don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Emergenza grande, per piccolo Nome

 

(Mt 10,1-7)

 

«Questi dodici Gesù mandò dopo aver ordinato loro dicendo: Non andate nella Via dei pagani, e non entrate in città di samaritani - ma partite piuttosto verso le pecore perdute della Casa di Israele».

L’annuncio della nuova Fede aveva bisogno di respiro; eppure avrebbe trovato un fitto fuoco d’interdizione, assai tenace, proprio a partire dai frequentatori della religiosità radicata e abitudinaria - legata all’ideologia di potere.

Il primo restringimento ad Israele si era reso necessario, proprio al fine di scoperchiare la devozione più pericolosa: quella vuota e chiusa della sinagoga che - assuefatta all’attesa dello straordinario esterno - ormai non attendeva nulla di autentico che riuscisse a destarla.

Ma il senso dei vv.5-6 è assai profondo anche dal punto di vista personale, e riguarda non soltanto l’iniziale restrizione verso il Popolo eletto della Rivelazione messianica, dell’apertura universalistica esplicita, o della Missione.

 

Nessuno degli apostoli era per sé degno della Chiamata; eppure viene interpellato, e può accogliere il suo Mandato - come fosse già perfetto!

Gran parte di loro ha nomi tipici del giudaismo, addirittura del tempo dei patriarchi - il che indica un’estrazione culturale e spirituale radicata più nella religione che nella Fede... non facile da gestire.

Pietro smaniava per farsi avanti, ma pure retrocedendo spesso (marcia indietro) sino a diventare per Gesù un «satàn» [nella cultura dell’oriente antico, un funzionario del gran sovrano, inviato a fare il controllore e delatore - praticamente un accusatore]. Giacomo di Zebedeo e Giovanni erano fratelli, accesi fondamentalisti, e istericamente volevano il Maestro solo per loro. Filippo non sembrava un tipo molto pratico, né svelto o formato a cogliere le cose di Dio. Andrea pare invece cavarsela bene: persona inclusiva. Bartolomeo era probabilmente aperto ma perplesso, perché il Messia non gli corrispondeva granché. Tommaso era un poco dentro e un po’ fuori. Matteo un collaborazionista, avido complice del sistema oppressivo. Simone il Cananeo una testa calda. Giuda Iscariota uno che si autodistrugge fidandosi delle vecchie guide spirituali, impregnate di un’ideologia nazionalista, d’interesse privato, opportunismo e potere. Altri due (Giacomo figlio di Alfeo e Giuda Taddeo) forse semplici discepoli di non grande rilievo o capacità d’iniziativa.

 

Ma il Regno è «vicino» [v.7: «si è fatto vicino»]: Dio è nella nostra storia - già lo si sperimentava negli albori, nella sua prima comunità di figli.

Nella devozione antica, l’idea di un Dio distante produceva separazioni, gerarchie piramidali, coltivazione d’interessi interni di cerchia (spacciati per grande sensibilità e altruismo).

L’idea di un Eterno condottiero e vendicatore lasciava prolificare una classe sacerdotale che invece di conciliare e integrare, trascurava e abbandonava le persone ininfluenti.

Il fatto di credere a una Presenza divina legata all’abbondanza materiale ottundeva le menti e la capacità di lettura della Redenzione.

[L’idea di vantaggio e svantaggio, floridezza e penuria, hanno sempre origine in noi oppure nella mentalità convenzionale, delle opinioni].

Pertanto, è fondamentale prima maturare, ovunque viviamo.

Infatti non di rado ci sono motivi poco nobili per voler giungere ovunque, correre dappertutto (per fare proseliti), diffondere, incrementare e farlo subito.

L’uomo o il club dalle molte brame le proietta; e di frequente procura in sé o altrove i suoi stessi influssi torbidi.

Infedeltà celata, che non proponendo semplicità di vita e valori dello spirito, allontanano, edificando altri templi e santuari.

 

La carica di universalità genuina è contenuta nel radicamento ai valori, così come nella conoscenza delle proprie lacune.

Princìpi virtuosi e lati nascosti sono aspetti energetici complementari, e daranno frutto a suo tempo; a tutto tondo.

Dobbiamo prenderne atto profondamente, senza proiezioni fatue, anche nei lati inespressi.

Insomma, sembra un paradosso, ma l’apertura ai pagani è un problema squisitamente interno.

È da se stessi e a partire dalla comunità che si guarda il mondo. Non dal troppo esotico - almeno in prima battuta.

È la Via dell’Intimo che compenetra sul serio la via delle periferie. Infatti, solo amando la forza si preferisce partire dal troppo distante.

Bisogna anzitutto guarire e completare ciò ch’è prossimo.

Del resto, chi non è libero e consapevole non può liberare, né convincere - o trascinare la realtà.

 

Unico modo poi di scrutare lontano è attenersi alla ragione delle cose, principio che si conosce se non fuorviati dalla dispersione della società (anche sacrale) dell’esterno.

Intesa la natura di sé e delle creature, e conformandovisi in modo crescente, nel proprio sviluppo, tutti vengono ispirati a completarsi e trasmutare.

Tutto ciò arricchendo anche un’eventuale sclerosi culturale, senza forzature alienanti.

In tal guisa, esercitando una pratica di bontà prima con se stessi… per guarire i disagi dell’anima altrui - avendoli conosciuti nell’intimo.

Dice infatti il Tao Tê Ching [XLVII]:

«Senza uscir dalla porta, conosci il mondo; senza guardar dalla finestra, scorgi la Via del Cielo. Più lungi te ne vai, meno conosci. Per questo il santo non va dattorno eppur conosce, non vede eppur discerne, non agisce eppur completa».

Solo dalla Fonte dell’essere scaturisce una vita da salvati. (Sarebbe dannoso mettere il carro davanti ai buoi).

Siamo segno di dedizione e persone protese? Senza fare la setta, dopo una buona formazione, inclusiva degli opposti: integrativa dei difetti, dei momenti no, e dell’intelligenza sui propri stati d’animo.

 

Non per distinguere il momento della Chiamata da quello dell’Invio.

La Strada del Cielo è intrecciata alla Via della Persona, non dell’eccellenza; non dei modelli - o saremo «pescatori» da strapazzo.

Il Regno si è fatto vicino e per Nome, sin dai primordi (vv.2-4): non c’è Missione autentica e sanante più incisiva.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua esperienza, quale catena ha unito il Cielo e la terra?

L’elenco e lo sforzo delle trasgressioni da correggere in modo nevrotico, o una Chiamata personale, inclusiva dei tuoi molti volti dell’anima - Vocazione sostenuta da una Chiesa fattasi eco e Fonte gratuita di comprensione a tutto tondo?

A chi saranno inviati gli Apostoli? Nel Vangelo Gesù sembra restringere al solo Israele la sua missione: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 15, 24). In maniera analoga egli sembra circoscrivere la missione affidata ai Dodici: "Questi Dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele"" (Mt 10, 5s.). Una certa critica moderna di ispirazione razionalistica aveva visto in queste espressioni la mancanza di una coscienza universalistica del Nazareno. In realtà, esse vanno comprese alla luce del suo rapporto speciale con Israele, comunità dell'alleanza, nella continuità della storia della salvezza. Secondo l'attesa messianica le promesse divine, immediatamente indirizzate ad Israele, sarebbero giunte a compimento quando Dio stesso, attraverso il suo Eletto, avrebbe raccolto il suo popolo come fa un pastore con il gregge: "Io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda... Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro" (Ez 34, 22-24). Gesù è il pastore escatologico, che raduna le pecore perdute della casa d'Israele e va in cerca di esse, perché le conosce e le ama (cfr Lc 15, 4-7 e Mt 18, 12-14; cfr anche la figura del buon pastore in Gv 10, 11ss.). Attraverso questa "raccolta" il Regno di Dio si annuncia a tutte le genti: "Fra le genti manifesterò la mia gloria e tutte le genti vedranno la giustizia che avrò fatta e la mano che avrò posta su di voi" (Ez 39, 21).

E Gesù segue proprio questo filo profetico. Il primo passo è la "raccolta" del popolo di Israele, perché così tutte le genti chiamate a radunarsi nella comunione col Signore, possano vedere e credere. Così, i Dodici, assunti a partecipare alla stessa missione di Gesù, cooperano col Pastore degli ultimi tempi, andando anzitutto anche loro dalle pecore perdute della casa d'Israele, rivolgendosi cioè al popolo della promessa, il cui raduno è il segno di salvezza per tutti i popoli, l'inizio dell'universalizzazione dell'Alleanza. Lungi dal contraddire l'apertura universalistica dell'azione messianica del Nazareno, l'iniziale restringimento ad Israele della missione sua e dei Dodici ne diventa così il segno profetico più efficace. Dopo la passione e la risurrezione di Cristo tale segno sarà chiarito: il carattere universale della missione degli Apostoli diventerà esplicito. Cristo invierà gli Apostoli "in tutto il mondo" (Mc 16, 15), a "tutte le nazioni" (Mt 28, 19; Lc 24, 47, "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8). E questa missione continua. Continua sempre il mandato del Signore di riunire i popoli nell'unità del suo amore. Questa è la nostra speranza e questo è anche il nostro mandato: contribuire a questa universalità, a questa vera unità nella ricchezza delle culture, in comunione con il nostro vero Signore Gesù Cristo.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 22 marzo 2006]

Lug 1, 2025

Vangelo del Regno

Pubblicato in Angolo dell'ottimista

1. In quest'anno del Grande Giubileo, tema di fondo delle nostre catechesi è la gloria della Trinità, quale ci è stata rivelata nella storia della Salvezza. Abbiamo riflettuto sull’Eucaristia, massima celebrazione di Cristo presente sotto gli umili segni del pane e del vino. Vogliamo ora dedicare alcune catechesi all’impegno che ci viene chiesto, perché la gloria della Trinità rifulga pienamente nel mondo.

E la nostra riflessione parte dal vangelo di Marco dove leggiamo: “Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,14-15). Sono queste le prime parole che Gesù pronunzia davanti alla folla: esse contengono il cuore del suo Vangelo di speranza e di salvezza, l’annuncio del Regno di Dio. Da quel momento in poi, come notano gli evangelisti, ‘Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo’ (Mt 4,23; cfr Lc 8,1). Sulla sua scia si pongono gli Apostoli e con loro Paolo, l’Apostolo delle genti, chiamato ad ‘annunziare il Regno di Dio’ in mezzo alle nazioni fino alla capitale dell’impero romano (cfr At 20, 25; 28, 23.31).

2. Con il Vangelo del Regno, Cristo si collega alle Scritture Sacre che, attraverso l’immagine regale, celebrano la signoria di Dio sul cosmo e sulla storia. Così leggiamo nel Salterio: ‘Dite tra i popoli: Il Signore regna! Sorregge il mondo, perché non vacilli; governa le nazioni’ (Sal 96,10). Il Regno è, quindi, l’azione efficace ma misteriosa che Dio svolge nell’universo e nel groviglio delle vicende umane. Egli vince le resistenze del male con pazienza, non con prepotenza e clamore.

Per questo il Regno è paragonato da Gesù al granello di senape, il più piccolo di tutti i semi, destinato però a diventare un albero frondoso (cfr Mt 13,31-32), o al seme che un uomo ha deposto nella terra: ‘dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa’ (Mc 4,27). Il Regno è grazia, amore di Dio per il mondo, sorgente per noi di serenità e di fiducia: ‘Non temere, piccolo gregge - dice Gesù - perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno’ (Lc 12,32). Le paure, gli affanni, gli incubi si dissolvono, perché il Regno di Dio è in mezzo a noi nella persona di Cristo (cfr Lc 17,21).

3. Tuttavia l’uomo non è un inerte testimone dell’ingresso di Dio nella storia. Gesù ci invita a ‘cercare’ attivamente ‘il Regno di Dio e la sua giustizia’ e a fare di questa ricerca la nostra preoccupazione principale (Mt 6,33). A quelli che ‘credevano che il Regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro’ (Lc 10,11), egli prescrisse un atteggiamento attivo invece di una attesa passiva, raccontando loro la parabola delle dieci mine da far fruttare (cfr Lc 19,12-27). Dal canto suo, l’apostolo Paolo dichiara che ‘il Regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è - anzitutto – giustizia’ (Rm 14,17) ed invita pressantemente i fedeli a mettere le loro membra a servizio della giustizia in vista della santificazione (cfr Rm 6,13.19).

La persona umana è quindi chiamata a cooperare con le sue mani, la sua mente ed il suo cuore all’avvento del Regno di Dio nel mondo. Questo è vero specialmente di coloro che sono chiamati all’apostolato, e che sono, come dice Paolo, ‘cooperatori del Regno di Dio’ (Col 4,11), ma è anche vero di ogni persona umana.

4. Nel Regno entrano le persone che hanno scelto la via delle Beatitudini evangeliche, vivendo come ‘poveri di spirito’ nel distacco dai beni materiali, per sollevare gli ultimi della terra dalla polvere della loro umiliazione. ‘Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo - si domanda Giacomo nella sua Lettera - per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha promesso a quelli che lo amano?’ (Gc 2,5). Nel Regno entrano coloro che sopportano con amore le sofferenze della vita: ‘È, infatti, necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio’ (At 14,22; cfr 2 Ts 1,4-5), dove Dio stesso ‘tergerà ogni lacrima (‘) e non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno’ (Ap 21,4). Nel Regno entrano i puri di cuore che scelgono la via della giustizia, cioè dell’adesione alla volontà di Dio, come ammonisce san Paolo: ‘Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il Regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio’ (1 Cor 6,9-10; cfr 15,50; Ef 5,5).

5. Tutti i giusti della terra, anche quelli che ignorano Cristo e la sua Chiesa e che, sotto l'influsso della grazia, cercano Dio con cuore sincero (cfr Lumen gentium, 16), sono, dunque, chiamati a edificare il Regno di Dio, collaborando col Signore che ne è l’artefice primo e decisivo. Per questo dobbiamo affidarci alle sue mani, alla sua Parola, alla sua guida, come bambini inesperti che trovano solo nel Padre la sicurezza: ‘Chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino - ha detto Gesù - non vi entrerà’ (Lc 18,17).

Con questo animo dobbiamo far nostra l’invocazione: ‘Venga il tuo Regno!’. Un’invocazione che nella storia dell’umanità è salita tante volte al cielo come un grande respiro di speranza: ‘Vegna vêr noi la pace del tuo regno’, esclama Dante nella sua parafrasi del Padre Nostro (Purgatorio XI,7). Un’invocazione che orienta lo sguardo al ritorno di Cristo e alimenta il desiderio della venuta finale del Regno di Dio. Questo desiderio però non distoglie la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi la impegna maggiormente (cfr CCC, 2818), nell’attesa di poter varcare la soglia del Regno, del quale la Chiesa è il germe e l'inizio (cfr Lumen gentium, 5), quando esso giungerà nel mondo in pienezza. Allora, ci assicura Pietro nella Seconda Lettera, "vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel Regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo" (2 Pt 1,11).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 dicembre 2000]

Lug 1, 2025

Modo di porsi

Pubblicato in Angolo dell'apripista

«Gesù cominciò a predicare» (Mt 4,17). Così l’evangelista Matteo ha introdotto il ministero di Gesù. Egli, che è la Parola di Dio, è venuto per parlarci, con le sue parole e con la sua vita. In questa prima Domenica della Parola di Dio andiamo alle origini della sua predicazione, alle sorgenti della Parola di vita. Ci aiuta il Vangelo odierno (Mt 4,12-23), che ci dice come, dove e a chi Gesù incominciò a predicare.

1. Come iniziò? Con una frase molto semplice: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (v. 17). Questa è la base di tutti i suoi discorsi: dirci che il regno dei cieli è vicino. Che cosa significa? Per regno dei cieli si intende il regno di Dio, ovvero il suo modo di regnare, di porsi nei nostri confronti. Ora, Gesù ci dice che il regno dei cieli è vicino, che Dio è vicino. Ecco la novità, il primo messaggio: Dio non è lontano, Colui che abita i cieli è sceso in terra, si è fatto uomo. Ha tolto le barriere, ha azzerato le distanze. Non ce lo siamo meritato noi: Egli è disceso, ci è venuto incontro. E questa vicinanza di Dio al suo popolo è un’abitudine sua, dall’inizio, anche dall’Antico Testamento. Diceva Lui al popolo: “Pensa: quale popolo ha i suoi dei così vicini, come io sono vicino a te?” (cfr Dt 4,7). E questa vicinanza si è fatta carne in Gesù.

È un messaggio di gioia: Dio è venuto a visitarci di persona, facendosi uomo. Non ha preso la nostra condizione umana per senso di responsabilità, no, ma per amore. Per amore ha preso la nostra umanità, perché si prende quello che si ama. E Dio ha preso la nostra umanità perché ci ama e gratuitamente ci vuole dare quella salvezza che da soli non possiamo darci. Egli desidera stare con noi, donarci la bellezza di vivere, la pace del cuore, la gioia di essere perdonati e di sentirci amati.

[Papa Francesco, omelia 26 gennaio 2020]

XIV Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [6 luglio 2025]

Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga! Anche se entriamo nel tempo delle vacanze continuerò a farvi avere i commenti ai testi biblici di ogni domenica

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66, 10-14)

Quando un profeta parla tanto di consolazione, significa che le cose vanno molto male per cui avverte il bisogno di consolare e tener viva la speranza: questo testo è dunque stato scritto in un momento difficile. L’autore, il Terzo Isaia, è uno dei lontani discepoli del grande Isaia e sta predicando agli esuli tornati dall’esilio babilonese verso il 535 a.C. Il loro ritorno, tanto sognato, si è rivelato deludente sotto ogni aspetto perché dopo 50 anni tutto era cambiato. Gerusalemme portava le cicatrici della catastrofe del 587 quando fu distrutta da Nabucodonosor; il Tempio era in rovina come buona parte della città e gli esuli non avevano ricevuto l’accoglienza trionfale come speravano.  Il profeta parla di lutto e di consolazione, ma a fronte dello scoraggiamento dominante, non si accontenta di parole di conforto, ma osa persino un discorso quasi trionfale: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto” (v10). Da dove trarre quest’ottimismo? La risposta è semplice: dalla fede, o meglio dall’esperienza d’Israele che continua a sperare in ogni epoca perché ha certezza che Dio è sempre presente e, anche quando tutto sembra perduto, sa che nulla è impossibile a Dio. Già nei tempi di forte scoraggiamento durante l’Esodo si proclamava: “il braccio del Signore si è forse raccorciato?  (Nm 11,23), immagine  che ricorre più volte  nel libro di Isaia. Durante l’esilio, quando vacillava la speranza, il Secondo Isaia comunicava a nome di Dio: “È forse troppo corta la mia mano per liberare?» (Is 50,2) e dopo il ritorno, in un periodo di forte preoccupazione, il Terzo Isaia, che leggiamo oggi, riprende due volte la stessa immagine sia nel capitolo 59,1 sia nell’ultimo versetto dell’odierna lettura: “La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi” (v.14). Dio che ha liberato il suo popolo tante volte in passato, mai l’abbandonerà. Anche da solo il termine “mano” è un’allusione all’uscita dall’Egitto, quando Dio intervenne con mano potente e braccio teso. Il versetto 11 dell’odierno testo: “Sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni” richiama la terribile prova di fede che il popolo visse nel deserto quando ebbe fame e sete, e anche allora Dio gli assicurò ciò che era necessario.  Questo richiamo al libro dell’Esodo offre due lezioni: da una parte, Dio ci vuole liberi e sostiene tutti i nostri sforzi per instaurare la giustizia e la libertà; ma d’altra parte è importante e necessaria la nostra collaborazione. Il popolo è uscito dall’Egitto grazie all’intervento di Dio e questo Israele non lo dimentica mai, ma ha dovuto camminare verso la terra promessa a volte con grande fatica. Quando poi al versetto 13 Isaia promette da parte di Dio: “Io farò scorrere verso di essa come un fiume la pace” non significa che la pace si instaurerà magicamente. Il Signore è sempre fedele alle sue promesse: occorre continuare a credere che egli resta ed opera al nostro fianco in ogni situazione. Al tempo stesso è indispensabile che noi agiamo perché la pace, la giustizia, la felicità hanno bisogno del nostro apporto convinto e generoso. 

 

*Salmo responsoriale (65/66, 1-3a, 4-5, 6-7a, 16.20)

 Come spesso accade, l’ultimo versetto dà il senso di tutto il salmo: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Il vocabolario impiegato mostra che questo salmo è un canto di ringraziamento: “Acclamate, cantate, dategli gloria… a te si prostri tutta la terra… narrerò quanto per me ha fatto” composto probabilmente per accompagnare i sacrifici nel Tempio di Gerusalemme e a parlare non è un individuo, bensì l’intero popolo che rende grazie a Dio. Israele ringrazia come sempre per la liberazione dall’Egitto con cenni molto chiari: “Egli cambiò il mare in terraferma… passarono a piedi il fiume”; oppure: “Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini”. Anche l’espressione “le opere di Dio” nella Bibbia, indica sempre la liberazione dall’Egitto. Colpisce, del resto, la somiglianza tra questo salmo e il cantico di Mosè dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15), evento che illumina l’intera storia di Israele: l’opera di Dio per il suo popolo non ha altro scopo che liberarlo da ogni forma di schiavitù. Questo è il senso del capitolo 66 di  Isaia che leggiamo questa domenica nella prima lettura: in un’epoca molto buia della storia di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, il messaggio è chiaro: Dio vi consolerà. Non si sa se questo salmo sia stato composto nella stessa epoca, in ogni caso il contesto è lo stesso perché è scritto per essere cantato nel Tempio di Gerusalemme e i fedeli che vi affluiscono per il pellegrinaggio prefigurano l’umanità intera che salirà a Gerusalemme alla fine dei tempi. E se il testo di Isaia annuncia la nuova Gerusalemme dove affluiranno tutte le nazioni, il salmo risponde: “Acclamate Dio, voi tutti tutta della terra… a te si prostri tutta la terra…a te canti inni al tuo nome”. La gioia promessa è il tema centrale di questi due testi: quando i tempi sono duri, occorre ricordarsi che Dio non vuole altro che la nostra felicità e un giorno la sua gioia riempirà tutta la terra, come scrive Isaia a cui il salmo risponde in eco: “Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio e narrerò quanto per me ha fatto” (vv16.20). I testi del profeta Isaia e del salmista sono immersi nella stessa atmosfera, ma non si trovano sullo stesso registro: il profeta esprime la rivelazione di Dio, mentre il salmo è la preghiera dell’uomo. Quando Dio parla si preoccupa della gloria e della felicità di Gerusalemme. Quando il popolo, attraverso la voce del salmista, parla rende a Dio la gloria che a lui solo spetta: “Acclamate Dio, voi tutti della terra, cantate la gloria del suo nome, dategli gloria con la lode” (vv1-3). Infine il salmo diventa voce di tutto Israele: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Un modo meraviglioso per dire che sarà l’amore ad avere l’ultima parola

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Galati (6, 14-18)

“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce “. Il fatto che Paolo insiste sulla croce come unico vanto, lascia intuire che c’è un problema. In effetti la lettera ai Galati inizia con un forte rimprovero perché molto in fretta i credenti erano passati da Cristo a un altro vangelo e alcuni seminavano confusione volendo capovolgere il vangelo di Cristo. A seminare zizzania erano ebrei convertiti al cristianesimo (giudeo-cristiani) che volevano obbligare tutti a praticare tutte le prescrizioni della religione ebraica, compresa la circoncisione. Paolo allora li mette in guardia perché teme che dietro la discussione sul sì o no alla circoncisione  si nasconda una vera eresia dato che ci salva solo la fede in Cristo concretizzata dal Battesimo e  imporre la circoncisione equivarrebbe a negarlo, ritenendo la croce di Cristo non  sufficiente. Per questo ricorda ai Galati che il loro unico vanto è la croce di Cristo. Ma, per comprendere Paolo, bisogna precisare che per lui la croce è un evento e non si concentra solo sulle sofferenze di Gesù: per lui è l’evento centrale della storia del mondo. La croce –cioè  Cristo crocifisso e risorto - ha riconciliato Dio e l’umanità, e ha riconciliato gli uomini tra loro. Scrivendo che per mezzo della croce di Cristo, “il mondo per me è stato crocifisso” intende dire che a a partire dall’evento della croce il mondo è definitivamente trasformato e nulla sarà più come prima, come scrive anche nella lettera ai Colossesi (Col 1, 19-20). La prova che la croce è l’evento decisivo della storia è che la morte è stata vinta: Cristo è risorto. Per Paolo, croce e risurrezione sono inseparabili trattandosi di un solo medesimo evento. Dalla croce è nata la creazione nuova, contrapposta al mondo antico.  In tutta questa lettera, Paolo ha contrapposto il regime della Legge mosaica con il regime della fede; la vita secondo la carne e la vita secondo lo Spirito; l’antica schiavitù e la libertà che riceviamo da Gesù Cristo. Aderendo per fede a Cristo, diventiamo liberi di vivere secondo lo Spirito. Il mondo antico è in guerra e l’umanità non crede che Dio sia amore misericordioso e di conseguenza, disobbedendo ai suoi comandamenti, crea rivalità e guerre per il potere e per il denaro. La creazione nuova, al contrario, è l’obbedienza del Figlio, la sua fiducia totale, il perdono ai suoi carnefici, la sua guancia tesa a chi gli strappa la barba, come scrive Isaia. La Passione di Cristo è stata un culmine di odio e di ingiustizia perpetrati in nome di Dio; Cristo però ne ha fatto un culmine di non-violenza, di dolcezza, di perdono. E noi, a nostra volta, innestati nel Figlio, siamo resi capaci della stessa obbedienza e dello stesso amore. Questa conversione straordinaria, che è opera dello Spirito di Dio, ispira a Paolo una formula particolarmente incisiva: Per mezzo della croce, il mondo è crocifisso per me e io per il mondo che vuol dire: Il modo di vivere secondo il mondo è abolito, ormai viviamo secondo lo Spirito e questo diventa  motivo di vanto per i cristiani. Proclamare la croce di Cristo non è facile e quando dice: “io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo” allude alle persecuzioni che egli stesso ha subito per aver annunciato il vangelo. Un’annotazione finale: questo è l’unico scritto paolino che termina con la parola “fratelli”. Dopo aver dibattuto polemicamente con i Galati alla fine Paolo ritrova nella sua comunità la fraternità che lega evangelizzatori a evangelizzati e l’unica sorgente dell’amore ritrovato è “nella grazia del Signore nostro Gesù Cristo” (v.18). 

 

*Dal vangelo secondo Luca (10, 1- 20)

 Questa pagina del vangelo presenta Gesù mentre si dirige verso Gerusalemme. Dopo aver superato tutte le tentazioni e aver vinto il principe di questo mondo, gli resta da trasmettere il testimone ai suoi discepoli che a loro volta dovranno consegnarlo ai loro successori. La missione è troppo importante e preziosa e va condivisa. In primo luogo c’è l’invito a pregare “il signore della messe perché mandi operai nella sua messe” (v.2).  Dio conosce tutto ma c’invita a pregare perché ci lasciamo illuminare da Lui. La preghiera non mira mai a informare Dio: sarebbe ben presuntuoso da parte nostra, ma ci prepara a lasciarci trasformare da lui. Invia così il folto gruppo dei discepoli in missione fornendo loro tutti i consigli necessari per affrontare prove e ostacoli a lui ben noti. Quando saranno rifiutati, come Gesù ha sperimentato in Samaria, non dovranno scoraggiarsi ma partendo annunceranno a tutti: “E’ vicino a voi il Regno di Dio” (v.9).  E aggiungeranno: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi” (v.11).  Ecco inoltre alcune specifiche consegne per i discepoli. “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (v.3) e questo indica che occorre restare sempre miti come agnelli essendo la missione del discepolo recare la pace: “in qualsiasi casa entriate, dite prima: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui” (vv.5-6). Bisogna cioè credere a tutti i costi nel potere contagioso della pace perché quando auguriamo sinceramente la pace, realmente la pace cresce. E se qualcuno non vi accetta non lasciatevi appesantire dagli insuccessi e dai rifiuti. Ogni discepolo avrà vita difficile perché, se Gesù stesso non aveva dove posare il capo, questo toccherà pure ai suoi discepoli. E per questo dovranno imparare a vivere giorno per giorno senza preoccuparsi del domani, accontentandosi di mangiare e bere quello che sarà servito, come nel deserto il popolo di Dio poteva raccogliere la manna solo per il giorno stesso. Per evangelizzare porteranno con sé solo l’essenziale: “senza borsa, né sacca, né sandali” (v.4) e non passate di casa in casa.” (v.7). Ci saranno spesso scelte dolorose da compiere a causa dell’urgenza della missione e sarà importante resistere alla tentazione della vanità del successo:  ”Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (v.20). Da sempre il desiderio di notorietà insidia i discepoli, ma i veri apostoli non sono necessariamente i più famosi. Si può pensare che i settantadue discepoli abbiano superato bene la prova  perché al ritorno, Gesù potrà dire: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore” (v.18).  Intraprendendo la sua ultima marcia verso Gerusalemme, Gesù sente per questo un grande conforto; tanto che subito dopo Luca ci dice: “In quello stesso istante, esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”

+Giovanni D’Ercole

Festa dei Santi Pietro e Paolo apostoli [29 giugno 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Un ricordo particolare in questa domenica per Papa Leone XIV e per il suo ministero non facile in questo tempo di gravi crisi umane e spirituali nel mondo

 

*Prima lettura dagli Atti degli Apostoli (12, 1–11)

Gesù fu probabilmente giustiziato nell’aprile del 30. All’inizio, i suoi discepoli erano pochissimi e non davano fastidio, ma la situazione si complica quando iniziano a operare guarigioni e miracoli. Pietro fu imprigionato due volte dalle autorità religiose: la prima con Giovanni e si concluse con una comparizione davanti al tribunale e con minacce; la seconda con altri apostoli che Luca non nomina, liberati in modo miracoloso da un angelo (At 5, 17-20). In seguito le autorità religiose fanno uccidere Stefano e scatenano una vera persecuzione che spinge i più minacciati tra i cristiani chiamati “ellenisti” a lasciare Gerusalemme per la Samaria e la costa mediterranea. Giacomo, Pietro e Giovanni e l’insieme dei Dodici rimasero a Gerusalemme. Nell’episodio odierno il potere politico fa imprigionare Pietro sotto Erode Agrippa che regnò dal 41 al 44 d.C. Nipote di Erode il Grande, che regnava al momento della nascita di Gesù, Erode Agrippa era attento a non scontentare né il potere romano, né gli ebrei, tanto che si diceva che era romano a Cesarea e giudeo a Gerusalemme. Cercando però di piacere agli uni o agli altri, non poteva che essere nemico dei cristiani ed è in tale contesto che per farsi benvolere dagli ebrei, fece giustiziare Giacomo (figlio di Zebedeo) e imprigionò Pietro. Pietro scampa ancora miracolosamente, ma ciò che interessa a Luca, molto più del destino personale di Pietro, è la missione di evangelizzazione: se gli angeli vengono a liberare gli apostoli è perché il mondo ha bisogno di loro e Dio non permetterà che un potere ostacoli l’annuncio del vangelo. Una nota storica: Gli ebrei, ridotti in schiavitù e minacciati da un vero e proprio genocidio, vennero più volte liberati miracolosamente e nel corso dei secoli hanno annunciato al mondo che questa liberazione è sempre opera di Dio. Purtroppo, in un misterioso rovesciamento, può capitare che coloro che sono incaricati di annunciare e compiere essi stessi l’opera liberatrice di Dio, finiscano per farsi complici di una nuova forma di dominio, come avvenne per Gesù, vittima della perversione del potere religioso del suo tempo.  Luca, nel racconto della sua morte e resurrezione, mise bene in luce questo paradosso: fu nel contesto della Pasqua ebraica, memoriale del Dio liberatore, che il Figlio di Dio venne soppresso dai difensori di Dio. Tuttavia l’amore e il perdono del Dio “mite e umile di cuore” ebbero l’ultima parola: Gesù è risorto. Ed ecco che, a sua volta, la giovane Chiesa si trova ad affrontare la persecuzione dei poteri religiosi e politici, proprio come Gesù e anche questa volta, avviene nel contesto della Pasqua ebraica, a Gerusalemme. Pietro fu arrestato durante la settimana di Pasqua che inizia con il pasto pasquale e continua con la settimana degli Azzimi. Le parole che l’angelo dice a Pietro somigliano agli ordini dati al popolo la notte dell’uscita dall’Egitto (Es 12, 11): “Alzati in fretta! Mettiti la cintura, e legati i sandali” . Luca fa capire che Dio prosegue la sua opera di liberazione e l’intero racconto di questo miracolo è scritto sul modello e con il vocabolario della passione e resurrezione di Cristo. Simili gli scenari: è notte, c’è la prigione, ci sono i soldati, Pietro dorme a differenza di Gesù, ma per entrambi si leva nella notte la luce di Dio che agisce. Nell’oscurità della prova non viene meno la promessa di Cristo a Pietro perché le forze della morte e del male non prevarranno. La Chiesa nel travaglio della storia ripete spesso con Pietro la sua professione di fede: “Ora so veramente che il Signore ha mandato un angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode” (v.11)

 

*Salmo responsoriale (33/34, 2-9)

“L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li libera”. Cantiamo questo salmo dopo aver ascoltato il racconto della liberazione di Pietro e sappiamo che tutta la giovane Chiesa era in preghiera per lui. “Questo povero grida; il Signore lo ascolta”: la fede è gridare a Dio e sapere che ci ascolta, come ascoltò il grido della comunità, e Pietro fu liberato. Gesù però sulla croce non è sfuggito alla morte e anche Pietro di nuovo prigioniero a Roma sarà ucciso. Si dice spesso che con la preghiera tutto si risolverà e invece non è così perché anche chi prega e fa novene e pellegrinaggi non sempre ottiene la grazia domandata. Dunque Dio a volte non ascolta oppure, quando non veniamo esauditi come vorremmo è perché abbiamo pregato male o non abbastanza? La risposta sta in tre punti: 1. Sì,Dio ascolta sempre il nostro grido; 2. risponde donandoci il suo Spirito; 3. suscita accanto a noi dei fratelli. 1.Dio sempre ascolta il nostro grido. Nell’episodio del roveto ardente (Es 3) leggiamo: “Dio disse a Mosè: Sì, davvero, ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, e ho udito il suo grido sotto i colpi dei suoi sorveglianti. Sì, conosco le sue sofferenze”. Il vero credente sa che il Signore ci è vicino nella sofferenza perché è “dalla nostra parte”, come leggiamo  qui nel salmo 33/34: Ho cercato il Signore: mi ha risposto…mi ha liberato…ascolta…salva… il suo angelo si accampa attorno e libera quelli che lo temono, è un rifugio. 2. Dio ci risponde donandoci il suo Spirito come si capisce quando si ascolta ciò che Gesù dice nel vangelo di Luca: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Chiunque infatti chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi bussa, sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà invece un serpente? O se chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono. » (Lc 11, 9-13). Dio non fa sparire ogni preoccupazione per magia, ma ci riempie del suo Spirito e la preghiera ci apre all’azione dello Spirito  che suscita in noi la forza per modificare la situazione e superare la prova. Non siamo più soli: leggiamo nel salmo responsoriale che “Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce… Ho cercato il Signore, mi ha risposto e da ogni paura mi ha liberato” (vv. 6-7). Credere che il Signore ci ascolta fa spegnere la paura e svanire l’angoscia. 3.Dio suscita accanto a noi dei fratelli. Quando nell’episodio del roveto ardente Dio dice che ha visto la miseria del popolo in Egitto e udito il suo grido, suscita in Mosè l’impulso a liberare il popolo: “E ora, poiché il grido degli Israeliti è giunto fino a me… va’ dunque; io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo” (Es 3, 9-10). Quante volte nell’esperienza dalla sofferenza, Dio ha suscitato i profeti e i capi di cui il popolo aveva bisogno per prendere in mano il proprio destino. Infondo il salmo responsoriale esprime l’esperienza storica di Israele dove la fede appare come un duplice grido: l’uomo grida la sua angoscia come Giobbe e sempre Dio ascolta e lo libera. L’uomo poi prega rendendo grazie come Israele che, pur fra mille vicissitudini, mai ha perso la speranza cantando: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino!”(vv. 2-3)

 

*Seconda lettura dalla seconda Lettera di san Paolo a Timoteo (4, 6 -8.17-18)

Si pensa che le due lettere a Timoteo furono forse scritte qualche anno dopo da un discepolo di Paolo, invece tutti concordano nel riconoscere che è suo il testo che oggi leggiamo; anzi rappresenta il suo testamento e l’ultimo saluto a Timoteo. Prigioniero a Roma, Paolo è consapevole che sarà giustiziato ed è arrivato il momento della grande partenza, certo di dover comparire davanti a Dio. Guarda quindi retrospettivamente al passato da quando sulla via di Damasco Cristo l’ha impugnato come una spada e traccia un bilancio utilizzando in flashback quattro immagini che ben disegnano l’itinerario della sua missione. 1. La prima immagine è legata al culto: “Io sto già per essere versato in offerta” (v.6), allude a un’antica usanza cultuale chiamata libazione che consisteva nel versare un liquido (vino, olio, acqua latte o miele) come offerta sacra, simbolo del dono totale della vita alla divinità. Paolo usa quest’immagine per dire che la sua esistenza è un totale sacrificio a Cristo. 2. La seconda immagine é legata alla navigazione: “è giunto il momento che io lasci questa vita” (v.6). Paolo sa che il suo viaggio è quasi giunto al porto dopo tempeste e problemi d’ogni genere. Ha scelto la parola greca “analusis” (scioglimento, liberazione) usata in ambito nautico e militare sia per indicare lo scioglimento delle corde che tengono la nave ancorata per salpare verso mare aperto; sia in ambito militare per indicare lo smontaggio delle tende di un accampamento quando i soldati partono per una nuova missione. Paolo vuol dire che la sua vita sta per essere liberata dai legami terreni per salpare verso la patria, la casa del Padre. 3. La terza immagine è legata alla lotta, non violenta ma interiore e spirituale, per evangelizzare: “Ho combattuto la buona battaglia” (v.7). La sua vita è segnata da combattimenti, persecuzioni, aspri confronti e tradimenti, eppure, come scrive più avanti, è sempre stata liberato “dalla bocca del leone” (v.17).  4.La quarta immagine è connessa allo sport: “Ho terminato la corsa” (v.7). La corsa praticata negli stadi nell’antichità è simbolo del cristiano che mai abbandona il percorso missionario e al termine, se conserva la fede, riceve la “corona” che il Signore riserva ai veri discepoli di Cristo. Questa corsa non è competizione fra atleti perché ognuno al suo ritmo avanza verso Cristo e “la sua manifestazione”. Ed allora, come Gesù e Stefano, al momento dell’esecuzione, Paolo perdona coloro che lo hanno abbandonato certo della forza del Signore liberatrice da ogni male. E il pericolo vero da cui Dio lo ha preservato è quello di rinunciare alla sua missione fino alla morte. Non è però questo un motivo di vanto perché sa che Dio l’ha salvato e per questo  intona il canto di gloria mentre nasce alla vera vita: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”

 

*Dal Vangelo secondo Matteo (16, 13 –19)

Questo episodio segna una svolta nella vita di Gesù e di Pietro perché appena Simone proclama chi è Gesù, riceve da lui la missione per la Chiesa. Cristo costruisce la sua Chiesa su un uomo la cui unica virtù è quella di aver proclamato ciò che il Padre gli ha rivelato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”(v16) . Questo significa che l’unico vero pilastro della Chiesa è sua la fede in Cristo, il quale subito risponde: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (v.18). Questo celebre testo “petrino” è costruito su tre simboli: Il primo è la “pietra” che si lega al nome aramaico Kefa: “Tu sei Pietro”. In greco: “Σ ε Πέτρος (Petros)” significa “tu sei Pietra” o “Roccia”. Gesù cambia il nome di Simone in Pietro, dandogli una missione e un’identità nuova. In ambito semitico cambiare il nome indica cambiamento del destino e della realtà della persona. Simone diventa così la roccia sulla quale Cristo pone la base della Chiesa che resta sua e di cui è per sempre la “pietra angolare” insostituibile. Nell’antichità, la pietra era simbolo di stabilità e sicurezza per cui edificare sulla pietra significa costruire su un fondamento saldo e inamovibile e su Pietro il Signore inizia a dare una forma visibile alla sua comunità. Promette che la sua Chiesa, fondata su questa pietra-  la fede e la sua missione di Pietro(v. 6),- resisterà alle forze del male e Pietro diventa così il primo pastore visibile della comunità, anche se il vero fondamento ed eterno Pastore è Cristo (cfr. 1 Cor 3,11). Secondo simbolo, le chiavi: “A te darò le chiavi del regno dei cieli”. Le chiavi, segno di autorità e responsabilità su una casa, rendono un’immagine efficace della potestà che Cristo trasmette a Pietro. Affidare le chiavi equivale a conferire il potere di aprire e chiudere, di permettere o vietare l’accesso. Pietro non è il fondatore e il sovrano di un regno, ma il responsabile immediato che esercita il potere in modo delegato guidando la comunità dei credenti, insegnando e prendendo decisioni vincolanti in materia di fede e di morale. Il terzo simbolo s’esprime nel binomio legare e sciogliere: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto in cielo” (v19). Le espressioni “legare” e “sciogliere” erano comuni nel linguaggio rabbinico e indicavano il potere di dichiarare qualcosa lecito o illecito, di permettere o proibire determinate azioni. Applicate a Pietro, sottolineano la sua autorità nel prendere decisioni dottrinali e disciplinari in piena fedeltà alla parola di Dio (Gv 20,23), autorità che condivide nella Chiesa con gli altri apostoli (Mt. 18,18), anche se Pietro conserva un ruolo di unico e preminente rilievo. Infine Gesù dice: “Io edificherò la mia Chiesa”: è dunque lui che costruisce e guida la Chiesa che resta per sempre sua, per cui possiamo camminare sicuri perché “le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.” (v.18)

+ Giovanni D’Ercole

Santissimo Corpo e sangue di Cristo [22 Giugno 2025]

Dio ci benedica e la Vergine di protegga! In un tempo in cui sembra che l’Eucaristia non sia sempre il centro della vita dei cristiani, questo giorno ci invita a riflettere e a rimettere nel cuore della nostra vita sacerdotale la quotidiana degna celebrazione dell’Eucaristia e l’adorazione che la prepara e ne continua la contemplazione lungo tutta la giornata.   

 

*Prima Lettura dal Libro della Genesi (14,18-20)

Melchisedek è nominato solo due volte nell’Antico Testamento: qui nel libro della Genesi e nel salmo 109/110 che leggiamo anche questa domenica. Questo personaggio ricoprirà un ruolo importante per coloro che attendevano il Messia, e ancor più tra i cristiani così da essere citato anche in una preghiera eucaristica. Abramo incontra Melchisedek mentre torna da una spedizione vittoriosa. La Bibbia raramente racconta i festeggiamenti dopo una vittoria militare, invece qui si celebra e, molto tempo dopo, viene data a questa storia un grande interesse. Questi i fatti: scoppia una guerra tra due piccole coalizioni, cinque contro quattro e il re di Sodoma fa parte dei combattenti, ma né Melchisedek né Abramo sono direttamente coinvolti all’inizio. Il re di Sodoma viene sconfitto e tra i suoi sudditi viene fatto prigioniero Lot, nipote di Abramo, il quale, informato, corre a liberarlo insieme al re di Sodoma e i suoi sudditi. Il re di Sodoma diventa così alleato di Abramo. A questo punto interviene Melchisedek (il cui nome significa “re di giustizia”) forse per un pasto di alleanza, ma l’autore biblico non lo precisa, e anzi, a partire da questo momento, concentra il racconto sulla figura di Melchisedek e sul suo rapporto con Abramo. Di Melchisedek abbiamo informazioni molto inusuali nella Bibbia: non ha genealogia, è contemporaneamente re e sacerdote mentre per molti secoli in Israele questo non doveva accadere; è re di Salem, probabilmente la città che più tardi sarà Gerusalemme quando Davide la conquista per farne la sua capitale; l’offerta che porta è composta di pane e vino e non di animali, come sarà invece il sacrificio che offrirà Abramo, raccontato in Gn. 15.  Melchisedek benedice il Dio Altissimo e Abramo che gli versa la decima (un decimo del bottino di guerra) e con tale gesto riconosce il suo sacerdozio. Sono tutte precisazioni che hanno un chiaro valore per l’autore sacro, che si concentra sulle relazioni tra il potere regale e il sacerdozio: per esempio, è la prima volta che compare la parola “sacerdote” nella Bibbia e Melchisedek ne ha tutte le caratteristiche: offre un sacrificio, pronuncia la benedizione in nome del “Dio Altissimo che crea cielo e terra” e riceve da Abramo la decima dei suoi beni. Silenzio assoluto circa le origini di Melchisedek: la Bibbia attribuisce grande importanza alla genealogia dei sacerdoti, ma di Melchisedek, il primo della lista, non sappiamo nulla e sembra fuori dal tempo. Il fatto però che sia riconosciuto come sacerdote significa che esisteva un sacerdozio prima dell’istituzione legale del sacerdozio nella legge ebraica legato alla tribù di Levi, figlio di Giacobbe e pronipote di Abramo. Esistevano cioè sacerdoti non discendenti da Levi e perciò “secondo l’ordine di Melchisedek”, alla maniera di Melchisedek. Nessun esegeta sa dire con certezza da chi, quando e con quale scopo questo testo sia stato scritto, che potrebbe risalire all’epoca in cui la dinastia di Davide sembrava ormai spenta e si cominciava a intravedere un Messia diverso: non più un re discendente di Davide, ma un sacerdote, capace di portare ai discendenti di Abramo la benedizione del Dio Altissimo. Melchisedek, “re di giustizia e re di pace” è considerato un antenato del Messia come vediamo meglio nel salmo 109/110. Abramo non era ancora circonciso quando fu benedetto da Melchisedek e nelle controversie delle prime comunità  formate da ebrei circoncisi e pagani, i cristiani dedurranno che non è necessario essere circoncisi per essere benedetti da Dio. Infine nell’offerta di pane e vino, che suggella un pasto di alleanza, noi cristiani riconosciamo il gesto di Cristo in continuità col progetto di Dio. Ad ogni Eucaristia, ripetiamo il gesto di Melchisedek accompagnando l’offerta di pane e vino con le parole “Tu sei benedetto, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto il pane (il vino) che ti presentiamo…”

 

*Salmo responsoriale (109 /110,1-4)

Alcune di questi versi del salmo sono rivolti al nuovo re di Gerusalemme nel giorno della sua incoronazione, un rituale che esprimeva in filigrana l’attesa del Messia e si sperava che ogni nuovo re incoronato fosse il Messia. La cerimonia si svolgeva in due momenti, dapprima nel Tempio, poi all’interno del palazzo reale nella sala del trono. Quando il re arrivava nel Tempio scortato dalla guardia reale un profeta gli poneva il diadema sul suo capo, gli consegnava un rotolo detto “i Testimoni” cioè la carta dell’Alleanza conclusa da Dio con la discendenza di Davide contenente formule applicate a ogni re: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”, “Chiedimi e ti darò in eredità le nazioni” e questa carta gli rivelava anche il suo nuovo nome (cfr. Isaia 9,5). Il sacerdote gli conferiva l’unzione e il rito nel Tempio si concludeva con l’acclamazione chiamata “Terouah”, grido di guerra trasformato in ovazione per il nuovo re-condottiero. Si snodava poi la processione verso il Palazzo e lungo il cammino il re si fermava per bere a una sorgente, simbolo della vita nuova e della forza di cui doveva rivestirsi per trionfare sui suoi nemici. Arrivati al Palazzo, nella sala del trono si svolgeva la seconda parte della cerimonia. A questo punto inizia il salmo di oggi: il profeta prende la parola a nome di Dio, usando la formula solenne: ““Oracolo del Signore al mio signore” che va letto come “parola di Dio per il nuovo re”. Nella Bibbia si incontra l’espressione “sedersi sul trono dei re” che significa “regnare”. Il nuovo re è invitato a salire i gradini del trono e a sedersi: “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Sui gradini del trono sono scolpiti o incisi guerrieri nemici incatenati: quindi, salendo i gradini, il re poserà il piede sulla nuca di questi soldati, gesto di vittoria e presagio delle sue vittorie future. Questo è il senso della prima strofa, fare dei suoi nemici lo sgabello dei suoi piedi. L’espressione “alla mia destra” aveva un tempo un significato concreto, topografico: a Gerusalemme, il palazzo di Salomone è situato a sud del Tempio (quindi a destra del Tempio, se ci si volge verso oriente) per cui Dio troneggia invisibilmente sopra l’Arca nel Tempio e il re, sedendo sul suo trono, sarà alla sua destra. Poi il profeta consegna lo scettro al nuovo re; ed è la seconda strofa: “Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion domina in mezzo ai tuoi nemici”. La consegna dello scettro è simbolo della missione affidata al re che dominerà i nemici inserendosi nella lunga catena dei re discendenti di Davide, a sua volta portatore della promessa fatta a Davide. Il re è solo un uomo mortale, ma porta un destino eterno perché eterno è il progetto di Dio. Probabilmente questo è il significato della strofa seguente, un po’ oscura: “A te il principato nel giorno della tua potenza (cioè il giorno dell’incoronazione) tra santi splendori (sei rivestito della santità di Dio e quindi della sua immortalità). dal seno dell’aurora come rugiada, io ti ho generato”, un modo per dire che è previsto da Dio dall’alba del mondo. Il re resta mortale ma, nella fede d’Israele, la discendenza di Davide, prevista dall’eternità, è immortale. Nello stesso senso, la strofa seguente usa l’espressione “per sempre”: “Tu sei sacerdote per sempre”, il re futuro (cioè il Messia) sarà dunque al contempo re e sacerdote mediatore tra Dio e il suo popolo. Qui abbiamo la prova che, negli ultimi secoli della storia biblica, si pensava che il Messia sarebbe stato anche sacerdote. Infine il salmo precisa: sacerdote “secondo l’ordine di Melchisedek” perché esisteva il problema che non si può essere sacerdote se non si discende da Levi. Come conciliare questa Legge con la promessa che il Messia, re discendente di Davide della tribù di Giuda e non di Levi? Il salmo 109/110 dà la risposta: egli sarà sacerdote, sì, ma alla maniera di Melchisedek, re di Salem, al tempo stesso re e sacerdote, ben prima che esistesse la tribù di Levi. Il salmo 109/110 veniva cantato a Gerusalemme durante la Festa delle Capanne per ricordare le promesse messianiche di Dio: evocando una scena di intronizzazione, si pensava proprio a queste promesse per mantenere viva la speranza del popolo. Rileggendo questo salmo nel Nuovo Testamento vi si è scoperta una profondità nuova: Gesù Cristo è davvero quel sacerdote “in eterno”, mediatore dell’Alleanza definitiva, vincitore del peggiore nemico dell’uomo, la morte. San Paolo lo dice nella prima lettera ai Corinzi: “L’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte, perché tutto ha posto sotto i suoi piedi”.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (11,23-26)

San Paolo qui rivela il vero significato della parola “tradizione”: un prezioso deposito fedelmente tramandato di generazione in generazione. Se oggi siamo credenti, è perché, da oltre duemila anni, i cristiani, in ogni epoca, hanno trasmesso fedelmente il deposito della fede come in una staffetta senza interruzione. La trasmissione è fedele quando si conserva la tradizione del Signore, come scrive san Paolo: “Io ho ricevuto da Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Solo questa trasmissione fedele costruisce il Corpo di Cristo lungo la storia dell’umanità, non essendo trasmissione di un sapere intellettuale, ma del mistero di Cristo e la fedeltà si misura nel nostro modo di vivere. Per questo Paolo si preoccupa di correggere le cattive abitudini dei Corinzi e afferma che vivere in comunione fraterna è direttamente connesso con il mistero dell’Eucaristia. Scrive Paolo: Gesù “nella notte in cui veniva tradito, prese del pane”. “Veniva tradito”: Proprio mentre incompreso e tradito, veniva consegnato nelle mani nemiche, Gesù “prese del pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse…”. Ha così la forza di capovolgere la situazione e da una condotta di morte, compie il gesto supremo dell’Alleanza tra Dio e gli uomini facendo eco a queste sue parole: “La mia vita, nessuno me la toglie: la do io” (Gv 10,18). Trasforma un contesto di odio e di accecamento in luogo dell’amore e della condivisione: “Il mio corpo che è per voi”, corpo donato per la nostra liberazione e l’efficacia di questa donazione è legata al concetto biblico di “memoriale”: fate questo in memoria di me”.  “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”, questa formula è centrata sul tema della nuova alleanza, ripreso dal passo di Geremia (31,31-34) e stabilita non con il sangue versato sul popolo (Es 24), ma con il suo sangue e nello Spirito Santo. Qui possiamo capire cosa è il perdono, il dono perfetto compiuto al di là dell’odio, amore puro che trasforma condotte di morte in sorgente di vita. Solo il perdono è questo miracolo e lo ripetiamo in ogni Eucaristia: “Mistero della fede”. “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore”: annunciamo la sua morte, testimonianza d’amore fino all’estremo, come ben ricorda la Preghiera eucaristica della Riconciliazione: “le sue braccia distese disegnano tra cielo e terra il segno indelebile dell’Alleanza” tra Dio e l’umanità. “Annunciamo la sua morte”: ci impegniamo nella grande opera di riconciliazione e di alleanza inaugurata da Gesù. “Finché egli venga”: siamo il popolo dell’attesa che proclamiamo in ogni Eucaristia e se Gesù ci invita a ripetere così spesso questa preghiera è per educarci alla speranza che significa diventare impazienti del suo Regno in gioiosa attesa della sua venuta. Infine: Paolo dice “finché egli venga” e non finché ritorni perché Cristo non è partito, è con noi fino alla fine del mondo (Cf Mt 28, 20). Anzi non smette mai di venire perché è presenza operante che realizza progressivamente il grande progetto divino fin dalla creazione del mondo e ci chiede di collaborarvi.

 

NOTA. L’ultima parola della Bibbia, nell’Apocalisse, è proprio «Vieni, Signore Gesù». L’inizio del libro della Genesi ci parlava della vocazione dell’umanità, chiamata ad essere immagine e somiglianza di Dio, dunque destinata a vivere di amore, di dialogo, di condivisione come Dio stesso è Trinità. L’ultima parola della Bibbia ci dice che il progetto si realizza in Gesù Cristo e quando diciamo “Vieni, Signore Gesù”, invochiamo con tutte le nostre forze il giorno in cui egli ci radunerà dai quattro angoli del mondo per formare un solo Corpo.

 

*Dal vangelo secondo Luca (9, 11b-17)

 Per la festa del Corpo e Sangue di Cristo, leggiamo il miracolo della moltiplicazione dei pani in cui Luca vuole certamente sottolinearne il legame con l’Eucaristia descrivendo i gesti di Gesù con le stesse parole della liturgia eucaristica: “Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli”: una chiara allusione anche ai discepoli di Emmaus (Lc24,30). Gesù sta annunciando il regno di Dio, predica il vangelo e compie miracoli. La moltiplicazione dei pani si colloca in questo contesto: è sera, i discepoli si preoccupano della folla e suggeriscono di rimandare tutti perché nelle vicinanze ognuno per conto proprio trovi di che sfamarsi. Gesù non accetta la soluzione di dispersione perché il Regno di Dio è un mistero di comunione, non si accontenta del “ciascuno per sé” e propone la sua soluzione: “Voi stessi date loro da mangiare”. Ma come? Cinque pani e due pesci, replicano gli apostoli, sono sufficienti solo per una famiglia e non per cinquemila uomini. Gesù non vuole metterli in difficoltà, ma se dice loro di dare essi stessi da mangiare, è perché sa che possono farlo. I discepoli rispondono mettendosi a disposizione per andare a comperare il pane, ma Gesù ha un’altra soluzione: “Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa”. Sceglie la “soluzione del radunarsi” perché il Regno di Dio non è folla indistinta, ma comunità di comunità. Gesù benedisse i pani, riconoscendo il pane come dono di Dio da usare per servire gli affamati. Riconoscere il pane come dono di Dio è un vero e proprio programma di vita ed è questo il significato della “preparazione dei doni” durante la Messa. Si chiamava prima “offertorio” e la riforma liturgica del Concilio Vaticano II l’ha sostituito con “preparazione dei doni” per aiutarci a capire meglio che non siamo noi a dare qualcosa di nostro, ma è la “preparazione dei doni di Dio” e recando pane e vino, simboli di tutto il cosmo e del lavoro dell’umanità, riconosciamo che tutto è dono e non siamo padroni di ciò che Dio ci ha dato (sia i beni materiali che le ricchezze fisiche, intellettuali, spirituali), ma solo amministratori. Questo gesto, ripetuto ad ogni Eucaristia con fede, ci trasforma facendoci diventare davvero amministratori delle nostre ricchezze per il bene di tutti. Proprio in questo gesto di generosa spoliazione di sé stessi possiamo trovare il coraggio dei miracoli: quando dice ai discepoli “Date loro voi stessi da mangiare”, Gesù vuole far loro scoprire che hanno risorse insospettate, ma a condizione di riconoscere tutto come dono di Dio. Davanti agli affamati del mondo intero dice anche a noi: “Date loro voi stessi da mangiare” e, come i discepoli, abbiamo risorse che ignoriamo a condizione di riconoscere che quanto possediamo é dono di Dio e noi siamo solo amministratori che rifiutano la “logica della dispersione”, il pensare cioè ognuno al proprio interesse. Diventa quindi chiaro il legame tra questa moltiplicazione dei pani e la festa del Corpo e Sangue di Cristo. I tre sinottici raccontano l’istituzione dell’Eucaristia la sera del Giovedì santo e Luca aggiunge l’ordine del Signore “Fate questo in memoria di me”, ma san Giovanni ci offre un’altra chiave: riferisce la lavanda dei piedi con il comando di Gesù ai discepoli a fare altrettanto. Ecco quindi due modi inseparabili di celebrare il memoriale di Cristo: condividere l’Eucaristia e mettersi al servizio degli altri.

+Giovanni D’Ercole

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Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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