Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Ci sono cristiani che hanno «una certa allergia per i predicatori della parola»: accettano «la verità della rivelazione» ma non «il predicatore», preferendo «una vita ingabbiata». È accaduto ai tempi di Gesù e purtroppo continua ad accadere ancora oggi in coloro che vivono chiusi in se stessi, perché hanno paura della libertà che viene dallo Spirito Santo.
È questo per Papa Francesco l’insegnamento che viene dalle letture della liturgia celebrata venerdì mattina, 13 dicembre, nella cappella di Santa Marta. Il Pontefice si è soffermato soprattutto sul brano del vangelo di Matteo (11, 16-19) in cui Gesù paragona la generazione dei suoi contemporanei «a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto».
In proposito il vescovo di Roma ha ricordato che Cristo nei Vangeli «parla sempre bene dei bambini», offrendoli come «modello della vita cristiana» e invitando a «essere come loro per entrare nel regno dei cieli». Invece — ha fatto notare — nel brano in questione «è l’unica volta che non parla tanto bene di loro». Per il Papa si tratta di un’immagine di fanciulli «un po’ speciali: maleducati, malcontenti, screanzati pure»; bambini che non sanno essere felici mentre giocano e che «rifiutano sempre l’invito degli altri: nessuna cosa va loro bene». In particolare Gesù usa questa immagine per descrivere «i dirigenti del suo popolo», definiti dal Pontefice «gente che non era aperta alla parola di Dio».
Per il Santo Padre c’è un aspetto interessante in questo atteggiamento: il loro rifiuto, appunto, «non è per il messaggio, è per il messaggero». Basta proseguire nella lettura del brano evangelico per averne conferma. «È venuto Giovanni, che non mangia e non beve — ha fatto notare il Papa — e hanno detto: ha un demonio. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori». In pratica, da sempre gli uomini trovano motivi per delegittimare il predicatore. Basti pensare alla gente di quel tempo, che preferiva «rifugiarsi in una religione un po’ elaborata: nei precetti morali, come i farisei; nel compromesso politico, come i sadducei; nella rivoluzione sociale, come gli zeloti; nella spiritualità gnostica, come gli esseni». Tutti, ha aggiunto, «con il loro sistema ben pulito, ben fatto», ma che non accetta «il predicatore». Ecco perché Gesù rinfresca loro la memoria ricordando i profeti, che sono stati perseguitati e uccisi.
Accettare «la verità della rivelazione» e non «il predicatore» rivela per il Pontefice una mentalità frutto di «una vita ingabbiata nei precetti, nei compromessi, nei piani rivoluzionari, nella spiritualità senza carne». Papa Francesco ha fatto riferimento in particolare a quei cristiani «che si permettono di non ballare quando il predicatore ti dà una bella notizia di gioia, e si permettono di non piangere quando il predicatore ti dà una notizia triste». A quei cristiani, cioè, «che sono chiusi, ingabbiati, che non sono liberi». E il motivo è la «paura della libertà dello Spirito Santo, che viene tramite la predicazione».
Del resto, «questo è lo scandalo della predicazione del quale parlava san Paolo; lo scandalo della predicazione che finisce nello scandalo della croce». Infatti «scandalizza che Dio ci parli tramite uomini con limiti, uomini peccatori; e scandalizza di più che Dio ci parli e ci salvi tramite un uomo che dice di essere il figlio di Dio, ma finisce come un criminale». Così per Papa Francesco si finisce per coprire «la libertà che viene dallo Spirito Santo», perché in ultima analisi «questi cristiani tristi non credono nello Spirito Santo; non credono in quella libertà che viene dalla predicazione, che ti ammonisce, ti insegna, ti schiaffeggia pure, ma è proprio la libertà che fa crescere la Chiesa».
Dunque l’immagine del Vangelo, con «i bambini che hanno paura di ballare, di piangere», che hanno «paura di tutto, che chiedono sicurezza in tutto», fa pensare «a questi cristiani tristi, che criticano sempre i predicatori della verità, perché hanno paura di aprire la porta allo Spirito Santo». Da qui l’esortazione del Pontefice a pregare per loro e a pregare anche per noi stessi, affinché «non diventiamo cristiani tristi», di quelli che tolgono «allo Spirito Santo la libertà di venire a noi tramite lo scandalo della predicazione».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 14/12/2013]
Il grande Battezzatore, più piccino del Minimo
(Mt 11,11-15)
Nell’arco della storia della Redenzione il Battista è stato un crocevia di proposte radicali, inattese, dirimenti.
Ma non ha rivelato - come il Figlio - la profondità del cuore del Padre.
Credeva che l’opera dei nuovi profeti dovesse fare giustizia immediata (sommaria...).
Sognava di poter recuperare l’incontaminatezza e la forza antiche, rabberciando gl’ingredienti della religione dei padri.
Tutto, purificando e aggiornando il gran Tempio - non soppiantandolo nella sua configurazione giuridico-teologica.
Secondo Gesù invece, essa permaneva radicalmente deviante, perché incline alla forza e incapace di valorizzare fragilità e insicurezze.
Il Dio delle credenze arcaiche disdegnava le contraddizioni. Veniva a sentenziare e castigare secondo un freddo codice, tanto ideale quanto distante da ciascuno [anche dei suoi stessi credenti].
Ma un Altissimo sovrano che non ha cura delle persone deboli o delle cose che non piacciono, non sembra amabile.
Le continue mortificazioni delle eccentricità che renderebbero fantastici, demotivano.
Chiusi nelle armature che non ci appartengono, diventiamo arcigni, nemici della vita, invece che eccezionali, unici, rigogliosi.
Per questo Gesù annuncia la novità di un Regno da «accogliere».
Non da allestire con sudori e preparare con sforzo, secondo dettati culturali, legalisti, esterni, ma appunto da ospitare e includere; perché spiazza, travalica, sbalordisce.
In tal senso Giovanni è inferiore a qualsiasi ultimo degli ultimi e senza peso (v.11) che si presenta alla soglia delle comunità, per godere della vita fraterna.
Anche l’idea del Battezzatore circa il Messia non era quella del Cristo disposto ad abbracciare, recuperare, valorizzare e prediligere persino i senza voce, o i lontani considerati impuri.
Il nostro Maestro e Fratello è propugnatore di opere di sola vita con pienezza di Felicità (vv.2-6), non di mortificazione o accusa.
Per Gesù i mikròi (v.11) - ossia i minimi, estranei e pitocchi - portano in cuore e nel Regno il germe della novità dei cieli squarciati per sempre.
Malgrado abbiano scarsa energia, essi recano la colomba di pace [Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22].
Icona di una energia non più aggressiva, sebbene la subiscano (v.12) [cf. Lc 16,16].
E come sottolineava Paolo VI, a prezzo di uno stile figliale, aperto al ripensamento di sé, crocifiggente - nella virtù intima del rovesciamento [Evangelii Nuntiandi 10].
L’uomo di Fede non sarà mai un prevaricatore bellicoso.
Per questo alla personalità distinta del grande e celebre Santo del deserto e del Giordano, il Figlio di Dio può anteporre un qualsiasi inesperto, nuovo, claudicante, peccatore, reso libero perché rigenerato.
Questa la nuova era, dove più nessuno è additato e sotto assedio.
Gli stati creativi di qualsiasi ‘infante’ - fuori dal giro, ma sensibile - sono accolti e risvegliati, invece che tirati da una parte e messi a tacere.
L’autentico motore della storia è in una dedita ma aperta e tranquilla potenza spontanea, naturale, innata.
Sia nei rovesci (anche epocali) che nella ricerca dello sviluppo umano integrale, o nell’incessante ricerca della pace, tale attitudine battesimale sa riprendere da zero.
Scioglie i veri nodi, non decurta spazio all’esistenza, non impoverisce le cose.
[Giovedì 2.a sett. Avvento, 12 dicembre 2024]
E perché Elia
(Mt 11,11-15)
S. Agostino affermava: «In Vetere Testamento Nuvum latet, in Novo Testamento Vetus patet». Ma a un diverso livello.
È vero che il messaggio del secondo Patto sorge dall’humus del primo, così come il nuovo rivela il senso ed è culmine dell’antico.
È anche accertato che nell’arco della storia della Redenzione il Battista sia stato un crocevia di proposte radicali, inattese, dirimenti.
Aveva rifiutato di far parte della classe sacerdotale, corrotta e refrattaria alle novità dello Spirito.
Predicava la giustizia sociale, nonché il perdono dei peccati fuori del Tempio - grazie a un cambiamento di mentalità che si dispiegasse nella vita reale.
Già secondo Giovanni, fattore di salvezza non poteva essere un rito formale, bensì la conversione concreta e di relazione: ad es. il non pensare più solo a se stessi.
Ma non ha rivelato - come il Figlio - la profondità del cuore del Padre.
Credeva che l’opera dei nuovi profeti dovesse fare giustizia immediata (sommaria...).
Sognava di poter recuperare l’incontaminatezza e la forza antiche, rabberciando gl’ingredienti della religione dei padri; insomma, di tornare alle origini.
Tutto, purificando e aggiornando il gran Tempio - non soppiantandolo nella sua configurazione giuridico-teologica.
Secondo Gesù invece, essa permaneva radicalmente deviante, perché incline alla forza e incapace di valorizzare fragilità e insicurezze.
Il Dio delle credenze arcaiche disdegnava le contraddizioni. Veniva a sentenziare e castigare secondo un freddo codice, tanto ideale quanto distante da ciascuno [anche dei suoi stessi credenti].
Ma un Altissimo sovrano che non ha cura delle persone deboli o delle cose che non piacciono, non sembra amabile: innesca e accentua i meccanismi settari della devozione competitiva, ansiogena, avvilente.
E il problema «Dove trovo la fiducia?» non ha riscontro; non si sposta di un millimetro.
Ebbene, non possiamo trarre energia da un’impostazione severa, purista, forzata e sterilizzante; contraria alla fioritura della nostra preziosa unicità.
Le continue mortificazioni delle eccentricità che renderebbero fantastici, demotivano.
Chiusi nelle armature che non ci appartengono, diventiamo arcigni, nemici della vita, invece che eccezionali, unici, rigogliosi.
Per questo Gesù annuncia la novità di un Regno da «accogliere».
Non da allestire con sudori e preparare con sforzo, secondo dettati culturali, legalisti, esterni, ma appunto da ospitare e includere; perché spiazza, travalica, sbalordisce.
Gli occhi nuovi per scoprire il senso di tutto un cammino sono trasmessi solo da colui che è Amico.
E Cristo lo fa non quando ci collochiamo bene o attrezziamo forte - permanendo in atteggiamento dirigista - bensì nell’ascolto totale (v.15).
In tal senso Giovanni è inferiore a qualsiasi ultimo degli ultimi e senza peso (v.11) che si presenta alla soglia delle comunità.
Costui vuol godere della vita fraterna, e apprendere come interiorizzare il passaggio dal senso religioso alla Fede, alla fioritura di sé, all’Amore.
Anche l’idea del Battezzatore circa il Messia non era quella del Cristo disposto ad abbracciare, recuperare, valorizzare e prediligere persino i senza voce, o i lontani considerati impuri.
Il nostro Maestro e Fratello è viceversa propugnatore di opere di sola vita con pienezza di Felicità (vv.2-6). Non di rudezze e cruda mortificazione - propria e dei nemici - o accuse.
Per Gesù i mikròi (v.11) - ossia i minimi, estranei e pitocchi - portano in cuore e nel Regno il germe della novità dei cieli squarciati per sempre.
Malgrado abbiano scarsa energia, essi recano la colomba di pace [Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22].
Icona di una energia non più aggressiva, sebbene la subiscano (v.12) [cf. Lc 16,16].
E come sottolineava Paolo VI, a prezzo di uno stile figliale, aperto al ripensamento di sé, crocifiggente - nella virtù intima del rovesciamento:
«Questo Regno e questa salvezza, parole-chiave dell'evangelizzazione di Gesù Cristo, ogni uomo può riceverli come grazia e misericordia, e nondimeno ciascuno deve, al tempo stesso, conquistarli con la forza - appartengono ai violenti, dice il Signore - con la fatica e la sofferenza, con una vita secondo il Vangelo, con la rinunzia e la croce, con lo spirito delle beatitudini. Ma, prima di tutto, ciascuno li conquista mediante un totale capovolgimento interiore che il Vangelo designa col nome di “metánoia”, una conversione radicale, un cambiamento profondo della mente e del cuore».
[Evangelii Nuntiandi, n.10].
L’uomo di Fede ha tempra, passione e risolutezza - incisivi soprattutto per quanto attiene l’edificazione del suo destino (per Grazia).
Eppure non sarà mai un urlatore scostante, né un prevaricatore bellicoso.
Per questo alla personalità distinta del grande e celebre Santo del deserto e del Giordano - incensurato conquistatore di folle - il Figlio di Dio può anteporre non un suo veterano, ma un qualsiasi inesperto, nuovo, claudicante, peccatore, reso libero perché rigenerato.
Questa la nuova era, dove più nessuno è additato e sotto assedio. Il Regno differente è quello di attese non istituzionali (talora da sbadiglio).
Gli stati creativi di qualsiasi infante - fuori dal giro, ma sensibile - sono accolti e risvegliati, invece che tirati da una parte e messi a tacere.
L’autentico motore della storia è in una dedita ma aperta e tranquilla potenza spontanea, naturale, innata.
Sia nei rovesci (anche epocali) che nella ricerca dello sviluppo umano integrale, o nell’incessante ricerca della pace, tale attitudine battesimale sa riprendere da zero.
«Se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi» [cf. enciclica Fratelli Tutti n.235] non dai già realizzati.
L’energia dimessa è infatti la tipica risorsa persino del meno capace e più irrilevante dei discepoli autentici.
Unica virtù, e impareggiabile spirito che non decurta spazio all’esistenza.
Anzi, scioglie i veri nodi e non impoverisce le cose.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa, per te significa tutto?
E valore aggiunto?
E se il più piccolo del Regno fosse Gesù stesso?
Che tu sia misero e incapace di trionfare, lo consideri un nulla... o ti blocca?
La comunità accoglie i tuoi desideri o li tira da una parte?
Perché Elia
Al tempo, nell’area palestinese le difficoltà economiche e la dominazione romana costringevano le persone a ripiegare su un modello di vita individuale.
I problemi di sussistenza e assetto sociale avevano avuto come conseguenza uno sgretolamento della vita di relazione (e legami) sia di clan che nelle stesse famiglie.
Nuclei accorpanti, che avevano sempre assicurato assistenza, sostegno e difesa concreta ai membri più deboli e in difficoltà.
Tutti si attendevano che la venuta di Elia e del Messia potesse avere un esito positivo nella ricostruzione della vita fraterna, allora intaccata.
Come si diceva: «ricondurre il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» [Mal 3,22-24 annunciava proprio l’invio di Elia] per ricostruire la convivenza disintegrata.
Ovviamente il recupero del senso d'identità interno del popolo era malvisto dal sistema di dominazione. Figuriamoci la cifra gesuana della Chiamata per Nome, che avrebbe spalancato la vita pia popolare a mille possibilità.
Giovanni aveva predicato con forza un ripensamento dell’idea di libertà conquistata (passaggio del Giordano), il riassetto delle idee religiose consolidate (conversione e perdono dei peccati nella vita reale, fuori del Tempio) e giustizia sociale.
Avendo un progetto evoluto di riforma nella solidarietà (Lc 3,7-14), in pratica era il Battezzatore stesso che aveva già svolto la missione dell’Elia atteso [Mt 17,10-12; Mc 9,11-13].
Per questo motivo era stato tolto di mezzo: poteva riassemblare tutto un popolo di estromessi - emarginati sia dal giro del potere che della religiosità verticista, accomodante, servile, e collaborazionista.
Una devozione a compartimenti stagni, che non consentiva assolutamente né il “ricordo” di se stessi, né dell’antico assetto sociale comunitario, incline alla condivisione.
Insomma, il sistema di cose, interessi, gerarchie, forzava a radicarsi in quella configurazione insoddisfacente. Ma ecco Gesù, che non si piega.
Chi ha il coraggio d’intraprendere un cammino di spiritualità biblica e di Esodo impara ad apprendere che ciascuno ha un modo differente di scendere in campo e stare nel mondo.
Allora, esiste un saggio equilibrio tra rispetto di sé, del contesto, e altrui?
Gesù viene presentato da Mt alle sue comunità come Colui che ha voluto continuare l’opera di edificazione del Regno, sia sotto il profilo della qualità vocazionale che per quanto concerne la ricostruzione della coesistenza.
Con una differenza fondamentale: rispetto al portato delle concezioni etnico-religiose, il Maestro non propone a tutti una sorta di ideologia di corpo, che finisce per spersonalizzare i Doni eccentrici dei deboli - quelli imprevedibili per una mentalità consolidata, ma che tracciano futuro.
In clima di clan rinsaldato, non di rado sono proprio i senza peso e coloro che conoscono solo abissi (e non vertici) a venire come spinti all’assenso di una conformazione rassicurante d’idee - invece che dinamica - e fucina di accoglienza più larga.
Quanti non conoscono vette ma solo povertà, proprio nei momenti di crisi sono i primi invitati dalle circostanze avverse ad oscurare il proprio sguardo sull’avvenire.
I miseri restano gl’impossibilitati a guardare in un’altra direzione e spostarsi, tracciando un diverso destino - proprio a causa di tare esterne a loro: culturali, di tradizione, di reddito, o “spirituali”.
Tutte caselle riconoscibili, forse talora non allarmanti, ma lontane dalla nostra natura.
E subito: con la condanna a portata di giudizio comune [per mancata omologazione].
Sentenza che vuole tarpare le ali, annientare l’atmosfera nascosta e segreta che appartiene davvero all'unicità personale, e condurci tutti - anche in modo esasperato.
Il Signore propone una vita assembleare di carattere, ma non ostinata né targata - non disattenta... come nella misura in cui viene costretta ad andare nella medesima rotta antica di sempre. O nella stessa direzione dei capitribù.
Cristo vuole una collaborazione più rigogliosa, che faccia utilizzare bene le risorse (interne e non) e le differenze.
Assetto per l’inedito: nel modo che ad es. le cadute o le inesorabili tensioni non vengano camuffate - anzi, diventino opportunità, sconosciute e impensabili ma assai feconde di vita.
Qui anche le crisi diventano importanti, anzi fondamentali per far evolvere la qualità dello stare accanto - nella ricchezza del «poliedro» che come scrive Papa Francesco «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» [Evangelii Gaudium n.236].
Senza rigenerarsi, solo ripetendo e ricalcando modalità collettive - da modello sfera (ibidem) - o altrui, ossia da nomenclatura, non personalmente rielaborate o valicate, non si cresce; non ci si dirige verso la propria irripetibile missione.
Non si colma il senso lacerante di vuoto.
Tentando di manipolare caratteri e personalità per guidarle al “come devono essere”, non si sta bene con se stessi e neppure fianco a fianco. Non si trasmette ai tanti diversi la percezione di stima e adeguatezza, né il senso di benevolenza - tantomeno gioia di vivere.
Le traiettorie curve o a tentativo ed errore si confanno alla Prospettiva del Padre, e alla nostra crescita irripetibile.
Differenza tra religiosità e Fede.
Per il suo Nome
(Regno di Dio, Regno messianico, Popolo divino convocato nella Chiesa)
1. Leggiamo nella Costituzione Lumen gentium del Concilio Vaticano II che “i credenti in Cristo (Dio) li ha voluti chiamare nella Santa Chiesa, la quale . . . preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza . . . è stata manifestata dalla effusione dello Spirito (Santo)” (Lumen Gentium, 2). A questa preparazione della Chiesa nell’antica Alleanza abbiamo dedicato la catechesi precedente, nella quale abbiamo visto che, nella progressiva coscienza che Israele prendeva del disegno di Dio attraverso le rivelazioni dei profeti e i fatti stessi della sua storia, si faceva sempre più chiaro il concetto di un futuro regno di Dio, ben più alto ed universale di ogni previsione circa le sorti della dinastia davidica. Oggi passiamo alla considerazione di un altro fatto storico, denso di significato teologico: Gesù Cristo dà inizio alla sua missione messianica con l’annuncio: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1, 15). Quelle parole segnano l’ingresso “nella pienezza del tempo”, come dirà San Paolo (cf. Gal 4, 4), e preparano il passaggio alla Nuova Alleanza, fondata sul mistero dell’incarnazione redentrice del Figlio e destinata ad essere Alleanza eterna. Nella vita e nella missione di Gesù Cristo il regno di Dio non solo “è vicino” (Lc 10, 9), ma è già presente nel mondo, già agisce nella storia dell’uomo. Lo dice Gesù stesso: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17, 21).
2. La differenza di livello e di qualità tra il tempo della preparazione e quello del compimento - tra l’antica e la nuova Alleanza - è fatta conoscere da Gesù stesso quando, parlando del suo precursore Giovanni Battista, così si esprime: “In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11, 11). Giovanni, dalle rive del Giordano (e dal suo carcere), certamente ha contribuito più di chiunque altro, anche più degli antichi profeti (cf. Lc 7, 26-27), alla immediata preparazione delle vie del Messia. Tuttavia egli rimane in un certo senso ancora sulla soglia del nuovo regno, entrato nel mondo con la venuta di Cristo e in via di manifestazione col suo ministero messianico. Soltanto per mezzo di Cristo gli uomini diventano i veri “figli del regno”: cioè del nuovo regno ben superiore a quello di cui i giudei contemporanei si ritenevano gli eredi naturali (cf. Mt 8, 12).
3. Il nuovo regno ha un carattere eminentemente spirituale (…)
4. Questa trascendenza del regno di Dio è data dal fatto che esso ha origine non da un’iniziativa soltanto umana, ma dal piano, dal disegno e dalla volontà di Dio stesso. Gesù Cristo, che lo rende presente e lo attua nel mondo, non è soltanto uno dei profeti mandati da Dio, ma il Figlio consostanziale al padre, che si è fatto uomo con l’Incarnazione. Il regno di Dio è dunque il regno del Padre e del suo Figlio. Il regno di Dio è il regno di Cristo; è il regno dei cieli che si sono aperti sulla terra per concedere agli uomini di entrare in questo nuovo mondo di spiritualità e di eternità (…)
Insieme con il Padre e con il Figlio, anche lo Spirito Santo opera per l’attuazione del Regno già in questo mondo. Gesù stesso lo rivela: il Figlio dell’uomo “scaccia i demoni per virtù dello Spirito di Dio”, e per questo “è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12, 28) (…)
7. Il regno messianico, attuato da Cristo nel mondo, si rivela e precisa definitivamente il suo significato nel contesto della passione e morte in croce. Già all’entrata in Gerusalemme avviene un fatto, disposto da Cristo, che Matteo presenta come realizzazione di una predizione profetica, quella di Zaccaria sul “re che cavalca un asino, un puledro figlio di asina” (Zc 9, 9; Mt 21, 5). Nella mente del profeta, nell’intento di Gesù e nella interpretazione dell’evangelista, l’asinello significava mitezza e umiltà. Gesù era il re mite e umile che entrava nella città davidica, dove col suo sacrificio avrebbe realizzato le profezie sulla vera regalità messianica.
Questa regalità diventa ben chiara durante l’interrogatorio subìto da Gesù al tribunale di Pilato (…) quella davanti al governatore romano
8. È una dichiarazione che conclude tutta l’antica profezia che scorre lungo la storia d’Israele e diventa fatto e rivelazione in Cristo. Le parole di Gesù ci fanno afferrare i bagliori di luce che solcano l’oscurità del mistero condensato nel trinomio: Regno di Dio, Regno messianico, Popolo di Dio convocato nella Chiesa. Su questa scia di luce profetica e messianica, possiamo meglio capire e ripetere, con più chiara comprensione delle parole, la preghiera insegnataci da Gesù (Mt 6, 10): “Venga il tuo Regno”. È il regno del Padre, entrato nel mondo con Cristo; è il regno messianico che per opera dello Spirito Santo si sviluppa nell’uomo e nel mondo per risalire nel seno del Padre, nella gloria dei cieli.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 4 settembre 1991]
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio, dalla preghiera, che è il filo conduttore di tutta la sua esistenza […]
L’esistenza intera del Precursore di Gesù è alimentata dal rapporto con Dio, in particolare il periodo trascorso in regioni deserte (cfr Lc 1,80); le regioni deserte che sono luogo della tentazione, ma anche luogo in cui l’uomo sente la propria povertà perché privo di appoggi e sicurezze materiali, e comprende come l’unico punto di riferimento solido rimane Dio stesso. Ma Giovanni Battista non è solo uomo di preghiera, del contatto permanente con Dio, ma anche una guida a questo rapporto. L’Evangelista Luca riportando la preghiera che Gesù insegna ai discepoli, il «Padre nostro», annota che la richiesta viene formulata dai discepoli con queste parole: «Signore insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (cfr Lc 11,1) […]
La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio. La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita. Grazie.
(Papa Benedetto, Udienza Generale 29 agosto 2012)
1. Leggiamo nella Costituzione Lumen gentium del Concilio Vaticano II che “i credenti in Cristo (Dio) li ha voluti chiamare nella Santa Chiesa, la quale . . . preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza . . . è stata manifestata dalla effusione dello Spirito (Santo)” (Lumen Gentium, 2). A questa preparazione della Chiesa nell’antica Alleanza abbiamo dedicato la catechesi precedente, nella quale abbiamo visto che, nella progressiva coscienza che Israele prendeva del disegno di Dio attraverso le rivelazioni dei profeti e i fatti stessi della sua storia, si faceva sempre più chiaro il concetto di un futuro regno di Dio, ben più alto ed universale di ogni previsione circa le sorti della dinastia davidica. Oggi passiamo alla considerazione di un altro fatto storico, denso di significato teologico: Gesù Cristo dà inizio alla sua missione messianica con l’annuncio: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1, 15). Quelle parole segnano l’ingresso “nella pienezza del tempo”, come dirà San Paolo (cf. Gal 4, 4), e preparano il passaggio alla Nuova Alleanza, fondata sul mistero dell’incarnazione redentrice del Figlio e destinata ad essere Alleanza eterna. Nella vita e nella missione di Gesù Cristo il regno di Dio non solo “è vicino” (Lc 10, 9), ma è già presente nel mondo, già agisce nella storia dell’uomo. Lo dice Gesù stesso: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17, 21).
2. La differenza di livello e di qualità tra il tempo della preparazione e quello del compimento - tra l’antica e la nuova Alleanza - è fatta conoscere da Gesù stesso quando, parlando del suo precursore Giovanni Battista, così si esprime: “In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11, 11). Giovanni, dalle rive del Giordano (e dal suo carcere), certamente ha contribuito più di chiunque altro, anche più degli antichi profeti (cf. Lc 7, 26-27), alla immediata preparazione delle vie del Messia. Tuttavia egli rimane in un certo senso ancora sulla soglia del nuovo regno, entrato nel mondo con la venuta di Cristo e in via di manifestazione col suo ministero messianico. Soltanto per mezzo di Cristo gli uomini diventano i veri “figli del regno”: cioè del nuovo regno ben superiore a quello di cui i giudei contemporanei si ritenevano gli eredi naturali (cf. Mt 8, 12).
3. Il nuovo regno ha un carattere eminentemente spirituale. Per entrarvi occorre convertirsi e credere al Vangelo, liberarsi dalle potenze dello spirito delle tenebre, sottomettendosi al potere dello Spirito di Dio che Cristo porta agli uomini. Come dice Gesù: “Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito Santo, è certo giunto tra voi il regno di Dio” (Mt 12, 28; cf. Lc 11, 20).
La natura spirituale e trascendente di questo regno è espressa anche nell’equivalente linguistico che troviamo nei testi evangelici: “Regno dei cieli”. Stupenda immagine che lascia intravedere l’origine e il fine del regno - i “cieli” - e la stessa dignità divino-umana di Colui nel quale il Regno di Dio si concretizza storicamente con l’Incarnazione: Cristo.
4. Questa trascendenza del regno di Dio è data dal fatto che esso ha origine non da un’iniziativa soltanto umana, ma dal piano, dal disegno e dalla volontà di Dio stesso. Gesù Cristo, che lo rende presente e lo attua nel mondo, non è soltanto uno dei profeti mandati da Dio, ma il Figlio consostanziale al padre, che si è fatto uomo con l’Incarnazione. Il regno di Dio è dunque il regno del Padre e del suo Figlio. Il regno di Dio è il regno di Cristo; è il regno dei cieli che si sono aperti sulla terra per concedere agli uomini di entrare in questo nuovo mondo di spiritualità e di eternità. Afferma Gesù: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio . . . e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27). “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso; e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo” (Gv 5, 26-27).
Insieme con il Padre e con il Figlio, anche lo Spirito Santo opera per l’attuazione del Regno già in questo mondo. Gesù stesso lo rivela: il Figlio dell’uomo “scaccia i demoni per virtù dello Spirito di Dio”, e per questo “è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12, 28).
5. Ma pur attuandosi e sviluppandosi in questo mondo, il Regno di Dio ha la sua finalità nei “cieli”. Trascendente nella sua origine, lo è anche nel suo fine, che si raggiunge nell’eternità, a condizione di essere fedeli a Cristo nella vita presente e lungo tutto il divenire del tempo. Ce ne avverte Gesù quando dice che, in conformità al suo potere di “giudicare” (Gv 5, 27), il Figlio dell’uomo comanderà alla fine del mondo di raccogliere “dal suo regno tutti gli scandali”, ossia tutte le iniquità commesse anche nell’ambito del regno di Cristo. E “allora - aggiunge Gesù - i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13, 41.43). Sarà allora la piena e definitiva realizzazione del “regno del Padre”, al quale il Figlio rimetterà gli eletti da lui salvati in virtù della Redenzione e con l’opera dello Spirito Santo. Il regno messianico rivelerà allora la sua identità col Regno di Dio (cf. Mt 25, 34; 1 Cor 15, 24).
Vi è dunque un ciclo storico del regno di Cristo, Verbo incarnato, ma l’alfa e l’omega di questo regno, e anzi si direbbe il fondo nel quale esso si apre, vive, si sviluppa e raggiunge il suo pieno compimento, è il “mysterium Trinitatis”. Abbiamo già detto, e ancora vedremo a suo tempo, che in questo mistero affonda le sue radici il “mysterium Ecclesiae”.
6. Punto di passaggio e di collegamento da un mistero all’altro è Cristo, che già nell’antica Alleanza era preannunciato e atteso come un Re-Messia col quale si identificava il Regno di Dio. Nella nuova Alleanza Cristo identifica il regno di Dio con la propria persona e con la propria missione. Infatti egli non solo proclama che, con lui, il regno di Dio è nel mondo, ma insegna a “lasciare per il regno di Dio” tutto ciò che è più caro all’uomo (cf. Lc 18, 29-30) e, in un altro punto, a lasciare tutto questo “per il suo nome” (cf. Mt 19, 29), oppure “a causa mia e a causa del Vangelo” (Mc 10, 29).
Il regno di Dio si identifica dunque con il regno di Cristo. È presente in lui, e in lui si attua. E da lui passa, per sua stessa iniziativa, agli Apostoli, e per loro mezzo a tutti quelli che crederanno in lui: “Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me” (Lc 22, 29). È un regno che consiste in una espansione di Cristo stesso nel mondo, nella storia degli uomini, come vita nuova che si attinge da lui e che viene comunicata ai credenti in virtù dello Spirito Santo-Paraclito, mandato da lui (cf. Gv 1, 16; 7, 38-39 15, 26; 16, 7).
7. Il regno messianico, attuato da Cristo nel mondo, si rivela e precisa definitivamente il suo significato nel contesto della passione e morte in croce. Già all’entrata in Gerusalemme avviene un fatto, disposto da Cristo, che Matteo presenta come realizzazione di una predizione profetica, quella di Zaccaria sul “re che cavalca un asino, un puledro figlio di asina” (Zc 9, 9; Mt 21, 5). Nella mente del profeta, nell’intento di Gesù e nella interpretazione dell’evangelista, l’asinello significava mitezza e umiltà. Gesù era il re mite e umile che entrava nella città davidica, dove col suo sacrificio avrebbe realizzato le profezie sulla vera regalità messianica.
Questa regalità diventa ben chiara durante l’interrogatorio subìto da Gesù al tribunale di Pilato. Le accuse fatte a Gesù sono “che sobillava il . . . popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re” (Lc 23, 2). Perciò Pilato domanda all’Imputato se egli è re. Ed ecco la risposta di Cristo: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. L’evangelista narra che “allora Pilato gli disse: - Dunque tu sei re? - Rispose Gesù: - Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18, 36-37).
8. È una dichiarazione che conclude tutta l’antica profezia che scorre lungo la storia d’Israele e diventa fatto e rivelazione in Cristo. Le parole di Gesù ci fanno afferrare i bagliori di luce che solcano l’oscurità del mistero condensato nel trinomio: Regno di Dio, Regno messianico, Popolo di Dio convocato nella Chiesa. Su questa scia di luce profetica e messianica, possiamo meglio capire e ripetere, con più chiara comprensione delle parole, la preghiera insegnataci da Gesù (Mt 6, 10): “Venga il tuo Regno”. È il regno del Padre, entrato nel mondo con Cristo; è il regno messianico che per opera dello Spirito Santo si sviluppa nell’uomo e nel mondo per risalire nel seno del Padre, nella gloria dei cieli.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 4 settembre 1991]
Il «coraggio apostolico di dire sempre la verità», l’«amore pastorale» nell’accogliere la gente «col poco che può dare», la capacità di «dubitare» e di mettere in dubbio la propria vocazione: in questi giorni di Avvento in cui la liturgia mette al centro Giovanni Battista, sono queste le caratteristiche — che furono del precursore — utili perché ogni persona si metta «sulle tracce del Signore».
Nella messa celebrata a Santa Marta giovedì 15 dicembre, Papa Francesco si è soffermato a meditare sulla figura del cugino di Gesù, «il grande Giovanni», che è grande perché «è il più piccolo nel regno dei cieli». E un pensiero speciale il Pontefice ha rivolto proprio ai piccoli a conclusione dell’omelia, quando, riferendosi al pianto di un bambino presente nella cappella con i suoi genitori, ha ricordato che «quando un bambino piange a messa, non dobbiamo cacciarlo via», perché «è la migliore predica», è «la tenerezza di Dio che ci visita». E al termine della messa, a tale proposito, ha aggiunto che proprio un pianto è stata la prima predica di Gesù bambino.
Un’attenzione ai piccoli, agli umili e alla gente semplice, che Papa Francesco ha sottolineato anche nel tracciare il profilo del Battista e, in particolare, la sua attenzione, «da pastore», alle persone che aveva di fronte.
Da Giovanni, «quell’uomo che era nel deserto», tutti si recavano «attirati dalla sua testimonianza». Ma con delle differenze, ha sottolineato il Papa: «Anche i farisei e i dottori della legge andavano a trovarlo, ma con distacco». Il Vangelo sottolinea come anche questi erano presenti ma, «non facendosi battezzare da lui — cioè non ascoltando col cuore, soltanto con le orecchie, per giudicarlo — hanno reso vano il disegno di Dio su di loro». Un distacco simile a quello che i dottori della legge avevano avuto anche dai profeti: «Non ascoltavano i profeti, non seguivano».
Riprendendo il Vangelo di Luca (7, 24-30), il Pontefice ha ricordato come Gesù, alludendo a Giovanni, dicesse alla gente: «Ma cosa siete andati a vedere nel deserto? Uno spettacolo? Una canna agitata dal vento? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi del re»; e «qualcuno» — ha commentato Francesco — anche «negli episcopi». Quella folla invece cercava un profeta. In realtà, ha spiegato il Papa, «l’ultimo dei profeti, l’ultimo di quella schiera di gente che ha incominciato a camminare, dal nostro padre Abramo fino a quel momento». E, a tale riguardo, ha suggerito di leggere anche il capitolo 11 della lettera agli Ebrei.
Si tratta dunque di un profeta, di fatto «l’ultimo», perché dopo di lui giunge il messia. E di lui Gesù dice: «“Siete andati a vedere un profeta, ma più di un profeta”, un grande: “Io vi dico anzi, più di un profeta. Io vi dico fra i nati di donna non vi è alcuno più grande di Giovanni”». Ed era proprio «questo grande» ad attirare la gente.
Un aspetto che il Pontefice ha voluto approfondire chiedendosi: «Dov’era la grandezza di Giovanni per predicare e attirare la gente?», Innanzi tutto, ha risposto, questa si ritrova «nella fedeltà alla sua missione»: Giovanni «era un uomo fedele a quello che il Signore gli aveva chiesto». Quindi «grande perché fedele». E questa grandezza, ha aggiunto, si faceva vedere proprio nella sua predicazione. Infatti Giovanni aveva il coraggio di dire «cose brutte ai farisei, ai dottori della legge, ai sacerdoti. Non diceva loro: “Ma cari, comportatevi bene”. No. Semplicemente diceva loro: “Razza di vipere”». Con quelli che «si avvicinavano per controllare e per vedere, ma mai col cuore aperto», non utilizzava «sfumature», e andava diretto: «Razza di vipere!». Così facendo, «rischiava la vita, sì, ma lui era fedele». Ugualmente fece con Erode, al quale «in faccia» disse: «Adultero, non ti è lecito questo vivere così, adultero!».
Certamente, ha commentato il Papa, «se un parroco oggi nell’omelia domenicale dicesse: “fra voi ci sono alcuni che sono razza di vipere e ci sono tanti adulteri”», il suo vescovo «riceverebbe lettere di sconcerto: “Ma mandate via questo parroco che ci insulta!”». Giovanni, in realtà, insultava perché era «fedele alla sua vocazione e alla verità».
Di tutt’altro tenore era il suo atteggiamento nei confronti della gente con la quale «era tanto comprensivo». E a chi gli chiedeva: «Ma cosa dobbiamo fare per convertirci?» rispondeva semplicemente: «Chi ha del cibo ne dia a quello che non ha. Chi ha due tuniche ne dia una a quello che non ha». Cioé, ha sottolineato Francesco, «incominciava da poco», si comportava come un vero pastore: «profeta grande e pastore». Così «ai pubblicani, che erano i peccatori pubblici, perché sfruttavano il popolo», suggeriva semplicemente: «Non chiedete più del giusto». Cominciava con «un piccolo passo» e li battezzava. Allo stesso modo ai soldati raccomandava: «Non minacciate, né denunciate nessuno. Contentatevi della vostra paga, del vostro stipendio». In parole povere, ha spiegato il Papa facendo un breve inciso, bisogna fare attenzione a «non entrare nel mondo delle tangenti», come avviene quando un poliziotto si fa corrompere per non fare una multa.
Giovanni dunque «era concreto, ma misurato» e, per battezzare «tutti questi peccatori», chiedeva solo un «minimo passo avanti, perché sapeva che con questo passo poi il Signore faceva il resto». E loro «si convertivano».
C’è però di più. Questo «grande profeta», l’unico al quale è stata data la grazia di annunciare Gesù, questo «pastore che capiva la situazione della gente e l’aiutava ad andare avanti col Signore», nonostante fosse «grande, forte, sicuro della sua vocazione, aveva anche momenti bui, dubitava, aveva i suoi dubbi». Lo si legge nel Vangelo dove si spiega che Giovanni «in carcere incominciò a dubitare». Infatti, ha detto il Pontefice, agli occhi di Giovanni, Gesù «era un salvatore non come lui lo aveva immaginato. E forse qualcuno gli insinuava nelle orecchie: “Lui non è! Guarda non fa questo, questo, questo...”. E in carcere, con l’angoscia, il grande, il sicuro della sua vocazione, dubitò». Del resto, ha aggiunto, «i grandi si possono permettere di dubitare, perché sono grandi».
Una risposta chiarificatrice al Battista è venuta dallo stesso Gesù con le parole esplicite «che poi ripeterà nella sinagoga di Nazaret: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto. I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano. Ai poveri è annunciata la buona notizia e beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”».
Ciò che faceva Gesù con i piccoli, ha spiegato il Papa, «lo faceva anche Giovanni nella predica, con i soldati, con la folla, con i pubblicani». Ciononostante «in carcere incominciò a dubitare». Ed è questo, ha sottolineato, un aspetto «bello», cioè che «i grandi si possono permettere il dubbio». Essi infatti «sono sicuri della vocazione, ma ogni volta che il Signore fa vedere loro una nuova strada del cammino entrano nel dubbio». E subentrano le domande: «Ma questo non è ortodosso, questo è eretico, questo non è il messia che io aspettavo... Il diavolo fa questo lavoro e qualche amico anche aiuta, no?». Proprio qui sta «la grandezza di Giovanni, un grande, l’ultimo di quella schiera di credenti che è incominciata con Abramo, quello che predica la conversione, quello che non usa mezze parole per condannare i superbi, quello che alla fine della vita si permette di dubitare». Ha concluso Francesco: «Questo è un bel programma di vita cristiana».
Perciò il Pontefice ha invitato tutti a chiedere «a Giovanni la grazia del coraggio apostolico di dire sempre le cose con verità»; quella «dell’amore pastorale», cioè «di ricevere la gente col poco che si può dare, il primo passo»; e «anche la grazia di dubitare». Perché può accadere che «alla fine della vita», ci si possa chiedere: «Ma è vero tutto quello che io ho creduto o sono fantasie?»: è «la tentazione contro la fede, contro il Signore». Allora è importante che «il grande Giovanni, che è il più piccolo nel regno dei cieli, per questo è grande, ci aiuti su questa strada sulle tracce del Signore».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16/12/2016]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Ecco il commento alle letture e testi biblici della Solennità dell’Immacolata Concezione [Domenica 8 Dicembre 2024]
*Prima Lettura Genesi 3.9-15.20
L’albero della vita fu piantato da Dio al centro dell’Eden e da qualche parte, nello stesso giardino, l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè l’albero di ciò che ci rende felici o infelici. La consegna fu semplice: «Potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” Gn 2,16-17). Dio ordina di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma non è specificato dove quest’albero si trova perché il racconto ha un alto significato allegorico e simbolico e invita a concentrarsi piuttosto che sulla sua localizzazione geografica, sul messaggio etico e teologico. Per molti teologi e santi quest’albero simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. Sant’Agostino l’interpreta come un test di obbedienza e libero arbitrio: “Il frutto dell’albero era buono non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio “(dal De Genesi ad litteram, sulla Genesi alla lettera). Il serpente chiede alla donna se è vero che Dio ha ordinato di non mangiare di alcuno albero del giardino e lei, molto onesta, lo corregge rispondendo che si possono mangiare i frutti degli alberi del giardino, eccetto del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino perché Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” (Gn3,1-3). Pensa di rettificare, ma, senza saperlo, ha già deformato la verità: il semplice fatto di essere entrata in conversazione con il serpente ha falsato il suo sguardo e si potrebbe dire che ora è l’albero a nascondere la foresta perché vede al centro del giardino l’albero proibito e non invece l’albero della vita. Ormai il tranello è fatto e il serpente prosegue l’opera di seduzione dicendo che non moriranno affatto, e Dio sa che il giorno in cui ne mangereranno gli occhi si apriranno e saranno come Dio, conoscendo ciò che rende felici o infelici. Diventare come Dio con un semplice gesto magico è irresistibile e la donna si lascia tentare. Lapidaria la conclusione: “Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anche egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutte e due entrambi e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”(6-7). Fino a quel momento la loro nudità (cioè la loro fragilità) non sembra li ponesse a grande disagio, mentre ora si vergognano l’uno “di fronte” all’altra. E’ qui che è entrata in crisi anche la relazione – l’uno di fronte all’altra - con tutte le conseguenze che segnano le difficoltà dei rapporti tra noi esseri umani. Prima si fidavano di Dio, ma il serpente ha sussurrato che non solo Dio era per loro un antagonista ma aveva persino paura perché voi – dice loro - “sareste come Dio”. In realtà, i loro occhi si sono aperti, ma il loro sguardo è completamente falsato: d’ora in poi vivranno nella paura di Dio e per questo si nascondono. Ma Dio non li abbandona, anzi li cerca nonostante che il progetto originario è stato contraddetto: ormai l’uomo ha rotto la sua relazione di creatura felice con Dio ed è soggetto alla paura, al disagio nella ricerca d’una propria autonomia. Alle domande del Creatore, l’uomo e la donna rispondono la pura verità senza aggiungere né togliere nulla: entrambi si sono lasciati sedurre e hanno disobbedito. L’uomo dice che la donna gli ha dato il frutto e la donna aggiunge di essere stata ingannata dal serpente: tutto insomma viene dal serpente. A questo punto il Signore aggredisce il serpente: “poiché hai fatto questo, maledetto fra tutti gli animali selvatici. La conclusione che da questo racconto fortemente simbolico possiamo trarre è che il male non è nell’uomo e questa è un’affermazione fondamentale della Bibbia. Di fronte a civiltà pessimiste, che considerano l’umanità intrinsecamente cattiva, la rivelazione biblica afferma che il male è esterno all’uomo: quando ci si lascia attrarre su strade sbagliate, è perché siamo ingannati e sedotti e la lotta di tutti profeti nel corso dei secoli ha teso a contrastare le innumerevoli seduzioni che minacciano l’uomo, in primo luogo l’idolatria. Il male è completamente estraneo a Dio e la sua collera è sempre contro ciò che distrugge l’uomo. Da dove viene il male se non è Dio a volerlo? Come già detto, nella Bibbia è chiaro che il male non fa parte della natura dell’uomo e non viene nemmeno da Dio. Legittimo era il desiderio dei progenitori di essere come dèi e Dio non li rimprovera per questo avendoli creati a sua somiglianza e proprio il suo respiro (ruah) è il respiro dell’uomo. Il problema è che essi hanno ceduto alla menzogna di satana, certi di poter soddisfare quest’aspirazione da soli, con una sorta di gesto magico e il risultato è che si scoprono nudi, infelici. Tutto però non è perso ed è qui la notizia più bella che leggiamo in questa pagina biblica: Dio intima al serpente “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa, e tu le insidierai (in ebraico shuph significa schiacciare, ferire, insidiare, tendere un agguato) il calcagno”. Si annuncia un duro combattimento tra il serpente e la stirpe della donna, ma di cui è già certo l’esito finale: il serpente sarà colpito alla testa, che è la sua parte più vulnerabile e il punto da cui provengono il morso e il veleno. A schiacciarlo sarà la stirpe della donna e il serpente ne insidierà e ferirà il calcagno. La ferita al calcagno è simbolo delle sofferenze d’ogni tipo dell’umanità e dei patimenti volontari di Cristo crocifisso, una ferita questa non definitiva perché il Risorto uscendo dal sepolcro sconfigge per sempre satana. In definitiva queste parole di Dio al serpente costituiscono una promessa di speranza di redenzione realizzata pienamente in Cristo. La tradizione cristiana ha intravisto in questo racconto della Genesi un lontano annuncio della vittoria della Nuova Eva, Maria, al punto da definirlo “protoevangelo”, cioè un “pre-evangelo”. Maria è considerata elemento chiave nel piano di redenzione di Dio, in quanto madre di Cristo, il Salvatore che ha sconfitto il peccato e la morte. La sua partecipazione al divino progetto di salvezza è illuminata dai testi biblici, mentre la riflessione teologica successiva ne ha arricchito la comprensione e ha meglio focalizzato il ruolo di Maria in tutta la storia. Uno dei titoli a lei attribuiti nella tradizione cristiana è proprio quello di Nuova Eva perché se Eva fu la donna che, con la sua disobbedienza, introdusse il peccato nel mondo, Maria è colei che, con la sua docile e totale obbedienza a Dio, ha reso possibile l’incarnazione di Cristo. Così come il peccato è entrato nel mondo attraverso una donna, la salvezza entra attraverso un’altra donna, Maria, per mezzo della quale Dio ha dato al mondo il Salvatore. La Madre di Cristo è vista come cooperatrice nella vittoria di Dio sul peccato e sulla morte e la sua obbedienza, il suo sacrificio e la sua intercessione fanno di lei una figura centrale dell’intero piano salvifico. Infine tre annotazioni per meglio comprendere questo testo:
1.Secondo il testo ebraico (Gen 2,9), si dovrebbe parlare di “albero della conoscenza del bene e del male”, ma tale traduzione, pur corretta dal punto di vista grammaticale e spesso ripresa nelle nostre traduzioni, potrebbe portare a un serio fraintendimento: i termini “bene” e “male” in italiano, come in altre lingue, hanno un senso astratto che non corrisponde alla sensibilità concreta ed esistenziale del pensiero ebraico. Per questo è preferibile l’espressione “albero della conoscenza di ciò che rende felici o infelici”.
2. La conoscenza del bene e del male fa pensare al re Salomone tradizionalmente considerato il simbolo della sapienza e del giudizio illuminato. Egli chiese a Dio non ricchezze o potere, ma un cuore saggio e intelligente per governare il popolo con giustizia (1 Re 3,9). Dio lo esaudì rendendolo il re più saggio della sua epoca. Secondo la visione biblica, la saggezza non è pura intelligenza umana, ma dono di Dio per discernere il bene dal male; è capacità di governare con giustizia e prendere decisioni giuste; è ricerca di conoscenza universale, della natura, delle leggi del cosmo e della vita umana, come testimoniano i libri attribuiti a Salomone, tra cui i Proverbi, il Qoelet e il Cantico dei Cantici. E’ infine saggezza pratica e morale che integra conoscenza intellettuale, giustizia morale e prudenza nelle relazioni umane. La fama di saggio attirò a Salomone sovrani e studiosi da terre lontane, come la regina di Saba, che lo visitò per verificare la sua saggezza (1 Re 10,1-13). Alla sua corte si ricercava la saggezza perché è il vero modo di vivere.
3.Il racconto biblico del peccato dei progenitori invita all’umiltà perché solo a Dio appartiene il possesso dell’albero della conoscenza del bene e del male, di ciò che rende felici o infelici: esso è pertanto inaccessibile all’uomo. Che fare allora? La Bibbia invita a nutrirsi ogni giorno dell’albero della vita, che è la Legge di Dio, la Torah. Purtroppo a tentare l’uomo è sempre la sete di una conoscenza sedotta dalla sete di potere in ogni sua forma. Dio c’introduce in un’altra conoscenza in senso biblico, l’unica che valga davvero, cioè l’amore.
*Salmo responsoriale 97/98:
“Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio” (v.3).
A parlare è Israele, che definisce Dio “il nostro Dio”, mettendo in evidenza la relazione privilegiata che esiste tra questo piccolo popolo e il Dio dell’universo. Un popolo che ha compreso a poco a poco che la sua missione nel mondo è quella di non custodire gelosamente per sé questa intima relazione, ma di annunciare che l’amore di Dio è per tutti gli uomini integrando gradualmente nell’Alleanza l’intera umanità. In questo salmo percepiamo i “due amori di Dio”: Dio ama il popolo che si è scelto e ama tutti gli altri popoli della terra che il salmista definisce con il termine: “le genti”. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2). E subito dopo, al versetto 3, troviamo: «si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele». La casa d’Israele richiama ciò che definiamo “l’elezione d’Israele”. Dietro questa breve frase si percepisce tutto il peso della storia e del passato: le semplici parole « il suo amore » e « la sua fedeltà » evocano con forza l’Alleanza. Se l’elezione di Israele è centrale, Israele non deve dimenticare che la sua testimonianza deve risplendere davanti a tutta l’umanità. In effetti, anche ora nei giorni della festa delle Capanne o dei Tabernacoli (sukkot o “festa del raccolto” Chag HaAsif), che commemora i 40 anni vissuti nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto, a Gerusalemme il popolo acclama Dio già come re a nome di tutta l’umanità. Questo salmo dunque anticipa il giorno in cui Dio sarà riconosciuto come re di tutta la terra. Una delle grandi certezze che gli uomini della Bibbia hanno acquisito progressivamente è che Dio ama tutta l’umanità, non solo Israele e in questo salmo, questa certezza si riflette anche nella stessa struttura del testo. Quando si canta la vittoria di Dio, si celebra la sua vittoria definitiva pure contro tutte le forze del male. Come cristiani possiamo acclamano Dio con ancora più forza, perché i nostri occhi hanno conosciuto Cristo, il Re del mondo: con la sua Incarnazione, il Regno di Dio, che è Regno dell’amore, è già cominciato.
*Seconda Lettura Ef. 1,3-6.11-12
In soli dodici versetti san Paolo presenta il progetto di Dio e ci invita a unirci alla sua contemplazione, progetto che consiste nel radunare l’umanità per formare un solo Uomo in Gesù Cristo, capo di tutta la creazione: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose quelle nei cieli e quelle sulla terra” (vv. 9-10). Fermiamoci a sottolineare semplicemente qualche bella buona notizia.
Prima notizia: Dio ha un progetto su ciascuno di noi e su tutta la creazione. La storia ha un senso, una direzione e un significato. Per i credenti, gli anni non si susseguono in modo uniforme e la storia avanza verso il suo compimento avvicinandoci, come scrive san Paolo“alla pienezza dei tempi” (v. 10). Mai avremmo potuto scoprire tale disegno da soli perché è un mistero che ci supera infinitamente e nel linguaggio di Paolo, mistero non è un segreto che Dio custodisce gelosamente, bensì la sua intimità alla quale ci invita.
Seconda notizia: la volontà di Dio è tutto e solo amore. Le parole “benedizione, amore, grazia, benevolenza” costellano il testo che poi prorompe “a lode dello splendore della sua grazia ( della sua gloria v.12,14) di cui ci ha gratificati nel Figlio amato” (v. 6). A lode della sua grazia perché Dio va riconosciuto come il Dio della grazia, cioè il Dio il cui amore è gratuito. Gesù ci ha rivelato che il Padre celeste è amore, vuole farci entrare nella sua intimità e desidera che in ogni circostanza si compia la sua volontà, perché è sempre buona.
Terza sottolineatura: il progetto di Dio si realizza attraverso Cristo, citato molte volte in questi versetti: tutto avviene “per lui, con lui e in lui”, come dice la liturgia. Dio ci ha predestinati “a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo” (v. 5). Cristo è il centro del mondo e della storia umana (l’alfa e l’omega); Figlio diletto nel quale ci ha “gratificati” il Padre (v. 6) e in lui saremo tutti riuniti al compimento dei tempi. Il “mistero” della volontà di Dio è infatti ricapitolare in Cristo l’universo intero.
*Vangelo Luca 1, 26-38
A Nazareth, villaggio in quel momento sconosciuto e insignificante, in una provincia poco considerata dalle autorità di Gerusalemme, l’angelo Gabriele ha parlato a una ragazza di nome Maria, facendole il complimento più sublime mai ricevuto da una donna: “piena di grazia” (Kecharitomene) che significa immersa totalmente nella grazia di Dio, colma del favore divino senza alcuna ombra. Questa vergine, Maria, poco più che adolescente, al termine dell’incontro e in perfetta sintonia, risponde al progetto di Dio con piena adesione: ”Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Tra le parole dell’angelo e la risposta della Vergine, la storia ha conosciuto la svolta decisiva che è l’ora dell’Incarnazione del Verbo. Da quel momento in poi nulla sarà più come prima perché tutte le promesse dell’Antico Testamento trovano ora il loro compimento. Anzi ogni parola dell’angelo le evoca e svela il “compimento” dell’attesa del Messia che ha segnato per sempre il corso dei secoli. Si attendeva un re discendente di Davide e qui riecheggia la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (2 Sam 7) dalla quale si è sviluppata tutta l’attesa messianica e costituisce proprio il cuore dell’annuncio dell’angelo Gabriele: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (vv. 32-33). Un altro titolo attribuito al Messia è “sarà chiamato Figlio di Dio (dell’Altissimo)” che nel linguaggio biblico significa «re», in riferimento alla promessa fatta da Dio a Davide: ogni nuovo re, nel giorno della sua consacrazione, riceveva il titolo di Figlio di Dio. Maria comprende e ricorda all’angelo di essere vergine e quindi non può concepire un figlio in modo naturale. Ben nota è la risposta dell’angelo che richiama altre promesse messianiche, superandole infinitamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Si attendeva il Messia investito della potenza dello Spirito Santo per compiere la sua missione di salvezza come Isaia aveva predetto: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore» (Is 11, 1-2), tuttavia l’annuncio dell’angelo Gabriele va ben oltre perché il bambino concepito sarà realmente Figlio di Dio. Evidente è l’insistenza di Luca su questo punto: il bambino non ha un padre umano, ma è «Figlio di Dio». Il testo offre due prove/segni: innanzitutto Maria dichiara: “Non conosco uomo” (nel testo originale: non ho relazioni con uomo). Inoltre l’angelo affida il compito di dare il nome al bambino alla madre e questo risulta una procedura del tutto insolita, che si spiega solo in assenza di un padre umano perché era sempre il padre a decidere il nome del figlio come si vede nella nascita di Giovanni Battista. I parenti si rivolsero a Zaccaria, anche se muto, e non a Elisabetta, per decidere come chiamare il bambino. Inoltre, quando l’angelo rassicura Maria: “la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” è naturale pensare a una nuova creazione richiamando alla mente quanto leggiamo nel libro della Genesi: «In principio Dio creò il cielo e la terra… Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1, 2). Questa stessa immagine è presente nel salmo 104: “Manda il tuo spirito, sono creati” (v. 30). La “nuvola”, “l’ombra” del Dio Altissimo evoca la presenza divina sulla Tenda del Convegno durante l’Esodo, e nel giorno della Trasfigurazione designa Gesù come Figlio di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”(Lc 9,35).
Commuove e sorprende, anzi diventa scuola di fede, la risposta di Maria a così grandi rivelazioni. E’ d’una disarmante semplicità, esempio perfetto di “obbedienza della fede” come dice Paolo (Rm1,5; 16,26), abbandono con fiducia totale alla volontà divina. Rispondendo “sì, eccomi”, Maria si unisce ai veri credenti della storia. Samuele rispose: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3, 10) e Maria semplicemente: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Il termine “serva” proclama la piena disponibilità al progetto di Dio e mostra che per le opere di Dio basta un semplice “sì” perché “nulla è impossibile a Dio”. Grazie al sì di Maria sconosciuta ragazza in Nazaret, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi “(Gv1,14). Torna in mente la promessa del profeta Sofonia al popolo di Dio che si era macchiato di tanti crimini e infedeltà per cui era ridotto a un piccolo resto: “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme… Il re d’Israele, il Signore, è in mezzo a te” (Sof 3, 14-15). L’odierna solennità esalta un evento che supera ogni possibile umana immaginazione e anche Maria avrà bisogno di tutta la vita per “custodire tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2.19; 51). L’attitudine di meditazione e di totale apertura alla volontà di Dio è un aspetto centrale della vita di Maria, e diventa il modello di ogni vero credente, di ogni autentico discepolo di Cristo.
*L’albero della conoscenza del bene e del male. Mi permetto aggiungere qualche riflessione sul valore simbolico di quest’albero spesso confuso con quello della vita. Non è specificato dove si trovi esattamente e già questo ci dice che la sua posizione è irrilevante rispetto al suo ruolo simbolico e allegorico. Il racconto si concentra sulla relazione tra Dio e Adamo ed Eva e tra loro per cui quest’albero funge da test per verificare l’obbedienza degli esseri umani a Dio e invita a capire il perché delle difficoltà esistenti di relazione tra noi esseri umani “uno di fronte all’altro”. Specificare la posizione geografica avrebbe spostato l’attenzione dal tema principale, che è la caduta e il peccato. Molti studiosi e teologi ritengono che l’albero della conoscenza del bene e del male simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. L’assenza di una descrizione geografica suggerisce anche che l’albero non è un oggetto fisico, ma un simbolo di una conoscenza che è riservata a Dio e non accessibile direttamente all’uomo. In molte tradizioni ebraiche e cristiane, l’albero è visto come un simbolo di un confine tra il divino e l’umano. Dio non vieta all’uomo l’albero per crudeltà, ma perché il tipo di conoscenza rappresentato da quell’albero — una conoscenza assoluta del bene e del male — prerogativa divina e la sua collocazione indefinita potrebbe suggerire che non si tratta di un luogo fisico raggiungibile dall’essere umano, ma rappresenta una dimensione spirituale che può essere compresa solo attraverso l’esperienza del rapporto con Dio. Ogni persona, in un certo senso, deve affrontare nella propria vita la scelta rappresentata simbolicamente dall’albero della conoscenza del bene e del male. Nella Genesi, accanto all’albero della conoscenza del bene e del male, c’è anche l’albero della vita, anch’esso non descritto geograficamente. Questo suggerisce che entrambi gli alberi rappresentano aspetti della vita spirituale che trascendono la realtà materiale. La loro localizzazione non è importante perché sono archetipi di esperienze spirituali, non oggetti fisici. Tutto qui invita a riflettere non su dove si trovi l’albero, ma su cosa rappresenti nel cammino di crescita spirituale e di confronto con la libertà e la responsabilità umana.
Le interpretazioni che vedono l’albero della conoscenza come simbolo di una realtà trascendente o di un confine tra il divino e l’umano hanno radici profonde nella tradizione esegetica sia antica che moderna. Ecco alcuni esempi di autori e teologi, sia tra i Padri della Chiesa che tra i teologi moderni, che hanno esplorato questo tema:
1. Sant’Agostino di Ippona (354-430 d.C.) interpreta l’albero della conoscenza del bene e del male in modo simbolico, vedendolo non come un semplice albero fisico, ma come un test di obbedienza e libero arbitrio. Nel suo capolavoro “La Città di Dio”, sottolinea che l’albero non aveva un potere intrinseco, ma rappresentava il limite morale imposto da Dio per educare l’uomo alla dipendenza da Lui. Egli vede l’albero come simbolo di una conoscenza che solo Dio può possedere pienamente, in quanto l’uomo non è creato per decidere autonomamente il bene e il male. Opera: De Genesi ad Litteram (Sulla Genesi alla lettera)
“Il frutto dell’albero era buono, non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio.”
2. Tommaso d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theologiae, affronta il tema dell’albero della conoscenza e lo interpreta come il simbolo della capacità di discernimento morale che Dio voleva riservare all’uomo nel momento opportuno, dopo aver raggiunto una piena maturità. Secondo Tommaso mangiare il frutto rappresenta una ribellione contro l’ordine divino, cercando di appropriarsi di una conoscenza che l’uomo, da solo, non era pronto a gestire.
Opera: Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2 “L’albero non era proibito per il suo frutto, ma per il significato morale: l’uomo doveva attendere il tempo di Dio per partecipare alla piena conoscenza.”
3. Gregorio di Nissa (IV secolo d.C.) Padre della Chiesa orientale, interpreta l’albero come simbolo della crescita spirituale e del progresso dell’anima verso la perfezione. Egli vede l’albero della conoscenza come una tappa che l’uomo doveva raggiungere solo in un secondo momento, attraverso un cammino di purificazione e conoscenza progressiva di Dio. Opera: De Hominis Opificio (Sulla creazione dell’uomo) “L’albero della conoscenza non è male di per sé, ma diventa tale quando l’uomo lo approccia con arroganza e disobbedienza, fuori dal tempo stabilito da Dio.”
4. Tra i teologi moderni, l’interpretazione simbolica e trascendente dell’albero è ripresa da autori come: Claus Westermann (1909-2000), esegeta tedesco, nel suo commentario sulla Genesi, sottolinea che l’albero rappresenta l’autonomia morale che l’uomo cerca di conquistare senza Dio. Opera: Genesis (Commentary) “L’albero non è un semplice albero fisico, ma una realtà che rappresenta la scelta fondamentale dell’uomo tra fidarsi di Dio o cercare la propria indipendenza morale.” Henri Blocher (1942), teologo evangelico francese, interpreta l’albero come il simbolo del mistero della sovranità di Dio, una conoscenza che appartiene esclusivamente al Creatore. Opera: In the Beginning: The Opening Chapters of Genesis: “L’albero rappresenta ciò che appartiene esclusivamente a Dio: il diritto di definire ciò che è bene e ciò che è male.”
*Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza del bene e del male (Etz HaDa’at Tov va-Ra’) ha un significato complesso e ricco di interpretazioni, che spesso differiscono da quelle cristiane. Mentre il cristianesimo si concentra sulla caduta e sul peccato originale, l’ebraismo non considera il peccato di Adamo ed Eva come una colpa ereditaria, ma piuttosto come un evento che offre importanti insegnamenti sull’essere umano, la libertà e la responsabilità morale. Ecco alcune delle principali interpretazioni ebraiche dell’albero della conoscenza:
1. L’Albero come simbolo di maturità e discernimento. Molti rabbini e studiosi ebrei vedono l’albero come simbolo della capacità di discernere tra bene e male, una qualità che Adamo ed Eva acquisiscono mangiandone il frutto. Prima di mangiare dall’albero, essi vivevano in una condizione di innocenza, priva di consapevolezza morale e responsabilità.
Rabbi Samson Raphael Hirsch (1808-1888), uno dei fondatori del moderno ebraismo ortodosso, interpreta l’albero come la capacità di fare scelte morali autonome, una tappa necessaria per l’umanità affinché potesse evolversi da una condizione infantile a una vita di responsabilità. “Il frutto proibito rappresenta la transizione dall’obbedienza infantile a una consapevolezza etica autonoma.”
2. Non il peccato, ma la consapevolezza della mortalità. Alcuni rabbini, tra cui il filosofo Maimonide (Rambam, 1138-1204), sostengono che mangiare dall’albero non ha portato il peccato nel mondo, ma ha dato agli esseri umani la consapevolezza della loro mortalità e della loro condizione imperfetta. Per Maimonide, l’albero rappresenta la conoscenza sensibile e materiale, che contrasta con la conoscenza intellettuale e divina. Opera: Guida dei Perplessi (Moreh Nevukhim): “Prima di mangiare dall’albero, Adamo ed Eva vivevano secondo la verità pura e intellettuale; dopo, iniziarono a percepire il mondo attraverso la lente del desiderio e del piacere sensibile.” In questa visione, l’albero non è necessariamente negativo: rappresenta l’ingresso dell’umanità in una condizione complessa, in cui si mescolano bene e male, vita e morte, piacere e dolore.
3. La conoscenza come responsabilità morale. Nel Midrash (racconti esegetici rabbinici), l’albero è spesso interpretato come una prova attraverso la quale Dio voleva insegnare all’uomo la responsabilità morale. Adamo ed Eva non erano destinati a rimanere per sempre nel Giardino dell’Eden, ma dovevano dimostrare la loro capacità di rispettare i confini stabiliti da Dio. Secondo il Midrash Rabbah sulla Genesi, Dio voleva che l’uomo imparasse a rispettare i limiti e che comprendesse che non tutto gli è accessibile o utile. Il divieto di mangiare dall’albero simboleggia il fatto che la libertà umana è sempre accompagnata da limiti etici. “Non tutto ciò che è desiderabile è buono, e non tutto ciò che è permesso è necessario.”
4. Il frutto dell’albero: simbolismo e interpretazioni. La tradizione ebraica non identifica esplicitamente quale fosse il frutto dell’albero. Tuttavia, esistono diverse interpretazioni rabbiniche sul tipo di frutto: Fico: Alcuni commentatori suggeriscono che fosse un fico, poiché Adamo ed Eva si coprono immediatamente con foglie di fico dopo aver mangiato il frutto (Genesi 3:7). Uva: Secondo un’altra tradizione midrashica, il frutto potrebbe essere stato l’uva, simbolo del desiderio e del vino, che porta sia gioia che sventura. Grano: Alcuni rabbini interpretano il frutto come chicchi di grano, simbolo della conoscenza e della capacità di distinguere tra bene e male, poiché nella cultura ebraica il grano è legato alla saggezza.
5. Il ruolo di Dio e la libertà umana. Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza è spesso interpretato come un dono che Dio concede agli esseri umani per permettere loro di diventare co-creatori del loro destino. A differenza della tradizione cristiana, che sottolinea il concetto di caduta e peccato, l’ebraismo mette in evidenza l’importanza della libertà di scelta e la possibilità di rettificare le proprie azioni attraverso il pentimento (teshuvah); è quindi considerato come una sfida educativa che porta l’essere umano a crescere in consapevolezza e responsabilità. Autori come Maimonide, Hirsch e il Midrash Rabbah sottolineano che l’essenza del racconto è il tema della libertà morale, della necessità di accettare i limiti imposti da Dio e della possibilità di evoluzione spirituale.
+ Giovanni D’Ercole
Il Giogo sui Piccoli: Religione trasformata in ossessione (per “trattenuti”)
(Mt 11,28-30)
I rabbini sceglievano i discepoli fra coloro che avevano maggiori capacità intellettive e ascetiche.
Gesù invece va a cercare i fuori del giro, gli «infanti» (v.25) che neppure avevano stima di sé.
Egli liberava proprio i malfermi da costrizioni esterne, e consentiva che ciascuno sprigionasse la sua forza interiore.
Cristo non annuncia un Dio lontanissimo, bensì vicinissimo; e l’itinerario efficace per diventare intimi col Padre è sapersi famigliari disciolti.
Solo qui possiamo coglierlo nel centro del suo ‘svelamento’: potenza sapiente, soccorrevole, unita; per noi, come siamo.
Gli esperti della religione ufficiale - stracolmi di amor proprio e senso d’elezione - predicavano un onnipotente Sovrano da convincere con atteggiamenti sicuri e fare artificioso, tagliente, imperioso.
Non lasciavano essere né diventare. L’intransigenza era segno che non conoscevano il Padre.
L’Eterno trasformato in Controllore era divenuto fonte di discriminazione e ossessione per la vita intima delle persone minute, vessate dall’insicurezza del distinguere-evitare-osservare, e dai dubbi di coscienza.
Scomodati dal vivere in prima persona [e come ceto] la conversione che predicavano agli altri, i professori non s’accorgevano di doversi svuotare di assurde presunzioni e diventare - loro - alunni della gente normale.
Non siamo i sottoposti d’un Signore accigliato e tutto distante - però manipolatore. E che chiede di stare sempre allerta, con sforzo.
I nuovi, le nullità, i senza voce, inadeguati e invisibili, non sanno calcolare in termini di norma e codice - «giogo» antico (vv.29-30) che schiaccia le vocazioni.
Nessuno è abilitato da Dio a forzare le direzioni, tener d’occhio gli altri in modo maniacale, perfezionista e meticoloso [esasperando i fallimenti].
Il Padre non vuole esacerbare gli eventi regolando ogni dettaglio anche “spirituale” a partire da schemi irritanti di vigilanza che non ci appartengono.
I figli preferiscono lasciar fluire i modi personali di affrontare la realtà; così rintracciandone le energie essenziali e spontanee.
Ragioniamo secondo codici di vita e umanizzazione: indole, storia irripetibile, influssi culturali, amicizie di carattere largo. Non viviamo per prevenire.
Solo così possiamo arricchire l’esperienza fondamentale: l’Amore - che non viene da giudizi, tagli e separazioni, ma dalla relazione Padre-Figlio. Unica che non stizzisce.
Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è appunto il nascondimento, la ‘tapineria’ [(tapeínōsis, ‘abbassamento’), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29; Lc 1,48].
Solo chi ama la forza inizia dal troppo distante da sé.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Subisci da qualche guida o da te stesso una sorta di complesso del controllore?
[Mercoledì 2.a sett. Avvento, 11 dicembre 2024]
Religione trasformata in ossessione - per “trattenuti”
(Mt 11,28-30)
I rabbini sceglievano i discepoli fra coloro che avevano maggiori capacità intellettive e ascetiche. Gesù invece va a cercare i fuori del giro, gli «infanti» (v.25) che neppure avevano stima di sé.
Anche per la rinascita che oggi si prospetta, Cristo non ha bisogno di finti fenomeni, anzi è Lui che libera da costrizioni esterne; sprigiona la forza interiore [e sana pure il cervello].
Nell’intimità del Mistero della vita divina entra chi sa ricevere tutto e molla la presa - ma rimane se stesso.
Dio non è lontanissimo, bensì vicinissimo; non è grande, ma piccolo: l’itinerario efficace per diventare intimi col Padre non è farsi subalterni con sforzo, ma sapersi famigliari disciolti.
Solo qui possiamo coglierlo nel centro del suo svelamento: potenza sapiente, soccorrevole, unita; per noi, come siamo.
Gli esperti della religione ufficiale - stracolmi di amor proprio e senso d’elezione - predicavano un Dio da convincere con atteggiamenti sicuri e fare artificioso, tagliente, imperioso.
Non lasciavano essere né diventare. L’intransigenza era segno che non conoscevano il Padre.
L’Eterno trasformato in Controllore era divenuto fonte di discriminazione e ossessione per la vita intima delle persone minute, vessate dall’insicurezza del distinguere-evitare-osservare, e dai dubbi di coscienza.
Scomodati dal vivere in prima persona (e come ceto) la conversione che predicavano agli altri, i professori non s’accorgevano di doversi svuotare di assurde presunzioni e diventare - loro - alunni della gente normale.
Insomma, come figli siamo incessantemente invitati a edificare Famiglia poliedrica, dove non si sta sempre in allerta.
Non siamo i sottoposti d’un Signore accigliato e tutto distante - però manipolatore.
Piuttosto, i chiamati a una scelta paradossale, personale e di ceto: e senza forzature, riconoscersi - mettersi a fianco degli umiliati e vessati.
Ciò mentre la falsa pietà di provincia continua a far trascinare fardelli - proprio quelli dei contrastati e stancati, dall’esistenza resa più esitante anziché libera; ossessionata e greve, anziché leggera.
Perché? Senza giri di parole, l’Enciclica Fratelli Tutti risponderebbe:
«Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori» (n.15).
Come dire: quando le autorità e i primi della classe sono poco credibili, unicamente la seminagione della paura produce significativi condizionamenti nel popolo, e lo mette a guinzaglio.
Nella Chiesa diffusa, solo da pochi decenni abbiamo superato il cliché delle predicazioni moralistiche e terroristiche [ad es. anche in tempo di Avvento] disgiunte da un meridiano senso di umanizzazione.
Gli esclusi, abbattuti e sfiancati da adempimenti senza senso hanno tuttavia continuato a incontrare il Salvatore francamente, trovando riposo dell’anima, convinzione, pace, equilibrio, speranza.
D’istinto, sono riusciti a ritagliarsi ciò che nessuna religione piramidale aveva mai saputo porgere e dispiegare.
In tal guisa, i nuovi, le nullità, i senza voce inadeguati e invisibili, mai sanno calcolare in termini di dottrina e leggi, norma e codice - «giogo» antico (vv.29-30) insopportabile, che schiaccia persone e vocazioni concrete; autonomie o comunionalità particolari.
Insomma, nessun “patriarca” è abilitato da Dio a impacchettare la nostra anima, forzare le direzioni, e tenerci d’occhio in modo maniacale, perfezionista e meticoloso.
Esasperando i fallimenti, a tutto campo.
Ciascuno ha un modo di stare al mondo connaturato, tutto suo - perfino se abitudinario. È opportunità d’impulso e ricchezza per tutti.
Noi stessi non vogliamo esacerbare gli eventi regolando ogni dettaglio anche “spirituale” a partire da schemi irritanti di vigilanza che non ci appartengono.
Preferiamo lasciar fluire i modi personali di affrontare la realtà; così rintracciandone le energie essenziali e spontanee.
Ragioniamo secondo codici di vita e umanizzazione: indole, storia irripetibile, influssi culturali, amicizie di carattere largo. Non viviamo per prevenire.
Solo così possiamo arricchire l’esperienza fondamentale: l’Amore - che non viene da giudizi, tagli e separazioni, ma dalla relazione Padre-Figlio. Unica che non stizzisce.
Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è appunto il nascondimento, la ‘tapineria’ [(tapeínōsis, ‘abbassamento’), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29 testo greco; Lc 1,48].
Solo chi ama la forza inizia dal troppo distante da sé.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In comunità ti cogli più o meno libero e sereno?
La tua Chiamata ottiene respiro o senti l’aggravio altrui di dubbi, giudizi, divieti e prescrizioni?
Subisci da qualche guida o da te stesso una sorta di complesso del controllore?
L'uomo ha bisogno di essere liberato dalle oppressioni materiali, ma deve essere salvato, e più profondamente, dai mali che affliggono lo spirito. E chi può salvarlo se non Dio, che è Amore e ha rivelato il suo volto di Padre onnipotente e misericordioso in Gesù Cristo? La nostra salda speranza è dunque Cristo: in Lui, Dio ci ha amato fino all'estremo e ci ha dato la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10), quella vita che ogni persona, talora persino inconsapevolmente, anela a possedere.
"Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro". Queste parole di Gesù, scritte a grandi lettere sopra la porta della vostra Cattedrale di Brno, Egli le indirizza ora a ciascuno di noi ed aggiunge: "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita" (Mt 11,29-30). Possiamo restare indifferenti dinanzi al suo amore? Qui, come altrove, nei secoli passati tanti hanno sofferto per mantenersi fedeli al Vangelo e non hanno perso la speranza; tanti si sono sacrificati per ridare dignità all'uomo e libertà ai popoli, trovando nell'adesione generosa a Cristo la forza per costruire una nuova umanità. E pure nell'attuale società, dove tante forme di povertà nascono dall'isolamento, dal non essere amati, dal rifiuto di Dio e da un'originaria tragica chiusura dell'uomo che pensa di poter bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto insignificante e passeggero; in questo nostro mondo che è alienato "quando si affida a progetti solo umani" (cfr Caritas in veritate, 53), solo Cristo può essere la nostra certa speranza. Questo è l'annuncio che noi cristiani siamo chiamati a diffondere ogni giorno, con la nostra testimonianza.
[Papa Benedetto, omelia Aeroporto Tuřany di Brno 27 settembre 2009]
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses
don Giuseppe Nespeca
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