don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XVIII Domenica del Tempo Ordinario B (4 agosto 2024)

1. La manna “è il pane che il Signore vi ha dato”: così Mosè spiega al popolo il significato della manna che nella Bibbia riveste vari simboli. La scelta del racconto della manna nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, si lega al discorso “eucaristico” che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Per ben 13 volte san Giovanni evoca la figura di Mosè e la manna è citata cinque volte come simbolo del “pane di vita”. Ma che cos’è la manna? Una mattina gli ebrei erranti nel deserto svegliandosi scoprirono accanto ai loro accampamenti “una cosa fine e granulosa, minuta come la brina sulla terra” piovuta miracolosamente tra cielo e terra; continuarono a trovarla ogni mattina durante l’esodo nel deserto. La raccoglievano tutti i giorni eccetto il sabato e impastata ne facevano focacce da cuocere dal vago sapore della pasta all’olio. La raccolta cessò, come leggiamo nel libro di Giosuè, proprio all’ingresso nella terra promessa (Gs 5, 11-12). Vari significati ha la manna nella Bibbia: in primo luogo è “il pane” con cui Dio nutre il suo popolo e lo mette alla prova quando nel deserto recrimina e mormora contro di lui. Si tratta di una duplice prova: anzitutto occorre che Israele impari la lezione della riconoscenza verso Colui che tutto provvede; inoltre essendo gente dura di cervice non contenta mai di nulla, deve imparare a restare fedele agli ordini e ai comandamenti del Signore che chiede di raccogliere la manna sufficiente solo per ogni singolo giorno perché il surplus marcisce. In altri termini Dio educa anche così il popolo che si è scelto come sua proprietà.  In altri libri dell’Antico Testamento, soprattutto nei salmi, la manna assume il simbolo della parola di Dio e dell’amore divino che continua a diffondesi sull’umanità e infine, specialmente nella tradizione giudaica, la manna diventa il “cibo dell’epoca messianica”.  In definitiva la manna nel deserto diventa anche per noi cristiani il segno della fedeltà di Dio e della nostra fatica nel fidarci di lui e nel credere alle sue promesse mentre avanziamo verso il Cielo, nostra patria definitiva.

2. Il salmo 77/78 di cui oggi proclamiamo soltanto qualche breve passaggio come salmo responsoriale riprende il tema della fedeltà di Dio e della fatica degli uomini a fidarsi di lui.  Il Signore “fece piovere su di loro la manna per cibo e diede loro pane del cielo. L’uomo mangiò il pane dei forti, diede loro cibo in abbondanza” (v.v. 23-24).  Anche se qui emerge la gratitudine per un dono così misterioso, il salmo 77/78 nel suo insieme racconta la vera storia d’Israele che si snoda tra la fedeltà di Dio e l’incostanza del popolo pur sempre cosciente dell’importanza di dover conservare la memoria delle opere compiute da Dio. Perché la fede continui ad essere diffusa occorrono tre condizioni: la testimonianza di chi possa dire che Dio è intervenuto nella sua vita; il coraggio di condividere questa esperienza personale e trasmetterla fedelmente, infine ci vuole la disponibilità di una comunità a conservare la fede tramandata dagli antenati come irrinunciabile eredità. Israele sa che la fede non è un bagaglio di nozioni intellettuali, ma la viva esperienza dei doni e della misericordia di Dio. Ecco il tessuto spirituale di questo salmo dove in ben settantadue versetti si canta la fede d’Israele fondata nella memoria della liberazione dalla schiavitù e sul ricordo del lungo travagliato pellegrinare dall’Egitto al Sinai segnato da infedeltà e incostanza: nonostante tutto la fede si tramanda di generazione in generazione. Il rischio più forte per la fede è l’idolatria come denunciano tutti i profeti, rischio attuale in ogni tempo, oggi facile da riconoscere nei segni e gesti compiuti e ostentati come vanto di emancipata libertà. Il salmista denuncia questa idolatria come causa della sventura dell’umanità. Finché l’uomo non scoprirà il vero volto di Dio, non come lo immagina ma come egli è in verità, troverà sbarrata la strada della felicità perché ogni tipo di idolo blocca il nostro cammino verso la libertà responsabile. Superstizione, feticismo, stregoneria, sete del denaro, fame di potere e di piacere, culto della persona e delle ideologie ci costringono a vivere nel regime della paura impedendo di conoscere il vero volto del Dio vivo. Al versetto 8 del salmo (77/78) che non troviamo oggi nella liturgia, il salmista indica l’infedeltà con l’immagine dell’arciere valoroso che fallisce e viene meno alla sua missione: “I figli di Efraim, arcieri valorosi, voltarono le spalle nei giorni della battaglia”. Se la “cancel culture” oggi vuol far dimenticare che tutto è dono nella vita, si cade in una tristezza piena d’ingratitudine giungendo a mormorare con rabbia: “Dio non esiste e se esiste non mi ama, anzi non mi ha mai amato”. Ne consegue che le oscure nuvole dell’ingratitudine e della rabbia intristiscono la vita e soltanto l’esperienza liberante della fede le dissipa e le disperde perché ci fa riscoprire che Dio c’è, ama e perdona: il suo nome è Misericordia!

3. Per non cedere alla tentazione dell’idolatria, oggi moda woke, Dio ci offre un duplice nutrimento: il cibo materiale e quello spirituale espresso nel “segno” della moltiplicazione dei pani e dei pesci con cui Gesù sfama una folla immensa. Nella sinagoga di Cafarnao Gesù prende questo miracolo come punto di partenza del lungo discorso sul “pane di vita” che è l’Eucaristia. Discorso che proseguirà nelle prossime domeniche, e ha un incipit a prima vista sorprendete. Alla gente che gli rivolge una semplice domanda: “Rabbi, quando sei venuto qui?” non risponde direttamente, ma parte con una formula solenne: “In verità, in verità io vi dico”, simile a quella dei profeti nell’Antico testamento: “Oracolo del Signore”.  Attira l’attenzione su qualcosa d’importante e difficile da capire, che sta per dire e per tre volte gli ascoltatori lo interrompono con delle obiezioni. Con abilità educativa e provocatoria, utilizzando un linguaggio metaforico e simbolico, Gesù conduce anche noi, passo dopo passo, alla rivelazione del mistero centrale della fede: il mistero del “Verbo che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” offrendo la vita sulla croce per la salvezza dell’umanità. Nell’intero discorso sul “pane di vita” sentiremo risuonare l’insuperabile meditazione del prologo del quarto vangelo: Gesù è il Verbo del Padre venuto nel mondo per dare, a coloro che lo accolgono, il potere di diventare figli di Dio, “a quelli che credono nel suo nome e sono stati generati da Dio” (cf. Gv 1,12). E per essere chiaro dice subito che del miracolo la gente non ha afferrato il segno: “Mi avete cercato non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”.  Come dire, siete contenti per quel che avete mangiato, ma non avete colto l’essenziale: io non sono venuto per soddisfare la fame di cibo materiale, ma questo pane è il segno di qualcosa più importante. Anzi non sono stato io ad agire, ma ha agito il Padre celeste che mi ha inviato per donarvi un cibo diverso che vi conserva per la vita eterna.  In realtà, la distinzione fra cibo materiale e cibo spirituale era un tema caro alla religione ebraica come ben si comprende già nel Deuteronomio: Dio “ti ha nutrito di manna che tu non conoscevi… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3) e nel libro della Sapienza: “Sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi loro un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto.  Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso si adattava al gusto di chi l'inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava… non le diverse specie di frutti nutrono l'uomo, ma la tua parola conserva coloro che credono in te” (Sap.16,20-28). Gli ascoltatori capiscono a cosa Gesù si riferisce e chiedono: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”.  Gesù allora si presenta come il Messia atteso: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. E perché crederti? Mosè fece il miracolo della manna e in quel tempo grande era l’attesa per la manna promessa come cibo dell’era messianica. Si comprende quindi la terza domanda: “Quale opera tu compi perché crediamo?” e Gesù risponde: “il Padre mio vi da il pane del cielo, quello vero”. L’incomprensione non lo ferma nella sua autorivelazione e Il testo evangelico oggi si chiude con l’annuncio dell’Eucaristia: “Io sono il pane di vita. Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà mai sete”. Il segreto dunque è aver Fede! 

Buona domenica a tutti + Giovanni D’Ercole

 

P.S. Aggiungo oggi, memoria del santo curato d’Ars Giovani Maria Vianney, questo suo pensiero sulla fede e l’Eucaristia: “Quale gioia per un cristiano che ha la fede, che, alzandosi dalla santa Mensa, se ne va con tutto il cielo nel suo cuore!... Ah, felice la casa nella quale abitano tali cristiani!... quale rispetto bisogna avere per essi, durante la giornata. Avere, in casa, un secondo tabernacolo dove il buon Dio ha dimorato veramente in corpo e anima!”

XVII Domenica del tempo Ordinario B (28 luglio 2024)

1. Siamo chiamati a costruire l’unità: ma come? Già domenica scorsa l’apostolo Paolo nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Efesini (Ef 2,13-18) accennava ai problemi che turbavano la pace della comunità di Efeso, a causa delle discordie sorte soprattutto tra ebrei e pagani convertiti. Prigioniero a Roma, sa bene che un po’ ovunque sorgono diatribe e ci sono rischi di eresie per cui la sua preoccupazione è di ribadire la necessità dell’unità dei cristiani sia nei comportamenti che nella dottrina. Ricorda loro che esiste “un solo corpo e un solo spirito… una sola speranza… un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo… un solo Dio e Padre di tutti”.  Per sette volte ripete “un solo” e alla fine della catena, fatta di sette anelli, c’è il Padre celeste al di sopra di tutti, che si serve di ognuno per far giungere il suo amore a tutti. Conoscendo bene l’umana fragilità, san Paolo afferma che l’unità è opera, anzi dono di Dio, ed è il “disegno di amore della volontà di Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” con cui ci ha scelti prima della creazione del mondo, come la liturgia ci ha fatto meditare nella seconda lettura della Messa due domeniche fa (Ef 1,1-13). Dono e progetto di salvezza che si realizzerà pienamente quando saranno ricondotte “al Cristo unico capo tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” nella pienezza dei tempi. A noi è chiesto di contribuire con il “supportarci e sopportarci a vicenda nell’amore”. L’unità è quindi dono di Dio e cammino degli uomini per cercare di attivare questo dono. Ma come? Gesù l’ha indicato agli apostoli durante l’ultima cena quando ha insistito sull’urgenza di “rimanere” con lui e in lui per ben 7 volte, che nel linguaggio biblico significa “sempre”.  Solo uniti a Gesù possiamo contribuire a “edificare il corpo di Cristo”. Immergendoci in Cristo riusciremo a tendere “tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto per raggiungere la pienezza di Cristo” (Ef, 4,13). E l’intera umanità diventerà un solo corpo con Gesù: “il corpo totale di Cristo”.  Con il battesimo abbiamo accolto l’invito a lavorare in questo cantiere che è il mondo, sotto la guida dello Spirito Santo. La parola Chiesa (in greco ecclesia) ha nella sua radice il significato di “chiamata”: con il battesimo siamo chiamati a seguire Gesù “mite e umile di cuore”, il quale porterà a termine il disegno del Padre celeste con la nostra cooperazione se ci lasciamo trasformare dal suo Spirito. Agli apostoli nel cenacolo raccomandò: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv13,35). Dio solamente può renderci capaci di amare e di amarci, essendo impossibile alle sole nostre forze. L’invito dell’apostolo è a vivere nell’umiltà, nella mitezza e nella pazienza, in modo che gli altri possano riconoscere che Dio esiste ed è lui che fa tutto in noi. Apparirà allora Il meglio della vita che è il gratuito libero intervento di Dio Trinità “koinonia-comunione di amore” che ci rende capaci “di conservare l’unità dello spirito, per mezzo del vincolo della Pace”. E sta in questo la nostra realizzazione.

2. Come la Bibbia insegna, il credente è colui che vive interamente e sempre nell’ottica del dono, essendo l’esistenza stessa avvolta dal mistero del dono e i suoi miracoli. In questa luce leggiamo oggi la prima lettura, tratta dal secondo Libro dei Re, il salmo responsoriale: “Tu apri la tua mano, Signore e sazi il desiderio di ogni uomo” (salmo 144/145), la seconda lettura dalla Lettera agli Efesini e il vangelo di Giovanni che è l’inizio del capitolo sesto, carico di messaggi legati al mistero dell’Eucarestia, definito “il Miracolo che è Dono” per eccellenza. San Giovanni non parla, come gli altri evangelisti, dell’istituzione dell’Eucaristia durante l’ultima cena; racconta invece la lavanda dei piedi, trasmettendoci il segreto dell’amore evangelico . Ci prepara però all’Eucarestia con il capitolo VI, che cominciamo a meditare oggi e proseguiremo per ben cinque domeniche. Interiorizzare un testo di san Giovanni chiede sempre di lasciarci attrarre da simboli che a prima vista non sono facili da comprendere e che dicono sempre più di quanto possiamo comprendere. Gesù ha scelto i suoi discepoli e ha già compiuti miracoli attirando il favore della folla che lo segue. Attraversato il lago di Tiberiade, leggiamo oggi nel vangelo, passa all’altra riva di Galilea, la sua patria dove non fu ben accolto dai suoi ed è proprio in questo contesto che svolge uno dei sei miracoli che il quarto evangelo chiama definisce sempre come “segni”. E’ la moltiplicazione dei pani che tutti gli evangelisti riportano, ma san Giovanni ne sottolinea Il contesto storico che è la preparazione della Pasqua imminente. Gesù sale sul monte (non essendoci nella zona monti si capisce che questo assume un tono simbolico: sta per compiere con autorevolezza qualcosa di molto alto e importante). Si rende conto che la gente ha fame ed è lui stesso, il Signore, a prendere l’iniziativa di dare loro da mangiare. Ma come? Non c’è pane, non ci sono soldi e la folla è numerosa – replicano gli apostoli, solo un ragazzetto ha con sé cinque pani d’orzo e due pesci. E da questo piccolo dono di uno sconosciuto si compie il miracolo che fornirà pani da mangiare a cinquemila uomini avanzando ben 12 sporte di pani sufficienti per nutrirne tanti altri ancora. Tutto scaturisce dal dono di un ragazzo che mai avrebbe potuto pensare che con i suoi pochi pani si sarebbero accontentate così tante persone.  Ma proprio qui sta il miracolo del dono, dove il poco arricchisce tutti. Pure nella prima lettura si narra di un tale che offre 20 pani d’orzo al profeta Eliseo ed egli non li prende per sé, ma chiede di darli alla gente “poiché dice il Signore: Ne mangeranno e ne faranno avanzare”. E così avvenne: venti pani offerti e cento uomini sfamati, anche qui è evidente la sproporzione tra mezzi impiegati e risultato ottenuto. Ancora una volta torna il miracolo del dono. E non è tutto.

3. La reazione della folla dopo la moltiplicazione dei pani: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo” lascia capire che era forte l’attesa del Messia e l’effervescenza appariva più marcata perché ci si preparava alla Pasqua, festa- memoria della liberazione dalla schiavitù dall’Egitto e prefigura della liberazione totale che avrebbe recato al popolo d’Israele il Messia. Il fatto che san Giovanni precisi che era vicina la Pasqua, “la festa dei Giudei” è un elemento indispensabile per capire questo miracolo/segno. Nelle prossime domeniche continueremo a leggere questo capitolo e comprenderemo meglio quanto il mistero pasquale sia presente nel lungo discorso che Gesù farà sul pane della vita. Per ora egli conduce la gente che lo segue sulla “montagna”, e il pensiero va subito al banchetto messianico che il profeta Isaia aveva profetizzato a consolazione del popolo schiavo: il Signore darà su questa montagna una festa per tutti i popoli, una festa ricca di carni grasse e succulenti e di vini prelibati (Cf. Is 25,6). Alla folla affamata che attente il Messia Gesù offre il segno che il giorno tanto atteso è giunto: è lui il Messia. E’ lui che prendendo l’iniziativa mette alla prova gli apostoli per suscitare in loro la fede. Filippo non ha compreso subito che Gesù stava provando la sua fede e risponde in maniera comprensibile dal punto di vista umano, dicendo cioè che neppure duecento denari di pane non sono sufficienti per darne un pezzetto a tutti i presenti e l’apostolo Andrea fa notare la presenza di un ragazzetto con cinque pani e due pesci, ma che si può fare con questo?  E’ il buon senso con cui tutti avremmo reagito, ma Gesù con i suoi gesti ci provoca alla fiducia in lui. Nella prima lettura Eliseo mostra di essere un profeta ricco di fede e Gesù stupisce gli apostoli chiedendo loro di far sedere la gente. Fidarsi di Dio sempre: ecco il messaggio che giunge a ciascuno di noi in qualsiasi situazione ci troviamo, specialmente se stiamo soffrendo la vita perché la precisazione che “c’era molta erba in quel luogo è un chiaro riferimento a Gesù buon pastore, che, sfamando la folla, si prende cura di tutte le pecore, di ciascuno di noi.  Giovanni però a questo punto cambia tono e scrive che Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie li diede alla folla.  Facile intravedere nel miracolo e nelle parole di Gesù un anticipo del banchetto dell’Eucaristia, imbandito per tutti nell’ultima cena: ecco il dono dei doni! Il suo corpo e il suo sangue, vero pane della vita. 

+ Giovanni D’Ercole buona domenica.

XVI Domenica del Tempo Ordinario (B) [21 luglio 2024]

1. Gesù Cristo, abbattendo il muro di separazione che ci divideva, ha fatto una cosa sola. Questa è la buona notizia che troviamo nella seconda lettura di questa XVI Domenica del tempo ordinario tratta dalla Lettera di san Paolo agli Efesini. L’apostolo è a Roma agli arresti domiciliari in una casa presa in affitto e uno dei suoi primi pensieri, durante la prigionia, è quello di scrivere ai suoi cari fratelli in fede, Efesini, Colossesi, Filippesi e a Filemone, presentandosi non come prigioniero di Cesare, ma come prigioniero di Cristo. Focalizza la Lettera agli Efesini sulla Chiesa, organismo universale composto da tutti coloro che sono salvati mediante la fede in Cristo Gesù. Una nuova unità è stata creata da Dio attraverso l’opera riconciliatrice della Croce (2:16) e così ebrei e pagani sono entrati a far parte della famiglia di Dio, in cui sono abbattute tutte le barriere razziali, culturali e sociali. C’è una sola Chiesa di cui Cristo è il Capo, e tre sono le immagini che Paolo utilizza per descriverne la natura: la Chiesa è un edificio fondato sugli apostoli e i profeti di cui la pietra angolare è Cristo; è un solo corpo e un solo spirito; è la Sposa di Cristo e modello di comunione di ogni relazione, in primo luogo nella famiglia tra marito, moglie e i figli. Conoscendo bene la situazione di quelle comunità, da lui stesse fondate e segnate ancora da discordie e contrasti, san Paolo auspica che le sue catene contribuiscano a incoraggiare e sostenere i credenti che soffrono per la salvaguardia della fede. La difficoltà a vivere insieme tra convertiti sia giudei che pagani è l’esperienza che aveva vissuto già nelle prime comunità da lui fondate e che continuavano ad essere alimentate da incomprensioni e persino da scontri violenti. Fu ad Antiochia di Pisidia che comprese il realizzarsi del primo grande tornante della storia della rivelazione quando incontrando la violenta opposizione dei giudei dichiarò che dopo il loro rifiuto di convertirsi a Cristo, dirigeva la sua predicazione verso i pagani (At 13,46). Nella lettera agli Efesini sviluppa il tema della riconciliazione tra cristiani di origine ebraica e quelli d’origine pagana diventati fratelli e quindi tutti con la stessa possibilità di accesso, in un solo Spirito, all’unico Padre celeste. Scrive in proposito che di Israele e dei pagani il Cristo ha fatto un solo popolo “abbattendo il muro della separazione”. Una simile unione appariva a molti irrealizzabile e la preoccupazione dell’Apostolo continuò ad essere fino alla fine quella di salvaguardare l’unità che purtroppo vedeva in serio pericolo. Non era questione di scelte operative, ma il cuore del problema toccava il contenuto stesso della fede cristiana. Per Paolo l’unica cosa che conta è che ebrei e pagani con il battesimo sono allo stesso modo immersi nella vita nuova del Cristo Risorto e quindi va abbattuta ogni barriera che li separa. E parlando di barriere aveva in mente qualcosa che tutti ben conoscevano: la barriera che nella spianata del Tempio a Gerusalemme separava lo spazio riservato ai membri del popolo di Israele (uomini, donne, sacerdoti), dal resto della piazza dove tutti potevano transitare, giudei e non giudei, circoncisi e incirconcisi, membri o no del popolo eletto, persone educate alla Legge mosaica e persone che non lo erano. Un cartello segnaletico proibiva formalmente ai non giudei di entrare sotto pena di morte e san Paolo aveva sperimentato il rischio di venire ucciso, come si legge negli Atti degli Apostoli perché pensavano che vi avesse introdotto un certo Trofimo proprio di Efeso (At.21,27-31). Quella barriera è per san Paolo icona del “muro dell’inimicizia”, così marcata tra giudei e pagani perché i giudei, circoncisi per fedeltà alla legge mosaica, disprezzavano e definivano i pagani “gli incirconcisi”. Nella Lettera agli Efesini insiste allora sul nuovo progetto di Dio per il popolo dei battezzati, un progetto di amore e di riconciliazione che concerne l’insieme di ogni comunità, i popoli di tutto il mondo e persino l’intera creazione. 

2. Il tema della comunione, dell’unità e del perdono torna spesso nei vangeli e negli scritti del Nuovo Testamento. Costituisce anche un’aspirazione prevalente nella predicazione dei Padri della Chiesa mostrandoci il volto delle Chiese di allora già punteggiate di esempi di bontà ma minacciate dal virus della divisione e dei contrasti religiosi che talora s’intrecciavano con contese civili.  Questo indica che la difficoltà a realizzare la comunione voluta dal Cristo è una costante provocazione per la fede di ogni battezzato. Malgrado infatti la buona volontà e gli sforzi, sperimentiamo, nel mondo e nella Chiesa, quanto difficile sia andare d’accordo. L’unità e la comunione restano un’aspirazione che si scontra con le fragilità della vita ed è così, come la storia mostra chiaramente, fin dall’origine dell’umanità, da quando cioè l’uomo creato per essere in amicizia con Dio scelse la sua autonomia che ben presto si dimostrò foriera di incomprensioni e divisioni, scontri e violenze dove il più forte pensa di vincere prevaricando in tanti modi il più debole, il diverso, il nemico. Eppure continuano a risonare nella coscienza dell’umanità queste parole dell’apostolo Paolo: “Gesù è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini”. Come allora interiorizzare quest’annuncio di salvezza quando sentiamo ribollire inimicizia e divisione fra credenti? Si parla di pace e di unità, ma continua a persistere lo scandalo della divisione che crea muri per sbarrare la vita a popolazioni diverse, cancelli per ben proteggere gli spazi riservati al proprio gruppo e alle proprie convinzioni mentre nel clima generale, al di là delle dichiarazioni di intese e di pace, cresce il disamore dell’altro che sfocia in gesti di rifiuto identificandolo spesso come avversario e come “nemico”. Malgrado lo scandalo della disunione, non mancano però moltissimi esempi e gesti di coraggio, di perdono, di riconciliazione che mostrano quanto più forte dell’odio sia l’amore, al di là delle apparenze, e noi crediamo che l’ultima parola sarà sempre dell’Amore capace di sanare conflitti e divisioni. Questa speranza invincibile ci sostiene e ci dà forza.

3. “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. La pagina del Vangelo ci offre uno spazio di quiete per capire come non cedere alle inquietudini della vita, alle divisioni e ai contrasti che distruggono la pace nei cuori. Per la prima volta san Marco definisce “apostoli” questi discepoli e ciò indica che ormai Gesù li chiama a condividere la sua stessa missione che prevede accanto all’immersione nell’azione pastorale, la necessità di adeguati spazi di silenzio e di solitudine. Ai Dodici che tornano entusiasti dalla prima spedizione apostolica e vorrebbero subito raccontare com’è andata, Gesù dice anzitutto: Riposatevi! Il silenzio e la preghiera servono a ogni apostolo perché non dimentichi che non è lui il salvatore del mondo: siamo solo fragili strumenti nelle mani di Dio e nella misura in cui non ci separiamo da lui, possiamo diventare operatori della sua pacificazione. Un santo prete, apostolo di carità, don Oreste Benzi amava ripetere: “Per stare in piedi davanti al mondo bisogna restare in ginocchio davanti a Dio”.  Se Gesù condivide con i discepoli la sua angoscia nel vedere la “grande folla” di cui ha compassione perché sembrano pecore senza pastore, domanda anzitutto ai suoi di passare del tempo soli con lui.  La folla che preme, annota l’evangelista Marco, può attendere anche se viene dalla Galilea e da ogni parte della Giudea, dell’Idumea, della Transgiordania, dalla regione di Tiro e di Sidone, e ci sono anche le autorità religiose che gli fanno la guerra e seminano odio sino a crocifiggerlo.  Per entrare in azione il Signore non ha fretta: vuole che ogni apostolo comprenda e sposi con la vita la sua stessa passione per le anime con le inevitabili difficoltà e opposizioni che essa comporta. Non chiede all’apostolo un forte impegno sociale, ma gli comunica la sua compassione divina espressa dall’evangelista con il termine greco “SPLANGKNA” che definisce il movimento dell’interiorità, cioè la profondità dell’essere, e in ebraico ”RAHAMIN”, tradotto in italiano  con misericordia. Il nome di Dio è Misericordia, amore che porta al sacrificio di Cristo per abbattere e distruggere ogni muro di divisione, di diversità e di odio. A differenza dell’evangelista Giovanni san Marco non sviluppa il tema del buon pastore, ma lo presenta in filigrana proprio in queste parole: Gesù “vide una grande folla, ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore”. Solamente Cristo può farci dono della sua compassione per evitare che ci colga il rimprovero del profeta Geremia ben chiaro nella prima lettura: “guai ai pastori che fanno perire e disperdono il mio pascolo”.  

  • +Giovanni D’Ercole. Buona domenica

 

P.S.  Unisco una riflessione sul Tempio, tratta da una conferenza del cardinale Gianfranco Ravasi. "Il mondo è come l'occhio:  il mare è il bianco, la terra è l'iride, Gerusalemme è la pupilla e l'immagine in essa riflessa è il tempio". Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un'intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all'immagine. La prima è quella di "centro" cosmico che il luogo sacro deve rappresentare... l'orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un'area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l'ordine dell'essere intero. Nel tempio, dunque, si "con-centra" la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia…Dal tempio, poi, si "de-centra" un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato. Il tempio è l'immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell'armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino… E’ curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente "del Pianto"), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell'ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l'islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo. Nell'ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante:  "Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l'Agnello sono il suo tempio" (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l'incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto…Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità" (Giovanni, 4, 21-24). Ci sarà un'ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa "carne" dell'umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni:  "Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi" (1, 14), … Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà:  "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi... Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" (i, 6, 19-20). "Un tempio di pietre vive", quindi, come scriverà san Pietro, "impiegate per la costruzione di un edificio spirituale" (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo:  non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell'umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l'esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima è una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s'incontra veramente Dio. Il ritornello in ebraico…con un gioco di parole e un'intuizione folgorante si dice: "Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo". La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco. Un frate dice a Francesco:  "Non abbiamo più soldi per i poveri". Francesco risponde:  "Spoglia l'altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno". E subito dopo aggiunge:  "Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l'altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell'uomo". La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell'incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell'infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l'aula sacra e la piazza ove si svolge l'attività umana. Si ritrova, così, l'anima autentica e profonda dell'Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.

Un adolescente ha viaggiato attaccato a un treno per diversi chilometri.

Non è l’unica né la prima follia tra adolescenti “annoiati e sazi” [non tutti] cui noi genitori abbiamo dato, a mio avviso, troppo.

Ci sono diversi giochi pericolosi in voga: saltare da un balcone all’altro, o gesta simili; abbuffate di alcool, far finta di strangolarsi, appendersi a testa in giù.

Leggo dai social che l’ultima bravata è quella di picchiare i passanti e mettere tutto in rete (non so se è attendibile).

Questi comportamenti anomali forse si potrebbero evitare se i genitori stabilissero dei limiti, ma spesso non li hanno neanche loro.

È pur vero che simili comportamenti possono essere dovuti ad emulazione di qualche falso mito.

Ma al di là di questi comportamenti estremi, giocare è importante per l’essere umano.

Anticamente Aristotele avvicinò il concetto di gioco alla gioia e alla virtù, mentre Kant lo definì attività ’piacevole’.

Nel libro Homo Ludens del 1938 Huizinga dice che la cultura nasce in forma ludica, perché ogni cosa viene sotto forma di gioco; e giocando, il collettivo esprime la spiegazione della vita: il gioco non si cambia in cultura, ma questa ha inizialmente il carattere di gioco.

In psicologia il gioco è protagonista dello sviluppo psicologico del bambino - soprattutto della sua personalità.

Roger Caillois nel suo libro «I giochi e gli uomini» (Ed. Bompiani) raggruppa l’attività giocosa in quattro classi sostanziali, a seconda se nel gioco prevale la competizione, il caso, il simulacro, la vertigine.

Li ha denominati Agon (competizione), Alea (il caso, la sorte), Mimicry (Mimica, travestimento), Ilings (Vertigine). Questa distinzione raggruppa i giochi della stesa specie.

Nel gioco dapprima troviamo divertimento, indisciplinatezza, poco controllo, cui l’autore ha dato il termine “paidia” per giungere successivamente a un’attività disciplinata e osservante delle regole (Ludus).

L’Agon rappresenta il merito personale e lo si manifesta sia nella forma muscolare, sia nella forma intellettiva.

Esempi sono le gare sportive, ma anche giochi di capacità intellettiva. Scopo principale è affermare la propria superiorità.

L’Alea è la parola latina che individua il gioco dei dadi; qui il giocatore è inoperoso e si affida alla sorte, al destino.

La Mimicry include la recita, la mimica, il travestimento. L’uomo abbandona la propria personalità per fingere un’altra.

La mimicry è ideazione; per chi recita, è attirare l’attenzione dell’altro.

L’ultima classe di giochi descritta da Caillois viene chiamata Ilings.

Consiste nel far provare alla coscienza un notevole spavento.

Questo scompiglio è solitamente cercato per se stesso.

Caillois ci fa l’esempio dei dervisci danzanti che cercano l’inebriarsi girando su sé stessi al ritmo crescente di tamburi e la paura consiste in questo girare su di sé frenetico.

D’altronde senza cercare esempi eclatanti, ogni bambino sa l’effetto che si prova girando vorticosamente su di sé.

Questa sorta di giochi non la troviamo unicamente negli esseri umani, ma anche nel mondo animale.

I cani a volte girano su se stessi per afferrarsi la coda, finché non cadono.

L’autore riporta il caso dei camosci come indicativo.

Secondo Karl Groos “essi si arrampicano sui nevai e di lì ognuno si lancia sul pendio mentre gli altri lo stanno a guardare” col rischio di sfracellarsi.

Nell’esercizio della mia professione ho spesso incontrato per la maggior parte adolescenti che  mettevano in atto giochi di questo tipo.

Ragazzi che con motorini sfidavano le auto o che passavano con il semaforo rosso. O ancora peggio, che giocavano a camminare in stato di lieve ebbrezza sul ciglio di un ponte.

Negli ultimi anni della professione ho notato che parecchi adolescenti si procuravano dei tagli sul corpo.

Gli episodi che riportano i media su questi comportamenti estremi non vanno ignorati.

Certo tutti abbiamo avuto momenti in cui abbiamo provato un senso di vertigine: mi viene in mente l’altalena da piccoli, o giochi ai vari luna-park.

Con l’aumento del benessere, spesso la società produce macchine e moto sempre più potenti.

E lì [oltre lo status symbol] vi è anche una ricerca conscia o meno di un senso di vertigine.

Ma sarebbe opportuno comprendere che associando la vertigine (ilings) al destino (alea)… il gioco diventa pericolo - a volte mortale.

 

Francesco Giovannozzi psicologo-psicoterapeuta.

XV Domenica del tempo Ordinario - anno B (14.07.2024)

1. ”Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due” . Ogni evangelista racconta la scelta e la missione degli apostoli: questa domenica è San Marco a narrare l’inizio del mandato missionario dei Dodici scelti fra i discepoli (Luca ne enumera 72) e formati da Gesù tenendoli accanto a sé. Ora però è il tempo di andare in missione, ma per essere apostoli occorre imparare a restare discepoli e il discepolo è colui che non si stanca di apprendere dal maestro Gesù l'arte di evangelizzare. Non si impara in poco tempo e la prima condizione che poi diventerà permanente è proprio quella di non staccarsi mai da Gesù, l’unico vero Maestro. In effetti soltanto restando discepolo di Gesù, l’apostolo può svolgere la missione di annunciarne e testimoniarne il vangelo. Missionari non sono solo gli apostoli, bensì ogni battezzato secondo la propria specifica vocazione e carisma e la ricchezza del cristianesimo è la molteplicità delle vocazioni al servizio dell’unica causa: il Regno di Dio. Il rischio è quello di voler essere apostoli senza restare discepoli. La Chiesa primitiva ha conosciuto una rapida diffusione a macchia d'olio grazie al fatto che i dodici apostoli non hanno dimenticato che Gesù li aveva scelti perché stessero con lui e per poi andare a proclamare il vangelo con il potere di scacciare i demoni: “dava loro il potere sugli spiriti impuri”. Tre soltanto le consegne che affida loro: andare insieme due a due, trattenere per sé lo stretto necessario e non lasciarsi spaventare da inevitabili persecuzioni. Li invia due a due perché nella cultura ebraica e nella mentalità del tempo per essere accettabile una testimonianza doveva essere di almeno due persone (cf. Dt 19,15) e siccome evangelizzare è rendere testimonianza a quanto Gesù ha detto e fatto, non può essere il compito d’un solo individuo. Dopo la Pentecoste gli apostoli proseguiranno con questo stile: Pietro e Giovanni insieme predicano nel tempio di Gerusalemme (At.1); Paolo e Barnaba saranno insieme in Siria e in Asia Minore (At 13-15) e pure dopo la loro separazione Paolo continuerà la sua missione con Silla (At 16-17) mentre Barnaba prenderà con sé Marco. In secondo luogo chiede loro di accontentarsi dello stretto necessario: solo un bastone, niente cibo, né sacca, né denaro, un paio di sandali e nessuna tunica di ricambio. Inizia così il lungo cammino della Chiesa e per proseguirlo fedelmente occorre agilità di movimento, disponibilità assoluta al servizio del vangelo e distacco da tutto: ecco condizioni valide, anzi indispensabili per ogni evangelizzatore per né cedere ai compromessi con il mondo, né lasciarsi impressionare dalle persecuzioni che incontreranno. Gli apostoli erano stati testimoni del fallimento di Gesù a Nazaret (Mc.6,1-6) e avranno modo di ricordarsene quando dovranno affrontare la stessa sorte a causa dell’ostinata opposizione degli scribi e dei farisei e poi nelle persecuzioni che seguiranno.

2. E’ proprio vero: l’opposizione e persino la persecuzione sono il destino dei discepoli di Cristo come lo fu dei profeti nell’Antico Testamento. Nella prima lettura oggi incontriamo il profeta Amos rigettato da Amasias, sacerdote di Betel, dopo qualche mese di predicazione: ”Vattene, veggente” (7, 12) e pur ostacolato, continuerà instancabile nella sua contrariata missione.  Come lui tutti i profeti subirono la medesima sorte e Gesù l’ha provata come domenica scorsa raccontava l’evangelista Marco: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Chiunque decide di convertirsi a Cristo e intende essere suo apostolo occorre che si prepari a sperimentare le stesse opposizioni e perfino il rigetto totale. Una domanda sorge allora spontanea: “Perché la predicazione dell’amore e del perdono di Dio aperto a tutti, che sintetizza l’annuncio del vangelo, incontra sempre incomprensioni e opposizioni?”. Non si dimentichi che Gesù “da agli apostoli potere sugli spiriti impuri”: quando si annuncia l’amore gratuito di Dio si scatena l’odio di satana che in modi diversi confonde l’animo umano. Annebbia la mente e la inquina con le idee più diverse su Dio, come leggiamo ad esempio nel libro dell’Esodo: “Il Signore disse a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice” (Es.32,7-14), ma soprattutto indurisce il cuore. Per non cedere allo scoraggiamento è utile avere sempre davanti agli occhi l’immagine di Gesù crocifisso e pensare ai tanti martiri che ne hanno seguito le orme, mentre a tutti il Signore continua a ricordare: “Chi non prende la propria croce e non mi segue non è degno di me (Mt 10,37-42).

3. Accanto a molti che aprono il cuore al vangelo ci sono altri che rifiutano e Gesù in proposito non invita a reagire con violenza e disprezzo, ma a rispettare la libertà non forzando nessuno. Dice infatti: “Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”. Scuotere la polvere dai piedi: come interpretare questo gesto che deve diventare per la gente una testimonianza?  Così spiega Benedetto XVI: “Gesù avverte i Dodici che potrà accadere che in qualche località vengano rifiutati. In tal caso dovranno andarsene altrove, dopo aver compiuto davanti alla gente il gesto di scuotere la polvere sotto i piedi, segno che esprime il distacco in due sensi: distacco morale – come dire: l’annuncio vi è stato dato, siete voi a rifiutarlo – e distacco materiale – non abbiamo voluto e non vogliamo nulla per noi (cfr Mc 6,11)” (Santa messa Frascati 15 luglio 2012).  Insomma, Gesù invita a non cedere allo scoraggiamento davanti alle sconfitte, ma a ricominciare camminando sempre con i piedi liberati persino dalla polvere. Se è vero che  si incontrano cuori induriti e ostili, le spirituali soddisfazioni sono molte di più e la crescita delle comunità cristiane è prova della potenza di Cristo risorto. Già dall’inizio, negli Atti degli Apostoli, si narra di persone che ovunque hanno aperto la casa e il cuore ai predicatori del vangelo e il flusso dell’evangelizzazione ha proseguito inarrestabile nel corso dei secoli. Scrive il cardinale Carlo Maria Martini: “Appoggiatevi al Vangelo, affidatevi al Vangelo. La parola «fede», nella sua lunga storia – nell’Antico Testamento, nella Bibbia, nella versione ebraica della Scrittura – rappresenta la situazione di chi si affida, di chi appoggia su una roccia, di chi si sente saldo perché è appoggiato a qualcuno molto più forte di lui.” (6° incontro della scuola della Parola, 6,11,1980)

+ Giovanni D’Ercole

 

P.S. Dinanzi a chi preconizza in ogni tempo la morte della Chiesa, san John Henry Newman, cardinale inglese convertito al cattolicesimo e canonizzato da Papa Francesco, scrive: “La Chiesa possiede questo privilegio speciale, che nessun’altra religione ha: quello di sapere che, essendo stata fondata nella prima venuta di Cristo, non scomparirà prima del suo ritorno. In ogni generazione, però, sembra che soccomba e che i suoi nemici trionfino. La lotta tra la Chiesa e il mondo ha questo di particolare: il mondo sembra sempre vincere, ma di fatto è lei che vince. I suoi nemici trionfano costantemente, dicendola vinta; i suoi membri perdono spesso la speranza. Ma la Chiesa resta!” (Cf. Sermoni sui temi del giorno, nº 6, Fede ed Esperienza, 2.4)

XIV Domenica del Tempo Ordinario B (7 luglio 2024)

1. In queste domeniche con l’evangelista Marco abbiamo seguito Gesù che, lasciata Nazaret, ha percorso villaggi e città, dopo essere stato battezzato da Giovanni Battista al fiume Giordano.  Predicando per tutta la Galilea, accompagnato già dai discepoli, si spinge oltre il lago di Tiberiade nelle città della Decapoli per venire poi a Cafarnao che diventerà la sua città preferita. Nel vangelo odierno lo vediamo tornare per la prima volta a Nazaret dove entra subito nella sinagoga preceduto dalla fama che andava rapidamente diffondendosi al punto che ci si interrogava donde gli venissero tanta saggezza e capacità di compiere prodigi. L’accoglienza che riceve è a dir poco negativa da parte di alcuni suoi parenti, che addirittura lo ritengono un pazzo, eppure molta gente resta affascinata dalla sua predicazione e dai miracoli che compie. I farisei e gli scribi a più riprese manifestano una crescente ostilità e qualcuno medita addirittura come eliminarlo. Qual è il suo crimine? Guarire i malati, rimettere i peccati e compire miracoli persino nel giorno di sabato. Così forte è l’opposizione che potremmo ritenere un vero fallimento il fatto che a Nazaret non può compiere nemmeno un miracolo. San Marco si sofferma sulla reazione dei suoi conoscenti scettici e ostili che riconoscevano Gesù semplicemente come il figlio di Maria e del falegname Giuseppe. Se fosse un profeta – dicevano - l’avremmo saputo e poi quando si proclama il Messia bestemmia perché è inconcepibile che Dio possa avere origini umane e per di più così modeste. E Gesù commenta: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.   Quest’espressione, che troviamo in tutti i vangeli (Marco 6, 4; Luca 4, 24; Matteo 13, 57, Giovanni 4, 44) è diventata comune per sottolineare che raramente vengono riconosciuti i meriti di una persona nel proprio ambiente dove l’invidia, la gelosia costringe chi merita a cercare il successo lontano dal proprio paese.

2. La reazione degli abitanti di Nazaret fa pensare a coloro che anche in questo nostro tempo fanno fatica ad accettare Gesù e i suoi veri profeti, perché fissati sulle proprie idee e pregiudizi, sono incapaci di cogliere la novità d’un Dio dal volto umano ed accessibile a tutti. E così l’ammirazione di tanti per Gesù vero Dio e vero uomo diventa per altri una fake news o addirittura uno scandalo. San Marco utilizza di proposito il termine greco “skandalon”, che evoca la pietra d’inciampo di cui scrive il profeta Isaia. Quando nel cuore sparisce l’umile ricerca della verità, la meraviglia lascia il posto all’incredulità e Gesù vero Dio e vero uomo diventa uno scandalo, un ostacolo che impedisce persino a persone che si dicono credenti di riconoscerlo e amarlo. Questo avvenne a Nazaret dove la gente non immaginava un Messia così e davanti al pregiudizio resta poco da fare perché si è troppo sicuri di sé e delle proprie convinzioni. Il rischio di chiudersi alla grazia di Dio è sempre possibile per tutti. Oggi il vangelo ci aiuta a comprendere che l’impedimento sta nell’attitudine con cui ci rapportiamo ai pregiudizi. Soltanto se guardiamo la realtà e le persone con l’animo libero riusciamo a vedere la ricchezza che abita il cuore di tutti, anche di coloro che sottovalutiamo perché siamo convinti di conoscerli già sufficientemente.  Nella vita possiamo stupirci per realtà positive, per esperienze che cambiano il modo di pensare e di agire, ma possiamo scandalizzarci per alcuni incontri ed eventi che riteniamo negativi quando a dominare in noi sono i preconcetti. Gesù c’invita a cogliere sempre il positivo in tutti piuttosto che concentrarci sul negativo che esiste e che fa purtroppo sempre più notizia del bene.

3. Se cerchiamo di vivere coerenti agli insegnamenti di Cristo e senza compromessi, attiriamo l’ammirazione di alcuni, e insieme l’ostilità di altri perché diventiamo “pietra di scandalo” cioè una provocazione per chi crede di credere e per chi non vuole credere. Chi resta fedele a Cristo deve prepararsi a subire incomprensioni e ostilità perché il Vangelo è salvezza per chi l’accoglie e lo segue, ma scandalo per chi non lo vuole accettare. E attenzione!  Capita spesso che sono proprio i più vicini a chiudere gli occhi e il cuore alla parola e ai prodigi che Cristo continua a compiere in questo nostro tempo. A diventare immagine di Gesù, si rischia l’incomprensione e l’isolamento. Capitava nell’Antico Testamento dove spesso i profeti erano incompresi, rigettati e persino tentavano di ucciderli, mentre i falsi profeti avevano facile presa sul popolo. Certamente Gesù non si aspettava un simile comportamento da parte dei suoi e Marco annota la sua meraviglia per la mancanza di fede e l’indurimento del cuore dei suoi concittadini. Come Gesù può capitare a ogni suo discepolo anche oggi di essere incomprenso all’interno del proprio ambiente. Ci si deve confrontare non tanto con l’ostilità manifesta dei nemici, quanto piuttosto con l’indifferenza e la contrarietà di coloro che riteniamo amici. Malgrado l’ostilità, Gesù non si ferma, e anche a Nazaret ha compiuto qualche guarigione. Ci aiuta così a capire che mai dobbiamo cedere allo scoraggiamento e alla tentazione dell’abbandono, ma dalla fiducia in Dio traiamo la forza per proseguire nella vocazione profetica e missionaria. Questa è la testimonianza del profeta Ezechiele di cui leggiamo nella prima lettura e pure dell’apostolo Paolo che egli stesso racconta nella seconda lettura. Ezechiele conoscerà ogni tipo di ostilità e dovrà affrontare persino l’esilio in Babilonia con il re e quasi tutti gli abitanti di Gerusalemme. Persevererà nella sua difficile missione scontrandosi con la durezza del popolo, ma senza scoraggiarsi, perché aveva compreso che quando Dio affida una missione dona anche la forza necessaria per portarla a compimento. Piena di contrasti è l’esperienza di san Paolo.  Come Ezechiele ha avuto visioni e rivelazioni straordinarie insieme a numerosi insuccessi che lo hanno fatto maturare nell’umiltà e nella fiducia in Dio. Ha portato sempre, come lui stesso comunica, nella sua carne una ”spina”, costante richiamo alla sua fragilità - come egli scrive: “Affinché io non montassi in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di satana per percuotermi” ed aggiunge che nonostante abbia ripetutamente implorato Dio di liberarlo, si è sentito rispondere: ”Ti basta la mia grazia , la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Nessuno ha capito cosa sia questa “spina nella carne” che lo martirizzava, né san Paolo lo precisa; anche se sono state avanzate tante ipotesi. Una cosa è certa: Paolo si gloria persino delle proprie sofferenze e il suo esempio diventa per noi un incoraggiamento: le nostre fragilità e persino i peccati non costituiscono un ostacolo all’evangelizzazione, anzi possono aiutarci a compiere meglio la nostra missione perché ci rendono consapevoli che la nostra fragile umanità è sorretta dalla potenza di Cristo, se lo lasciamo agire in noi. 

+ Giovanni D’Ercole 

Per proseguire la riflessione:

“La fede non è un fiore delicato, destinato ad appassire al minimo accenno di brutto tempo. La fede è come le montagne dell’Himalaya, che non possono modificarsi in alcun modo. Non c’è tempesta che possa smuovere le montagne dell’Himalaya dalle proprie fondamenta”.

(Mahatma Gandhi)

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

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