don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XXX Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [26 Ottobre 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ancora un insegnamento sulla preghiera da Gesù nel vangelo e che insegnamento! 

 

   Prima Lettura dal libro del Siracide (35, 15b-17.20-22a)

 “Dio non giudica dall’apparenza” (Sir 35) Il libro del Siracide, scritto da Ben Sira verso il 180 a.C. a Gerusalemme, nasce in un tempo di pace e di apertura culturale sotto il dominio greco. Tuttavia, questa apparente serenità nasconde un rischio: il contatto tra cultura ebraica e greca minaccia la purezza della fede, e Ben Sira intende trasmettere l’eredità religiosa d’Israele nella sua integrità. La fede ebraica, infatti, non è una teoria, ma un’esperienza di alleanza con il Dio vivente, scoperto progressivamente attraverso le sue opere. Dio non è un’idea umana, ma una rivelazione sorprendente, perché “Dio è Dio e non un uomo” (Os 11,9). Il testo centrale afferma che Dio non giudica secondo le apparenze: mentre gli uomini guardano l’esterno, Dio guarda il cuore. Egli ascolta la preghiera del povero, dell’oppresso, dell’orfano e della vedova, e – in un’immagine meravigliosa – “le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio”, segno della sua misericordia che vibra di compassione. Ben Sira insegna che la vera preghiera nasce dalla precarietà: quando l’uomo si scopre povero e senza appoggi, il suo cuore si apre davvero a Dio. La precarietà e la preghiera sono della stessa famiglia: solo chi riconosce la propria debolezza prega con sincerità. Infine, il saggio ammonisce che non sono i sacrifici esteriori a piacere a Dio, ma un cuore puro e disposto al bene: Ciò che piace al Signore è anzitutto che ci si tenga lontano dal male. Il Signore è un giudice giusto, che non fa preferenza di persone, ma guarda alla verità del cuore. In sintesi, Ben Sira ci ricorda che Dio non giudica dall’apparenza ma dal cuore, che la preghiera autentica nasce dalla povertà, e che la misericordia divina si manifesta nella sua vicinanza compassionevole ai piccoli e agli umili.

 

Salmo Responsoriale (33/34, 2-3, 16.18, 19.23)

 Ecco un altro salmo alfabetico, cioè ogni versetto segue l’ordine delle lettere dell’alfabeto ebraico. Questo indica che la vera sapienza consiste nel confidare in Dio in tutto, dalla A alla Z. Il testo fa eco alla prima lettura del Siracide, che incoraggiava gli ebrei del II secolo a mantenere la purezza della fede di fronte alle seduzioni della cultura greca.Il tema centrale è la scoperta di un Dio vicino all’uomo, soprattutto a chi soffre: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato.” È una delle rivelazioni più grandi della Bibbia: Dio non è un essere distante o geloso, ma un Padre che ama e partecipa al dolore dell’uomo. Ben Sira diceva poeticamente che “le nostre lacrime scorrono sulle guance di Dio”: immagine della sua misericordia tenera e compassionevole. Questa rivelazione si radica nel cammino di Israele. Al tempo di Mosè, i popoli pagani immaginavano dèi rivali e invidiosi. La Genesi corregge questa visione, mostrando che il sospetto verso Dio è un veleno, simbolizzato dal serpente. Israele, attraverso i profeti, ha compreso progressivamente che Dio è un Padre che accompagna, libera e consola, il “Dio-con-noi” (Emmanuele). Il roveto ardente (Es 3) è il fondamento di questa fede: “Ho visto la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze” Qui Dio si rivela come Colui che vede, ascolta e agisce. Egli non resta spettatore, ma suscita in Mosè e nei suoi figli la forza di liberare, trasformando la sofferenza in speranza e impegno. Il salmo riflette questa esperienza: il popolo, dopo aver conosciuto la prova, proclama la lode: “Benedirò il Signore in ogni tempo”  perché ha fatto esperienza di un Dio che ascolta, libera, guarda, salva e redime. Il nome “YHWH” il “Signore” indica proprio la presenza costante di Dio accanto al suo popolo. Infine, il testo insegna che nella prova non solo è lecito, ma necessario gridare a Dio: Egli è attento al nostro grido e risponde, non sempre eliminando la sofferenza, ma rendendosi presente, risvegliando la fiducia, e donando la forza per affrontare il male. In sintesi, il salmo e la riflessione che lo accompagna ci consegnano tre certezze: Dio è vicino a chi soffre e ascolta il grido dei poveri.La sua presenza non toglie il dolore, ma lo illumina e lo trasforma in speranza. La vera fede nasce dalla fiducia in questo Dio che vede, ascolta, libera e accompagna l’uomo in ogni tempo.

 

Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (4, 6-8.16-18)

 “Il buon combattimento” (2Tm 4,6-18). Il testo presenta l’ultimo testamento spirituale di san Paolo, scritto mentre si trova in prigione a Roma, consapevole che presto sarà giustiziato. Le lettere a Timoteo, anche se forse composte o completate da un discepolo, contengono qui le sue parole autentiche di addio, intrise di fede e di serenità. Paolo descrive la sua imminente morte con il verbo greco analuein, che significa “sciogliere le funi”, “levare l’ancora”, “smontare la tenda”: immagini che evocano la partenza per un nuovo viaggio, quello verso l’eternità. Guardandosi indietro, l’apostolo fa il bilancio della sua vita usando la metafora sportiva della corsa e del combattimento: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.” Come un atleta che non si arrende, Paolo è arrivato al traguardo e sa che riceverà la “corona di giustizia”, la ricompensa promessa a tutti i fedeli. Non si vanta di sé, perché questa corona non è un privilegio personale, ma un dono offerto a tutti coloro che hanno desiderato con amore la manifestazione di Cristo. Il “giudice giusto”, Dio, non guarda le apparenze ma il cuore — come insegnava il Siracide — e donerà la gloria non solo a Paolo, ma a tutti coloro che vivono nella speranza dell’avvento del Signore. La vita dell’apostolo è stata una corsa costante verso la manifestazione gloriosa di Cristo, orizzonte della sua fede e del suo servizio. Egli riconosce che la forza per perseverare non viene da lui, ma da Dio stesso: “Il Signore mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del vangelo e tutte le genti l’ascoltassero”. Questa forza divina ha sostenuto la sua missione, rendendolo capace di annunciare Cristo fino alla fine. Paolo spiega che la vita cristiana non è una competizione, ma una corsa condivisa, in cui ciascuno è chiamato a correre al proprio ritmo, con lo stesso desiderio ardente della venuta di Cristo. Nella lettera a Tito aveva definito i cristiani come coloro che “attendono la beata speranza e la manifestazione del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” — parole che la liturgia ripete ogni giorno nella Messa. Nel momento della prova, Paolo confessa anche la solitudine dell’apostolo: La prima volta che ho presentato la mia difesa, nessuno mi ha sostenuto; tutti mi hanno abbandonato. Che ciò non sia loro imputato(v.16). Come Gesù sulla croce e Stefano al momento della lapidazione, egli perdona e trasforma l’abbandono in un’esperienza di intima comunione con il Signore, che diventa la sua unica forza e consolazione. Paolo è il povero di cui parla Ben Sira, quello che Dio ascolta e consola, colui le cui lacrime scorrono sulle guance di Dio. Le sue parole finali rivelano la speranza che supera la morte: “Così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, salverà nel suo regno” (v 17-18). Non parla della liberazione fisica – sa che la morte è imminente – ma della liberazione spirituale, dal pericolo più grande: perdere la fede, smettere di combattere. Il Signore lo ha custodito nella fedeltà e gli ha donato la perseveranza fino alla fine. Per Paolo, la morte non è una sconfitta, ma una traversata verso la gloria. È la nascita alla vera vita, l’ingresso nel Regno dove canterà per sempre: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”

In sintesi: Il testo ci presenta Paolo come modello del credente fedele fino alla fine. Vive la morte come partenza verso Dio, non come fine. Guarda alla vita come a una corsa sostenuta dalla grazia. Riconosce che la forza e la perseveranza vengono dal Signore. Comprende che la ricompensa è promessa a tutti coloro che desiderano l’avvento di Cristo. Perdona chi lo abbandona e trova la presenza di Dio nella solitudine e nella debolezza. Vede la morte come passaggio nella gloria del Regno. La “buona battaglia” di Paolo diventa così la lotta di ogni cristiano: rimanere fedele, nella prova, fino a correre l’ultimo tratto con lo sguardo fisso su Cristo, fonte di forza, di pace e di speranza.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (18, 9-14)

Una piccola osservazione preliminare prima di entrare nel testo: Luca ci dice chiaramente che si tratta di una parabola… dunque non dobbiamo immaginare che tutti i farisei o tutti i pubblicani del tempo di Gesù fossero come quelli qui descritti. Nessun fariseo, nessun pubblicano corrispondeva perfettamente a questo ritratto: Gesù in realtà ci presenta due atteggiamenti interiori, molto tipici e semplificati, per far risaltare la morale della storia. Egli vuole farci riflettere sulla nostra stessa attitudine, perché probabilmente ci riconosceremo ora nell’uno, ora nell’altro, secondo i giorni. Passiamo alla parabola: la scorsa domenica Luca ci aveva già proposto un insegnamento sulla preghiera; la parabola della vedova e del giudice ingiusto ci insegnava a pregare senza scoraggiarci mai. Oggi, invece, è un pubblicano a essere proposto come esempio. Quale rapporto – si dirà – può esserci tra una vedova povera e un pubblicano ricco? Non è certo il conto in banca il punto in questione, ma le disposizioni del cuore. La vedova è povera e costretta ad umiliarsi davanti a un giudice che la ignora; il pubblicano, forse benestante, porta però sulle spalle il peso della cattiva reputazione, che è un’altra forma di povertà. I pubblicani erano malvisti, e spesso non senza motivo: vivevano infatti in un periodo di occupazione romana, e lavoravano al servizio dell’occupante. Erano considerati dei “collaboratori”. Inoltre, si occupavano di un tema sensibile in ogni epoca: le tasse. Roma fissava la somma dovuta, e i pubblicani la anticipavano, ricevendo poi pieni poteri per recuperarla dai concittadini… spesso con largo margine di guadagno. Quando Zaccheo prometterà a Gesù di restituire quattro volte tanto a chi aveva frodato, il sospetto è confermato. Perciò, quando il pubblicano nella parabola non osa alzare gli occhi al cielo e si batte il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, forse dice soltanto la pura verità. Essere veri davanti a Dio, riconoscere la propria fragilità: ecco la vera preghiera. È questa sincerità che lo rende “giusto” al ritorno a casa, dice Gesù. I farisei, al contrario, godevano di ottima reputazione: la loro fedeltà scrupolosa alla Legge, il digiuno due volte a settimana (più di quanto la Legge richiedesse!), le elemosine regolari, tutto esprimeva il loro desiderio di piacere a Dio. E tutto ciò che il fariseo dice nella sua preghiera è vero: non inventa nulla. Ma, in realtà, non prega. Si contempla. Si guarda con compiacenza: non ha bisogno di nulla, non chiede nulla. Fa il bilancio dei suoi meriti — e ne ha molti! — ma Dio non ragiona in termini di merito: il suo amore è gratuito, e tutto ciò che chiede è che ci fidiamo di Lui. Immaginiamo un giornalista all’uscita del Tempio che intervista i due uomini: Signor pubblicano, cosa si aspettava da Dio entrando nel Tempio? Sì, mi aspettavo qualcosa. E l’ha ricevuto?  Sì, e anche di più. E lei, signor fariseo? No, non ho ricevuto nulla… Un attimo di silenzio, poi aggiunge: Ma non mi aspettavo nulla, del resto. La frase conclusiva della parabola riassume tutto: “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato.” Gesù non vuole presentare Dio come un contabile morale, che distribuisce premi e castighi. Egli constata una verità profonda: chi si esalta, cioè chi si crede più grande di ciò che è, come il fariseo, chiude il cuore e guarda gli altri dall’alto in basso. Ma chi si crede superiore perde la ricchezza degli altri e si isola da Dio, che non forza mai la porta del cuore. Si resta così com’eravamo, con la nostra “giustizia” umana, così diversa da quella divina. Al contrario, chi si umilia, chi si riconosce piccolo e povero, vede negli altri una superiorità, e può attingere alla loro ricchezza. Come dice san Paolo: “Considerate gli altri superiori a voi stessi.” E ciò è vero: ogni persona che incontriamo ha qualcosa che noi non abbiamo. Questo sguardo apre il cuore e permette a Dio di riempirci del suo dono. Non si tratta di complesso d’inferiorità, ma di verità del cuore. È proprio quando riconosciamo di non essere “brillanti” che può cominciare la grande avventura con Dio. In fondo, questa parabola è una magnifica illustrazione della prima beatitudine: “Beati i poveri di cuore, perché di essi è il Regno dei cieli.”

+ Giovanni D’Ercole

Chiamò a Sé: emergenza per Nome, prima che dattorno

(Lc 6,12-19)

 

Lc riflette il doppio indirizzo del culto nelle comunità primitive: la Preghiera come significativa apertura al Padre e celebrazione interna fra discepoli (vv.13-17) - e il pubblico Annuncio con opere, al popolo.

La comunità è vicina: Dio è nella nostra storia. L’idea di un Regno distante produce separazioni, piramidi pastoralmente inconsistenti, e dispersiva coltivazione d’interessi.

Insomma, è fondamentale prima maturare, ovunque viviamo.

Chi coltiva molte brame, le proietta; procura i suoi stessi influssi torbidi. Per questo è necessaria l’orazione e la riflessone, che - dall’Ascolto - ci trasmettono il senso del nostro stare al mondo e una retta disposizione.

Sembra un paradosso, ma l’interesse verso i bisogni delle moltitudini è un problema squisitamente radicato nell’intimo.

È da se stessi e a partire dalla comunità che si guarda con empatia il mondo stesso, sapendone recuperare i lati opposti.

È la Via dell’Interno che compenetra e attiva la via dell’esterno.

In tal guisa c’immergiamo nella Fonte dell’essere: per spostare lo sguardo precipitoso. Chi non è libero non può liberare.

Unico modo saggio di scrutare lontano è attenersi alla ragione delle cose, principio che si conosce attivamente, se non fuorviati da superficialità e riduzioni.

Intesa la natura delle creature e conformandovisi in modo crescente, tutti vengono ispirati a trasmutare e completarsi, arricchendo anche la sclerosi culturale senza forzature alienanti.

Tutto ciò, esercitando una pratica di bontà anche con se stessi.

Non per distinguere il momento della Vocazione da quello dell’Invio ministeriale: la via del Cielo è intrecciata alla strada della Persona.

È insomma per avvicinarsi al senso dell’unicità missionale di ciascun Apostolo che Gesù trascorre un’intera notte in preghiera (v.12).

 

Gran parte dei primi seguaci ha nomi tipici del giudaismo, addirittura del tempo dei Patriarchi - il che indica un’estrazione mentale e spirituale radicata più nella religione antica che nella nuova Fede: realtà non facile da gestire.

Ma anche per loro il Signore sprigiona la sua forza di Vita piena, malgrado in sé fossero individui comuni, pieni di limiti.

Tuttavia il Regno è «locale e universale» [Fratelli Tutti, nn.142-153], Vicino e per Nome - come si evince dal passo del Vangelo di Lc.

Questa la forza molteplice, graffiante, impareggiabile, prossima e appunto personale, la quale vince ogni possibilità di sabotaggio ideale [a motivo di circostanze avverse].

Potenza attinta sia dalla preghiera diretta al Padre in Cristo - nel suo Ascolto notturno (v.12) - nonché dalle opere d’amore (vv.17-19).

Potenze in simbiosi personale, sensibile, condivisa.

Missione non per soli eccellenti, né unilaterale, bensì per un contagio inquieto.

Annuncio di nuova Luce accolta in Dono: dove appunto non appare una sola forma o un solo colore.

E l’Asse è stare talora nascosti con Lui.

«È quanto la tradizione ha poi formulato con la nota espressione: “Contemplata aliis tradere” (cfr San Tommaso, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 188, art. 6)» [Papa Benedetto].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua esperienza, quale catena ha unito il Cielo e la terra?

 

 

[Ss. Simone e Giuda, 28 ottobre]

Il doppio indirizzo del culto, ma l’Asse è stare con Lui

(Lc 6,12-19)

 

«Uscì verso il Monte per pregare e passò la notte nella preghiera a Dio» (v.12).

«E tutta la folla cercava di toccarlo poiché una Forza usciva da Lui e guariva tutti» (v.19).

 

Lc riflette il doppio indirizzo del culto nelle comunità primitive.

Anzitutto, la Preghiera come significativa apertura al Padre e celebrazione interna fra discepoli (vv.13-17). Quindi il pubblico Annuncio (con opere) al popolo.

 

La comunità è vicina: Dio è nella nostra storia.

L’idea di un Regno distante produce separazioni, gerarchie piramidali (pastoralmente) inconsistenti. Talora, dispersiva coltivazione d’interessi interni spacciati per grande sensibilità e altruismo.

Insomma, per camminare sul serio accanto a se stessi e agli altri è fondamentale prima maturare, ovunque viviamo.

Ciò vale per assumere differenti iniziative; anche eventualmente per ribellarsi al panorama stagnante che ama tornare alle sicurezze antiche.

In tal guisa, ci possono essere motivi poco nobili per voler giungere subito ovunque, correre dappertutto a fare proseliti, e farlo per contrapposizione, senza un «sogno di amicizia» [cf. enciclica Fratelli Tutti, passim].

Infatti chi coltiva molte brame, le proietta; procura i suoi stessi influssi torbidi.

Per questo è necessaria l’orazione, e la riflessone - indispensabili anche a Gesù (v.12) - che ci porgono il senso del nostro stare al mondo, la Visione del Padre, e una retta disposizione.

 

Meditazioni profonde e preghiere spontanee annientano le infedeltà che non propongono vita genuina, né motivazioni autentiche, o valori dello spirito.

Le orazioni intaccano e demoliscono le disumanizzazioni, le emozioni che ci alienano e allontanano dai fratelli, i tranelli che tendono a edificare altri templi e santuari.

La stessa carica di universalità e il “senso di urgenza” sono contenuti nel radicamento ai valori trasmesso dal dialogo con Dio. E il suo Mistero (per noi), nelle relazioni, nella conoscenza intima di sé.

Infatti... stimoli, princìpi virtuosi, lacune e lati nascosti sono aspetti energetici complementari.

Sembra un paradosso, ma l’interesse verso i bisogni delle moltitudini è un problema squisitamente radicato nell’intimo, per nulla esteriore.

È da se stessi e a partire dalla comunità che si guarda con empatia il mondo, sapendone recuperare gli opposti.

È la Via dell’Interno che compenetra e attiva la via dell’esterno.

Così volentieri preghiamo: per immergerci nella Fonte vibrante dell’essere, e spostare lo sguardo precipitoso.

 

Per contrasto e impedimento, la parzialità abitudinaria che “si mette in mezzo” non coglie il valore del poliedro sociale e culturale.

D’altro canto, purtroppo, solo amando la forza si preferisce partire dal troppo distante.

Bisogna anzitutto guarire ciò ch’è intimo e prossimo. Chi non è libero non può emancipare nessuno.

Così, unico modo di scrutare lontano è attenersi alla ragione delle cose - principio che si conosce attivamente, se non fuorviati da superficialità e riduzioni [individualiste o monovalenti, unilaterali e di club].

Intesa la natura delle creature e conformandovisi in modo crescente, tutti vengono ispirati a trasmutare e completarsi.

Processo non alienante, che arricchisce anche la possibile sclerosi culturale, senza forzature isteriche o esterne.

Tutto ciò, esercitando una pratica di bontà anche con se stessi.

 

Dice il Tao (XLVII): «Senza uscir dalla porta, conosci il mondo; senza guardar dalla finestra, scorgi la Via del Cielo. Più lungi te ne vai, meno conosci. Per questo il santo non va dattorno eppur conosce, non vede eppur discerne, non agisce eppur completa».

Solo dalla Fonte dell’essere - casa comune - scaturisce una vita non dissociata, da salvati a tutto tondo, che efficacemente permane e può dilatarsi. 

Siamo segno di dedizione e persone protese? Non lo faremo per “merito” o al fine di cattivarsi le simpatie.

Senza fare la setta, dopo una buona formazione - la quale ci trasmette anche una sapiente tolleranza, a partire dal mondo di dentro.

Nessuno scopo estrinseco, che perderebbe l’anima e non recherebbe svolta alcuna.

Non per distinguere il momento della Vocazione da quello dell’Invio ministeriale.

La via del Cielo è intrecciata alla strada della Persona e a quella della Natura [«come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia»: Laudato Si’, n.1] o saremo operatori da strapazzo.

 

Nessuno degli Apostoli - personaggi ordinari - era degno della Chiamata (vv.13-15).

Per capire questo, e avvicinarsi al senso della loro unicità missionale, Gesù deve trascorrere una intera notte in preghiera (v.12).

Gran parte dei primi seguaci ha nomi tipici del giudaismo, addirittura del tempo dei Patriarchi - il che indica un’estrazione mentale e spirituale radicata più nella religione antica che nella nuova Fede; bagaglio non facile da gestire.

Ma anche per gli indecisi il Signore sprigiona la sua forza di Vita piena, proprio perché in sé persone assolutamente comuni e piene di limiti; non di rado perplessi, perfino aperti oppositori.

Pietro smaniava per farsi avanti, pur retrocedendo spesso - marcia indietro - sino a diventare per Gesù un «satàn» [(Mt 16,23; Mc 8,33): nella cultura dell’oriente antico, un funzionario del gran sovrano, inviato a fare il controllore e delatore - praticamente un accusatore].

Giacomo di Zebedeo e Giovanni erano fratelli, accesi fondamentalisti, e in modo iroso volevano il Maestro solo per loro, nonché i primi posti.

Filippo [condizionato forse da un’estrazione ellenista, come indica il suo nome] a prima vista non sembrava un tipo molto pratico, né svelto a cogliere le cose di Dio.

Andrea pare invece se la cavasse bene: persona inclusiva.

Stando a note identificazioni tradizionali, Bartolomeo era forse aperto ma perplesso, perché il Messia non gli corrispondeva granché.

Tommaso sempre un poco dentro e un po’ fuori.

Matteo… un collaborazionista, avido complice del sistema oppressivo, e che volentieri estorceva denaro alla sua gente [il popolo lo condannava in modo spietato].

Simone - lo zelota, il cananeo - una testa calda.

Giuda Iscariota un tormentato, che si autodistrugge per essersi fidato di vecchie guide spirituali - impregnate d’ideologia nazionalista, interesse privato, opportunismo e potere.

Altri due (Giacomo il minore figlio di Alfeo, e Giuda Taddeo) semplici discepoli forse di non grande rilievo o capacità d’iniziativa.

Ma il Regno è «locale e universale» [Fratelli Tutti, nn.142-153], Vicino e per Nome - come si evince dal passo del Vangelo di Lc.

Questa la forza molteplice, graffiante, impareggiabile, prossima e appunto personale, la quale vince ogni possibilità di sabotaggio ideale (a motivo di circostanze avverse).

Potenza attinta sia dalla preghiera diretta al Padre in Cristo - nel suo Ascolto notturno (v.12) - nonché dalle opere d’amore (vv.17-19).

Potenze in simbiosi personale, sensibile, condivisa.

Non per soli eccellenti… o anche nel tempo dell’emergenza globale non vi sarà opera sanante (v.19) bensì solo esterna, accusatoria e finalizzata alla propaganda, al proselitismo.

 

Annuncio e Missione di nuova Luce accolta in Dono: dove appunto non appare una sola forma o un solo colore.

E l’Asse è «stare» con Lui.

«È quanto la tradizione ha poi formulato con la nota espressione: “Contemplata aliis tradere” (cfr San Tommaso, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 188, art. 6)» [Papa Benedetto].

Per un contagio non allarmistico né unilaterale, monocromatico, bensì florido, poliedrico, talora “nascosto”, e inquieto.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua esperienza, quale catena ha unito il Cielo e la terra?

L’elenco (accusatorio) e lo sforzo delle trasgressioni da correggere in modo nevrotico?

O una Chiamata personale, inclusiva dei tuoi molti volti nell’anima - Vocazione sostenuta da una Chiesa fattasi eco e Fonte gratuita di comprensione a tutto tondo?

La Chiesa è stata costituita sul fondamento degli Apostoli come comunità di fede, di speranza e di carità. Attraverso gli Apostoli, risaliamo a Gesù stesso. La Chiesa cominciò a costituirsi quando alcuni pescatori di Galilea incontrarono Gesù, si lasciarono conquistare dal suo sguardo, dalla sua voce, dal suo invito caldo e forte: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini!" (Mc 1, 17; Mt 4, 19). Il mio amato Predecessore, Giovanni Paolo II, ha proposto alla Chiesa, all'inizio del terzo millennio, di contemplare il volto di Cristo (cfr Novo millennio ineunte, 16 ss). Muovendomi nella stessa direzione, nelle catechesi che oggi comincio vorrei mostrare come proprio la luce di quel Volto si rifletta sul volto della Chiesa (cfr Lumen gentium, 1), nonostante i limiti e le ombre della nostra umanità fragile e peccatrice. Dopo Maria, riflesso puro della luce di Cristo, sono gli Apostoli, con la loro parola e la loro testimonianza, a consegnarci la verità di Cristo. La loro missione non è tuttavia isolata, ma si colloca dentro un mistero di comunione, che coinvolge l'intero Popolo di Dio e si realizza a tappe, dall'antica alla nuova Alleanza.

Va detto in proposito che si fraintende del tutto il messaggio di Gesù se lo si separa dal contesto della fede e della speranza del popolo eletto: come il Battista, suo immediato precursore, Gesù si rivolge anzitutto a Israele (cfr Mt 15, 24), per farne la "raccolta" nel tempo escatologico giunto con lui. E come quella di Giovanni, così la predicazione di Gesù è al tempo stesso chiamata di grazia e segno di contraddizione e di giudizio per l'intero popolo di Dio. Pertanto, sin dal primo momento della sua attività salvifica Gesù di Nazaret tende a radunare il Popolo di Dio. Anche se la sua predicazione è sempre un appello alla conversione personale, egli in realtà mira continuamente alla costituzione del Popolo di Dio che è venuto a radunare, a purificare ed a salvare. Risulta perciò unilaterale e priva di fondamento l'interpretazione individualistica, proposta dalla teologia liberale, dell'annuncio che Cristo fa del Regno. Essa è così riassunta nell'anno 1900 dal grande teologo liberale Adolf von Harnack nelle sue lezioni su L'essenza del cristianesimo: "Il regno di Dio viene, in quanto viene in singoli uomini, trova accesso alla loro anima ed essi lo accolgono. Il regno di Dio è la signoria di Dio, certo, ma è la signoria del Dio santo nei singoli cuori" (Lezione Terza, 100s). In realtà, questo individualismo della teologia liberale è un'accentuazione tipicamente moderna: nella prospettiva della tradizione biblica e nell'orizzonte dell'ebraismo, in cui l'opera di Gesù si colloca pur con tutta la sua novità, risulta chiaro che tutta la missione del Figlio fatto carne ha una finalità comunitaria: Egli è venuto proprio per unire l'umanità dispersa, è venuto proprio per raccogliere, per unire il popolo di Dio.

Un segno evidente dell'intenzione del Nazareno di radunare la comunità dell'alleanza, per manifestare in essa il compimento delle promesse fatte ai Padri, che parlano sempre di convocazione, di unificazione, di unità, è l'istituzione dei Dodici. Abbiamo sentito il Vangelo su questa istituzione dei Dodici. Ne leggo ancora una volta la parte centrale: "Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i Dodici..." (Mc 3, 13-16; cfr Mt 10, 1-4; Lc 6, 12-16). Nel luogo della rivelazione, "il monte", Gesù, con iniziativa che manifesta assoluta consapevolezza e determinazione, costituisce i Dodici perché siano con lui testimoni e annunciatori dell'avvento del Regno di Dio. Sulla storicità di questa chiamata non ci sono dubbi, non solo in ragione dell'antichità e della molteplicità delle attestazioni, ma anche per il semplice motivo che vi compare il nome di Giuda, l'apostolo traditore, nonostante le difficoltà che questa presenza poteva comportare per la comunità nascente. Il numero Dodici, che richiama evidentemente le dodici tribù d'Israele, rivela già il significato di azione profetico-simbolica implicito nella nuova iniziativa di rifondare il popolo santo. Tramontato da tempo il sistema delle dodici tribù, la speranza d'Israele ne attendeva la ricostituzione come segno dell'avvento del tempo escatologico (si pensi alla conclusione del libro di Ezechiele: 37, 15-19; 39, 23-29; 40-48). Scegliendo i Dodici, introducendoli ad una comunione di vita con sé e rendendoli partecipi della sua missione di annuncio del Regno in parole ed opere (cfr Mc 6, 7-13; Mt 10, 5-8; Lc 9, 1-6; Lc 6, 13), Gesù vuol dire che è arrivato il tempo definitivo in cui si costituisce di nuovo il popolo di Dio, il popolo delle dodici tribù, che diventa adesso un popolo universale, la sua Chiesa.

Con la loro stessa esistenza i Dodici - chiamati da provenienze diverse - diventano un appello a tutto Israele perché si converta e si lasci raccogliere nell'alleanza nuova, pieno e perfetto compimento di quella antica. L'aver affidato ad essi nella Cena, prima della sua Passione, il compito di celebrare il suo memoriale, mostra come Gesù volesse trasferire all'intera comunità nella persona dei suoi capi il mandato di essere, nella storia, segno e strumento del raduno escatologico, in lui iniziato. In un certo senso possiamo dire che proprio l'Ultima Cena è l'atto della fondazione della Chiesa, perché Egli dà se stesso e crea così una nuova comunità, una comunità unita nella comunione con Lui stesso. In questa luce, si comprende come il Risorto conferisca loro - con l'effusione dello Spirito - il potere di rimettere i peccati (cfr Gv 20, 23). I dodici Apostoli sono così il segno più evidente della volontà di Gesù riguardo all'esistenza e alla missione della sua Chiesa, la garanzia che fra Cristo e la Chiesa non c'è alcuna contrapposizione: sono inseparabili, nonostante i peccati degli uomini che compongono la Chiesa. È pertanto del tutto inconciliabile con l'intenzione di Cristo uno slogan di moda alcuni anni fa: "Gesù sì, Chiesa no". Questo Gesù individualistico scelto è un Gesù di fantasia. Non possiamo avere Gesù senza la realtà che Egli ha creato e nella quale si comunica. Tra il Figlio di Dio fatto carne e la sua Chiesa v'è una profonda, inscindibile e misteriosa continuità, in forza della quale Cristo è presente oggi nel suo popolo. È sempre contemporaneo a noi, è sempre contemporaneo nella Chiesa costruita sul fondamento degli Apostoli, è vivo nella successione degli Apostoli. E questa sua presenza nella comunità, nella quale Egli stesso si dà sempre a noi, è motivo della nostra gioia. Sì, Cristo è con noi, il Regno di Dio viene.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 15 marzo 2006]

1. Comunità sacerdotale, sacramentale, profetica, la Chiesa è stata istituita da Gesù Cristo come una società strutturata, gerarchica e ministeriale, in funzione del governo pastorale per la formazione e la crescita continua della comunità. I primi soggetti di tale funzione ministeriale e pastorale sono i dodici Apostoli, scelti da Gesù Cristo come fondamenti visibili della sua Chiesa. Come dice il Concilio Vaticano II, “Gesù Cristo, Pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli Apostoli come Egli stesso era mandato dal Padre (cf. Gv 20, 21), e volle che i loro successori, cioè i Vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli” (LG 18). Questo passo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa - Lumen gentium - ci richiama anzitutto alla posizione originale e unica degli Apostoli nel quadro istituzionale della Chiesa. Dalla storia evangelica sappiamo che Gesù ha chiamato dei discepoli a seguirlo e fra loro ne ha scelto dodici (cf. Lc 6, 13).

La narrazione evangelica ci fa conoscere che per Gesù si trattava di una scelta decisiva, fatta dopo una notte di preghiera (cf. Lc 6, 12); di una scelta fatta con una libertà sovrana: ci dice Marco che Gesù, salito sul monte, chiamò a sé “quelli che volle” (Mc 3, 13). I testi evangelici riportano i nomi dei singoli chiamati (cf. Mc 3, 16-19 e par.): segno che la loro importanza era stata percepita e riconosciuta nella Chiesa primitiva.

2. Col creare il gruppo dei Dodici, Gesù creava la Chiesa, come visibile società strutturata al servizio del Vangelo e dell’avvento del Regno di Dio. Il numero dodici aveva riferimento alle dodici tribù d’Israele, e l’uso che ne fece Gesù svela la sua intenzione di creare un nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio istituito come Chiesa. L’intenzione creatrice di Gesù traspare dallo stesso verbo usato da Marco per descrivere l’istituzione: “Ne fece dodici . . . Fece i dodici”. “Fare” ricorda il verbo usato nel racconto della Genesi sulla creazione del mondo e nel Deutero-Isaia (Is 43, 1; 44, 2) sulla creazione del popolo di Dio, l’antico Israele. La volontà creatrice si esprime anche nei nuovi nomi dati a Simone (Pietro) e a Giacomo e Giovanni (Figli del tuono), ma anche a tutto il gruppo o collegio nel suo insieme. Scrive, infatti, Luca che Gesù “ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6, 13). I Dodici Apostoli diventavano così una realtà socio-ecclesiale caratteristica, distinta e, sotto certi aspetti, irripetibile. Nel loro gruppo emergeva l’apostolo Pietro, circa il quale Gesù manifestava in modo più esplicito l’intenzione di fondare un nuovo Israele, con quel nome dato a Simone: “pietra”, su cui Gesù voleva edificare la sua Chiesa (cf. Mt 16, 18).

3. Lo scopo di Gesù, nell’istituire i Dodici, viene definito da Marco: “Ne fece dodici perché stessero con lui, e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3, 14-15). Il primo elemento costitutivo del gruppo dei Dodici è dunque un attaccamento assoluto a Cristo: si tratta di persone chiamate a “essere con lui”, cioè a seguirlo lasciando tutto. Il secondo elemento è quello missionario, espresso sul modello della missione stessa di Gesù, che predicava e scacciava i demoni. La missione dei Dodici è una partecipazione alla missione di Cristo da parte di uomini strettamente legati a lui come discepoli, amici, fiduciari.

4. Nella missione degli Apostoli l’evangelista Marco sottolinea “il potere di scacciare i demoni”. È un potere sulla potenza del male, che in positivo significa il potere di dare agli uomini la salvezza di Cristo, Colui che getta fuori il “principe di questo mondo” (Gv 12, 31). Luca conferma il senso di questo potere e lo scopo della istituzione dei Dodici, riportando la parola di Gesù che conferisce agli Apostoli l’autorità nel Regno: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove. E io dispongo per voi un regno come il Padre ne ha disposto per me” (Lc 22, 28). Anche in questa dichiarazione, sono intimamente legate la perseveranza nell’unione con Cristo e l’autorità concessa nel regno. Si tratta di un’autorità pastorale, come risulta dal testo sulla missione affidata specificamente a Pietro: “Pasci i miei agnelli . . . Pasci le mie pecorelle” (Gv 21, 15-17). Pietro riceve personalmente l’autorità suprema nella missione di pastore. Questa missione è esercitata come partecipazione all’autorità dell’unico Pastore e Maestro, Cristo. L’autorità suprema affidata a Pietro non annulla l’autorità conferita agli altri Apostoli nel regno. La missione pastorale è condivisa dai Dodici sotto l’autorità di un solo Pastore universale, mandatario e rappresentante del Buon Pastore, Cristo.

5. I compiti specifici inerenti alla missione affidata da Gesù Cristo ai Dodici sono i seguenti: a) missione e potere di evangelizzare tutte le nazioni, come attestano chiaramente i tre Sinottici (cf. Mt 28, 18-20; Mc 16, 16-18; Lc 24, 45-48). Tra di essi, Matteo mette in evidenza il rapporto stabilito da Gesù stesso tra la sua potestà messianica e il mandato da lui conferito agli Apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 18). Gli Apostoli potranno e dovranno svolgere la loro missione grazie al potere di Cristo che si manifesterà in loro. b) missione e potere di battezzare (Mt 28, 19), come adempimento del mandato di Cristo, con un battesimo nel nome della SS. Trinità (Ivi), che, essendo legato al mistero pasquale di Cristo, negli Atti degli Apostoli viene anche considerato come battesimo nel nome di Gesù (cf. At 2, 38; 8, 16). c) missione e potere di celebrare l’eucaristia: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24-25). L’incarico di rifare ciò che Gesù ha compiuto nell’ultima Cena, con la consacrazione del pane e del vino, implica un potere di altissimo livello; dire nel nome di Cristo: “Questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”, è quasi un identificarsi a Cristo nell’atto sacramentale. d) missione e potere di rimettere i peccati (Gv 20, 22-23). È una partecipazione degli Apostoli al potere del Figlio dell’uomo di rimettere i peccati sulla terra (cf. Mc 2, 10): quel potere che nella vita pubblica di Gesù aveva provocato lo stupore della folla, della quale l’evangelista Matteo ci dice che “rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini” (Mt 9, 8).

6. Per compiere questa missione gli Apostoli hanno ricevuto, oltre il potere, il dono speciale dello Spirito Santo (cf. Gv 20, 21-22), che si è manifestato nella Pentecoste, secondo la promessa di Gesù (cf. At 1, 8). In forza di questo dono, dal momento della Pentecoste essi hanno cominciato ad adempiere il mandato della evangelizzazione di tutti i popoli. Ce lo dice il Concilio Vaticano II nella Costituzione Lumen gentium: “Gli Apostoli . . . predicando ovunque il Vangelo, accolto dagli uditori per mozione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale, che il Signore ha fondato sugli Apostoli e ha edificato sul beato Pietro, loro capo, mentre Gesù Cristo stesso ne è la pietra maestra angolare (cf. Ap 21, 14; Mt 16, 18; Ef 2, 20)” (LG 19).

7. La missione dei Dodici comprendeva un ruolo fondamentale loro riservato, che non sarebbe stato ereditato da altri: essere testimoni oculari della vita, morte e risurrezione di Cristo (cf. Lc 24, 48), trasmettere il suo messaggio alla comunità primitiva, come cerniera tra la rivelazione divina e la Chiesa, e per ciò stesso dare inizio alla Chiesa in nome e per virtù di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo. Per questa loro funzione i Dodici Apostoli costituiscono un gruppo di importanza unica nella Chiesa, la quale fin dal Simbolo niceno-costantinopolitano è definita apostolica (Credo una sanctam, catholicam et “apostolicam” Ecclesiam) per questo indissolubile legame ai Dodici. Ciò spiega perché anche nella liturgia la Chiesa ha inserito e riservato delle celebrazioni particolari solenni in onore degli Apostoli.

8. Tuttavia Gesù ha conferito agli Apostoli una missione di evangelizzazione di tutte le genti, che richiede un tempo molto lungo, e che anzi dura “sino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Gli Apostoli capirono che era volontà di Cristo che provvedessero ad avere dei successori, che, come loro eredi e legati, portassero avanti la loro missione. Stabilirono quindi “episcopi e diaconi” nelle diverse comunità “e disposero che dopo il loro decesso altri uomini approvati ricevessero la loro successione nel ministero” (Clemente Romano, Ep. Ad Cor., 44, 2; cf. 42, 1. 4). In questo modo Cristo ha istituito una struttura gerarchica e ministeriale della Chiesa, formata dagli Apostoli e dai loro successori; struttura che non è derivata da una precedente comunità già costituita, ma è stata creata direttamente da lui. Gli Apostoli sono stati, a un tempo, i semi del nuovo Israele e l’origine della sacra gerarchia, come si legge nella Costituzione Ad gentes del Concilio (AG 5). Tale struttura appartiene dunque alla natura stessa della Chiesa, secondo il disegno divino realizzato da Gesù. Secondo questo stesso disegno essa ha un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della comunità cristiana, dal giorno della Pentecoste alla fine dei tempi, quando nella Gerusalemme celeste tutti gli eletti saranno pienamente partecipi della “Nuova vita” per l’eternità.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 1 luglio 1992]

«Preghiera e testimonianza» sono i «due compiti dei vescovi» che sono «colonne della Chiesa». Ma se si indeboliscono a soffrirne è tutto il popolo di Dio. Perciò, ha chiesto Papa Francesco durante la messa celebrata venerdì mattina 22 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta, bisogna pregare insistentemente per i successori dei dodici apostoli.

La riflessione del Pontefice sulla figura e la missione del vescovo ha preso le mosse dal passo dell’evangelista Marco (3, 13-19) proclamato durante la liturgia odierna. «C’è una parola, in questo passo del Vangelo, che attira l’attenzione: Gesù “costituì”». E questa parola «appare due volte». Scrive infatti Marco: «“Ne costituì dodici, che chiamò apostoli”. E poi riprende: “Costituì dunque i dodici”, e li nomina, uno dietro l’altro». Dunque, ha spiegato il Pontefice, «Gesù, tra tanta gente che lo seguiva — ci dice il Vangelo — “chiamò a sé quelli che voleva”». Insomma «c’è una scelta: Gesù ha scelto quelli che Lui voleva». E, appunto, «ne costituì dodici. Che chiamò apostoli». Infatti, ha proseguito Francesco, «c’erano altri: c’erano i discepoli» e «il Vangelo parla di settantadue, in una occasione». Ma «questi erano un’altra cosa».

I «dodici sono costituiti perché stiano con Lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» ha spiegato il Papa. «È il gruppo più importante che Gesù ha scelto, “perché stessero con Lui”, più vicini, “e per mandarli a predicare” il Vangelo». E «con il potere di scacciare i demoni», aggiunge ancora Marco. Proprio quei «dodici sono i primi vescovi, il primo gruppo di vescovi».

Questi dodici «eletti — ha fatto notare Francesco — avevano coscienza dell’importanza di questa elezione, tanto che dopo che Gesù era stato assunto in cielo, Pietro parlò agli altri e spiegò loro che, visto il tradimento di Giuda, era necessario fare qualcosa». E così proprio tra coloro che erano stati con Gesù, dal battesimo di Giovanni fino all’ascensione, scelsero «un testimone “con noi” — dice Pietro — della risurrezione». Ecco, ha proseguito il Papa, che «il posto di Giuda viene occupato, viene preso da Mattia: è stato eletto Mattia».

Poi «la liturgia della Chiesa, riferendosi ad «alcune espressioni di Paolo», chiama i dodici «le colonne della Chiesa». Sì, ha affermato il Pontefice, «gli apostoli sono le colonne della Chiesa. E i vescovi sono colonne della Chiesa. Quella elezione di Mattia è stata la prima ordinazione episcopale della Chiesa».

«Mi piacerebbe oggi dire qualche parola sui vescovi» ha confidato Francesco. «Noi vescovi abbiamo questa responsabilità di essere testimoni: testimoni che il Signore Gesù è vivo, che il Signore Gesù è risorto, che il Signore Gesù cammina con noi, che il Signore Gesù ci salva, che il Signore Gesù ha dato la sua vita per noi, che il Signore Gesù è la nostra speranza, che il Signore Gesù ci accoglie sempre e ci perdona». Ecco «la testimonianza». Di conseguenza, ha proseguito, «la nostra vita dev’essere questo: una testimonianza, una vera testimonianza della risurrezione di Cristo».

E quando Gesù, come racconta Marco, fa «questa scelta» dei dodici, ha due ragioni. Anzitutto «perché stessero con Lui». Perciò «il vescovo ha l’obbligo di stare con Gesù». Sì, «è il primo obbligo del vescovo: stare con Gesù». Ed è vero «a tal punto che quando è sorto, ai primi tempi, il problema che gli orfani e le vedove non erano ben curati, i vescovi — questi dodici — si sono radunati, e hanno pensato a cosa fare». E «hanno introdotto la figura dei diaconi, dicendo: “Che i diaconi si occupino degli orfani, delle vedove”». Mentre ai dodici, «dice Pietro», spettano «due compiti: la preghiera e l’annuncio del Vangelo».

Dunque, ha rilanciato Francesco, «il primo compito del vescovo è stare con Gesù nella preghiera». Infatti «il primo compito del vescovo non è fare piani pastorali... no, no!». È «pregare: questo è il primo compito». Mentre «il secondo compito è essere testimone, cioè predicare: predicare la salvezza che il Signore Gesù ci ha portato».

Sono «due compiti non facili — ha riconosciuto il Pontefice — ma sono propriamente questi due compiti che fanno forte le colonne della Chiesa». Infatti «se queste colonne si indeboliscono, perché il vescovo non prega o prega poco, si dimentica di pregare; o perché il vescovo non annuncia il Vangelo, si occupa di altre cose, la Chiesa anche si indebolisce; soffre. Il popolo di Dio soffre». Proprio «perché le colonne sono deboli».

Per questa ragione, ha affermato Francesco, «io vorrei oggi invitare voi a pregare per noi vescovi: perché anche noi siamo peccatori, anche noi abbiamo debolezze, anche noi abbiamo il pericolo di Giuda: anche lui era stato eletto come colonna». Sì, ha proseguito, «anche noi corriamo il pericolo di non pregare, di fare qualcosa che non sia annunciare il Vangelo e scacciare i demoni». Di qui, ha ribadito il Papa, l’invito a «pregare perché i vescovi siano quello che Gesù voleva e che tutti noi diamo testimonianza della risurrezione di Gesù».

Del resto, ha aggiunto, «il popolo di Dio prega per i vescovi, in ogni messa si prega per i vescovi: si prega per Pietro, il capo del collegio episcopale, e si prega per il vescovo del luogo». Ma «questo può non essere abbastanza: si dice il nome per abitudine e si va avanti». È importante «pregare per il vescovo con il cuore, chiedere al Signore: “Signore, abbi cura del mio vescovo; abbi cura di tutti i vescovi, e mandaci vescovi che siano veri testimoni, vescovi che preghino e vescovi che ci aiutino, con la loro predica, a capire il Vangelo, a essere sicuri che Tu, Signore, sei vivo, sei fra noi”».

Prima di riprendere la celebrazione, il Papa ha suggerito, nuovamente, di pregare «dunque per i nostri vescovi: è un compito dei fedeli». Infatti «la Chiesa senza vescovo non può andare avanti». Ecco, allora, che «la preghiera di tutti noi per i nostri vescovi è un obbligo, ma un obbligo d’amore, un obbligo dei figli nei confronti del Padre, un obbligo di fratelli, perché la famiglia rimanga unita nella confessione di Gesù Cristo, vivo e risorto».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 23/01/2016]

I teatranti e la neutralità

(Lc 13,10-17)

 

L’opinione o le idee comuni vecchie e nuove si frappongono alla vita che chiama, che fa scoprire altro, che accende passioni, che vuole totalità, e attiva la trasformazione.

Come sempre, Gesù si fa Presente in “sinagoga” non per fare orazioni codificate: è tra la sua gente ad «istruire» (v.10). Il Signore sta educando i suoi intimi, in modo assai deciso.

Nel luogo di culto il Maestro trova un’umanità subalterna, un panorama di minimi ancora vessati dall’ossessione religiosa antica - quindi ripiegati su di sé, fiaccati, incapaci di sollevare la testa.

Lo spirito di debolezza che quello stesso ambiente iniettava proprio ai malfermi, rendeva i fedeli dell’assemblea [o gli abitudiari in essa] totalmente passivi.

Un’esistenza ricurva, trascinata alla meno peggio; senza orizzonti.

L’azione di Cristo estrae dalla folla assuefatta, libera dal conformismo e dalla massificazione; rimette in piedi la ‘donna’ vacillante, che prende a lodare Dio sul serio, con gioia, immediatamente (vv.12-13).

Figura pur “partecipe” del rito, e sempre in mezzo al popolo riunito, ma prima d’incontrare personalmente il Signore non glorificava il Padre in modo reale - né onorava la sua stessa esistenza.

Nessuna espressione lieta per la guarigione, da parte dei leaders - abituati a inoculare nelle anime un clima soporifero - anzi, solo condanna. Illustri e distanti.

Individualisti negoziatori del potere di turno, incapaci di vicinanza. Ciò anche per vari interessi di cerchia, dottrina, di supremazia, e prestigio istituzionale.

Poi - nell’idea comune - sembrava che in termini legalistici o di rubrica la santificazione del giorno dedicato al Signore escludesse qualsiasi coinvolgimento, e le opere di bene!

In aggiunta a tale credenza malsana, anche toccare una “carne” ferita s’immaginava potesse rendere impuri!

Insomma, lo spirito del comandamento che imponeva il riposo del sabato [nato storicamente per la tutela di vaste esigenze sociali, cultuali, identitarie] era stato completamente manipolato e rovesciato.

La logica del giovane Rabbi è opposta ai protocolli: solo la trascuratezza dei marginali e asserviti disonora Dio.

Unico principio non negoziabile è il bene della donna e dell’uomo reali: questa l’unica chiave di lettura dei Vangeli.

E il rito deve celebrare proprio una vita fraterna d’accoglienza e condivisione, di felicità, personalizzazione, cura, amore.

Il resto è per Gesù una commedia insopportabile, dalla quale i suoi responsabili di chiesa devono tenersi alla larga: «Teatranti» (v.15) li definirebbe anche oggi - altrimenti - nostro Signore.

Valiamo ben più di buoi e asini (vv.15-16).

Il rapporto con Dio è festa, guarigione, salvezza: tutto concreto - frutto di scelta, perfino sociale.

Spiritualità non vuota, e qualsiasi - dove i piccoli sono costretti a delegare ad altri i loro sogni.

 

 

[Lunedì 30.a sett. T.O.  27 ottobre 2025]

I teatranti e la neutralità

(Lc 13,10-17)

 

La passione per l’esistenza piena vorrebbe guidarci chissà dove, ma c’è talora una forza esterna che trattiene. Potenza tenebrosa, la quale impedisce persino di scoprire la nostra vera natura.

L’opinione altrui, le dottrine, i costumi o le idee comuni vecchie e nuove si frappongono alla vita che chiama, che fa scoprire altro, che accende passioni, che vuole totalità, e attiva la trasformazione.

Nel frattempo, la percezione che forse stiamo mancando di percorrere la strada “giusta”, crea contrapposizioni esterne; intimidisce, fa soffrire, colpevolizza, e talora blocca proprio le anime più sensibili.

Chi poi ci accusa… fa leva sul timore di dover pagare il prezzo della libertà (caratteriale e vocazionale), per gli eventuali “errori” cui si rischia di andare incontro stando fuori dei binari prescritti.

Medesime dinamiche investono da un lato l’ossequio alle consuetudini, dall’altro l’adesione alle mode, anche le più sofisticate e “aggiornate”.

In specie nelle culture o religioni senza il balzo della Fede, tutto questo si radica e mette disagio; fa credere che siamo molto meno di ciò che ci corrisponde.

Viceversa - anche dovesse sembrare che percorriamo sentieri temerari (ma che ci appartengono) i rischi potrebbero recarci gioie, maggiore completezza, e realizzazione.

 

Come sempre, Gesù si fa Presente in “sinagoga” non per fare orazioni codificate: è tra la sua gente ad «istruire» (v.10).

In particolare, Egli insegna che il Padre non è in conflitto con dei sudditi. Anzi, sostiene tutti i suoi figli, e dona una postura diversa da quella del mondo “animale” - cui le credenze normali potrebbero forse ridurci.

A quel tempo nessuna donna poteva partecipare direttamente a una liturgia, ma nei Vangeli le figure femminili sono parabola del popolo stesso [in ebraico il termine Israel è di genere femminile].

Lc mette in scena una ‘donna’ per alludere anche a tutte le figure oppresse, cui talora la comunità in preghiera non porge conforto alcuno, né concede un’azione concreta di emancipazione.

Persone sottomesse al paradigma “culturale” dell’ambiente particolare e al potere condizionante della tradizione famigliare.

A quei tempi tale cappa trasmetteva a forza una spiritualità paradigmatica, pur rassicurante, ma assolutamente conforme.

La gente minuta era sottoposta in tutto al capofamiglia; in più, suddita del potere politico, e asservita perfino al fondamentalismo delle autorità religiose.

Un panorama umiliante, perfino atroce, “bestiale” appunto.

 

Il Signore sta educando i suoi intimi, in modo assai deciso.

Nel luogo di culto il Maestro trova un’umanità subalterna, un panorama di minimi ancora vessati dall’ossessione religiosa antica - quindi ripiegati su di sé, fiaccati, incapaci di sollevare la testa.

Lo spirito di debolezza che quello stesso ambiente iniettava proprio ai malfermi, rendeva i fedeli dell’assemblea (o gli abitudiari in essa) totalmente passivi.

Un’esistenza ricurva, trascinata alla meno peggio; senza orizzonti.

L’azione di Cristo estrae dalla folla assuefatta, libera dal conformismo e dalla massificazione; rimette in piedi la “donna” vacillante, che prende a lodare Dio sul serio, con gioia, immediatamente (vv.12-13).

Ella era figura pur “partecipe” del rito, e sempre in mezzo al popolo riunito, ma prima d’incontrare personalmente il Signore non glorificava il Padre in modo reale - né onorava la sua stessa esistenza.

 

Nessuna espressione lieta per la guarigione, da parte dei leaders religiosi - abituati a inoculare nelle anime un clima soporifero - anzi, solo condanna. Illustri e distanti.

Individualisti negoziatori del potere di turno, incapaci di vicinanza. Ciò anche per vari interessi di cerchia, dottrina, di supremazia, e prestigio istituzionale.

Poi - nell’idea comune - sembrava che in termini legalistici o di rubrica la santificazione del giorno dedicato al Signore escludesse qualsiasi coinvolgimento, e le opere di bene!

In aggiunta a tale credenza malsana, anche toccare una “carne” ferita s’immaginava potesse rendere impuri!

Insomma, lo spirito del comandamento che imponeva il riposo del sabato [nato storicamente per la tutela di vaste esigenze sociali, cultuali, identitarie] era stato completamente manipolato e rovesciato.

 

La logica del giovane Rabbi è opposta ai protocolli: solo la trascuratezza dei marginali e asserviti disonora Dio.

Unico principio non negoziabile è il bene della donna e dell’uomo reali: questa l’unica chiave di lettura dei Vangeli.

E il rito deve celebrare proprio una vita fraterna d’accoglienza e condivisione, di felicità, personalizzazione, cura, amore.

Il resto è per Gesù una commedia insopportabile, dalla quale i suoi responsabili di chiesa devono tenersi alla larga: «Teatranti» (v.15) li definirebbe anche oggi - altrimenti - nostro Signore.

 

Valiamo ben più di buoi e asini (vv.15-16).

Il rapporto con Dio è festa, guarigione, salvezza: tutto concreto - frutto di scelta, perfino sociale.

E finalmente anche il nuovo Magistero si distacca dalla mentalità precedente, spesso diplomatica e neutrale:

«La conclusione di Gesù è una richiesta: Va’ e anche tu fa’ così (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri» [Fratelli Tutti, n.81].

«Ora costei essendo figlia di Abramo […] non doveva essere sciolta da questo legame il giorno di sabato?» (Lc 13,16).

 

Spiritualità non vuota, e qualsiasi - dove i piccoli sono costretti a delegare ad altri i loro sogni.

39. Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? È l'altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così grande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell'umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio – la Verità e l'Amore in persona – ha voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire. L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze – di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare – giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità. Questa capacità di soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell'essere-uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza.

40. Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione non del tutto irrilevante per le vicende di ogni giorno. Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter « offrire » le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c'erano senz'altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire « offrire »? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all'economia del bene, dell'amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi.

[Papa Benedetto, Spe  Salvi]

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Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)
Pride compromises every good deed, empties prayer, creates distance from God and from others. If God prefers humility it is not to dishearten us: rather, humility is the necessary condition to be raised (Pope Francis)
La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati (Papa Francesco)
A “year” of grace: the period of Christ’s ministry, the time of the Church before his glorious return, an interval of our life (Pope Francis)
Un “anno” di grazia: il tempo del ministero di Cristo, il tempo della Chiesa prima del suo ritorno glorioso, il tempo della nostra vita (Papa Francesco)
The Church, having before her eyes the picture of the generation to which we belong, shares the uneasiness of so many of the people of our time (Dives in Misericordia n.12)
Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei (Dives in Misericordia n.12)
Addressing this state of mind, the Church testifies to her hope, based on the conviction that evil, the mysterium iniquitatis, does not have the final word in human affairs (Pope John Paul II)
Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane (Papa Giovanni Paolo II)
Jesus reminds us today that the expectation of the eternal beatitude does not relieve us of the duty to render the world more just and more liveable (Pope Francis)
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo (Papa Francesco)
Those who open to Him will be blessed, because they will have a great reward: indeed, the Lord will make himself a servant to his servants — it is a beautiful reward — in the great banquet of his Kingdom He himself will serve them [Pope Francis]
E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli [Papa Francesco]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)

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