don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

VI Domenica di Pasqua (anno C) [25 Maggio 2025] 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Camminiamo a passi rapidi verso l’Ascensione del Signore e la Pentecoste.  Le parole di Gesù ci preparano ad accogliere lo Spirito Santo, il Paraclito, Parakletos, termine greco intraducibile in una sola parola. 5 volte appare nel N.T. sempre solo in Giovanni e i significati possibili sono: Difensore/Avvocato; Consolatore; Intercessore /Mediatore, Maestro interiore/Spirito di verità. 

*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (15, 1-2.22-29)

Le prime comunità cristiane hanno dovuto affrontare fin dall’inizio una grave crisi che per molto tempo ha avvelenato la loro esistenza. Mi spiego: ad Antiochia di Siria, c’erano cristiani di origine ebraica e cristiani di origine pagana e la loro convivenza era diventata sempre più difficile perché troppo diversi erano i loro stili di vita. I cristiani di origine ebraica erano circoncisi e consideravano pagani coloro che non lo sono e nella stessa vita quotidiana tutto li contrapponeva a causa di tutte le pratiche ebraiche alle quali i cristiani di origine pagana non avevano alcuna voglia di sottostare: numerose regole di purificazione, di abluzioni e soprattutto regole molto rigide riguardo all’alimentazione.  Alcuni cristiani di origine ebraica vennero apposta da Gerusalemme per inasprire la disputa, spiegando che al battesimo cristiano erano ammessi solo i giudei e quindi invitavano i pagani prima a diventare giudei (circoncisione compresa) e poi cristiani. Tre le questioni fondamentali: 1.Per vivere l’unità è necessario avere le stesse idee, gli stessi riti, le stesse pratiche? 2. La seconda questione era che i cristiani di ogni origine desideravano essere fedeli a Gesù Cristo, ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Se Gesù era ebreo e circonciso questo significa che per diventare cristiani bisogna prima diventare tutti ebrei come lui? Inoltre, è a Israele che Dio ha affidato la missione di essere suo testimone in mezzo all’umanità e quindi bisogna far parte di Israele per entrare nella comunità cristiana? La conclusione era che si doveva essere ebrei prima di diventare cristiani e concretamente si accettava di battezzare i pagani a condizione che prima si ffacessero circoncidere. 3. Terza questione, ancora più grave: la salvezza è data da Dio senza condizioni oppure no? Se non accettando la circoncisione secondo la tradizione di Mosè non si può essere salvati, è come affermare che Dio stesso non può salvare i non-ebrei e siamo noi a decidere al suo posto chi può o non può essere salvato.  Venne convocato il primo concilio di Gerusalemme dove tre erano le posizioni in merito: Paolo voleva l’apertura totale, Pietro era piuttosto esitante e fu Giacomo, vescovo di Gerusalemme, a trovare l’intesa con una doppia decisione: 1. i cristiani di origine ebraica non devono imporre la circoncisione e le pratiche ebraiche ai cristiani di origine pagana; 2. d’altro lato, i cristiani di origine pagana, per rispetto verso i loro fratelli di origine ebraica, si asterranno da ciò che potrebbe disturbare la vita comune, in particolare durante i pasti. L’argomento che prevale su tutto fu il superamento dela logica dell’elezione d’Israele essendo entrati in una nuova tappa della storia: il profeta Gioele aveva ben detto: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gl 3,5) e Gesù stesso: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” (Mc 16,16). Chiunque significa tutti, non solo gli ebrei e, ancor più in concreto, essere fedeli a Gesù Cristo non vuol dire necessariamente riprodurre un modello fisso poiché la fedeltà non è semplice ripetizione. La storia mostra che, attraverso le vicissitudini dell’umanità, la Chiesa conserva sempre la capacità di adattamento per restare fedele a Cristo. Infine, è interessante notare che si impongono alla comunità cristiana solo le regole che permettono di mantenere la comunione fraterna e questo viene indicato fin da subito come il modo migliore per essere veramente fedeli a Cristo che disse: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

*Salmo responsoriale (66 (67) 2-3,5,7-8)

Il salmo ci conduce dentro il Tempio di Gerusalemme mentre è in atto una grande celebrazione e al termine i sacerdoti benedicono l’assemblea in modo solenne e i fedeli rispondono: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!” Il salmo si presenta come un’alternanza tra le frasi dei sacerdoti, rivolte a volte all’assemblea e a volte a Dio, e le risposte dell’assemblea, che assomigliano a dei ritornelli. La prima frase: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto” riprende esattamente il famoso testo del libro dei Numeri che è la prima lettura del 1º gennaio di ogni anno,: “Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Così benedirete gli Israeliti: Direte loro: ‘Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace’. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6,24-26). Un testo ideale per desideri e auguri perché la benedizione è augurio di felicità. In effetti, le benedizioni sono sempre formulate al congiuntivo: “che Dio vi benedica, che Dio vi custodisca” eppure Dio non sa fare altro che benedirci, amarci, colmarci in ogni istante. Quando dunque il sacerdote dice “che Dio vi benedica”, non è perché Dio potrebbe non benedirci, ma per suscitare il nostro desiderio  di entrare  nella benedizione che, da parte sua, Dio continuamente ci offre. La stessa cosa quando il sacerdote dice “Il Signore sia con voi”: Dio è sempre con noi e il congiuntivo “sia” esprime la nostra libertà perché non sempre siamo con lui; oppure “Che Dio vi perdoni”: Dio ci perdona sempre ma sta noi accogliere il perdono ed entrare nella riconciliazione che ci propone. Permanenti sono da parte di Dio i desideri di felicità nei nostri confronti come afferma Geremia: «Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Dio è Amore e tutti i suoi pensieri su di noi non sono altro che desideri di felicità. In questo salmo la risposta dei fedeli è il ritornello: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!! Splendida lezione di universalismo: il popolo eletto riflette la benedizione che accoglie per sé stesso sull’intera umanità, mentre l’ultimo versetto è una sintesi di questi due aspetti: “Ci benedica Dio (noi, suo popolo eletto) E lo temano tutti i confini della terra”. Israele non dimentica la sua vocazione/missione al servizio dell’intera umanità e sa che dalla sua fedeltà alla benedizione ricevuta gratuitamente dipende la scoperta dell’amore e della benedizione di Dio da parte di tutta l’umanità.

 

*Seconda Lettura dall’Apocalisse di san Giovanni (21, 10-14.22-23)

Nel brano di domenica scorsa, Giovanni diceva di aver visto la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da presso Dio, pronta per le nozze, come una sposa adorna per il suo sposo. Questa volta la descrive a lungo affascinato dalla sua luce così forte da oscurare il chiarore della luna e perfino quello del sole: somiglia a un gioiello prezioso, una pietra preziosa che scintilla nella luce. E spiega subito la ragione di tale luminosità straordinaria, ripetendo per due volte: “risplendente della gloria di Dio”, “la gloria di Dio la illumina”. Queste due affermazioni, l’una all’inizio e l’altra alla fine del testo, con il procedimento letterario chiamato «inclusione» che serve a mettere in evidenza le frasi comprese tra l’inizio e la fine, indicano ciò che colpisce Giovanni, cioè la gloria di Dio che illumina la città santa che scende da presso di Lui. Un angelo lo ha trasportato su un grande e alto monte e lo tiene per mano mentre gli mostra la città da lontano. Nella mano sinistra l’angelo tiene una canna d’oro che userà per misurare le dimensioni della città. La città è quadrata: il numero quattro e il quadrato sono un simbolo di ciò che è umano e qui indicano che la città è costruita da mano d’uomo, illuminata dalla gloria e dal fulgore della presenza di Dio. Poiché il numero tre evoca Dio, non stupisce che la descrizione della città usi abbondantemente un multiplo di tre e quattro: dodici, che è un modo per dire che l’azione di Dio si manifesta in quest’opera umana. All’epoca di san Giovanni non si concepiva una città senza mura: e questa ne ha, anzi una muraglia grande e alta come la montagna e sappiamo che nella Bibbia, la montagna è il luogo dell’incontro con Dio. Nelle mura sono aperte dodici porte che, secondo il seguito del testo, non si chiudono mai perché tutti possano entrare e nessuno deve trovare una porta chiusa. Le dodici porte, distribuite sui quattro lati del quadrato, tre a Est, tre a Nord, tre a Sud, tre a Ovest, sono sorvegliate da dodici angeli e su ciascuna è scritto il nome di una delle dodici tribù d’Israele. Il popolo d’Israele è stato infatti scelto da Dio per essere la porta attraverso cui tutta l’umanità entrerà nella Gerusalemme definitiva.La muraglia poggia su fondamenta sulle quali sono scritti i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello: come in architettura, c’è continuità tra le fondamenta e i muri, così qui c’è continuità tra le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli e questo è un modo per dire che la Chiesa fondata da Cristo realizza pienamente il disegno di Dio che si sviluppa lungo tutta la storia. Entrato, Giovanni rimane sorpreso perché cerca il Tempio, essendo il segno vivente che Dio non abbandonava il suo popolo, ma nella città “non vidi alcun tempio” eppure non resta deluso, perché ormai “il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello. sono il suo tempio”. E continua: “La città non ha bisogno della luce del sole né della luna perché la gloria di Dio la illumina, e la sua lampada è l’Agnello”. Tenendo presente che nel libro della Genesi fin dal primo giorno alla creazione, appare la luce: Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu”, l’affermazione dell’Apocalisse assume tutto il suo peso: la creazione antica è passata: niente più sole, niente più luna perché ormai siamo nella nuova creazione e la presenza di Dio irradia il mondo attraverso Cristo. Gerusalemme conserva il suo nome e indica che è una città costruita da mano d’uomo, un modo per dire che i nostri sforzi per collaborare al progetto di Dio fanno parte della nuova creazione e l’opera umana non sarà distrutta, bensì da Dio trasformata. I cristiani allora destinatari dell’Apocalisse, erano oggetto di disprezzo e spesso perseguitati, avevano bisogno di queste parole di vittoria per sostenere la loro fedeltà e anche a noi fa bene sentire che la Gerusalemme celeste comincia con i nostri umili sforzi di ogni giorno.

*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 23-29)

Riviviamo gli ultimi momenti di Gesù immediatamente prima della Passione: l’ora è grave e si intuisce l’angoscia degli apostoli dalle parole di rassicurazione che più volte Gesù loro rivolge. All’inizio di questo capitolo aveva detto «Non sia turbato il vostro cuore» (v. 1). Il suo lungo discorso fu interrotto da varie domande degli apostoli che rivelavano la loro angoscia e incomprensione. Gesù però resta sereno: lungo tutta la Passione Giovanni lo descrive sovranamente libero; anzi è lui a rassicurare i discepoli mentre annuncia in anticipo ciò che sarebbe accaduto perché quando avverrà, avrebbero creduto. Non solo sa cosa accadrà, ma lo accetta e non cerca di sottrarsi. Annuncia la sua partenzae presentandola come condizione e inizio di una nuova presenza: Me ne vado, ma torno da voi. Questa sua partenza sarà interpretata solo dopo la risurrezione come la Pasqua di Gesù.  Giovanni dice al capitolo 13: “Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”: l’evangelista usa volutamente il verbo passare, perché Pasqua significa passaggio e con questo, vuole mettere in parallelo la Passione di Gesù con la liberazione dall’Egitto, rivissuta ad ogni festa ebraica di Pasqua. Se si tratta di liberazione, questa partenza non deve gettare gli apostoli nella tristezza: “Se voi mi amaste, vi rallegrereste, perché vado al Padre” (v.28). Frase sorprendente per i discepoli che vedono il Maestro ormai inseguito dalle autorità religiose, cioè da chi, in nome di Dio, era ritenuto depositario della verità su ciò che riguarda Dio e sono proprio loro i maggiori oppositori di Gesù. I profeti hanno lottato contro ogni ostacolo per mantenere la fede nell’unico Dio che è insieme Dio vicino all’uomo e Dio totalmente Altro, il Santo. Gesù predica un Dio vicino all’uomo, specialmente ai più piccoli, ma dichiara Dio se stesso il che agli occhi degli ebrei, è blasfemia, un’offesa al Dio uno, al Santo. Nel testo di questa domenica, Gesù insiste sul legame che lo unisce al Padre che nomina cinque volte arrivando a parlare al plurale: “Se qualcuno mi ama… noi verremo da lui, e prenderemo dimora presso di lui”. Non è la prima volta che lo afferma: poco prima, a Filippo che gli chiedeva «Mostraci il Padre», ha risposto con tranquillità: «Chi mi ha visto ha visto il Padre» (Gv 14,9), mentre qui ribadisce: “La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato”. Gesù è l’Inviato del Padre, la parola del Padre e d’ora in poi lo Spirito Santo ci farà comprendere questa parola e la custodirà nella memoria dei discepoli. La chiave di questo testo è probabilmente proprio la parola “parola”: ricorre più volte e, a da ciò che precede, si capisce che questa “parola” da custodire è il “comandamento dell’amore”: amatevi gli uni gli altri, ossia mettetevi al servizio gli uni degli altri e, per essere chiaro, Gesù stesso ha dato un esempio concreto lavando i piedi ai discepoli. Essere fedeli alla sua parola significa dunque semplicemente mettersi al servizio degli altri. E il testo di oggi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”, può tradursi così: Se qualcuno mi ama, si porrà al servizio del prossimo e chi non mi ama rifiuta di mettersi al servizio degli altri, per cui se qualcuno non si mette al servizio degli altri, non è fedele alla parola di Cristo. In questa luce si comprende meglio il ruolo dello Spirito Santo: è lui che ci insegna ad amare, ricordandoci il comandamento dell’amore.  Gesù lo chiama Paraclito, Difensore perché ci protegge e difende da noi stessi dato che il peggiore dei mali è dimenticare che l’essenziale del vangelo consiste nell’amarsi e mettersi al servizio gli uni degli altri. Nell’odierna prima lettura abbiamo visto il Difensore all’opera nella prima comunità in occasione del primo concilio di Gerusalemme dove gravi erano le difficoltà di convivenza tra cristiani di origine ebraica e quelli di origine pagana e lo Spirito d’amore ispirò i discepoli alla volontà di mantenere a ogni costo l’unità.

+Giovanni D’Ercole

V Domenica di Pasqua [18 Maggio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Già in questa prima settimana papa Leone XIV ci sta dando in maniera pacata e profonda delle indicazioni di marcia da ben interiorizzare. Invito a non perdere nessuno dei suoi discorsi tutti sempre letti e mai pronunciati a braccio. Perché? Interessante cercare una risposta. Oggi poi ci sarà l’omelia dell’inizio del suo ministero petrino e quindi in un certo senso programmatica del pontificato di cui mostrerà lo stile. 

 

*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (14,21b-27)

Da Antiochia di Siria, Paolo e Barnaba erano partiti in nave verso la costa sud di quella che oggi chiamiamo Turchia, passando per Cipro; avevano fatto tappa ad Antiochia di Pisidia, Iconio (oggi Konya), Listra e Derbe e ovunque, come abbiamo visto domenica scorsa, Paolo e Barnaba si rivolgevano dapprima ai giudei, ricevendo un’accoglienza piuttosto “contrastante”. Entusiasmo da parte di alcuni che si convertivano e rifiuto violento da parte di altri che si opponevano decisamente fino a scacciarli e fu ad Antiochia di Pisidia che decisero di rivolgere la parola non solo ai giudei, ma anche a coloro che venivano chiamati “timorati di Dio”, cioè praticanti della religione ebraica pur non ancora integrati mediante la circoncisione, e dunque, a rigor di termini, ancora pagani. Per questo Paolo dice che Dio per mezzo di loro aveva “aperto ai pagani la porta della fede” (v.27).  Nel tragitto di ritorno di questo primo viaggio missionario Paolo e Barnaba ripercorrono lo stesso itinerario in senso inverso e visitano nuovamente le comunità da loro recentemente fondato che già subivano persecuzioni perché Luca precisa che Paolo e Barnaba li esortavano a restare saldi nella fede, dicendo che dobbiamo passare attraverso molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (v.22). Gesù aveva già usato espressioni simili: “bisogna che il Figlio dell’Uomo soffra molto e sia respinto da questa generazione” (Lc 17,25)… oppure, rivolgendosi ai discepoli di Emmaus: “Non doveva il Cristo patire queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26).Dio non ci impone prove o sofferenze in modo preventivo ma, a causa della durezza del cuore umano, i veri profeti incontrano  persecuzione finché il mondo non si converte all’amore, alla giustizia, alla condivisione. Paolo e Barnaba si preoccupano dunque di rafforzare la fede e il coraggio dei nuovi convertiti vegliando anche sulla buona organizzazione delle comunità. Anzitutto designano dei responsabili, gli “anziani”, termine greco “presbyteros” (da cui deriva il nostro termine “prete”) e, dopo aver pregato e digiunato, li affidarono al Signore. Luca insiste sull’importanza della preghiera e del digiuno perché non si cura solo l’organizzazione, ma sono altrettanto importanti la preghiera e il digiuno. In effetti un evangelizzatore che non prega più, presto non evangelizzerà più. Luca annota che affidarono i responsabili delle nuove comunità al Signore perché agissero  con coraggio e responsabilità come Paolo e Barnaba si erano affidati alla grazia di Dio e proseguivano il loro viaggio raccontando  ai membri della comunità di Antiochia di Siria tutto ciò che Dio aveva fatto con loro. Luca parla sia dell’opera che gli apostoli avevano compiuto sia di ciò che Dio aveva fatto con loro e questo ci fa capire che la missione affidata da Dio ai credenti è un’opera di Dio affidata all’uomo e opera dell’uomo sostenuta, accompagnata, continuamente ispirata da Dio. 

 

*Salmo responsoriale (144 (145), 8-13)

Del salmo 144 (145), scelto per questa quinta domenica di Pasqua, ci sono qui soltanto sei versetti, mentre in totale sono ventuno tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Si tratta di un salmo alfabetico, un acrostico e ogni versetto comincia con una delle lettere dell’alfabeto ebraico, in ordine alfabetico. E’ dunque un salmo di lode per l’Alleanza: un modo per dire che tutta la nostra vita, dalla A alla Z (in ebraico da aleph a tav), è immersa nell’Alleanza e tenerezza di Dio. Ma perché questo salmo 144 (145) proprio oggi e perché solo questi sei versetti? Anzitutto, questo salmo fa parte della preghiera ebraica di ogni mattino e l’alba di un nuovo giorno evoca per l’ebreo credente l’alba del giorno definitivo, del mondo futuro e della creazione rinnovata. Per noi cristiani, in questo tempo pasquale il salmo ricorda che il Giorno del regno definitivo di Dio è già cominciato, davanti ai nostri occhi, con la risurrezione di Cristo. Inoltre, nella spiritualità ebraica, il Talmud (cioè l’insegnamento dei rabbini dei primi secoli dopo Cristo) afferma che colui che recita questo salmo tre volte al giorno “può essere certo di essere un figlio del mondo futuro”. Per noi cristiani il mondo futuro di cui parla la fede ebraica è proprio la creazione rinnovata da Gesù Cristo e i sei versetti scelti per oggi costituiscono un condensato della rivelazione e il salmo si armonizza perfettamente con i toni del tempo pasquale, in particolare, con le altre letture di questa domenica.  Il primo versetto“Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” è il miglior riassunto di tutta la rivelazione biblica: infatti è il nome che Dio ha dato di sé stesso a Mosè (Es 34,6).Il secondo versetto: “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” è una scoperta enorme per l’umanità che dobbiamo proprio al popolo eletto; un tema già presente nell’Antico Testamento: Dio ama tutta l’umanità e il suo progetto d’amore, come dice san Paolo, riguarda l’intera umanità. Avvertiamo una risonanza particolare di questo negli Atti degli Apostoli e in modo speciale nella prima lettura di questa domenica di Pasqua che insiste sul fatto che l’annuncio dell’amore di Dio non è riservato agli ebrei, ma è per tutte le nazioni. Inoltre questo salmo, soprattutto nei versetti letti oggi, insiste sulla regalità di Dio: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno, il tuo regno è un regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni”. Quattro volte torna la parola “regno” (una volta “dominio”) e le parole “opere” e “imprese” che nella Bibbia fanno sempre riferimento alla liberazione dall’Egitto: Dio ha liberato il suo popolo allora e lo libera oggi e questo fino all’ultima liberazione che è la vittoria sulla morte. Un salmo dunque particolarmente adatto al tempo pasquale perché il Risorto sperimenta nella sua carne la regalità di Dio. Quando Israele componeva questo salmo, l’insistenza sulla regalità di Dio, o sul suo dominio, era un modo per affermare che mai si affideranno agli idoli perché l’unico loro Re e Signore è Dio, il Dio dell’amore. Quando i cristiani pregano questo salmo, sanno bene che in Cristo, re servo, umile nella Passione e trionfatore sulla morte, vedono la presenza del re dell’universo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” disse Gesù agli apostoli (Gv.14, 9).

NOTA. Leggendo l’intero salmo si nota una profonda somiglianza con il Padre Nostro: ci si rivolge a Dio come Padre – “Padre nostro… dacci… perdonaci… liberaci dal male…” – un Padre che è il Dio di misericordia e pietà come si esprime il salmo. Ci si rivolge a lui anche come Re: “venga il tuo Regno”.  In realtà tutte le frasi che Gesù ha raccolto nel Padre Nostro facevano già parte delle preghiere abituali del popolo ebraico

Secondo che si conti come una o due lettere il segno Sin/Shin (lo stesso simbolo si pronuncia talvolta Sin, talvolta Shin), si conteranno 21 o 22 lettere nell’alfabeto ebraico. I grammatici distinguono le due lettere Sin e Shin e l’alfabeto conta 22 lettere, ma il salmista utilizza solo la lettera Shin e dunque il salmo conta 21 versetti.

 

*Seconda Lettura dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni (21, 1-5a)

“Ecco, io faccio nuove tutte le cose”: cielo nuovo, terra nuova, Gerusalemme nuova; questo è il nostro futuro, il nostro “a-venire”, cioè ciò che viene. Finite le lacrime, la morte, i lamenti, le grida, la tristezza… tutto questo appartiene al passato: il primo cielo e la prima terra sono scomparsi. In altre parole, il passato è passato, compiuto. Giovanni ci ha avvertiti: il suo libro è un libro di visioni, che svela il futuro per dare il coraggio di affrontare il presente. Il primo cielo e la prima terra rimandano al racconto biblico della creazione e per comprendere questo passo dell’Apocalisse occorre rifarsi al libro della Genesi che nel primo capitolo presenta “la prima creazione” di cui l’Apocalisse afferma che era totalmente buona: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31). Nonostante questo però ogni giorno vediamo lacrime, grida, tristezza, morte come ripete l’Apocalisse e la causa sta nel racconto del frutto proibito (Gn.3) spiegando cosa ha corrotto la bontà della creazione. Radice di tutte le sofferenze è la frattura creatasi tra Dio e l’umanità con il sospetto originario che distrugge l’Alleanza e spinge l’uomo a percorrere vie che lo portano solo al fallimento. Il popolo eletto ha ascoltato, tramite i profeti, il richiamo alla via dell’Alleanza che è l’unica via verso la vera felicità. Occorre che Dio abiti davvero in mezzo a noi perché siamo il suo popolo, e Lui sia il nostro Dio. Ristabilire l’Alleanza come un dialogo d’amore è la sete di Israele lungo tutta la sua storia e molti profeti annunciano ciò che l’autore dell’Apocalisse ora vede compiuto. Isaia scrive: “Ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova… non ci si ricorderà più del passato, non tornerà più in mente… Non si udranno più in essa voci di pianto né grida di angoscia… Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che non completi i suoi giorni» (Is 65,17-20). Ma perché simbolicamente il rinnovamento di tutte le cose è rappresentato dalla scomparsa del mare anche se Israele non è un popolo di marinai? La ragione è che la creazione dell’universo, nella Bibbia, è letta a partire dalla nascita del popolo eletto e questa nascita, cioè l’uscita dalla schiavitù d’Egitto, è stata una vittoria sul mare: Dio ha fatto apparire la terra asciutta per permettere il passaggio del suo popolo; il popolo salvato ha attraversato il mare a piedi e le forze del male, della schiavitù e dell’oppressione sono state inghiottite. Più tardi, nel Nuovo Testamento, il Figlio di Dio fatto uomo ha manifestato la sua vittoria sul male e sulle sue forze  camminando sulle acque. Ora la vittoria è totale, suggerisce l’Apocalisse: il mare è scomparso e  con esso ogni forma di male: sofferenza, lacrima, grido, morte. L’umanità e l’intero universo attendono il compimento del progetto che Dio aveva quando creò il mondo: stabilire con l’umanità un’Alleanza senza ombre, un eterno dialogo d’amore come appare nel tema delle nozze tra Dio e l’umanità sempre presente nella Bibbia. Si pensi ai profeti Osea o Isaia e al Cantico dei Cantici e nel Nuovo Testamento, al racconto delle nozze di Cana, per citarne uno solo. Qui, nel nostro brano dell’Apocalisse, tale promessa emerge da due immagini: quella della Gerusalemme nuova, “pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (v.2) e dall’espressione “Dio con loro” (v.3) dove “con” esprime l’Alleanza d’amore, alleanza sponsale. “Udii allora una voce potente, che veniva dal trono, che diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio-con-loro” (v.3. ). Inoltre il centro della nuova creazione porta il nome della città santa – “ecco che la Gerusalemme nuova “discende da Dio” - la città che, da secoli, simboleggia l’attesa del popolo eletto e il nome stesso di Gerusalemme significa “Città della giustizia e della pace” “discendente Dio” e per questo detta “nuova”. La nuova Gerusalemme non è solo opera umana perché il regno di Dio, che attendiamo e a cui cerchiamo di collaborare, è allo stesso tempo in continuità e in rottura con questa terra. Siamo pertanto invitati a collaborare con Dio e il nostro impegno contribuisce al rinnovamento della creazione grazie all’intervento di Dio che trasfigurerà i nostri sforzi.Percepiamo questo pure nella lettera di san Paolo ai Romani: “Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione infatti è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… poiché anche la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-22).

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (13, 31- 35)

Le prime frasi di questo testo sono come una sorta di variazioni sul tema della “gloria”:

“Quando Giuda fu uscito, Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà e lo glorificherà subito”: tutto questo può sembrarci un po’ complicato, ma in realtà è un modo molto ebraico di parlare: esprime la reciprocità del rapporto tra il Padre e il Figlio, o meglio la loro unione profonda: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, scrive Giovanni (14,8) e ancora: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (10,30). “Il Figlio dell’uomo è glorificato, o che Dio è glorificato in lui”, vuol dire che il Figlio è il riflesso del Padre e notiamo ancora una volta quanto sia necessario uno sforzo per comprendere il linguaggio di Gesù e dei suoi contemporanei.  Proprio nel momento in cui Giuda esce nella notte del tradimento, Gesù porta a compimento la sua vocazione di essere il riflesso del Padre. Ma Giovanni non l’ha capito subito perché insieme agli apostoli hanno assistito impotenti alla sua passione e morte; hanno vissuto questa successione di eventi come un momento di orrore e solo dopo Giovanni comprenderà che quello era in realtà l’istante della gloria di Gesù: perché proprio lì il Figlio rivelava fino a che punto arriva l’amore del Padre. E dato che il Figlio tradito, abbandonato, perseguitato da tutti, continua lui solo contro tutti, a essere solo amore, benevolenza, perdono, rivela al mondo fino a dove arriva l’amore del Padre, un amore infinito. E allora – e questa è la seconda parte del nostro testo – coloro che contemplano questo mistero dell’amore folle di Dio diventano capaci a loro volta di amare come lui. Gesù infatti collega chiaramente le due cose: dice che ora rivelerà al mondo fino a che punto arriva l’amore del Padre e precisa:  “ora vi do un comandamento nuovo, che vi amiate come io vi ho amati”, ma aggiunge anche che solo ora sarete capaci perché attingerete al mio stesso amore. In realtà, la novità non è il comandamento di amare; Gesù non inventa il comandamento dell’amore che esiste già nell’insegnamento dei rabbini del suo tempo. Ciò che è nuovo è l’amare come lui, ma non solo “alla sua maniera”, cioè fino a dare la propria vita rifiutando ogni potere, dominio e violenza. La vera novità è amare “davvero come lui”, cioè essendo completamente guidati dal suo Spirito. Solo così possiamo capire in modo del tutto nuovo la famosa frase: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Non si tratta solo di un comandamento, ma piuttosto di una constatazione: siamo davvero suoi discepoli perché è il suo stesso Spirito a guidare i nostri comportamenti. Dio sa bene quanto l’amore quotidiano sia difficile, e se riusciamo nelle nostre comunità ad amarci, il mondo sarà costretto ad ammettere questa evidenza: che lo Spirito di Cristo agisce in noi. Siamo dunque innanzitutto invitati a un atto di fede: credere che il suo Spirito d’amore abita in noi, che le sue risorse d’amore abitano in noi: che possediamo capacità d’amare insospettabili, perché sono le sue, e allora diventa possibile amare “come” lui, perché lasciamo il suo Spirito agire in noi. Sappiamo però per esperienza che non è affatto facile amare chi ci sta accanto, anzi con alcuni è persino impossibile parlare di amore e di perdono. Gesù certamente non ignora tutto ciò quando comanda l’amore reciproco ai suoi discepoli; ma non bisogna confondere amore e sensibilità. Gesù ha mostrato con i gesti di quale amore dobbiamo amarci quando  durante l’ultima cena ha lavato i piedi degli apostoli e ha concluso dicendo: “Vi ho dato l’esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Ecco dunque cosa significa amare “come” lui ci ha amati! Se ci pensiamo bene, è possibile grazie al suo Spirito mettersi al servizio gli uni degli altri, anche di quelli per cui non proviamo alcuna simpatia. Ma la fedeltà a questo comandamento è per noi vitale perché è su questo che le nostre comunità sono giudicate. Per Gesù la cosa più importante non è la qualità dei nostri discorsi, della nostra teologia e delle nostre conoscenze, né la bellezza delle nostre celebrazioni, bensì la qualità dell’amore che ci offriamo gli uni agli altri. Gesù in quell’ultima drammatica  sera gridò :”Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato (cioè rivelato come Dio), e Dio è stato glorificato in lui”. L’umanità è introdotta nella gloria, nella presenza, nella vita di Dio, attraverso l’evento della passione-morte-risurrezione di Cristo. E ormai introdotti nella “gloria” di Dio (cioè il sacrificio di Cristo), i suoi discepoli possono vivere interamente sotto il segno dell’amore, poiché Dio è amore e la sua presenza risplende anche attraverso di loro. Basta solo crederci e lasciare agire lo Spirito in noi.

+Giovanni D’Ercole

(Gv 14,27-31)

 

Nei Vangeli la Pace-Shalôm di Cristo è un cenno di emancipazione dalle umiliazioni e dai rifiuti; assunto e reinterpretato in ordine all’imperativo dell’Annuncio apostolico.

Esso crea una nuova situazione.

E appunto, il «Vado e Vengo da voi» (v.28) è una endiadi semitica: due affermazioni unite, che si riferiscono al medesimo accadimento [generativo, vitale] di morte e vita completa.

L’espressione-evento non è tale da farsi soggetta a condizioni.

Termina l’arco del ministero terreno del Signore; si accende un’Alleanza.

Tempo della Parola e dell’azione diffuse, con risultati complessivi; di nuovi padri e madri, nuova Creazione.

Insomma, la Pace di Gesù non è uno stato, bensì un rapporto.

Piena attuazione dell’umano - condizione non più equilibrista, secondo convenzioni.

Piuttosto, adempimento ricalibrato sulla misura del Cristo in Persona, nell’Ora della Nascita.

 

Sulla bocca di Gesù, «Shalôm» [eccellenza e superamento delle benedizioni antiche] assume i lineamenti del significato proprio, messianico.

Presenza di ‘unzione’. Discrimine dei Vangeli e Annuncio essenziale (cf. Lc 10,5).

Ampiezza di ben-essere: senza questo prezioso codice di lettura la Parola del Signore resta incomprensibile, e la Missione cui siamo inviati diventa preda di ossessioni, le più sciatte, inautentiche.

Nei territori dell’impero la Pax Romana aveva tratti trionfalistici - era sinonimo di violenza, competizione, repressione di ribelli.

Come tregua armata, si faceva garante d’una economia prospera, ma assicurata nella sua dimensione sociale solo dalle disuguaglianze, in specie da una vasta base di schiavi.

La Pace che Gesù introduce non è un augurio qualunque di migliorie normali attese, ma la trasmissione della sua stessa Persona.

Tale propensione, vicenda, e Amicizia senza prezzo, ci stimola a un riordinamento, riconfigurazione, riorganizzazione completa di tutta la vita.

E spesso la butta all’aria, onde speronarne il quietismo di circostanza.

Nel nostro linguaggio, parleremmo forse di Felicità e nuovo ordine o assetto pubblico.

 

Essendo il desiderio segreto di ciascuno, nessuna difficoltà potrà spegnerne la promessa e potenza di realizzazione (v.30).

Shalôm è pienezza di esistenza salvata, “successo” nel nostro cammino di fioritura attraverso mille imprese.

Shalôm è perfezione e gioia completa, compimento dei desideri.

Vittoria del Patto fra Dio e il popolo. Sintonia e comunione senza fine tra impulso innato della nostra essenza particolare e compimento delle speranze.

Successo dell’Alleanza fra spinta dell’anima e conquiste evolutive sperimentate nella vita reale.

Shalôm - attuazione piena dell’umanità che ritrova se stessa - indica totalità vitale e compiuta di ogni aspirazione.

Qualità di rapporti nuovi che ne scaturiscono: il bene supremo d’una Presenza in atto, affidata a noi.

 

 

[Martedì 5.a sett. di Pasqua, 20 maggio 2025]

(Gv 14,27-31)

 

I popoli semiti si auguravano la Pace nei loro incontri e commiati. Il tradizionale augurio di pace era anche greco.

Tuttavia nel Vangelo detto cenno, auspicio, o congedo, viene assunto e reinterpretato in ordine all’imperativo dell’Annuncio apostolico.

Lo Shalôm di Cristo è una sorta di emancipazione dalle umiliazioni della religione, e dai rifiuti subiti nel ministero terreno.

Diventa una parola distintiva, che designa la proprietà della Presenza divina messianica, fuori e dentro di noi.

Emblema epifanico, trasmette a ciascuno la felicità personale, riservata, del favore divino, per la crescita di tutti.

Non un premio meritato per le fatiche, né un presagio, bensì un Dono personale; non condizionante.

Proposta gratuita, dell’adesso, che si fa eccedente nel cammino. Passaggio cosmico e acutamente intimo.

Pienezza di essere e totalità senza confini, di Vita, che ci segna - ma nel senso di superamento delle aspettative.

 

La prosperità mondana e religiosa [in senso antico] si somigliano: opulenza che non nasce dalla Fede-amore.

Sembra una ricompensa per i servizi prestati, ovvero un ricatto per quelli attesi. Una potenza funesta.

Una sorta di beatitudine a mercimonio e sotto “giusto proposito”.

Dai lineamenti ambigui a tutti i livelli di relazione: con Dio, la comunità, il Tu e persino l’io.

Non è confronto ri-creativo con la Croce, che balza su.

 

Il «Vado e Vengo da voi» (v.28) è una endiadi semitica: due affermazioni unite, che si riferiscono al medesimo accadimento [generativo, vitale] di morte e vita completa, il quale crea una nuova situazione.

L’espressione-evento non è tale da farsi soggetta a condizioni.

Termina l’arco del ministero terreno del Signore; si accende un’Alleanza.

Tempo della Parola e dell’azione diffuse, con risultati complessivi di nuovi padri e madri, nuova Creazione.

Insomma, la Pace di Gesù non è uno stato, bensì un rapporto.

Piena attuazione dell’umano - condizione non più equilibrista, secondo convenzioni.

Piuttosto, adempimento ricalibrato sulla misura del Cristo in Persona, nell’Ora della Nascita.

 

Sulla bocca di Gesù, «Shalôm» [eccellenza e superamento delle benedizioni antiche] assume i lineamenti del significato proprio, messianico.

Presenza di ‘unzione’. Discrimine dei Vangeli e Annuncio essenziale (cf. Lc 10,5).

Ampiezza di ben-essere: senza questo prezioso codice di lettura la Parola del Signore resta incomprensibile, e la Missione cui siamo inviati diventa preda di ossessioni, le più sciatte, inautentiche.

Nei territori dell’impero la Pax Romana aveva tratti trionfalistici - era sinonimo di violenza, competizione, repressione di ribelli.

Come tregua armata, si faceva garante d’una economia prospera, ma assicurata nella sua dimensione sociale solo dalle disuguaglianze, in specie da una vasta base di schiavi.

La Pace che Gesù introduce non è un augurio qualunque, di migliorie normali attese; piuttosto, la trasmissione della sua stessa Persona.

Tale propensione, vicenda e Amicizia senza prezzo ci stimola a un riordinamento, riconfigurazione, riorganizzazione completa di tutta la vita.

E spesso la butta all’aria, onde speronarne il quietismo di circostanza.

Nel nostro linguaggio, parleremmo forse di Felicità e nuovo ordine e assetto pubblico.

 

Essendo il desiderio segreto di ciascuno, nessuna difficoltà potrà spegnerne la promessa e potenza di realizzazione (v.30).

Shalôm è pienezza di esistenza salvata, “successo” nel nostro cammino di fioritura attraverso mille imprese.

Shalôm è perfezione e gioia completa, compimento dei desideri.

Vittoria del Patto fra Dio e il popolo. Sintonia e comunione senza fine tra impulso innato della nostra essenza particolare e compimento delle speranze.

Successo dell’Alleanza fra spinta dell’anima e conquiste evolutive sperimentate nella vita reale.

Shalôm [attuazione piena dell’umanità che ritrova se stessa] indica totalità vitale e compiuta di ogni aspirazione.

Qualità di rapporti nuovi che ne scaturiscono: il bene supremo d’una Presenza in atto. Affidata a noi.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

La tua Pace è solco, cammino inconfondibile, eco di Cristo, o fiducia vuota - un’esenzione dalla lotta?

E la tua testimonianza per stabilire Dio sulla terra in cos’è concorrenziale, provocatoria, rinnovata, vivente?

 

 

Pace e Segni. Cittadelle e ideologia di potere

(Lc 19,41-44)

 

Ci piace essere sulla scia della moda o dell’opportunismo, ma respingere la Chiamata del Signore è grande responsabilità.

Bisogna riconoscere la Sua Visita, in Presenza, nell’ispirazione che emerge.

E scrutare i segni, cogliere i momenti di grazia invece di chiudersi ostilmente; non voltare le spalle.

Tutto questo cambia la vita in radice - guida al cuore della storia.

Gesù vuole espugnare le porte chiuse di ogni cittadella; anzitutto dell’osso più duro: Gerusalemme, la città santa.

Il territorio “eterno” è meno capace di accogliere le proposte del Signore - anche quelle sbandierate agli altri ma vissute in proprio con comportamenti qua e là aberranti (che costringono a ripetuti appelli).

Lì, gli estremisti del tornaconto antico o supermoderno restano tutti protesi a presidiare e coprire interessi, privilegi, abitudini, comodità.

Situazione che trascina i problemi stessi - i quali via via diventano cronici.

Non di rado i responsabili astuti rimangono seduti e chiusi nella difesa del mondo che vede solo se stesso, nella perfetta cupidità di ogni cosa vana.

Altro che fermento di conversione, motore della società, germe di vita nuova!

Risultato: la Verità tanto sbandierata rimane spesso ostaggio delle ingiustizie più bieche, che nel quotidiano consumano allegramente i peggiori tradimenti.

 

Anche Gesù si accorgeva della medesima situazione, immarcescibile, la quale produceva degrado e disumanizzazione.

Talora infatti ricerca del divino e tensione umana sono rese vane, a causa di un mondo ufficiale esclusivo, snob o settario - quello del sacro - che sembra sotto il segno di tutt’altra ‘divinità’.

Da parte dei “direttori”, la scelta di una ideologia di potere pasce d’illusioni.

Guida al proselitismo duro, ma conduce al disastro l’intero popolo - vessato, disprezzato, emarginato.

Offuscando lo sguardo, ciò non consente di liberarsi degli idoli più insidiosi che deturpano l’esistenza e la mente.

In tal guisa, l’ottica dirigista, superficiale e violenta, confonde e travia il cammino verso lo Shalôm.

Impossibile rendersi conto della Visita di Dio, nella città perenne della religiosità antica o dell’ideologia élitaria, disincarnata.

Un tempo, ecco trincee, uccisioni e distruzione delle mura e delle case da parte di Nabucodonosor; poi quella romana del 70, cui allude più direttamente il testo.

Ma la previsione lugubre si estende, e forse l’immagine del mucchio di rovine ci riguarda. Fondo storico, meditazione ecclesiale e pastorale.

 

Non di rado l’autorità competente ha continuato purtroppo a condannare Gesù-Pace come un malfattore da espellere.

Ma in filigrana il Cristo oggi si staglia nella posizione di Re, che a malincuore pronuncia una sentenza definitiva.

Forse lo fa persino sui suoi intimi, quando si lasciano andare al compromesso, al degrado ideale, alla corruzione venale [all’adorazione degli idoli].

Dove la salvezza è preparata, offerta e riproposta in modo così intenso ma invano, il rifiuto diventa più doloroso - così per noi e per questo Figlio appassionato, commovente, quasi affranto.

Eppure il ceto degli eletti ed esclusivisti sceglie ugualmente di cadere e rovinare, in tal guisa autodistruggendo la propria gente.

Ricevendo in cambio solo il becchime mondano d’un titolo da appuntarsi.

E nello stesso ‘spirito di permanenza’, rigettando il Messia servitore.

Misconoscendo anche nel tempo l’opera di Bene dei suoi testimoni autentici.

Pertanto, la Città delle città - il grande centro religioso - continuerà a perdere il suo speciale carattere di segno salvatore.

 

Ci sarà un compimento comunque, ma l’anticipazione si realizza ora.

Dunque: siamo col Redentore [resistenza all’oppressione e attività profetica senza acquiescenze] o con Gerusalemme [deviazioni coperte da docilità, amicizia del sovrano, notorietà, premi in denaro]?

Anche oggi è tempo di Visita del Maestro, che bussa e chiede il permesso di entrare, per aprire i sigilli dei grandi interrogativi della storia e della vita.

Il monito è globale, comunitario, e personale; di nuovo con lacrime di padre, di madre e di figlio.

Appello tuttora in fieri - per l’attuale tendenza culturale al nulla, alla resa e all’effimero.

 

L’enciclica Fratelli Tutti denuncia appunto il regresso di un mondo stravagante che - con un senso del “qui e ora” rattrappito - sembra aver imparato poco dalle tragedie del Novecento, sino a riaccendere conflitti anacronistici (nn.11.13).

 

Il Padre ha riservato alla Chiesa un Regno alternativo, e dove essa cerca di occupare il posto di altri, finisce solo per vivere di elemosine da rotocalco, e far stare i suoi figli più stretti.

Meglio non rovinare l’amore. Il farsi valere è maschera di nanerottoli, non virtù dei forti - né di famigliari.

Ma accorgendoci anche dei luoghi di rottura, e recuperando il passo sociale, è con nuovo acume evangelico che potremo rendere il Dio-per-tutti davvero operante e vivo, invece che affranto su di noi.

Ciò con migliore profitto a partire dal suo Popolo: dall’anima delle sue Fraternità di silenziosi agnelli, impegnati non a gestire posizioni, bensì nell’artigianato sine glossa della vita reale.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ritieni sia nascosto ai tuoi occhi, ma precedentemente annunziato - e che piange amaro?

Con quale orientamento sei disposto a vivere nell’«artigianato della Pace», anche famigliare o sociale, mettendo da parte le inimicizie e l’effimero [cf. FT nn. 57. 100. 127. 176. 192. 197. 216-217. 225-236. 240-243. 254-262. 271-272. 278-285]?

 

 

Pace, nella Verità

 

11. Dinanzi ai rischi che l'umanità vive in questa nostra epoca, è compito di tutti i cattolici intensificare, in ogni parte del mondo, l'annuncio e la testimonianza del « Vangelo della pace », proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace. Dio è Amore che salva, Padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a servizio del bene comune della famiglia umana. Dio è inesauribile sorgente della speranza che dà senso alla vita personale e collettiva. Dio, solo Dio, rende efficace ogni opera di bene e di pace. La storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l'umanità, impaurita e impoverita, verso scelte che non hanno futuro. Ciò deve spronare i credenti in Cristo a farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un'ampia collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti gli uomini di buona volontà.

[Papa Benedetto, Messaggio per la XXXIX Giornata Mondiale per la Pace, 2006]

سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!] (Gv 14,27), ci dice Cristo Gesù […]

Conosco le vostre difficoltà nella vita quotidiana, a causa della mancanza di stabilità e di sicurezza, della difficoltà di trovare un lavoro o ancora del sentimento di solitudine e di emarginazione. In un mondo in continuo movimento, siete messi a confronto con numerose e gravi sfide. Anche la disoccupazione e la precarietà non devono spingervi ad assaggiare il «miele amaro» dell'emigrazione, con lo sradicamento e la separazione in cambio di un futuro incerto. Per voi si tratta di essere protagonisti del futuro del vostro Paese, e di occupare il vostro ruolo nella società e nella Chiesa.

Voi avete un posto privilegiato nel mio cuore e nella Chiesa intera perché la Chiesa è sempre giovane! La Chiesa ha fiducia in voi. Conta su di voi. Siate giovani nella Chiesa! Siate giovani con la Chiesa! La Chiesa ha bisogno del vostro entusiasmo e della vostra creatività! La giovinezza è il momento in cui si aspira a grandi ideali e il periodo in cui si studia per prepararsi ad un mestiere ed ad un futuro. Ciò è importante e richiede tempo. Cercate ciò che è bello, e abbiate il gusto di fare ciò che è bene! Testimoniate la grandezza e la dignità del vostro corpo che «è per il Signore» (1 Cor 6,13). Abbiate la delicatezza e la rettitudine dei cuori puri! Nella scia del beato Giovanni Paolo II, anch’io vi ripeto: «Non abbiate paura. Aprite le porte dei vostri spiriti e dei vostri cuori a Cristo!». L'incontro con Lui «dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enc. Deus caritas est, 1). In Lui, troverete la forza e il coraggio per avanzare sulle strade della vostra vita, superando le difficoltà e la sofferenza. In Lui, troverete la sorgente della gioia. Cristo vi dice: سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore.

Le frustrazioni presenti non devono condurvi a rifugiarvi in mondi paralleli come quelli, tra gli altri, delle droghe di ogni tipo, o quello della tristezza della pornografia. Quanto alle reti sociali, esse sono interessanti ma possono facilmente trascinarvi alla dipendenza e alla confusione tra il reale e il virtuale. Cercate e vivete relazioni ricche di amicizia vera e nobile. Abbiate iniziative che diano senso e radici alla vostra esistenza, contrastando la superficialità e il facile consumismo! Voi siete sottoposti ugualmente ad un'altra tentazione, quella del denaro, questo idolo tirannico che acceca al punto da soffocare la persona e il suo cuore. Gli esempi che vi circondano non sono sempre i migliori. Molti dimenticano l'affermazione di Cristo che dice che non si può servire Dio e il denaro (cfr Lc 16,13). Cercate dei buoni maestri, delle guide spirituali che sappiano indicarvi la strada della maturità, lasciando ciò che è illusorio, ciò che è apparenza e menzogna.

Siate i portatori dell'amore di Cristo! Come? Volgendovi senza riserve verso Dio, suo Padre, che è la misura di ciò che è giusto, vero e buono. Meditate la Parola di Dio! Scoprite l'interesse e l'attualità del Vangelo. Pregate! La preghiera, i Sacramenti sono i mezzi sicuri ed efficaci per essere cristiani e vivere «radicati e costruiti su di lui [su Cristo], saldi nella fede » (Col 2,7). L'Anno della fede che sta per iniziare sarà l'occasione per scoprire il tesoro della fede ricevuta con il Battesimo. Potete approfondire il suo contenuto grazie allo studio del Catechismo, affinché la vostra fede sia viva e vissuta. Allora diventerete, per gli altri, testimoni dell'amore di Cristo. In Lui, tutti gli uomini sono nostri fratelli. La fraternità universale che Egli ha inaugurato sulla Croce riveste di una luce splendente ed esigente la rivoluzione dell'amore. «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Questo è il testamento di Gesù ed il segno del cristiano. Questa è la vera rivoluzione dell'amore!

E dunque, Cristo vi invita a fare come Lui, ad accogliere l'altro senza riserve, anche se appartiene ad una cultura, religione, nazione differente. Fargli posto, rispettarlo, essere buoni verso di lui, rende sempre più ricchi di umanità e forti della pace del Signore. So che molti tra voi partecipano alle diverse attività promosse dalle parrocchie, dalle scuole, dai movimenti, dalle associazioni. È bello impegnarsi con e per gli altri. Vivere insieme momenti di amicizia e di gioia permette di resistere ai germi di divisione, sempre da combattere! La fraternità è un anticipo del Cielo! E la vocazione del discepolo di Cristo è di essere «lievito» nella pasta, come affermava san Paolo: «Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta» (Gal 5,9). Siate i messaggeri del Vangelo della vita e dei valori della vita. Resistete coraggiosamente a tutto ciò che la nega: l'aborto, la violenza, il rifiuto e il disprezzo dell'altro, l'ingiustizia, la guerra. Così facendo diffonderete la pace intorno a voi. Non sono forse gli «operatori di pace» coloro che alla fine ammiriamo di più? Non è forse la pace il bene prezioso che tutta l'umanità ricerca? Non è forse un mondo di pace che vogliamo nel più profondo per noi e per gli altri? سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!] ha detto Gesù. Egli ha vinto il male non mediante un altro male, ma prendendolo su di Sé ed annientandolo sulla croce mediante l'amore vissuto fino alla fine. Scoprire in verità il perdono e la misericordia di Dio, permette sempre di ripartire verso una vita nuova. Non è facile perdonare. Ma il perdono di Dio dà la forza della conversione, e la gioia di perdonare a propria volta. Il perdono e la riconciliazione sono vie di pace, ed aprono un futuro.

Cari amici, molti tra voi si chiedono certamente in modo più o meno consapevole: Che cosa Dio si aspetta da me? Qual è il suo progetto per me? Non vorrei annunciare al mondo la grandezza del suo amore mediante il sacerdozio, la vita consacrata o il matrimonio? Forse Cristo mi chiama a seguirlo più da vicino? Accogliete con fiducia queste domande. Trovate il tempo per riflettere su di esse e chiedere luce. Rispondete all’invito, offrendovi ogni giorno a Colui che vi chiama ad essere suoi amici. Cercate di seguire con cuore e generosità Cristo che, per amore, ci ha riscattati e ha dato la vita per ciascuno di noi. Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace.

[Papa Benedetto, Incontro con i giovani del Libano a Beirut 15 settembre 2012]

5. Fin dagli albori della civiltà i raggruppamenti umani che venivano formandosi ebbero cura di stabilire tra loro intese e patti che evitassero l’arbitrario uso della forza e consentissero il tentativo di una soluzione pacifica delle controversie via via insorgenti. Accanto agli ordinamenti giuridici dei singoli popoli si costituì così progressivamente un altro complesso di norme, che fu qualificato col nome di ius gentium (diritto delle genti). Col passare del tempo, esso venne estendendosi e precisandosi alla luce delle vicende storiche dei vari popoli.

Questo processo subì una forte accelerazione con la nascita degli Stati moderni. A partire dal XVI secolo giuristi, filosofi e teologi si impegnarono nella elaborazione dei vari capitoli del diritto internazionale, ancorandolo a postulati fondamentali del diritto naturale. In questo cammino presero forma, con forza crescente, principi universali che sono anteriori e superiori al diritto interno degli Stati, e che tengono in conto l’unità e la comune vocazione della famiglia umana.

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXXVII Giornata Mondiale della Pace]

Nelle inevitabili «tribolazioni della vita» il cristiano deve affidarsi al Signore nella preghiera, con la certezza di ricevere quella «vera pace» che infonde «coraggio e speranza». Lo ha detto Papa Francesco nella messa celebrata martedì mattina, 5 maggio, nella cappella della Casa Santa Marta.

«Nella liturgia di oggi — ha fatto subito notare Francesco — ci sono tre parole che possono aiutarci nel nostro cammino di fede e di speranza». Così, ha spiegato, nella preghiera colletta «all’inizio della messa abbiamo chiesto al Signore di rafforzare la nostra fede e la nostra speranza». E «queste tre parole che vengono in queste letture sono “tribolazioni”, “affidamento” e “pace”».

Il Papa ha richiamato quanto accadde a Paolo, secondo il racconto degli Atti degli apostoli (14, 19-28): dopo essere stato bastonato, fu trascinato fuori dalla città per essere lapidato. E «quelli che lo perseguitavano hanno creduto che fosse morto». Dunque, Paolo «ha sofferto», ma poi, «quando si è ripreso», ha dato il consiglio di restare «saldi nella fede perché dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Francesco ha ricordato che «nella vita ci aspettano le tribolazioni: è parte della vita passare per momenti bui, momenti difficili».

Ma il consiglio di Paolo «di entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni non è un atteggiamento sadomasochista: è proprio la lotta cristiana». E la ragione, ha spiegato il Pontefice, è che, come dice Gesù, «il principe di questo mondo viene, è vicino e cerca di staccarci proprio dal regno di Dio, dalla parola di Gesù, dalla fede, dalla speranza». Per questo «abbiamo chiesto al Signore di rafforzare la fede e la speranza».

«Le tribolazioni» ci sono, dunque. Ma Gesù ci incoraggia ad avere coraggio: «Io ho vinto il mondo». E «lui è proprio sopra le tribolazioni, lui ci aiuta ad andare avanti». Significative, in proposito, sono le parole scelte da Gesù per spiegare «la parabola del seminatore»: quando «parla del seme che cade in terreno sassoso dice: è come una persona che riceve la parola con gioia e poi nel momento della tribolazione non se la sente, si scoraggia e viene meno».

Ecco allora il senso di «sopportare le tribolazioni». E «sopportare», ha affermato Francesco, «è una parola che Paolo usa tanto: è più di avere pazienza, è portare sulle spalle, portare il peso delle tribolazioni». Anche «la vita del cristiano ha dei momenti così». Ma «Gesù ci dice: “Abbiate coraggio in quel momento. Io ho vinto, anche voi sarete vincitori”». Così «questa prima parola ci illumina» per affrontare «i momenti più difficili della vita, quei momenti che ci fanno anche soffrire».

Francesco ha poi ricordato che Paolo, «dopo aver dato questo consiglio, organizza quella Chiesa, prega sui presbiteri, impone le mani e li affida al Signore». Ed ecco, dunque, la seconda parola: «affidamento». Infatti «un cristiano può portare avanti le tribolazioni e anche le persecuzioni affidandosi al Signore: soltanto lui è capace di darci la forza, di darci la perseveranza nella fede, di darci la speranza».

Bisogna saper «affidare al Signore qualcosa, affidare al Signore questo momento difficile, affidare al Signore me stesso, affidare al Signore i nostri fedeli, noi sacerdoti, vescovi, affidare al Signore le nostre famiglie, i nostri amici». Bisogna saper dire al Signore: «Prenditi cura di questi, sono i tuoi».

Però, ha messo in evidenza il Papa, è «una preghiera che non sempre noi facciamo: la preghiera di affidamento». È una bella preghiera cristiana quella di chi dice: «Signore ti affido questo, portalo tu avanti». È «l’atteggiamento della fiducia nel potere del Signore, anche nella tenerezza del Signore che è Padre». Perciò «quando si fa questa preghiera — ma vera, dal cuore — si sente che questa persona che è stata affidata al Signore è sicura: lui non delude mai».

Insomma, «la tribolazione ti fa soffrire, l’affidamento al Signore ti dà speranza e, di qua, viene la terza parola: la pace». Tutto questo, ha rimarcato il Pontefice, «ti dà pace». Ed è anche «quello che Gesù dice come congedo proprio ai suoi discepoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”», come si legge nel passo evangelico di Giovanni (14, 27-31) tratto dalla liturgia del giorno. Ma, ha avvertito Francesco, non si tratta di «una pace, una semplice tranquillità». Gesù tiene a precisare: «Io do una pace che non è quella che ti dà il mondo», quella cioè che può dare una certa condizione di tranquillità. Invece la pace che viene da Gesù «va dentro», è «una pace che ti dà anche forza, che rafforza quello che oggi abbiamo chiesto al Signore: la nostra fede e la nostra speranza».

In conclusione il Pontefice ha riproposto le «tre parole» che hanno scandito la sua riflessione: «tribolazioni, affidamento, pace». Non bisogna mai dimenticare che «nella vita dobbiamo andare su strade di tribolazione», perché «è la legge della vita»; ma ci si deve sempre ricordare proprio «in quei momenti» di «affidarsi al Signore». E «lui ci risponde con la pace». Infatti «il Signore è Padre che ci ama tanto e mai delude» ha riaffermato il Papa. E ha proseguito chiedendo che Dio «rafforzi la nostra fede e la nostra speranza», dandoci «la fiducia di vincere le tribolazioni, perché lui ha vinto il mondo», e «donando a tutti la sua pace».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 06/05/2015]

Generatrici dal basso

(Gv 14,21-26)

 

L’amore del Padre ci unisce a Cristo attraverso una chiamata che si manifesta onda su onda. E su tale sentiero il Figlio stesso si rivela.

«I miei comandamenti» [v.21: genitivo soggettivo] è un’espressione teologica che designa la stessa Persona del Risorto in atto.

‘Persona’ dispiegata nella storia degli uomini grazie al suo Corpo mistico: il variegato Popolo di Dio, la cui poliedricità è valore aggiunto - non limite o contaminazione della purezza.

Beninteso, l’Amore è l’unica realtà che non si può “comandare”.

Ma Gesù lo designa e propugna tale per sottolineare il distacco dal Patto del Sinai, che riassume ma sostituisce.

La forma plurale «comandamenti» riconosce il ventaglio delle svariate forme di scambievolezza e personalizzazione dell’amore.

Nessun orientamento, dottrina, codice, potrà mai superarlo, o viceversa renderlo paludoso.

 

Gli Apostoli, condizionati dalla mentalità religiosa convenzionale - tutta passerelle - s’interrogano circa l’atteggiamento di Gesù, modesto e poco incline allo spettacolo (v.22).

Non accettano un Messia che non s’imponga all’attenzione di tutti, non stupisca il mondo, non urli proclami da forsennato.

Il Maestro preferisce che nella sua Parola riconosciamo una corrispondenza attiva con il desiderio di vita integrale che portiamo dentro (vv.23-24).

In detto Appello si annida infatti una simpatia, un’intesa, una freccia, una vigoria efficiente e creatrice, che si rende Fuoco e solidità di Presenza personale.

A partire dall’interno, al contempo fievole e squillante.

 

Nella cultura forense antica, «Paraclito» (v.26) era detto il personaggio eminente dell’assemblea - oggi diremmo una sorta di avvocato - che senza nulla dire si poneva accanto per giustificare l’imputato.

Tale attributo dello Spirito allude a un’intensità, intimo fondamento e reciprocità di Relazione silenziosa che si fa Persona, e sa dove andare.

Compagno che approva; che conduce il cuore, il carattere, la vita stessa, non alla gogna, bensì alla piena fioritura di noi stessi.

Esperienza che avviene senza terremoti, tuoni e folgori - parziali - ma attraverso l’azione dello Spirito che interiorizza, accompagna, nutre, rende aggiornata e viva l’interpretazione della Parola (v.26).

Il Messaggio dei Vangeli ha una radice generatrice che non può ridursi a un’esperienza unilaterale e ingombrante, tutta codificata e moralista ma vuota come nelle situazioni settarie, sempre in lotta con se stesse e il mondo.

 

Avventurandosi nel proprio Esodo, ciascuno scopre risorse celate e un amplificarsi di prospettive che dilatano e completano l’essere, allargando l’esperienza del carattere vocazionale che gli corrisponde.

Tra vita in cammino e Parola di Dio - regola d’oro che regala autostima - si accende una comprensione impredicibile, versatile, eclettica, non a senso unico, la quale travalica le concatenazioni identitarie.

Nella sua portata, il Richiamo rimane identico, ma nel tempo espande la consapevolezza delle sue sfaccettature - appunto, integrandole.

Espressività ricche e non già ratificate, Creatore e creatura non si esternano autenticamente in modo fisso, sancito, e in riferimento a un codice dottrina-disciplina, ma nella libertà eccedente della vita.

Realtà plausibile nell’avventura di Fede, ma che farebbe impazzire ogni religione esterna.

 

 

[Lunedì 5.a sett. di Pasqua, 19 maggio 2025]

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سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)
Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli (Papa Francesco)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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