don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

“Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”.

Dinanzi alla folla, che lo ha seguito dalle rive del mare di Galilea fin verso la montagna per ascoltare la sua parola, Gesù dà inizio, con questa domanda, al miracolo della moltiplicazione dei pani, che costituisce il significativo preludio al lungo discorso, nel quale si rivela al mondo come il vero pane della vita disceso dal cielo (cf. Gv 6,41).

1. Abbiamo ascoltato il racconto evangelico: con cinque pani d’orzo e con due pesci, messi a disposizione da un ragazzo, Gesù sfama circa cinquemila uomini. Ma questi, non comprendendo la profondità del “segno” in cui sono stati coinvolti, sono convinti di aver trovato finalmente il Re-Messia, che risolverà i problemi politici ed economici della loro Nazione. Di fronte a tale ottuso fraintendimento della sua missione, Gesù si ritira, tutto solo, sulla montagna.

Anche noi, Sorelle e Fratelli carissimi, abbiamo seguito Gesù e continuiamo a seguirlo. Ma possiamo e dobbiamo chiederci: con quale atteggiamento interiore?Con quello autentico della fede, che Gesù attendeva dagli Apostoli e dalla folla sfamata, oppure con un atteggiamento di incomprensione? Gesù si presentava in quella occasione come, anzi più di Mosè, che nel deserto aveva sfamato il popolo israelita durante l’esodo; si presentava come, anzi più di Eliseo, che con venti pani d’orzo e di farro aveva dato da mangiare a cento persone. Gesù si manifestava, e si manifesta oggi a noi, come Colui che è capace di saziare per sempre la fame del nostro cuore: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,33).

E l’uomo, specialmente quello contemporaneo, ha tanta fame: fame di verità, di giustizia, di amore, di pace, di bellezza; ma, soprattutto, fame di Dio. “Noi dobbiamo essere affamati di Dio!” esclama Sant’Agostino (“famelici Dei esse debemus” (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 146, 17: PL 37,1895ss.). È lui, il Padre celeste, che ci dona il vero pane!

2. Questo pane, di cui abbiamo bisogno, è anzitutto il Cristo, il quale si dona a noi nei segni sacramentali dell’Eucaristia, e ci fa sentire, in ogni Messa, le parole dell’ultima Cena: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Col sacramento del pane eucaristico – afferma il Concilio Vaticano II – “viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo Corpo in Cristo (cf. 1Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo che è luce del mondo; da lui veniamo, per lui viviamo, a lui siamo diretti” (Lumen Gentium, 3).

Il pane di cui abbiamo bisogno è, inoltre, la parola di Dio, perché “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio” (Mt 4,4; cf. Dt 8,3). Indubbiamente, anche gli uomini possono esprimere e pronunciare parole di alto valore. Ma la storia ci mostra come le parole degli uomini siano talvolta insufficienti, ambigue, deludenti, tendenziose; mentre la Parola di Dio è piena di verità (cf. 2Sam 7,28;1Cor 15,26); è retta (Sal 33,4); è stabile e rimane in eterno (cf. Sal 119,89;1Pt 1,25). 

Dobbiamo metterci continuamente in religioso ascolto di tale Parola; assumerla come criterio del nostro modo di pensare e di agire; conoscerla, mediante l’assidua lettura e la personale meditazione; ma, specialmente, dobbiamo farla nostra, realizzarla, giorno dopo giorno, in ogni nostro comportamento.

Il pane, infine, di cui abbiamo bisogno, è la grazia; e dobbiamo invocarla, chiederla con sincera umiltà e con instancabile costanza, ben sapendo che essa è quanto di più prezioso possiamo possedere.

3. Il cammino della nostra vita, tracciatoci dall’amore provvidenziale di Dio, è misterioso, talvolta umanamente incomprensibile, e quasi sempre duro e difficile. Ma il Padre ci dona il “pane del cielo” (cf. Gv 6,32), per essere rinfrancati nel nostro pellegrinaggio sulla terra.

Mi piace concludere con un passo di Sant’Agostino, che sintetizza mirabilmente quanto abbiamo meditato: “Si comprende molto bene... come la tua Eucaristia sia il cibo quotidiano. Sanno infatti i fedeli che cosa essi ricevono ed è bene che essi ricevano il pane quotidiano necessario per questo tempo. Pregano per loro stessi, per diventare buoni, per essere perseveranti nella bontà, nella fede, e nella vita buona... la parola di Dio, che ogni giorno viene a voi spiegata e, in un certo senso, spezzata, è anch’essa pane quotidiano” (S. Agostino, Sermo 58, IV: PL 38,395).

Che Cristo Gesù moltiplichi sempre, anche per noi, il suo pane!

Così sia!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 29 luglio 1979]

Il Vangelo di oggi (cfr Gv 6,1-15) presenta il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Vedendo la grande folla che lo aveva seguito nei pressi del lago di Tiberiade, Gesù si rivolge all’apostolo Filippo e domanda: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v. 5). I pochi denari che Gesù e gli apostoli possiedono, infatti, non bastano per sfamare quella moltitudine. Ed ecco che Andrea, un altro dei Dodici, conduce da Gesù un ragazzo che mette a disposizione tutto quello che ha: cinque pani e due pesci; ma certo – dice Andrea – sono niente per quella folla (cfr v. 9). Bravo questo ragazzo! Coraggioso. Anche lui vedeva la folla, e vedeva i suoi cinque pani. Dice: “Io ho questo: se serve, sono a disposizione”. Questo ragazzo ci fa pensare… Quel coraggio… I giovani sono così, hanno coraggio. Dobbiamo aiutarli a portare avanti questo coraggio. Eppure Gesù ordina ai discepoli di far sedere la gente, poi prende quei pani e quei pesci, rende grazie al Padre e li distribuisce (cfr v. 11), e tutti possono avere cibo a sazietà. Tutti hanno mangiato quello che volevano.

Con questa pagina evangelica, la liturgia ci induce a non distogliere lo sguardo da quel Gesù che domenica scorsa, nel Vangelo di Marco, vedendo «una grande folla, ebbe compassione di loro» (6,34). Anche quel ragazzo dei cinque pani ha capito questa compassione, e dice: “Povera gente! Io ho questo…”. La compassione lo ha portato a offrire quello che aveva. Oggi infatti Giovanni ci mostra nuovamente Gesù attento ai bisogni primari delle persone. L’episodio scaturisce da un fatto concreto: la gente ha fame e Gesù coinvolge i suoi discepoli perché questa fame venga saziata. Questo è il fatto concreto. Alle folle, Gesù non si è limitato a donare questo – ha offerto la sua Parola, la sua consolazione, la sua salvezza, infine la sua vita –, ma certamente ha fatto anche questo: ha avuto cura del cibo per il corpo. E noi, suoi discepoli, non possiamo far finta di niente. Soltanto ascoltando le più semplici richieste della gente e ponendosi accanto alle loro concrete situazioni esistenziali si potrà essere ascoltati quando si parla di valori superiori.

L’amore di Dio per l’umanità affamata di pane, di libertà, di giustizia, di pace, e soprattutto della sua grazia divina, non viene mai meno. Gesù continua anche oggi a sfamare, a rendersi presenza viva e consolante, e lo fa attraverso di noi. Pertanto, il Vangelo ci invita ad essere disponibili e operosi, come quel ragazzo che si accorge di avere cinque pani e dice: “Io dò questo, poi tu vedrai…”. Di fronte al grido di fame – ogni sorta di “fame” – di tanti fratelli e sorelle in ogni parte del mondo, non possiamo restare spettatori distaccati e tranquilli. L’annuncio di Cristo, pane di vita eterna, richiede un generoso impegno di solidarietà per i poveri, i deboli, gli ultimi, gli indifesi. Questa azione di prossimità e di carità è la migliore verifica della qualità della nostra fede, tanto a livello personale, quanto a livello comunitario.

Poi, alla fine del racconto, Gesù, quando tutti furono saziati, Gesù disse ai discepoli di raccogliere i pezzi avanzati, perché nulla andasse perduto. E io vorrei proporvi questa frase di Gesù: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (v. 12). Penso alla gente che ha fame e a quanto cibo avanzato noi buttiamo… Ognuno di noi pensi: il cibo che avanza a pranzo, a cena, dove va? A casa mia, cosa si fa con il cibo avanzato? Si butta? No. Se tu hai questa abitudine, ti dò un consiglio: parla con i tuoi nonni che hanno vissuto il dopoguerra, e chiedi loro che cosa facevano col cibo avanzato. Non buttare mai il cibo avanzato. Si rifà o si dà a chi possa mangiarlo, a chi ha bisogno. Mai buttare il cibo avanzato. Questo è un consiglio e anche un esame di coscienza: cosa si fa a casa col cibo che avanza?

Preghiamo la Vergine Maria, perché nel mondo prevalgano i programmi dedicati allo sviluppo, all’alimentazione, alla solidarietà, e non quelli dell’odio, degli armamenti e della guerra.

[Papa Francesco, Angelus 29 luglio 2018]

Seconda Domenica di Pasqua [27 Aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questi giorni mentre preghiamo per il nostro papa Francesco partito per la casa del Padre, invochiamo insistentemente la luce dello Spirito Santo sulla Chiesa e in particolare sui cardinali che dovranno eleggere colui che il Signore ha scelto a guida della sua Chiesa dopo papa Francesco. 

 

*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (5,12-16) 

Ecco una presentazione della prima comunità cristiana che sembra quasi troppo bella per essere vera (Negli Atti degli Apostoli ci sono quattro riassunti della vita ai primordi della Chiesa At 2,42-47 il più noto e dettagliato; At 4,32-35 sottolinea la comunione dei beni; At 5,12-16 mette in luce i miracoli e la crescita; At 6, 7 sommario breve della diffusione del vangelo). Non dobbiamo però dedurne che tutto era perfetto perché nelle prossime domeniche vedremo ogni sorta di difficoltà: i primi cristiani erano uomini, non superuomini. Perché allora san Luca presenta questo quadro ideale? Perché intende incoraggiare anche noi a camminare nella stessa direzione: una comunità fraterna è condizione indispensabile per l’annuncio e la testimonianza del vangelo. Poiché gli apostoli seguivano il comando di Cristo, Il contagio del vangelo è stato irresistibile: “Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8) e niente è riuscito a impedire alla Chiesa nascente di svilupparsi. Nota san Luca che “tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone”. Siamo ancora a Gerusalemme, dato che la risurrezione di Cristo è vicina nel tempo, esattamente nel Tempio di Gerusalemme sotto il portico di Salomone (tutto il muro orientale del Tempio era in realtà un colonnato che costeggiava un largo corridoio coperto, luogo di passaggio e di incontro, accessibile a tutti non facendo parte della zona riservata ai soli Giudei). Dopo la morte e risurrezione di Gesù, gli apostoli, essendo e restando giudei, continuavano a frequentare il Tempio. Anzi, la loro fede giudaica si era  rafforzata avendo visto negli eventi pasquali realizzate le promesse dell’Antico Testamento. Solamente dopo e progressivamente avverrà la divisione tra cristiani e i giudei che non riconoscevano Gesù come il Messia, anche se già in questo testo se ne avverte un primo segnale: “nessuno degli altri osava associarsi a loro”, il che ci dice che i cristiani già formavano un gruppo distinto all’interno del popolo giudeo. Luca traccia qui un parallelo con gli inizi della predicazione di Gesù: “Anche la folla dalle città vicine a Gerusalemme accorreva portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti” ; nel vangelo aveva scritto la stessa cosa di Gesù: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano malati affetti da varie infermità li conducevano a lui…. anche i demoni uscivano da molti” (Lc 4,40-41). Se insiste sulle guarigioni di Pietro e degli apostoli chiaro è il messaggio: continua l’opera del Messia attraverso gli apostoli e dice alla sua comunità: tocca a voi prendere il testimone degli apostoli perché il Cristo conta su di voi. Ed è interessante costatare che, grazie alla testimonianza degli apostoli, le folle non si univano agli apostoli, ma attraverso gli apostoli, al Signore: “Sempre più, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di di uomini e donne”. Si tratta di un dettaglio importante perché le conversioni non sono opera degli apostoli, ma di Cristo che agisce quando la comunità è formata di persone con “un cuore solo” e “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). San Pietro e gli altri apostoli non si presentavano come superuomini, anzi Pietro dirà a Cornelio, che si era inginocchiato davanti a lui: “Alzati. Anche io sono un uomo.” (At 10,26). Se nelle nostre comunità mancano segni e miracoli non sarà forse un invito a vivere sinceramente nell’amore di Cristo? 

 

*Salmo responsoriale (117 (118), 2-4, 22-24, 25-27a)

Torna il salmo 117 (118) cantato già nella Veglia pasquale e il giorno di Pasqua, e lo troviamo ogni domenica del tempo ordinario nell’Ufficio delle Lodi (Liturgia delle Ore). Per gli ebrei, questo salmo riguarda il Messia; noi cristiani vi riconosciamo il Messia atteso da tutto l’Antico Testamento, il vero re, il vincitore della morte. Come altri salmi anche questo va meditato in un duplice livello: nella prospettiva dell’attesa ebraica del Messia, e alla luce della fede dei convertiti in Cristo risorto. Per gli Ebrei è un salmo di lode che comincia con Alleluia, il cui significato è “lodate Dio” e che dà il tono all’insieme. Si tratta di ventinove versetti dove torna più di trenta volte la parola Signore (le famose quattro lettere del Nome di Dio in ebraico YHWH), o almeno Yah, che ne è la prima sillaba e sono tutte frasi, una vera litania, di lode per la grandezza, l’amore e l’opera di Dio verso il suo popolo. il salmo cantato accompagna un sacrificio di ringraziamento durante la festa delle Capanne, che dura otto giorni in autunno. Il rito più visibile per gli stranieri di questa festa avviene fuori dal Tempio. Durante l’intera settimana tutti abitano in capanne di frasche, le Capanne o Tabernacoli (Sukkot è il nome della festa), facendo memoria delle tende del deserto e dell’ombra protettrice di Dio nell’Esodo. Dentro il Tempio ci sono celebrazioni il cui punto comune è il rinnovamento dell’Alleanza (e durante le quali i pellegrini agitano dei rami anzi un mazzetto, il lulav, composto da una palma, un ramo di mirto, un ramo di salice e un cedro. Si svolge infine una grande processione attorno all’altare con in mano questi mazzi di lulav cantando salmi intervallati da Hosanna, che significa sia «Dio salva» o «Dio, salvaci». Ci sono riti di libagione d’acqua versata presso l’altare (cf Gv 7,37) e nelle sere precedenti l’ultimo giorno una grande illuminazione del cortile delle Donne nel Tempio con quattro candelabri dorati, alimentati con olio e stoppini ricavati da abiti sacerdotali dismessi e la luce così prodotta era così intensa che illuminava tutta Gerusalemme. E’ dunque una festa di fervore e gioia, che anticipa la venuta del Messia: si rende grazie per la salvezza già compiuta e si accoglie la salvezza che porterà il Messia che non tarderà a venire: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”). Quando Gesù si proclama  vera “luce del mondo” (Gv8,2) lo fa probabilmente dopo la conclusione della festa con la memoria viva di quel rito luminoso. Nei versetti scelti per l’odierna liturgia mancano tutti gli elementi della festa delle Capanne, ma non la gioia nei cuori dei credenti: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore:, rallegriamoci in esso ed esultiamo …Dica Israele: Il suo amore è per sempre” . Per narrare la bontà del Signore lungo tutta la storia d’Israele, il salmo narra di un re che dopo una guerra spietata ha vinto e ringrazia Dio per averlo sostenuto: “Mi hanno spinto, mi hanno urtato per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto” (v.13), “Tutte le nazioni mi hanno circondato: nel nome del Signorele ho distrutte” (v.10), e ancora: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore” (v.17). In realtà, nella storia di questo re è narrata quella Israele che lungo la sua storia ha sfiorato l’annientamento ma il Signore l’ha risollevato, e ora canta nella festa delle Capanne: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore”. Israele sa di dover testimoniare le opere del Signore e da questa consapevolezza ha attinto la forza per sopravvivere a tutte le sue prove. La festa ebraica delle Capanne per noi cristiani trova un’eco nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, la domenica delle Palme, ma soprattutto l’esultanza di questo salmo si addice al Risorto che gli evangelisti, ciascuno a suo modo, hanno presentato come il vero re (Matteo nella visita dei Magi, Giovanni, nel racconto della Passione). Meditando il mistero del Messia rifiutato e crocifisso, gli apostoli hanno scoperto un nuovo senso in questo salmo: Gesù è veramente “colui che viene nel nome del Signore”, pietra scartata dai costruttori, rifiutato dal suo popolo, Cristo è la pietra angolare di fondazione del nuovo Israele. Questo salmo era cantato a Gerusalemme in occasione di un sacrificio di ringraziamento e Gesù ha appena compiuto il sacrificio di ringraziamento per eccellenza: Egli è il nuovo Israele che rende grazie al Padre in un’eterna azione di grazie, iinaugurando tra Dio e l’umanità la nuova Alleanza in cui l’umanità è risposta d’amore all’amore del Padre.

Nota  La pietra angolare: su questa espressione, vedi il commento al salmo 117 (118) per la domenica di Pasqua.

 

*Seconda Lettura Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (1, 9-11a.12-13.17-19)

Per sei domeniche consecutive leggeremo come seconda lettura brani dell’Apocalisse, una grande opportunità per familiarizzare con uno dei libri più affascinanti del Nuovo Testamento, apparentemente difficile e bisognoso d’un certo sforzo. “Apocalisse” significa rivelazione, svelamento nel senso di togliere un velo e Giovanni rivela il mistero della storia nascosto ai nostri occhi e poiché deve mostrarci ciò che non vediamo, il libro ci parla con delle visioni («vedere» o «guardare» è usato cinque volte solo nel brano di oggi). Nel comune sentire Apocalisse è sinonimo di catastrofe, pessimo fraintendimento, perché l’Apocalisse come l’intera Bibbia è una Buona Notizia. Nel loro genere letterario, le apocalissi, come l’intera Bibbia, comunicano l’amore di Dio e la vittoria definitiva dell’amore su ogni male. Per noi, che viviamo in un contesto culturale diverso, ci resta quasi impossibile percepire perché questo linguaggio simbolico e capire a chi l’autore si rivolge. In realtà egli usa il linguaggio delle visioni perché tutti i libri dello stesso genere sono nati in un periodo di forte persecuzione dei cristiani (tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. sono state scritte diverse apocalisse da autori diversi). Lo fa capire san Giovanni: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. A Patmos era in esilio, non in vacanza ed essendo in piena persecuzione, questo testo circolava di nascosto per confortare le comunità. Tema principale è la vittoria finale di coloro che erano oppressi: vi perseguitano e i vostri persecutori prosperano, ma non perdete coraggio perché Cristo ha vinto il mondo. Le forze del male non possono nulla contro di voi essendo già sconfitte e il vero re è Cristo. Giovanni l’afferma all’inizio: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù”. Per evitare che i persecutori capiscano si raccontano storie di altri tempi usando visioni fantasiose in modo da scoraggiare la lettura da parte dei non iniziati. Ad esempio, san Giovanni presenta malissimo Babilonia, che definisce la grande prostituta, ma si capisce che parla di Roma. Insomma, il messaggio di ogni Apocalisse è che le forze del male non prevarranno mai. Nell’odierna lettura la vittoria di Cristo è mostrata in questa visione grandiosa: è domenica, giorno del Signore,  rapito dallo Spirito Giovanni sente una voce potente come una tromba, e fra sette candelabri d’oro gli appare un essere di luce, un “figlio d’uomo”. Figlio dell’uomo è nel Nuovo Testamento un’espressione usata per indicare il Messia, il Cristo. Lui cade ai suoi piedi mentre lo ascolta: “Non temere! Io sono (cioè il nome stesso di Dio YHWH) il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo… e ho le chiavi della morte e degli inferi.”.  Si tratta di una visione che è per il servizio dei fratelli: “Scrivi le cose che hai visto”, cioè incoraggiali e sappi che passato, presente e futuro mi appartengono. Percepiamo qui la promessa di Cristo: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà (Gv 11,25).

 

Nota: Gli esegeti concordano nel ritenere Giovanni l’autore dell’Apocalisse scritta sotto il regno dell’imperatore Domiziano (81-96) anche se quest’imperatore non ha organizzato una persecuzione sistematica dei cristiani. La comunità di Giovanni vive però in un clima di insicurezza: egli stesso è esiliato e, nel corso del libro, si fa menzione di martiri. I cristiani si confrontano con le esigenze del culto imperiale promosso da Domiziano, e sembra che alcuni governatori locali abbiano mostrato particolare zelo. Inoltre, i cristiani incontrano l’opposizione dei Giudei rimasti ostili al cristianesimo. Questo sembra emergere anche dalle lettere alle sette Chiese. Ci sono inoltre altri esempi di Apocalissi. Nell’Antico Testamento, il libro di Daniele contiene un messaggio apocalittico scritto intorno al 165 a.C. da Daniele per incoraggiare i suoi fratelli perseguitati dal re greco Antioco Epifane. Anche lui non attacca direttamente il problema, ma narra le gesta eroiche di alcuni ebrei fedeli durante la persecuzione di Nabucodonosor, quattro secoli prima (VI secolo a.C.). Solo in apparenza è una lezione di storia ma per chi sa leggere tra le righe il messaggio è chiaro. Ecco infine un esempio di Apocalisse nella storia recente: al tempo del dominio russo sulla Cecoslovacchia, una giovane attrice ceca compose e rappresentò più volte nel suo Paese un dramma su Giovanna d’Arco: evidentemente, la storia di Giovanna che caccia gli Inglesi dalla Francia nel XV secolo non era la prima preoccupazione dei Cechi; e se lo scenario fosse finito nelle mani del potere occupante, non avrebbe compromesso nessuno. Ma per chi sapeva leggere tra le righe, il messaggio era evidente: quello che ha saputo fare una giovane ragazza di diciannove anni, con l’aiuto di Dio, possiamo farlo anche noi.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (20,19-31)  

“Shalom, pace a voi!” Questa è la prima parola che pronuncia Gesù risorto. I discepoli ricordavano l’ultima sua frase sulla croce: “Tutto è compiuto”, che chiude il racconto della Passione nel quarto vangelo (Gv 19,30). L’evangelista in quel momento comprese che il progetto di Dio era del tutto compiuto e con questa evidenza ci narra ora questa prima apparizione. Gerusalemme, nel nome stesso Yerushalaïm, porta la parola ebraica shalom e proprio qui Gesù annuncia e dona, cioè rende efficace, la sua pace: Shalom! Li saluta così per ben due volte e, ormai riconosciuto con Dio, questa parola non è un augurio, ma dono già realizzato: dicendo pace la dona e la compie.  È sempre urgente credere che Cristo risorgendo ci ha portato la pace anche se le situazioni concrete mostrano un mondo segnato da odio, violenza e guerre. Questo perché la pace c’è già ma non arriva con un colpo di bacchetta magica: deve nascere anzitutto nel cuore dei credenti e poi diffondersi attraverso la gioia che ebbero i discepoli “al vedere il Signore”. Gesù risorto appare sempre “il primo giorno della settimana” tanto che per i cristiani, questo giorno è diventato il primo giorno dei tempi nuovi. La settimana di sette giorni ricordava ai Giudei i sette giorni della creazione, mentre la nuova settimana legata alla risurrezione di Cristo è l’inizio della nuova creazione. Per questo, quando l’evangelista parla del primo giorno della settimana non fornisce solo una precisione cronologica, ma invita a capire che la domenica, dal latino dies dominicus, è giorno consacrato a Dio, giorno della nuova creazione nel quale il progetto della salvezza è compiuto. Proprio nel primo giorno della settimana, come aveva annunciato il profeta Ezechiele: “Metterò in voi il mio stesso Spirito”, Gesù “soffiò” sui discepoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”. Giovanni riprende volutamente il termine che troviamo in Genesi ( 2,7): (Dio insufflò nelle narici dell’uomo  plasmato con polvere  “un alito di vita”(nėšāmāh legato a rûah; in greco pnoē) e divenne essere vivente) e inaugura la nuova creazione insufflando sugli apostoli il suo Spirito (pneûma hágion), “il primo dono fatto ai credenti”, come ricorda la quarta preghiera eucaristica. Nella Bibbia lo Spirito è sempre dato per una missione e anche Gesù manda i discepoli ad annunciare al mondo l’unica indispensabile verità: Dio è Misericordia. Missione urgente perché l’uomo muore se non conosce la verità, come dice Gesù: “chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34) perché non conosce l’amore di Dio. Non c’è altra missione che riconciliare gli uomini con Dio: tutto il resto deriva da questo. “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati”, potremmo tradurlo così: annunciate che i peccati sono perdonati e siate ambasciatori della riconciliazione universale. La missione che il Padre vi affida è urgente e indispensabile e se non andate, la novità della riconciliazione non sarà annunciata. In questo contesto la frase: “a coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati”, potrebbe comprendersi in questo senso: se voi non portate i vostri fratelli a conoscere l’amore di Dio (se non perdonerete) loro vivranno fuori del suo amore (non saranno perdonati).   Quanta fiducia e quale responsabilità! Il progetto di Dio sarà definitivamente compiuto solo quando noi, a nostra volta, avremo compiuto la nostra missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Il primo peccato, che è alla radice di tutti gli altri, è non credere all’amore di Dio: perciò, vi mando, muovetevi senza indugio per annunciare a tutti  l’amore di Dio’.

Nota “Quel giorno, il primo giorno della settimana”: nella lettura ebraica del racconto della Creazione, questo primo giorno era chiamato «Giorno UNO» nel senso di «primo giorno» ma anche «giorno unico», perché in un certo senso racchiudeva tutti gli altri, come la prima spiga del raccolto annuncia tutta la mietitura… E il popolo ebraico attende ancora il Giorno Nuovo che sarà il giorno di Dio, quando rinnoverà la prima Creazione.

 

Oggi, Domenica della Divina Misericordia, vi propongo una preghiera che prendo dal libro del Santuario Santissima Trinità Misericordia di Maccio (Como). La Santissima Trinità è Misericordia infinita

“Santissima Trinità, Misericordia infinita, Misericordia, Luce imperscrutabile del Padre che crea; Misericordia, Volto e Parola del Figlio che si dona; Misericordia, Fuoco penetrante nello Spirito che dà vita; Santissima Trinità, Misericordia che salva nel dono unico del Trino suo essere, io confido e spero in te! Tu, che ti sei donata a noi, fa’ che noi ci doniamo tutti a te! Rendici testimoni del tuo Amore in Cristo nostro Redentore, fratello e nostro Re! Santissima Trinità, io confido in te!”

+Giovanni D’Ercole

Divino nell’Umano: gesti forti, dignitosi e fraterni, non di repertorio

(Mt 13,54-58)

 

Il Divino nell’Umano si rende Presente nelle relazioni intense, accoglienti, che aprono a recuperi inspiegabili; quindi trapela nei gesti forti, dignitosi e fraterni - non di repertorio.

 

Nel passo di Vangelo di oggi c’è una differenza rilevante con la traduzione CEI (‘74) precedente (vv.54.58).

Il Signore ci aiuta a crescere con veri «prodigi», non con “miracoli”[eventi puntuali] bensì operando nell’intimo, modificando il cuore rattrappito e migliorandoci col suo Amore.

Il «profetico» non ha a che fare col clamoroso che s’impone.

Solo così non ci si stancherà del buono che non è brillante; né si disprezzerà l’esistenza della gente normale, perché senza prestigio e titoli.

Le opere potenti di Gesù si dispiegano nel tempo - educando, non impressionando e assoggettando.

I suoi ‘segni’, quei recuperi inspiegabili che compie, sono calibro e frutto d’un Incontro-per-Via che cresce.

Opera d’Arte (assai meglio di scorciatoie accidentali) è che il profittatore diventi giusto, il dubbioso più sicuro, l’infelice riprenda a sperare.

Ci vuole tempo, anche se lo stupore può essere immediato.

Il Mistero della potenza del nuovo Dio annunciato da Cristo si cela in ‘Qualcuno dentro qualcosa’.

È la trama ove si annidano i Segni d’una Realtà grande, cui malgrado le difficoltà abbiamo accesso e siamo partecipi.

 

Tale anche il vero artigianato di Giuseppe. La Persona e la Famiglia di Gesù narrano di un Padre il quale non teme che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto col mondo.

Il Mistero sovreminente è già nell’uomo comune.

Quindi il conflitto non è coi forestieri, bensì con i soliti ostinati “vicini” colmi di pregiudizio - abitudinari e assuefatti, i quali già sanno come va a finire... Ma non inaugurano nulla.

Invece il Figlio non è più un bambinone del posto: un programma quieto del «villaggio», il prodotto d’idee arcaiche normali o di propositi già trasmessi, che nessun Incontro potrà destare e smuovere.

In patria il Maestro non sbalordisce come altrove: incontra una diffidenza che logora di giorni tutti contati quella sporgenza del credere che colmerebbe le indigenze.

Anche Giuseppe fabbricante comprende ciò che taglia il Sogno impossibile della Novità, nella Fede: il nostro vanto non è da condizione sociale, né da genere stabilito.

Essa coglie un suo peso specifico non nei balocchi del folklore, bensì appunto nel rigenerare - per l’incessante riattivarsi dell’interesse intrinseco.

In tal guisa, la Fede non è retorica. Con Gesù e Maria a fianco Giuseppe intuisce che lo stato di dubbio è più fecondo delle convinzioni.

 

Come si diventa dunque, un non-popolo?

Le sicurezze non lasciano respiro all’inventiva del fare inusuale, né al sentimento o alla crescita della Vita forte, non sfigurata dal repertorio di compimenti attesi.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come la tua esistenza ordinaria riscatta le vicende della gente malferma?

Come vivi il di più della Fede sulle abitudini e luoghi comuni?

 

 

[s. Giuseppe Lavoratore, 1 maggio]

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo ascoltato insieme una pagina famosa e bella del Libro dell'Esodo, quella in cui l'autore sacro narra la consegna a Israele del Decalogo da parte di Dio. Un particolare colpisce subito: l'enunciazione dei dieci comandamenti è introdotta da un significativo riferimento alla liberazione del popolo di Israele. Dice il testo: "Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù" (Es 20, 2). Il Decalogo dunque vuole essere una conferma della libertà conquistata. In effetti i comandamenti, a guardarli in profondità, sono il mezzo che il Signore ci dona per difendere la nostra libertà sia dai condizionamenti interni delle passioni che dai soprusi esterni dei malintenzionati. I "no" dei comandamenti sono altrettanti "sì" alla crescita di un'autentica libertà. C'è una seconda dimensione del Decalogo che pure va sottolineata: mediante la Legge data per mano di Mosè, il Signore rivela di voler stringere con Israele un patto di alleanza. La Legge, dunque, più che un'imposizione è un dono. Più che comandare ciò che l'uomo deve fare, essa vuol rendere manifesta a tutti la scelta di Dio: Egli sta dalla parte del popolo eletto; lo ha liberato dalla schiavitù e lo circonda con la sua bontà misericordiosa. Il Decalogo è testimonianza di un amore di predilezione.

Un secondo messaggio ci offre la Liturgia di oggi: la Legge mosaica ha trovato pieno compimento in Gesù, che ha rivelato la saggezza e l'amore di Dio mediante il mistero della Croce, "scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani - come ci ha detto san Paolo nella seconda lettura -, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci ... potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Cor 1, 23-24). Proprio a questo mistero fa riferimento la pagina evangelica poc'anzi proclamata: Gesù scaccia dal tempio i venditori e i cambiavalute. L'evangelista fornisce la chiave di lettura di questo significativo episodio attraverso il versetto di un Salmo: "Lo zelo per la tua casa mi divora" (cfr Sal 69, 10). È Gesù ad essere "divorato" da questo "zelo" per la "casa di Dio", usata per scopi diversi da quelli ai quali sarebbe destinata. Davanti alla richiesta dei responsabili religiosi, che pretendono un segno della sua autorità, tra lo stupore dei presenti Egli afferma: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv 2, 19). Parola misteriosa, incomprensibile in quel momento, ma che Giovanni riformula per i suoi lettori cristiani, osservando: "Egli parlava del tempio del suo Corpo" (Gv 2, 21). Quel "tempio" i suoi avversari l'avrebbero distrutto, ma Lui dopo tre giorni l'avrebbe ricostruito mediante la risurrezione. La dolorosa e "scandalosa" morte di Cristo sarebbe stata coronata dal trionfo della sua gloriosa risurrezione. Mentre in questo tempo quaresimale ci prepariamo a rivivere nel triduo pasquale questo evento centrale della nostra salvezza, noi già guardiamo al Crocifisso intravedendo in Lui il fulgore del Risorto.

Cari fratelli e sorelle, l'odierna Celebrazione Eucaristica, che unisce alla meditazione dei testi liturgici della terza domenica di Quaresima il ricordo di san Giuseppe, ci offre l'opportunità di considerare, alla luce del mistero pasquale, un altro aspetto importante dell'esistenza umana. Mi riferisco alla realtà del lavoro, posta oggi al centro di cambiamenti rapidi e complessi. La Bibbia in più pagine mostra come il lavoro appartenga alla condizione originaria dell'uomo. Quando il Creatore plasmò l'uomo a sua immagine e somiglianza, lo invitò a lavorare la terra (cfr Gn 2, 5-6). Fu a causa del peccato dei progenitori che il lavoro diventò fatica e pena (cfr Gn 3, 6-8), ma nel progetto divino esso mantiene inalterato il suo valore. Lo stesso Figlio di Dio, facendosi in tutto simile a noi, si dedicò per molti anni ad attività manuali, tanto da essere conosciuto come il "figlio del carpentiere" (cfr Mt 13, 55). La Chiesa ha sempre mostrato, specialmente nell'ultimo secolo, attenzione e sollecitudine per questo ambito della società, come testimoniano i numerosi interventi sociali del Magistero e l'azione di molteplici associazioni di ispirazione cristiana, alcune delle quali sono oggi qui convenute a rappresentare l'intero mondo dei lavoratori. Sono lieto di accogliervi, cari amici, e rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Un pensiero particolare va a Mons. Arrigo Miglio, Vescovo di Ivrea e Presidente della Commissione Episcopale Italiana per i Problemi Sociali e il Lavoro, la Giustizia e la Pace, che si è fatto interprete dei comuni sentimenti e mi ha rivolto cortesi espressioni augurali per la mia festa onomastica. Gliene sono vivamente grato.

Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell'uomo e per lo sviluppo della società, e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell'umana dignità e al servizio del bene comune. Al tempo stesso, è indispensabile che l'uomo non si lasci asservire dal lavoro, che non lo idolatri, pretendendo di trovare in esso il senso ultimo e definitivo della vita. Al riguardo, giunge opportuno l'invito contenuto nella prima lettura: "Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio" (Es 20, 8-9). Il sabato è giorno santificato, cioè consacrato a Dio, in cui l'uomo comprende meglio il senso della sua esistenza ed anche dell'attività lavorativa. Si può, pertanto, affermare che l'insegnamento biblico sul lavoro trova il suo coronamento nel comandamento del riposo. Opportunamente nota al riguardo il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: "All'uomo, legato alla necessità del lavoro, il riposo apre la prospettiva di una libertà più piena, quella del sabato eterno (cfr Eb 4, 9-10). Il riposo consente agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi essi stessi come opera Sua (cfr Ef 2, 10), di rendere grazie della propria vita e della propria sussistenza a lui, che ne è l'autore" (n. 258).

L'attività lavorativa deve servire al vero bene dell'umanità, permettendo "all'uomo come singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione" (Gaudium et spes, 35). Perché ciò avvenga non basta la pur necessaria qualificazione tecnica e professionale; non è sufficiente nemmeno la creazione di un ordine sociale giusto e attento al bene di tutti. Occorre vivere una spiritualità che aiuti i credenti a santificarsi attraverso il proprio lavoro, imitando san Giuseppe, che ogni giorno ha dovuto provvedere alle necessità della Santa Famiglia con le sue mani e che per questo la Chiesa addita quale patrono dei lavoratori. La sua testimonianza mostra che l'uomo è soggetto e protagonista del lavoro. Vorrei affidare a lui i giovani che a fatica riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro, i disoccupati e coloro che soffrono i disagi dovuti alla diffusa crisi occupazionale. Insieme con Maria, sua Sposa, vegli san Giuseppe su tutti i lavoratori ed ottenga per le famiglie e l'intera umanità serenità e pace. Guardando a questo grande Santo apprendano i cristiani a testimoniare in ogni ambito lavorativo l'amore di Cristo, sorgente di solidarietà vera e di stabile pace. Amen!

[Papa Benedetto, omelia per i lavoratori, 19 marzo 2006]

Carissimi fedeli!

1. Oggi, primo maggio, l’argomento del nostro incontro non può che essere la festa del lavoro. Desidero oggi onorare tutti i lavoratori.

Dal secolo scorso questa giornata del primo maggio ha sempre avuto un profondo significato di unità e di comunione tra tutti i lavoratori, per sottolineare il loro ruolo nella struttura della società e per difendere i loro diritti. Nel 1955, Pio XII, di venerata memoria, volle dare al primo maggio anche un’impronta religiosa, dedicandolo a san Giuseppe lavoratore, e da allora la festa civile del lavoro è diventata anche una festa cristiana.

Sono molto lieto di poter esprimere con voi oggi i sentimenti della più viva e cordiale partecipazione a questa festa, ricordando l’affetto che la Chiesa ha sempre avuto per i lavoratori e la sollecitudine con cui ha cercato e cerca di promuovere i loro diritti. È noto come specialmente dall’inizio dell’era industriale, la Chiesa, seguendo lo svolgersi della situazione e lo svilupparsi delle nuove scoperte e delle nuove esigenze, ha presentato un “corpus” di insegnamenti in campo sociale, che certamente hanno avuto e hanno tuttora il loro influsso illuminante, a cominciare dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (1891).

Chi onestamente cerca di conoscere e di seguire l’insegnamento della Chiesa, vede come in realtà essa abbia sempre amato i lavoratori, e abbia indicato e sostenuto la dignità della persona umana come fondamento e ideale di ogni soluzione dei problemi riguardanti il lavoro, la sua retribuzione, la sua protezione, il suo perfezionamento e la sua umanizzazione. Attraverso i vari documenti del magistero della Chiesa emergono gli aspetti fondamentali del lavoro, inteso come mezzo per guadagnarsi da vivere, come dominio sulla natura con le attività scientifiche e tecniche, come espressione creativa dell’uomo, come servizio per il bene comune e come impegno per la costruzione del futuro della storia.

Come ho detto nell’enciclica Laborem Exercens (Ioannis Pauli PP. II, Laborem Exercens, n. 9), “il lavoro è un bene dell’uomo, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, diventa più uomo”.

La festa del primo maggio è molto opportuna per ribadire il valore del lavoro e della “civiltà” fondata sul lavoro, contro le ideologie che sostengono invece la “civiltà del piacere” o dell’indifferenza e della fuga. Ogni lavoro è degno di stima, anche il lavoro manuale, anche il lavoro ignoto e nascosto, umile e faticoso, perché ogni lavoro, se interpretato nel modo esatto, è un atto di alleanza con Dio per il perfezionamento del mondo; è un impegno di liberazione dalla schiavitù delle forze della natura; è un gesto di comunione e di fraternità con gli uomini; è una forma di elevazione, in cui si applicano le capacità intellettive e volitive. Gesù stesso, il Verbo divino incarnatosi per la nostra salvezza, volle prima di tutto e per tanti anni essere un umile e solerte lavoratore!

2. Nonostante la verità fondamentale del valore perenne del lavoro, sappiamo che molte sono le problematiche nella società di oggi. Già l’aveva notato il Concilio Vaticano II, quando così si esprimeva: “L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti, che progressivamente si estendono all’intero universo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, su di lui si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e di agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa (Gaudium et Spes, 4).

Il problema primo e più grave è certamente quello della disoccupazione, causato da tanti fattori, come l’introduzione su vasta scala dell’informatica, che per mezzo dei robot e dei computer elimina molta manodopera; la saturazione di alcuni prodotti; l’inflazione che arresta il consumo e quindi la produzione; la necessità della riconversione di macchine e di tecniche; la competizione.

Un altro problema è il pericolo che l’uomo diventi schiavo delle macchine da lui stesso inventate e costruite. È necessario infatti dominare e guidare la tecnologia, altrimenti essa si mette contro l’uomo.

Infine possiamo citare anche la grave questione dell’alienazione professionale, per cui si perde il significato autentico del lavoro, lo si intende solo come merce, in una fredda logica di guadagno per poter acquistare benessere, consumare e così ancora produrre, cedendo alla tentazione della disaffezione, dell’assenteismo, dell’egoismo individualista, dell’avvilimento, della frustrazione e facendo prevalere le caratteristiche del cosiddetto “uomo ad una dimensione”, vittima della tecnica, della pubblicità e della produzione.

Sono problemi assai complessi sui quali manca il tempo per soffermarsi. Ma oggi, primo maggio, vogliamo accennare alla necessità della “solidarietà” umana e cristiana, a livello nazionale e universale, per risolvere tali difficoltà in modo esauriente e convincente. Paolo VI diceva nella Populorum Progressio (Pauli VI, Populorum Progressio, n. 17): “Ogni uomo è membro della società: appartiene all’umanità tutta intera. Non soltanto questo o quell’uomo, ma tutti gli uomini sono chiamati a tale sviluppo plenario... La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere”. Parlando a Ginevra alla Conferenza internazionale del lavoro, io stesso dissi che “la soluzione positiva del problema dell’impiego presuppone una grande solidarietà nell’insieme della popolazione e nell’insieme dei popoli: che ciascuno sia disposto ad accettare i sacrifici necessari, che ciascuno collabori all’attuazione dei programmi e degli accordi miranti a fare della politica economica e sociale un’espressione tangibile della solidarietà” (Ioannis Pauli PP. II, Allocutio ad eos qui LXVIII conventui Conferentiae ab omnibus de humano labore interfuere habita, 10, die 15 iunii 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 2261).

3. Oggi, festa del lavoro,
memoria liturgica di san Giuseppe lavoratore,
invoco di cuore la sua celeste protezione
su quanti lavorando
trascorrono la loro vita
e su quanti purtroppo
si trovano senza lavoro,
ed esorto tutti
a pregare ogni giorno
il padre putativo di Gesù,
umile e semplice lavoratore,
affinché sul suo esempio e con il suo aiuto
ogni cristiano
porti nella vita
il suo contributo di diligente impegno
e di gioiosa comunione.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 1 maggio 1984]

Oggi, primo maggio, celebriamo san Giuseppe lavoratore e iniziamo il mese tradizionalmente dedicato alla Madonna. In questo nostro incontro, vorrei soffermarmi allora su queste due figure così importanti nella vita di Gesù, della Chiesa e nella nostra vita, con due brevi pensieri: il primo sul lavoro, il secondo sulla contemplazione di Gesù.

1. Nel Vangelo di san Matteo, in uno dei momenti in cui Gesù ritorna al suo paese, a Nazaret, e parla nella sinagoga, viene sottolineato lo stupore dei suoi paesani per la sua sapienza, e la domanda che si pongono: «Non è costui il figlio del falegname?» (13,55). Gesù entra nella nostra storia, viene in mezzo a noi, nascendo da Maria per opera di Dio, ma con la presenza di san Giuseppe, il padre legale che lo custodisce e gli insegna anche il suo lavoro. Gesù nasce e vive in una famiglia, nella santa Famiglia, imparando da san Giuseppe il mestiere del falegname, nella bottega di Nazaret, condividendo con lui l’impegno, la fatica, la soddisfazione e anche le difficoltà di ogni giorno.

Questo ci richiama alla dignità e all’importanza del lavoro. Il libro della Genesi narra che Dio creò l’uomo e la donna affidando loro il compito di riempire la terra e soggiogarla, che non significa sfruttarla, ma coltivarla e custodirla, averne cura con la propria opera (cfr Gen 1,28; 2,15). Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione. E qui penso alle difficoltà che, in vari Paesi, incontra oggi il mondo del lavoro e dell’impresa; penso a quanti, e non solo giovani, sono disoccupati, molte volte a causa di una concezione economicista della società, che cerca il profitto egoista, al di fuori dei parametri della giustizia sociale.

Desidero rivolgere a tutti l’invito alla solidarietà, e ai Responsabili della cosa pubblica l’incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione; questo significa preoccuparsi per la dignità della persona; ma soprattutto vorrei dire di non perdere la speranza; anche san Giuseppe ha avuto momenti difficili, ma non ha mai perso la fiducia e ha saputo superarli, nella certezza che Dio non ci abbandona. E poi vorrei rivolgermi in particolare a voi ragazzi e ragazze a voi giovani: impegnatevi nel vostro dovere quotidiano, nello studio, nel lavoro, nei rapporti di amicizia, nell’aiuto verso gli altri; il vostro avvenire dipende anche da come sapete vivere questi preziosi anni della vita. Non abbiate paura dell’impegno, del sacrificio e non guardate con paura al futuro; mantenete viva la speranza: c’è sempre una luce all’orizzonte.

Aggiungo una parola su un’altra particolare situazione di lavoro che mi preoccupa: mi riferisco a quello che potremmo definire come il “lavoro schiavo”, il lavoro che schiavizza. Quante persone, in tutto il mondo, sono vittime di questo tipo di schiavitù, in cui è la persona che serve il lavoro, mentre deve essere il lavoro ad offrire un servizio alle persone perché abbiano dignità. Chiedo ai fratelli e sorelle nella fede e a tutti gli uomini e donne di buona volontà una decisa scelta contro la tratta delle persone, all’interno della quale figura il “lavoro schiavo”.

2. Accenno al secondo pensiero: nel silenzio dell’agire quotidiano, san Giuseppe, insieme a Maria, hanno un solo centro comune di attenzione: Gesù. Essi accompagnano e custodiscono, con impegno e tenerezza, la crescita del Figlio di Dio fatto uomo per noi, riflettendo su tutto ciò che accadeva. Nei Vangeli, san Luca sottolinea due volte l’atteggiamento di Maria, che è anche quello di san Giuseppe: «Custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (2,19.51). Per ascoltare il Signore, bisogna imparare a contemplarlo, a percepire la sua presenza costante nella nostra vita; bisogna fermarsi a dialogare con Lui, dargli spazio con la preghiera. Ognuno di noi, anche voi ragazzi, ragazze e giovani, così numerosi questa mattina, dovrebbe chiedersi: quale spazio do al Signore? Mi fermo a dialogare con Lui? Fin da quando eravamo piccoli, i nostri genitori ci hanno abituati ad iniziare e a terminare la giornata con una preghiera, per educarci a sentire che l’amicizia e l’amore di Dio ci accompagnano. Ricordiamoci di più del Signore nelle nostre giornate!

E in questo mese di maggio, vorrei richiamare all’importanza e alla bellezza della preghiera del santo Rosario. Recitando l'Ave Maria, noi siamo condotti a contemplare i misteri di Gesù, a riflettere cioè sui momenti centrali della sua vita, perché, come per Maria e per san Giuseppe, Egli sia il centro dei nostri pensieri, delle nostre attenzioni e delle nostre azioni. Sarebbe bello se, soprattutto in questo mese di maggio, si recitasse assieme in famiglia, con gli amici, in Parrocchia, il santo Rosario o qualche preghiera a Gesù e alla Vergine Maria! La preghiera fatta assieme è un momento prezioso per rendere ancora più salda la vita familiare, l’amicizia! Impariamo a pregare di più in famiglia e come famiglia!

Cari fratelli e sorelle, chiediamo a san Giuseppe e alla Vergine Maria che ci insegnino ad essere fedeli ai nostri impegni quotidiani, a vivere la nostra fede nelle azioni di ogni giorno e a dare più spazio al Signore nella nostra vita, a fermarci per contemplare il suo volto. Grazie.

[Papa Francesco, Udienza Generale 1 maggio 2013]

Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua

GIOVEDÌ SANTO [17 aprile 2025]

 

Carissimi Invio un testo per meditare il mistero del Giovedì sacerdotale, uno per contemplare il dono della Croce mistero di passione e di gloria per il Venerdì santo, e una nota che può interessare sulla Veglia pasquale di cui sarebbe importante recuperare il senso e valore teologico e pastorale.

Piuttosto che fornire come di consueto un commento per ogni lettura biblica, preferisco proporre una meditazione su Gesù che lava i piedi ai discepoli perché è un gesto che ci introduce nel cuore del mistero del Giovedì Santo. 

 

1. Eucaristia dono e servizio di amore

Punto di partenza è questo testo di sant’Agostino: “Surge et ambula: homo Christus tua vita est, Deus Christus patria tua est. Alzati e cammina: l’uomo Cristo è la tua vita, Cristo Dio è la tua patria (sant. Agostino, Discorso 375c)

Il quarto vangelo non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, ma approfondisce la testimonianza dei sinottici precisando che cosa Cristo voleva donarci nel mistero-sacramento eucaristico. Al posto delle parole dell’istituzione l’evangelista pone il racconto della lavanda dei piedi per indicare il senso e lo scopo del mistero eucaristico che è vivere nell’amore reciproco sull’esempio di Gesù. La lavanda dei piedi non sostituisce quindi il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia fatta da Matteo, Marco e Luca, ma intende presentarla come dono e servizio d’amore. Benedetto XVI invita a non fermarsi sulle differenze dei vangeli quando narrano l’ultima Cena: “per Giovanni, è Cena d’addio mentre per i sinottici è Cena Pasquale”. Scrive infatti che una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma Gesù ha rivelato in questo contesto la novità della sua Pasqua. Anche se il convito con gli apostoli non è stato una Cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la stretta connessione con la morte e la risurrezione di Cristo. Era la Pasqua di Gesù nella quale ha donato sé stesso e così ha veramente celebrato con loro la Pasqua. In questo modo non è stato negato l’antico, ma l’ha condotto al suo pieno compimento (cf. Gesù di Nazaret, II, p. 130). L’essenziale è fare costante memoria che quella sera Gesù celebrò la sua, la vera Pasqua. Ci aiuta a meglio focalizzare questa verità la liturgia con la sequenza “Lauda Sion” composta da san Tommaso d’Aquino in occasione della festa del Corpus Domini nel 1264: “Novae cenae novus rex, novae paschae novus lex, vetus transit observantia. La prima santa Cena è il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge e l’antico è giunto al termine”. Prosegue poi la sequenza: “Quod in cena Christus gessit - faciendum hoc espressit - in sui memoriam. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena - noi lo rinnoviamo”.

 

2. La forza dirompente della nuova Pasqua

La lavanda dei piedi ci aiuta proprio a comprendere la forza dirompente della “nuova Pasqua”. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).  Terminata la vita pubblica, Gesù lascia ai suoi avversari la “Pasqua dei giudei” e si prepara a celebrare la “sua” Pasqua con pochi prescelti e fra gli apostoli c’è il traditore. Che momento di grande sofferenza! Eppure Giovanni presenta quest’ora colma di dolore e tragicità come il momento atteso da Cristo, come “l’ora della gloria”. Scrive ancora Benedetto XVI che ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metàbasis) ed amore (agàpe). Due parole che si interpretano e spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Il passaggio è una trasformazione perché Cristo reca con sé la sua carne, il suo essere uomo. Donando sé stesso sulla croce la trasforma, trasforma l’uccisione in dono d’amore sino al colmo, fino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla croce: tutto è stato portato a termine, “è compiuto” (Gv 19, 30). Mediante il suo amore la croce, strumento di morte, diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione siamo tutti coinvolti e anche la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione.

Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto (cf Gv 13, 2-5). Con piena consapevolezza il Signore si accinge a compiere il grande e umile gesto della lavanda dei piedi. Sull’ultima Cena Giovanni non fornisce molti particolari, annota soltanto mentre cenavano, che è anche traducibile con “quando la cena era pronta”, oppure: “terminata la cena”. L’evangelista non è molto interessato ai dettagli di quel pasto e preferisce sorprenderci con la scelta inaspettata di Gesù. L’interruzione della cena per lavare i piedi è un fatto che disturba e stimola a riflettere per cercare le ragioni di tale scelta. 

 

2. Otto verbi per capire questo rito inusuale e imprevisto

La nostra attenzione è provocata a capire quel suo gesto meditando anche sulla sua minuziosa descrizione compiuta con ben otto verbi: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino, cominciò a lavare i piedi, li asciugò, riprese le vesti” dopo di che si siede di nuovo pronto a spiegarne il significato. San Giovanni accumula i verbi senza ripetersi perché il gesto di Gesù rimanga impresso nella mente del lettore dato che intende mostrare che il vero amore si traduce sempre in azioni concrete di gratuito servizio. Ecco allora Gesù che si spoglia e si cinge di un grembiule ricordandoci ciò che leggiamo in san Luca: “Ecco io sto in mezzo voi come uno che serve” (22,27). Il deporre le vesti esprime simbolicamente anche l’imminente dono della vita. Facendo questo vuole coinvolgere, partendo da Pietro, tutti i discepoli e anche ciascun credente: quindi anche noi.

A una prima valutazione questo rito inusuale e imprevisto appare come un invito a lasciarci purificare sempre e di nuovo dall’acqua fresca e salutare della sua parola e del suo amore. Si tratta di un “segno” autorevole perché il gesto e le parole sono sostanziate dal dono di sé stesso fin oltre la morte. Poche ore dopo infatti mentre ormai esanime giace in croce, il colpo di lancia di un soldato farà uscire dal suo costato sangue insieme ad acqua (cf Gv19,34) mostrando il suo corpo trafitto quale dono totale oltre la morte. Le parole di Cristo sono molto più di una semplice comunicazione; sono piuttosto carne e sangue per la vita del mondo poiché Gesù stesso è il Verbo fatto carne (Gv1,14) e la sua parola è vita che si dona, presenza reale, pane che fa vivere. In ogni sacramento celebrato in fedeltà alla sua parola, Cristo s’inginocchia e purifica la nostra vita.

 

3. L’opera di Dio a favore dell’uomo parte dal basso

Nel lavare i piedi Gesù presenta il servizio vicendevole, ispirato dall’amore, come il tramite indispensabile per mantener viva la sua presenza nella nuova Comunità nella quale i discepoli avranno il compito di creare condizioni di libertà e di uguaglianza, ponendosi ognuno a servizio dell’altro. L’opera di Dio a favore dell’uomo non viene dall’alto come un’elemosina, ma parte dal basso per innalzare l’uomo al livello divino. Così fa Gesù, Il leader indiscusso, che abbandona il suo ruolo per mettersi al disotto dei suoi discepoli: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Svuotò sé stesso (ekenosen): Cristo si è spogliato volontariamente della sua gloria divina per farsi servo, per entrare nella condizione umana con umiltà, debolezza e vulnerabilità, “obbediente fino alla morte”. 

Non facciamo fatica a capire Pietro che è disorientato, incapace di accettare quanto il Signore sta compiendo, anzi lo rifiuta del tutto. “Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!” (Gv 13,6-9). Pietro esprime perfettamente l’atteggiamento degli Undici che, dopo essere stati con lui per anni, pensano di conoscere tutto di Gesù. Pietro però, probabilmente interpretando il pensiero degli altri, non sa ancora dove il Maestro vuole arrivare amando “sino alla fine” e per questo Gesù gli ribadisce l’importanza del gesto perché tutti comprendano: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Nella sua azione educativa il divino Maestro prima insegna con i fatti, poi spiega a parole. Anzi, in verità, non spiega o spiega molto poco procedendo per affermazioni; non condanna, ma fa capire quanto è perdente chi pensa ed agisce come Pietro che non vuole lasciarsi lavare i piedi e quindi non avrà parte con lui.  Che dramma essere separati da Colui che ti ama “fino alla fine”!

Gesù però è paziente nell’attesa, sa che può essere lungo il tempo necessario per comprendere e mettere in pratica il suo vangelo. Osservando come educa Pietro possiamo imparare ad agire come lui desidera, restando alla sua scuola da discepoli umili e fedeli.

 

4. L’esempio di Cristo fonda e accompagna la nostra azione educativa

La lavanda dei piedi è per noi il modello da ben intteriorizzre e mettere in pratica. Questo perché siamo in presenza di un sacramentum che è al tempo stesso exemplum. Sacramentum cioè mistero di Cristo e forza che ci trasforma in una nuova forma di essere, rinvigorendoci con energia di vita nuova. Exemplum perché Cristo resta colui che si dona e sempre continuamente ci precede. La radice dell’etica cristiana non sta anzitutto nella nostra capacità morale, ma nel dono di Dio a noi. Sta nel dono gratuito di Dio la ragione per la quale l’atto centrale del nostro essere cristiani è l’Eucaristia: cioè gratitudine infinita per la vita nuova che la Santissima Trinità ci comunica con la  morte e risurrezione di Cristo. Ne consegue che il Mandatum Novum consiste nell’amare insieme a colui che ci ha amati per primo e mai prescindendo da questa verità. Come per Pietro, anche a ognuno di noi tocca imparare che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra immagine di grandezza e che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale spoliazione del proprio io. E questo va sempre di nuovo ribadito perché siamo costantemente tentati di cercare il Dio del potere e del successo, o addirittura dei compromessi, e non quello della Passione. E’ sempre faticoso e difficile, come osservava Benedetto XVI, rendersi conto che il Pastore viene come un Agnello immolato che si dona e, con questo stile, ci conduce al pascolo giusto.

Giovanni Papini, uno scrittore convertito del XX secolo, nella sua geniale e dallo stile vibrante e viscerale  “Vita di Cristo” mette in luce un collegamento tra la lavanda dei piedi e la missione degli apostoli. Egli scrive: «Gli Undici, al di là della sorda natura, avevano qualche diritto al beneficio della lavanda. Per settimane di mesi quei piedi avevano camminato le polverose, le fangose, le merdose strade della Giudea per seguire colui che dava la vita. E dopo la sua morte dovranno camminare, anni ed anni, su strade più lunghe, più malnote, in paesi de’ quali non sanno, oggi, neppure il nome. E la mota straniera lorderà, attraverso i calzari, i piedi di coloro che andranno, come pellegrini e forestieri a ripeter la chiamata del Crocifisso». Probabilmente Papini si collega ad Agostino che in modo più elegante e pacato, aveva presentato la lavanda dei piedi come un diritto e una necessità per tutti gli evangelizzatori. Per Agostino la lavanda, oltre ad essere un gesto esemplare per educare i discepoli, è anche un aiuto per gli apostoli nel loro compito di evangelizzatori. Scrive in proposito: «Quando noi, chiesa, annunciamo il vangelo, o Cristo, camminiamo sulla terra e ci sporchiamo i piedi per venire ad aprirti la porta [per farti entrare nel cuore delle persone che ci hai affidate]. Quando ti predichiamo, camminiamo con i piedi in terra per venire ad aprirti la porta. Lava i nostri piedi che...si sono sporcati camminando sulla terra per venire ad aprirti» (Omelia 57 su Gv).

 

5. Il Giovedì Santo occasione per purificare il servizio sacerdotale

In definitiva per noi sacerdoti il Giovedì Santo è occasione quanto mai propizia per domandare a Gesù di purificare il nostro servizio sacerdotale. Alla fine di faticose giornate di lavoro apostolico ci accorgiamo di esserci “sporcati i piedi” per aver dato troppa importanza a noi stessi così da rendere più difficile l’incontro di Cristo con le persone. Sentiamo risuonare in noi le sue parole: “Vi ho dato l’esempio perché come (kathòs) ho fatto io, facciate anche voi” (Gv13,13). Kathòs si può tradurre come, ma qui ha un significato speciale: indica un’azione che produce un effetto voluto ed è come se Gesù dicesse: facendo questo io rendo possibile anche a voi di agire come me nel servire i fratelli. Mentre i sinottici hanno trasmesso il suo comando “Fate questo in memoria di me”, riferendosi al gesto della “consacrazione” (Lc22,19; Mt26,26; Mc14,22), Giovanni ricorda che la nuova comunità dei suoi discepoli dovrà rendere presente il suo Signore anche nel servizio reciproco oltre che nel culto eucaristico: “Sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17). Nel quarto vangelo troviamo scritte soltanto due beatitudini: questa è la prima rivolta direttamente agli apostoli presenti; l’altra sarà proclamata otto giorni dopo la risurrezione e riguarda specialmente i futuri discepoli: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 29). Entrambe sono necessarie soprattutto per noi, sacerdoti, scelti da lui per proseguirne la missione: saremo beati solo se uniremo la pratica della carità alla saldezza della fede. 

In sintesi, il gesto di Cristo della lavanda dei piedi mostra in maniera visibile che l'amore deve tradursi in accoglienza fraterna, ospitalità e perdono conservando sempre lo stile e lo spirito del servizio da lui affidato agli apostoli, un ministero d’amore umile, gratuito fondato sempre su di lui. In definitiva si tratta di una vocazione a “lavare i piedi” nel cuore del mondo. 

Origene, vissuto tra il 185 e il 253/254, Padre della Chiesa di lingua greca, maestro di teologia spirituale e allegorica scrive in una sua omelia: «Gesù, vieni, ho i piedi sporchi. Per me fatti servo, versa l'acqua nel bacile; vieni, lavami i piedi. Lo so, è temerario quel che ti dico, ma temo la minaccia delle tue parole: Se non ti laverò, non avrai parte con me. Lavami dunque i piedi, perché abbia parte con te» (Omelia 5 su Isaia). E sant’Ambrogio, vescovo di Milano (339-397) e uno dei più importanti Padri della Chiesa latina, teologo dal taglio pastorale e spirituale, c’insegna a pregare così: «O mio signore Gesù, lasciami lavare i tuoi sacri piedi; te li sei sporcati da quando cammini nella mia anima... Ma dove prenderò l'acqua della fonte per lavarti i piedi? In mancanza di essa mi restano gli occhi per piangere: bagnando i tuoi piedi con le mie lacrime, fa' che io stesso rimanga purificato» (La penitenza, II, cap. 7). Infine, Jacques Dupont, monaco certosino, priore della certosa di Serra san Bruno e procuratore generale dell’ordine certosino (1993-2014), morto il 13 gennaio 2019 osserva: «Solo chi accetta di farsi lavare i piedi può farlo ad un altro senza atteggiamento di superiorità».

 

 

VENERDÌ SANTO [18 Aprile 2025]

Per quest’oggi ecco una riflessione su “La croce, unica speranza del mondo” 

1. Cronaca di una morte violenta

Ogni Venerdì Santo la liturgia ripropone la proclamazione della Passione di Cristo secondo san Giovanni. A ben vedere è in ultima analisi la cronaca di una morte violenta ed episodi del genere, all’epoca come a oggi, fanno parte della cronaca quotidiana. Uccisioni di criminali, persone vittime di attentati, gente innocente colpita da disgrazie, incidenti d’auto o sul lavoro con perdite di vite umane, disastri creati da calamità naturali come il recente devastante sisma in Myanmar, uno dei più forti registrati nel paese in oltre un secolo, persone uccise a causa della loro fede. Sono tutte notizie che si susseguono rapidamente e durano poco nel panorama rapido quotidiano della pubblica opinione. Al contrario la crocifissione di Gesù di Nazaret, avvenuta oltre due millenni fa, continua ad essere un evento vivo come se avviene oggi e questo perché la sua morte ha cambiato per sempre il volto della morte; anzi ha dato un nuovo significato e senso alla morte. Vale la pena allora fermarsi a meditare su questa morte che ha vinto per sempre la morte.

 

2. Dal tempio distrutto sgorga sangue e acqua

Un giorno Gesù a Gerusalemme, rispondendo a chi chiedeva con quale autorità cacciasse i mercanti dal tempio, rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 19. 21), commenta l’evangelista Giovanni, ma i suoi interlocutori non capirono. Era in verità un segno anticipatore d’un altro evento che nel racconto della passione di Giovanni trova piena comprensione. A crocifissione compiuta, vedendo che era già morto, non spezzarono le gambe a Gesù come agli altri due crocifissi, ma “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco e subito uscì sangue e acqua” (Gv19, 32-34). Si coglie qui il riferimento alla profezia di Ezechiele che parlava del futuro tempio di Dio, dal fianco del quale sgorga un filo d’acqua che diventa un ruscello, quindi un fiume navigabile e intorno a cui fiorisce ogni forma di vita (cf. Ez 47, 1 ss.). Quel tempio “distrutto” da cui sgorgano acqua e sangue è il cuore di Cristo trafitto, sorgente di un “fiume di acqua viva” (Gv 7, 38). Il cuore di Cristo già morto è vivo perché ha vinto la morte; il Cristo risorto dalla morte è vivo e anche il suo cuore vive in una nuova dimensione non fisica ma mistica. Facile pure il rimando all'Agnello che vive in cielo “immolato, ma in piedi” di cui parla l’Apocalisse (5, 6). Cristo è l’Agnello di Dio che si è sacrificato, ma ora vive risorto e glorificato “in piedi come immolato”. Il suo cuore trafitto é vivente, anzi “eternamente trafitto, proprio perché eternamente vivente”. In ogni Venerdì Santo, a conclusione della celebrazione della Passione di Cristo, dopo il suo “consummatum est - è compiuto” Gesù chinato il capo consegna lo spirito (Gv19,30). L’espressione “Consummatum est” (dal greco Τετέλεσται, Tetélestai) è densa di significato: è il compimento totale della missione di Gesù che ha portato a termine l’opera affidatagli dal Padre, realizzando le Scritture e il piano della salvezza.

 

3. Cristo consegna lo spirito 

L’espressione latina “tradidit spiritum” (Gv19, 30) nella versione greca originale del Nuovo Testamento in greco koinè “παρέδωκεν τ πνεμα” (parédōken tò pneûma) significa “egli consegnò”, “egli affidò”. È il verbo παραδίδωμι, che implica un atto volontario di consegna, mentre τ πνεμα (tò pneûma) = “lo spirito” può significare sia il respiro vitale sia, in senso più profondo, lo Spirito Santo. Tutto ciò si compie perché Gesù offre la sua vita liberamente per la salvezza dell’intera umanità. Da qui ha origine la saldezza della speranza dei cristiani che non teme ostacolo e resiste a ogni contrasto da allora fino alla fine del mondo: nonostante l’ammassarsi nel cuore degli uomini e nelle strutture nel mondo una mole crescente del male che fa sembrare l’umanità abitata da un “cuore di tenebra”, il sacrifico di Cristo fa palpitare nell’universo un cuore vivo di luce: il suo Cuore. “Ora si compie il disegno del Padre –dice un’antifona della Liturgia delle ore -, fare di Cristo il cuore del mondo”: proprio da questa certezza prende vigore l’ottimismo di noi cristiani. Illuminati dalla parola di Dio scrutiamo la realtà con il metro della saggezza dello Spirito e, certi della vittoria di Cristo, possiamo proclamare con la beata Giuliana di Norwich: “Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene e tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene” (Giuliana di Norwich).

 

4. Stat crux dum volvitur orbis. “La Croce sta salda mentre il mondo gira”

I monaci certosini hanno adottato uno stemma che figura all’ingresso dei loro monasteri, come nei loro documenti ufficiali. In questo stemma è disegnato il globo terrestre, sormontato da una croce e contornato da questa frase: “Stat crux dum volvitur orbis”: resta immobile la croce tra gli sconvolgimenti del mondo. L’affermazione “Stat crux dum volvitur orbis” contiene una verità spirituale confortante: in mezzo al vortice del tempo, del caos, dell’instabilità del mondo, la Croce rimane l’unico punto fermo, l’asse attorno al quale ruota tutto. La Croce è veramente come l’albero maestro della nave nella tempesta del mondo e diversi autori cristiani hanno usato immagini navali proprio parlando della Croce: San Colombano (VI-VII sec.) scriveva: “Il mondo è come un mare in tempesta: se vuoi arrivare al porto, attacca il tuo sguardo al legno della Croce.” Origene (III sec.) commentando l’Arca di Noè, vede in essa un’immagine della salvezza e della Chiesa, e nel legno un riferimento alla Croce. Chi vi si aggrappa, non affonda nel diluvio del mondo. Sant’Ambrogio nella sua esegesi della vicenda di Noè e della traversata del Mar Rosso, parla della Croce come timone e vela della Chiesa: è la Croce che guida, orienta. In verità l’albero maestro, la struttura centrale che sostiene la vela di una nave, è figura perfetta della Croce perché tiene insieme la nave della vita: permette orientamento anche nella burrasca; essendo verticale, unisce terra e cielo e porta la vela dello Spirito, che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8). “Stat Crux, dum volvitur orbis” ci ricorda che la Croce non è un simbolo di sconfitta, ma di stabilità, direzione e speranza. Anche se tutto gira, anche se la vita è scossa dalle onde, la Croce è il centro fermo del mondo, l’asse del senso  di tutta la storia. Lo scrittore giapponese Shusaku Endõ, nel suo romanzo “Silenzio “(Chinmoku, 1966), ambientato nel contesto delle persecuzioni del XVI secolo, mostra la croce come paradosso vivente: strumento di morte, ma anche emblema di salvezza e di pace. La Croce di Cristo è il “No” definitivo e irreversibile di Dio alla violenza, all’ingiustizia, all’odio, alla menzogna, a tutto ciò che chiamiamo “il male”. Al tempo stesso è il “Si” totale e irreversibile all’amore, alla verità, al bene. “No” chiaro al peccato e “Si” al peccatore: questo è lo stile della vita e dell’azione di Gesù durante tutta la sua vita e che ora consacra definitivamente con la sua morte. Di tutto ciò è dimostrazione vivente il buon ladrone, a cui Gesù morente promette il paradiso. Bisogna aver sempre chiara questa distinzione: il peccatore è creatura di Dio e conserva la sua dignità, nonostante tutti i propri traviamenti, mentre il peccato è frutto delle passioni e istinti e della “invidia del demonio” (Sap 2, 24) e per questo incarnandosi, il Verbo ha assunto tutto dell’uomo, eccetto il peccato. Davanti al Cristo crocifisso tutti, ma veramente tutti anche i più disperati, possono recuperare la fiducia e nessuno dica come Caino: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono” (Gen 4, 13). La croce di Cristo non “sta” contro il mondo, ma per il mondo: dà senso e persino valore a ogni tipo di sofferenza umana. All’anziano Nicodemo Gesù confida che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 17) e la croce proclama in maniera viva la vittoria finale dell’Amore. Non vince chi è dominatore degli altri, ma chi trionfa su sé stesso, non chi ferisce e fa soffrire, ma chi soffre anche ingiustamente e perdona.

 

 5. La Croce speranza certa nell’era digitale e volatile

La Croce di Cristo resta segno di speranza certa “dum volvitur orbis”. Il mondo, fin dalla sua origine, è segnato da costanti e mutevoli sconvolgimenti. Dalla primitiva età della pietra siamo ora all’era del digitale e del numerico, dove i dati numerici sono diventati il cuore della comunicazione, della conoscenza, dell’economia e persino della cultura. Domina così la digitalizzazione massiva: ogni informazione (testi, immagini, suoni, azioni) è convertita in dati numerici (bit), l’automazione e algoritmi. Dalla finanza alla salute, tutto è gestito da sistemi numerici e intelligenze artificiali per cui il dato numerico è il nuovo “petrolio”, usato per profilare, prevedere, influenzare, molte anzi quasi tutte le attività: comunicazione, lavoro, relazioni. Ci si muove ovunque in ambienti digitali non fisici e l’interconnessione globale, grazie a reti digitali, crea un mondo istantaneamente connesso, ma purtroppo estremamente fragile. L’uomo rischia di essere ridotto a dato, a comportamento misurabile. La verità è ciò che può essere quantificato, calcolato e controllato. La libertà è sotto minaccia dalla sorveglianza algoritmica e l’idea di transizione non basta più a descrivere la realtà in atto. All’idea di mutazione oggi si associa quella di frantumazione in una società “liquida” cui si associa l’acronimo VUCA (volatilità, incertezza, complessità, ambiguità), dove non esistono punti fermi, valori indiscussi. Il risultato è che purtroppo non c’è nulla di stabile a cui aggrapparsi: si ci perde nel “nulla” che non è solo assenza, ma un vuoto esistenziale che spesso si riempie di ansia, disorientamento, oppure con un’attività frenetica che serve solo a mascherarlo. L’oceano digitale resta una realtà complessa, per alcuni versi affascinante ma pericolosa: offre possibilità e rischi imprevisti, per questo richiede attenzione, prudenza e responsabilità. Padre Cantalamessa, in una sua predicazione del Venerdì Santo in San Pietro, ha così descritto la nostra era: “ Tutto è fluttuante, anche la distinzione dei sessi. Si è realizzata la peggiore delle ipotesi che il filosofo aveva previsto come effetto della morte di Dio, quella che l’avvento del super-uomo avrebbe dovuto impedire, ma che non ha impedito: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125).  E aggiungeva l’ex predicatore della casa Pontificia: “È stato detto che “uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi”, ed è quello che in parte stiamo vedendo. Non è vero che “dove nasce Dio, muore l’uomo” (J.-P. Sartre); è vero il contrario: dove muore Dio, muore l’uomo. Salvador Dalì ha dipinto un crocifisso che sembra una profezia di questa situazione. Una croce immensa, cosmica, con sopra un Cristo, altrettanto monumentale, visto dall’alto, con il capo reclinato verso il basso. Sotto di lui, però, non c’è la terra ferma, ma l’acqua. Il Crocifisso non è sospeso tra cielo e terra, ma tra il cielo e l’elemento liquido del mondo. Questa immagine tragica contiene però anche una consolante certezza: c’è speranza anche per una società liquida come la nostra perché sopra di essa “sta la croce di Cristo”.

 

6. O crux, ave spes unica 

In ogni Venerdì Santo la Chiesa proclama la sua speranza, consapevolmente certa, con le parole del poeta Venanzio Fortunato: “O crux, ave spes unica”, Salve, o croce, unica speranza del mondo. Il Figlio di Dio che si è fatto uomo è morto ma non è più nella tomba: è risorto. Il giorno di Pentecoste Pietro proclama con forza alla folla: “Voi l’avete crocifisso ma Dio l’ha risuscitato!” (Atti 2, 23-24), Colui che “era morto, ora vive nei secoli” (Ap 1, 18). La croce non “sta” immobile in mezzo agli sconvolgimenti del mondo come ricordo di un evento passato o come un semplice simbolo, ma resta ben piantata nella storia come un evento di oggi, anzi di ogni istante perché Cristo vive con noi. Abbiamo tutti qualcosa di quel cuore di pietra di cui parla il profeta Ezechiele: “Strapperò da loro il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” (Ez 36, 26). Sì, è di pietra il cuore quando si chiude all’amore di Dio e diventa insensibile ai bisogni e alla sofferenza dei fratelli; quando si lascia sedurre dall’avidità di beni materiali ed è sordo al grido di chi non ha nemmeno un soldo per campare. Cuore di pietra è il mio quando mi lascio dominare dalle passioni e vivo di compromessi, falsità, violenza e impurità. S’indurisce il mio cuore, quando ripiegato su me stesso, m’impedisce di vivere per Cristo, che mi ha amato morendo per me. Il cuore mi fa tremare dinanzi alle tempeste improvvise che m’invadono e rischiano di precipitarmi nel buio della paura e dello scoraggiamento. In queste situazione può avvenire ciò che successe in contemporanea con la morte di Cristo: ”il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51s.). Anche in situazioni complesse come questa emerge un invito al coraggio della speranza. In una liturgia del Venerdì Santo, il papa san Leone Magno esortava così i fedeli: “Tremi la natura umana di fronte al supplizio del Redentore, si spezzino le rocce dei cuori infedeli e quelli che erano chiusi nei sepolcri della loro mortalità vengano fuori, sollevando la pietra che gravava su di loro” (Sermo 66, 3; PL 54, 366).  Il cuore di carne preannunciato dai profeti, è il Cuore di Cristo trafitto sulla croce, “il Sacro Cuore” che continua a vivere nel nostro cuore quando lo riceviamo nell’Eucarestia. Annota l’arcivescovo Fulton Sheen: “Per il paradosso più straordinario della storia del mondo, crocifiggendo Cristo hanno dimostrato che Lui aveva ragione e loro avevano torto, e sconfiggendolo hanno perso. Uccidendolo lo hanno trasformato: per la potenza di Dio hanno cambiato la mortalità in immortalità…Lo hanno umiliato sul Calvario, ed Egli è stato esaltato e si è innalzato sopra un sepolcro vuoto. Hanno seminato il Suo corpo nel disonore ed è risorto nella gloria; Lo hanno seminato nella debolezza ed è risorto nella potenza. Nel togliergli la vita, Gli hanno dato Nuova Vita…Rifate l’uomo e rifarete il mondo! (Fulton J. Sheen, da “Justice and Charity”)

 

 

VEGLIA PASQUALE [19 Aprile 2025]

Spero possa esservi utile questa breve ricerca sulla Veglia Pasquale che rischia di perdere il suo significato e diventare quasi come la messa anticipata alla sera del sabato. Ma così non deve essere almeno per la Veglia di Pasqua.  

 

La Veglia pasquale nella storia 

La Veglia pasquale ha una storia bimillenaria, pur con vicende alterne nei tre periodi della sua vita. Ecco un suo rapido excursus storico per capirne sempre più il valore e l’importanza. La sua storia nella tradizione secolare della Chiesa, da un lato esprime una continuità celebrativa costante, non venendo mai a mancare, dall’altro subisce un’ampia oscillazione di orario, che la rende per lunghi secoli priva di coerenza tra il suo simbolismo e l’ora in cui avrebbe dovuto essere celebrata. 

 

1. Primo periodo: la grande notte di Veglia

Ecco le principali tappe: - Primo periodo (II – IV sec.): la Veglia pasquale è la celebrazione base della Chiesa, la grande notte di Veglia in onore del Signore. Da essa si svilupperà in seguito tutto l’Anno Liturgico, come da sua sorgente e spartiacque. La Veglia antica occupa tutta l’estensione della notte: dal lucernale dei vespri alle prime luci dell’alba, quando con l’Eucaristia si compirà il Mistero e si realizzarà l’incontro sacramentale col Risorto, che in quell’ora apparve ai primi testimoni. È la pannukia pasquale, nella quale sono proclamate le principali pagine scritturistiche, delineando così una ampia panoramica della storia della salvezza, che avrà in Cristo morto e risorto il suo vertice e il suo compimento. In essa si conclude anche l’istruzione battesimale dei catecumeni con la proclamazione dei grandi eventi biblici, che richiamano il mistero della rigenerazione. È così che il Battesimo trova nella Veglia il luogo più adatto: si tratta di morire e risorgere con Cristo nel mistero dei segni sacramentali. In tal modo la Pasqua del Signore diventa anche la Pasqua dei cristiani, che passano dalla morte del peccato alla vita della grazia. Fin dai primi tempi, quindi la Veglia pasquale ospita i tre elementi fondamentali, che costituiranno una costante permanente in tutti i secoli: la Parola profetica, i Sacramenti della Iniziazione, il Sacrificio eucaristico. Il giorno domenicale successivo sarà senza liturgia, in quanto tutto si è concentrato nella celebrazione notturna, così solenne e prolungata. Del resto prima del secolo IV tale giorno è lavorativo e non consente celebrazioni. 

 

2. Secondo periodo: la Veglio pasquale slitta al pomeriggio

Secondo periodo (sec. IV – XVI). Con la libertà religiosa la Veglia pasquale tende ad uscire sempre più dalla notte e slittare gradualmente nel pomeriggio del Sabato santo. Sul versante opposto l’Eucaristia solenne di Pasqua entra nel pieno giorno della domenica, ormai riconosciuta come festiva, originando una seconda e più solenne messa, quella ‘ del giorno’, mentre l’antica Messa della Veglia fa corpo con i riti notturni e scende con essi verso la vigilia. Inizialmente i Padri tendono ad assicurare che il popolo non sia congedato prima della mezzanotte, intesa come ora discriminante per l’autenticità e verità della stessa Veglia pasquale. Tuttavia, nella concreta celebrazione, l’orario si sposta sempre più al pomeriggio del Sabato santo, anche se permane la raccomandazione di non dimettere il popolo prima della mezzanotte e che il Gloria in excelsis non sia intonato prima del comparire delle prime stelle. Gradualmente la Veglia si fissa tra l’ora sesta e il Vespro e in tal modo viene recepita giuridicamente dal Messale di Pio V, che prevede che la Veglia inizi dopo l’ora Sesta e si concluda col Vespro. Tuttavia fin da san Pio V nella pratica, anche in seguito all’abolizione delle Messe vespertine (1566) la Veglia è di fatto celebrata al mattino del sabato santo. La prassi è recepita dal Cerimoniale dei Vescovi ed è definita nel Codice di diritto Canonico del 1917, che fisserà che il termine del digiuno pasquale col mezzogiorno del sabato santo. Con queste indicazioni la Veglia arriva fino alla sua grande riforma con Pio XII nel 1951. “Non si può negare che queste successive anticipazioni avevano creato, se non una incrinatura nella compagine  unitaria del Triduo sacro, almeno uno stridente contrasto fra il mistero del giorno e le formule liturgiche che lo esprimono e che vi si sono sovrapposte. Ciò malgrado, la Chiesa manteneva i suoi riti, i quali conservano sempre per i fedeli la loro ragione storica-commemorativa e tutto il loro valore di simbolo e di mistero” (Righetti, vol. II, p. 252). Finché i tre santi giorni (Giovedì, Venerdì e Sabato Santo) erano civilmente festivi - anche se i riti erano ormai da secoli celebrati in orario mattutino e incompatibile con le Ore relative ai Misteri ricordati - continuarono ad essere frequentati dai fedeli, ma quando nel 1642 il Papa Urbano VIII dovette riconoscere questi giorni come lavorativi non fu più possibile la partecipazione del popolo cristiano ai riti del Triduo pasquale, che finirono per essere celebrati unicamente dal clero, con un’assolvenza più giuridica che pastorale. - Terzo periodo (dal 1955 ad oggi). 

 

3. La Veglia pasquale torna al suo tempo

Con la riforma di Pio XII la Veglia pasquale ritorna al suo tempo conveniente con indicazioni precise, che ne garantiscono la coerenza celebrativa. Infatti il Decreto di restauro della Veglia pasquale, Dominicae Resurrectionis vigiliam (9 febbraio1951) al n. 9 afferma: “La solenne veglia pasquale si deve tenere all’ora competente, tale cioè che permetta di cominciare la messa solenne della stessa veglia verso la mezzanotte tra il sabato santo e la domenica di Risurrezione”. La fermezza di questa disposizione, che avrebbe assicurato una sicura riuscita in quanto ad orario alla celebrazione del solenne rito, è stata purtroppo stemperata, fin dall’inizio, nel medesimo decreto, da una concessione, che si rivelerà in seguito riduttiva del carattere notturno della Veglia, consentendo la sua celebrazione alla sera del Sabato santo. “Però dove, date le condizioni del luogo e dei fedeli, a giudizio dell’Ordinario, convenga anticipare l’ora della veglia pasquale, questa non si cominci prima del crepuscolo, mai comunque prima del tramonto del sole” (Idem n. 9). Tale disposizione influisce negativamente ancor oggi su una Veglia pasquale che di fatto non è mai stata notturna, ma semplicemente serale. Infatti, dalla prassi celebrativa risulta che già nei primi anni (1951-1955) nelle parrocchie si fa uso della facoltà di anticipare la Veglia alla sera. Con la riforma del Vaticano II e in particolare con l’Istruzione Paschalis Sollemnitatis del 16 gennaio 1988, si cerca di insistere maggiormente su una Veglia che sia veramente notturna e si afferma: “L’intera celebrazione della veglia pasquale si svolge di notte; essa quindi deve o cominciare dopo l’inizio della notte o terminare prima dell’alba della domenica’. Gli abusi e le consuetudini contrarie, che talvolta si verificano, così da anticipare l’ora della celebrazione della veglia pasquale nelle ore in cui di solito si celebrano le messe prefestive della domenica, non possono essere ammessi. Le motivazioni addotte da alcuni per anticipare la veglia pasquale, come ad es. l’insicurezza pubblica, non sono fatte valere nel caso della notte di Natale o per altri convegni che si svolgono di notte”. Tuttavia non si determina l’ora di mezzanotte come discriminante. Così in questa ulteriore incertezza la Veglia pasquale oggi tende a non decollare dal comodo orario serale. Come per la Messa di mezzanotte di Natale, anche per la Veglia Pasquale ha avuto grande influsso l’estensione del precetto festivo ai primi vespri, per cui la Veglia pasquale viene ritenuta legittima a partire dal tramonto del Sabato santo, come una messa ‘prefestiva’. Ciò non succedeva prima di questa disposizione, quando chi anticipava la Veglia alla sera sapeva anche che la Messa della notte assolveva il precetto, solo se celebrata dopo la mezzanotte. Per un efficace decollo della Veglia come celebrazione notturna, sarebbe oggi auspicabile una precisa indicazione di orario discriminante da parte dell’autorità della Chiesa, ritornando a stabilire in modo inequivocabile la mezzanotte come ora della liturgia eucaristica della Veglia stessa nella quale si entra col canto solenne del Gloria. Non si dovrebbero ammettere eccezioni, in quanto la Veglia si celebra solo nelle parrocchie o comunità ad esse assimilate, come atto corale, unico, e quindi irripetibile nella notte santa. Abbiamo visto come le concessioni in tal senso sono diventate la regola, perdendo di fatto la celebrazione notturna. 

 

4. La Domenica di risurrezione inizia a mezzanotte

Per di più il terzo giorno del Triduo pasquale, ossia la Domenica di risurrezione, non inizia all’ora dei vespri del Sabato santo, quasi fossero i primi vespri della domenica, come è norma per il sabato ordinario e le vigilie. Il tempo della Domenica di risurrezione inizia alla mezzanotte, in quanto il Sabato santo è giorno della medesima solennità, come anche il Venerdì santo. I tre santi giorni, infatti, hanno il medesimo grado di solennità. Si capisce allora che, nel rito romano, non è possibile trattare l’ora serale del Sabato santo come tempo già appartenente alla Domenica di risurrezione.

La mezzanotte viene presa come l’ora di riferimento per unire le due parti della Veglia pasquale: la liturgia della Parola e la liturgia sacramentale. L’ora della risurrezione non ci è riferita dalla Sacra Scrittura. Essa appartiene al mistero di Dio. La Chiesa esprime questa consapevolezza quando nell’Exultet canta: “O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Per questo la tradizione liturgica sospinge la Chiesa a trascorre le ore notturne della notte santa nella veglia. Anzi la notte pasquale è, fin dall’antichità, una notte di veglia completa, fino all’alba, l’ora in cui il sepolcro è ritrovato aperto e vuoto. Tra le varie ore notturne, tuttavia, trova una considerazione specialissima l’ora di mezzanotte. Essa è legata a precisi eventi biblici, che costituiscono il fondamento della celebrazione notturna della Pasqua. 

 

5. L’importanza della mezzanotte, l’Ora della Pasqua 

La mezzanotte è la grande Ora a lungo preparata da Dio per salvare il suo popolo: “A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto… Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione” (Es 12, 29. 42). Anche il passaggio del mar Rosso avvenne di notte e si concluse sul far del mattino: “…Il Signore durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente…Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani…il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 21-27). Forse il tutto si compì in quei tre giorni di cammino nel deserto che Mosé richiese al faraone per celebrare il culto al Signore: “Ci è dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio…” (Es 5, 3). Quei tre giorni sono profezia del vero Triduo pasquale in cui il Signore operò, nella pienezza dei tempi, la nostra redenzione. L’evento della Pasqua ebraica si compie quindi nel contesto di almeno due notti: quella del banchetto pasquale col passaggio dell’Angelo sterminatore, e quella della miracolosa traversata del mar Rosso. La liberazione pasquale, allora, nelle sue fasi salienti, avviene nella notte. Ma è la mezzanotte l’ora segnata da Dio per compiere l’evento decisivo e risolutore: l’Angelo colpisce e il popolo parte: è l’ora della Pasqua. La veglia del mattino, di cui si parla nella notte del passaggio del mar Rosso, è quella della consumazione della liberazione del popolo “Sul far del mattino il mare tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 27) e della gioiosa contemplazione delle grandi opere di Dio: in quell’ora nasce il canto di vittoria (Es 15, 1). È fin troppo evidente la profezia della Pasqua del Signore Gesù, quando nel cuore della notte, nell’ora che Lui solo conosce, risorse dai morti e sul far del mattino si mostrò vivo ai suoi discepoli: è questa l’ora dell’Alleluia della Chiesa. Il libro della Sapienza riprende in tono celebrativo l’evento della Pasqua e offre alla liturgia della Chiesa un ulteriore elemento per indicare l’idoneità dell’ora di mezzanotte per attuare nel tempo la celebrazionememoriale e sacramentale del Mistero nelle sue due fasi costitutive, natalizia e pasquale. “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sap 18, 14-15). Anche il salmo allude alla singolare Ora della mezzanotte: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode” (Sl 118, 62). Veramente nella notte di Pasqua, l’Uomo nuovo, il Signore Gesù, si sveglia e si alza dal sonno della morte e, risorto a vita nuova, rende gloria al Padre; come già nella notte di Natale i vagiti del Bambino divino iniziarono la lode nuova e perfetta al Padre. Infine, nella parabola evangelica delle dieci vergini lo scoccare della mezzanotte segna l’ora del grande evento: “A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!” (Mt 25). La medesima ora è richiamata dal Signore stesso quando afferma: “E se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!” (Lc 12, 38). L’ora di mezzanotte adombrata nella parabola delle vergini diventa, nella interpretazione mistica della Chiesa, un indizio del possibile ritorno del Signore, non solo nell’ora escatologica, ma anche nella sua prima ora, quando nacque in mezzo a noi e anche quando risvegliandosi dal sonno della morte, ritornò glorioso tra i viventi. In tale prospettiva la mezzanotte divenne l’ora discriminante e il riferimento più eloquente per la liturgia notturna sia natalizia che pasquale. Una tradizione giudaica dice che Cristo verrà a mezzanotte, come al tempo dell’Egitto, quando si celebrò la Pasqua e venne l’angelo sterminatore e il Signore passò sopra le case e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue. Di qui, credo, quella tradizione apostolica conservatasi fino ad oggi, secondo cui durante la veglia pasquale non è lecito congedare le folle prima della mezzanotte, quando attendono ancora la venuta di Cristo, mentre passato quel momento tutti celebrano il giorno di festa in una ritrovata sicurezza”. S. GIROLAMO (cfr. CANTALAMESSA, R., La Pasqua nella Chiesa antica, ed Internazionale, Torino, 1978, p. 113) 

 

6. La pastorale e il “dogma” della comodità 

Quando la Veglia è celebrata di sera viene privata di una sua componente essenziale: offrire a Dio il tempo del sonno, santificando la notte, mediante l’ascesi del ‘vegliare’. Ci domandiamo: la pastorale deve proprio sposare il ‘dogma’ della comodità a tutti i costi, rinunciando alla notte di Pasqua e alla notte di Natale, come attualmente sta succedendo? Che almeno nelle due notti sante, di Pasqua e Natale, tutto il popolo di Dio, nelle normali parrocchie, si disponga alla solenne celebrazione, vegliando nella notte e offrendo a Dio con generosità il tempo notturno, è veramente cosa pastoralmente impossibile e improponibile ai nostri giorni? Il passaggio più singolare della Veglia pasquale, quando si canta il Gloria in excelsis e si riprende l’jubilus dell’Alleluia è spesso depotenziato: dopo una liturgia della Parola piuttosto breve, senza aver raggiunto un congruo clima di trepida attesa e, senza alcuno stacco rituale, si intona l’Inno angelico e si suonano le campane. Siamo lontani da quello stupore mistico e commosso di cui ci parlano le fonti antiche. È più eloquente la notte di Natale quando, a mezzanotte, si inizia la solenne eucaristia ‘in nocte’. Perché allora privare l’annunzio pasquale nella notte santa dell’esperienza dell’attesa fervorosa, che dà vigore e letizia spirituale all’annunzio della risurrezione, proprio al primo esordio del giorno in cui avvenne la risurrezione, il giorno ottavo che non avrà mai più tramonto? Questo non è sentimentalismo, ma ricchezza celebrativa, forza coesiva e testimonianza efficace. 

 

7. Ridare alla Veglia pasquale il senso della gioia 

Se si vuole ridare alla Veglia pasquale il senso gioioso e commovente dell’attesa, occorre consentire che essa abbia il tempo necessario per impostare un itinerario progressivo verso un preciso termine, che in antico era il primo albeggiare del giorno della risurrezione e che oggi dovrebbe essere necessariamente lo scoccare della mezzanotte alla soglia della grande e santa Domenica di Pasqua. Dal momento che la liturgia si è arricchita in modo irreversibile della Messa solenne del giorno di Pasqua, e che questo giorno è ormai rivestito di regale e grande solennità, non è più auspicabile riproporre a tutto il popolo una Veglia che si estenda fino al mattino, come in antico per poi necessariamente ridurre la domenica di Pasqua a un giorno liturgicamente ‘vacante’. In questo contesto la mezzanotte dovrebbe ridiventare l’Ora da tutti accolta come discriminante tra le due parti della Veglia. Diversamente succede quello che attualmente si può constatare nelle varie ore serali del Sabato Santo: uno già ritorna dalla Veglia pasquale in una chiesa, mentre l’altro parte per la Veglia in un’altra chiesa. Povera Pasqua! Così è ridotta ad affare privato, persa nella routine del sabato sera. La celebrazione della Veglia, fatta all’unisono da tutte le comunità cristiane sul crinale della mezzanotte, offre un eccellente occasione per una testimonianza corale: la Chiesa, convocata nel cuore della notte santa, attende e annunzia la risurrezione del Signore. La Chiesa, celebrando all’unisono la Veglia pasquale percepisce quasi fisicamente il suo essere un cuor solo e un’anima sola, soprattutto quando, a mezzanotte, acclama Cristo risorto e lo annunzia al mondo. Per esprimere concretamente tale sinfonia, la mezzanotte diviene un criterio necessario e discriminante. In questo contesto, sarà possibile dare all’unisono anche l’annunzio pasquale al mondo esterno col suono delle campane.

+Giovanni D’Ercole

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Evangelical poverty - it’s appropriate to clarify - does not entail contempt for earthly goods, made available by God to man for his life and for his collaboration in the design of creation (Pope John Paul II)
La povertà evangelica – è opportuno chiarirlo – non comporta disprezzo per i beni terreni, messi da Dio a disposizione dell’uomo per la sua vita e per la sua collaborazione al disegno della creazione (Papa Giovanni Paolo II)
May we obtain this gift [the full unity of all believers in Christ] through the Apostles Peter and Paul, who are remembered by the Church of Rome on this day that commemorates their martyrdom and therefore their birth to life in God. For the sake of the Gospel they accepted suffering and death, and became sharers in the Lord's Resurrection […] Today the Church again proclaims their faith. It is our faith (Pope John Paul II)
Ci ottengano questo dono [la piena unità di tutti i credenti in Cristo] gli Apostoli Pietro e Paolo, che la Chiesa di Roma ricorda in questo giorno, nel quale si fa memoria del loro martirio, e perciò della loro nascita alla vita in Dio. Per il Vangelo essi hanno accettato di soffrire e di morire e sono diventati partecipi della risurrezione del Signore […] Oggi la Chiesa proclama nuovamente la loro fede. E' la nostra fede (Papa Giovanni Paolo II)
Family is the heart of the Church. May an act of particular entrustment to the heart of the Mother of God be lifted up from this heart today (John Paul II)
La famiglia è il cuore della Chiesa. Si innalzi oggi da questo cuore un atto di particolare affidamento al cuore della Genitrice di Dio (Giovanni Paolo II)
The liturgy interprets for us the language of Jesus’ heart, which tells us above all that God is the shepherd (Pope Benedict)
La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore (Papa Benedetto)
In the heart of every man there is the desire for a house [...] My friends, this brings about a question: “How do we build this house?” (Pope Benedict)
Nel cuore di ogni uomo c'è il desiderio di una casa [...] Amici miei, una domanda si impone: "Come costruire questa casa?" (Papa Benedetto)
Try to understand the guise such false prophets can assume. They can appear as “snake charmers”, who manipulate human emotions in order to enslave others and lead them where they would have them go (Pope Francis)
Chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti? Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro (Papa Francesco)
Every time we open ourselves to God's call, we prepare, like John, the way of the Lord among men (John Paul II)
Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini (Giovanni Paolo II)
Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento» (Papa Benedetto)

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