ufficiale: “Simone, figlio di Giovanni” (Gv 21, 15), ma assume poi un tono familiare e d’amicizia: “Mi ami tu più di costoro?”. Questa domanda esprime un interesse per la persona di Simon Pietro e sta in rapporto con la sua elezione per una missione personale. Gesù la formula a tre riprese, non senza un implicito riferimento al triplice rinnegamento. E Pietro dà una risposta che non è fondata sulla fiducia nelle proprie forze e capacità personali, sui propri meriti. Ormai sa bene che deve riporre tutta la sua fiducia soltanto in Cristo: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo” (Gv 21, 17). Evidentemente il compito di pastore richiede un amore particolare verso Cristo. Ma è lui, è Dio che dà tutto, anche la capacità di rispondere alla vocazione, di adempiere la propria missione. Sì, bisogna dire che “tutto è grazia”, specialmente a quel livello!
5. E avuta la risposta desiderata, Gesù conferisce a Simon Pietro la missione pastorale: “Pasci i miei agnelli”; “Pasci le mie pecorelle”. È come un prolungamento della missione di Gesù, che ha detto di sé: “Io sono il buon Pastore” (Gv 10, 11). Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli . . . le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro. Gli appartengono come a “buon Pastore”, che “offre la vita per le sue pecore” (Gv 10, 11). Pietro deve assumersi il ministero pastorale nei riguardi degli uomini redenti “con il sangue prezioso di Cristo” (1 Pt 1, 19). Sul rapporto tra Cristo e gli uomini, diventati sua proprietà mediante la redenzione, si fonda il carattere di servizio che contrassegna il potere annesso alla missione conferita a Pietro: servizio a Colui che solo è “pastore e guardiano delle nostre anime” (1 Pt 2, 25), e nello stesso tempo a tutti coloro che Cristo-buon Pastore ha redento a prezzo del sacrificio della croce. È chiaro, peraltro, il contenuto di tale servizio: come il pastore guida le pecore verso i luoghi in cui possono trovare cibo e sicurezza, così il pastore delle anime deve offrir loro il cibo della parola di Dio e della sua santa volontà (cf. Gv 4, 34), assicurando l’unità del gregge e difendendolo da ogni ostile incursione.
6. Certo, la missione comporta un potere, ma per Pietro - e per i suoi successori - è una potestà ordinata al servizio, a un servizio specifico, un ministerium. Pietro la riceve nella comunità dei Dodici. Egli è uno della comunità degli Apostoli. Ma non c’è dubbio che Gesù, sia mediante l’annuncio (cf. Mt 16, 18-19), sia mediante il conferimento della missione dopo la sua risurrezione, riferisce in modo particolare a Pietro quanto trasmette a tutti gli Apostoli, come missione e come potere. Solo a lui Gesù dice: “Pasci”, ripetendoglielo tre volte. Ne deriva che, nell’ambito del comune compito dei Dodici, si delineano per Pietro una missione e un potere, che toccano soltanto a lui.
7. Gesù si rivolge a Pietro come a persona singola in mezzo ai Dodici, non soltanto come a un rappresentante di questi Dodici: “Mi ami tu più di costoro?” (Gv 21, 15). A questo soggetto - il tu di Pietro - è chiesta la dichiarazione d’amore ed è conferita questa missione e autorità singolare. Pietro è dunque distinto tra gli altri Apostoli. Anche la triplice ripetizione della domanda sull’amore di Pietro, probabilmente in rapporto con il suo triplice rinnegamento di Cristo, accentua il fatto del conferimento a lui di un particolare ministerium, come decisione di Cristo stesso, indipendentemente da qualunque qualità o merito dell’Apostolo, e anzi nonostante la sua momentanea infedeltà.
8. La comunione nella missione messianica, stabilita da Gesù con Pietro mediante quel mandato: “Pasci i miei agnelli . . .”, non può non comportare una partecipazione dell’Apostolo-Pastore allo stato sacrificale di Cristo-buon Pastore “che offre la vita per le sue pecore”. Questa è la chiave di interpretazione di molte vicende, che si ritrovano nella storia del pontificato dei successori di Pietro. Su tutto l’arco di questa storia aleggia quella predizione di Gesù: “Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18). Era la predizione della conferma che Pietro avrebbe dato al suo ministero pastorale con la morte per martirio. Come dice Giovanni, con tale morte Pietro “avrebbe glorificato Dio” (Gv 21, 19). Il servizio pastorale, affidato a Pietro nella Chiesa, avrebbe avuto la sua consumazione nella partecipazione al sacrificio della croce, offerto da Cristo per la redenzione del mondo. La croce, che aveva redento Pietro, sarebbe così diventata per lui il mezzo privilegiato per esercitare fino in fondo il suo compito di “Servo dei servi di Dio”.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 9 dicembre 1992]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)
Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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