Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
2. Gesù aveva già chiesto al gruppo dei dodici Apostoli una professione di fede nella sua persona. Presso Cesarea di Filippo, dopo aver interrogato i discepoli sui pareri espressi dalla gente circa la sua identità, egli domanda: "Voi chi dite che io sia?" (Mt 16,15). La risposta viene da Simone: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (16,16).
Immediatamente Gesù conferma il valore di questa professione di fede, sottolineando che essa non procede semplicemente da un pensiero umano, ma da un'ispirazione celeste: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16,17). Queste espressioni di forte colore semitico designano la rivelazione totale, assoluta e suprema: quella che si riferisce alla persona del Cristo Figlio di Dio.
La professione di fede fatta da Pietro rimarrà espressione definitiva dell'identità di Cristo. Marco ne riprende i termini per introdurre il suo Vangelo (cfr Mc 1,1), Giovanni vi fa riferimento alla conclusione del suo, affermando di averlo scritto perché si creda "che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio", e perché, credendo, si possa avere la vita nel suo nome (cfr Gv 20,31).
3. In che cosa consiste la fede? La Costituzione Dei Verbum spiega che con essa "l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli 'il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà' e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui" (n. 5). La fede non è, dunque, solo adesione dell'intelligenza alla verità rivelata, ma anche ossequio della volontà e dono di sé a Dio che si rivela. E' un atteggiamento che impegna l'intera esistenza.
Il Concilio ricorda ancora che per la fede sono necessari "la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità" (ibid.). Si vede così come la fede, da una parte, fa accogliere la verità contenuta nella Rivelazione e proposta dal magistero di coloro che, come Pastori del Popolo di Dio, hanno ricevuto un "carisma certo di verità" (Dei Verbum, 8). D'altra parte, la fede spinge anche ad una vera e profonda coerenza, che deve esprimersi in tutti gli aspetti di una vita modellata su quella di Cristo.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 18 marzo 1998]
Nel brano evangelico di oggi (cfr Mc 8,27-35), ritorna la domanda che attraversa tutto il Vangelo di Marco: chi è Gesù? Ma questa volta è Gesù stesso che la pone ai discepoli, aiutandoli gradualmente ad affrontare l’interrogativo sulla sua identità. Prima di interpellare direttamente loro, i Dodici, Gesù vuole sentire da loro che cosa pensa di Lui la gente – e sa bene che i discepoli sono molto sensibili alla popolarità del Maestro! Perciò domanda: «La gente, chi dice che io sia?» (v. 27). Ne emerge che Gesù è considerato dal popolo un grande profeta. Ma, in realtà, a Lui non interessano i sondaggi e le chiacchiere della gente. Egli non accetta nemmeno che i suoi discepoli rispondano alle sue domande con formule preconfezionate, citando personaggi famosi della Sacra Scrittura, perché una fede che si riduce alle formule è una fede miope.
Il Signore vuole che i suoi discepoli di ieri e di oggi instaurino con Lui una relazione personale, e così lo accolgano al centro della loro vita. Per questo li sprona a porsi in tutta verità di fronte a sé stessi, e chiede: «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 29). Gesù, oggi, rivolge questa richiesta così diretta e confidenziale a ciascuno di noi: “Tu, chi dici che io sia? Voi, chi dite che io sia? Chi sono io per te?”. Ognuno è chiamato a rispondere, nel proprio cuore, lasciandosi illuminare dalla luce che il Padre ci dà per conoscere il suo Figlio Gesù. E può accadere anche a noi, come a Pietro, di affermare con entusiasmo: «Tu sei il Cristo». Quando però Gesù ci dice chiaramente quello che disse ai discepoli, cioè che la sua missione si compie non nella strada larga del successo, ma nel sentiero arduo del Servo sofferente, umiliato, rifiutato e crocifisso, allora può capitare anche a noi, come a Pietro, di protestare e ribellarci perché questo contrasta con le nostre attese, con le attese mondane. In quei momenti, anche noi meritiamo il salutare rimprovero di Gesù: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (v. 33).
Fratelli e sorelle, la professione di fede in Gesù Cristo non può fermarsi alle parole, ma chiede di essere autenticata da scelte e gesti concreti, da una vita improntata all’amore di Dio, di una vita grande, di una vita con tanto amore per il prossimo. Gesù ci dice che per seguire Lui, per essere suoi discepoli, bisogna rinnegare sé stessi (cfr v. 34), cioè le pretese del proprio orgoglio egoistico, e prendere la propria croce. Poi dà a tutti una regola fondamentale. E qual è questa regola? «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà. Spesso nella vita, per tanti motivi, sbagliamo strada, cercando la felicità solo nelle cose, o nelle persone che trattiamo come cose. Ma la felicità la troviamo soltanto quando l’amore, quello vero, ci incontra, ci sorprende, ci cambia. L’amore cambia tutto! E l’amore può cambiare anche noi, ognuno di noi. Lo dimostrano le testimonianze dei santi.
La Vergine Maria, che ha vissuto la sua fede seguendo fedelmente il suo Figlio Gesù, aiuti anche noi a camminare nella sua strada, spendendo generosamente la nostra vita per Lui e per i fratelli.
[Papa Francesco, Angelus 16 settembre 2018]
(Mc 8,22-26)
In questa sezione di Mc è descritta l’iniziazione della Fede; in filigrana, l’istradamento alla relazione con Cristo che ci toglie le difficoltà di ‘vista’ - e i passi tipici delle prime liturgie battesimali.
Il contesto generale del brano fa comprendere che l’episodio prelude una lunga istruzione di Gesù.
Egli per tre volte annuncia la sua Passione a Pietro e ai discepoli, riottosi nell’impegno della Croce.
Quando Mc scrive, la situazione delle comunità non era facile. Si sperimentava molta sofferenza: non risultava così semplice comprendere tante pene.
Nel 64 Nerone decretò la prima grande persecuzione, che produsse molte vittime fra i credenti.
L’anno successivo era scoppiata la rivolta giudaica, che aveva fatto scattare la riconquista sanguinosa della Palestina a partire dalla Galilea. Nel frattempo, a Roma i torbidi della sanguinosa guerra civile (68-69) stavano sgretolando l’idea dell’età dell’oro e recando piuttosto molte angustie.
Infine la città santa, Gerusalemme, veniva rasa al suolo (70). E malgrado Tito fosse tornato a Roma, la guerra si stava protraendo in altri focolai, sino alla caduta di Masada (74).
In tale quadro, fuori dalla Palestina sorgevano forti tensioni tra giudei convertiti a Cristo e giudei osservanti, e la maggiore difficoltà era sulla interpretazione della Croce di Gesù.
Per i tradizionalisti - e in un primo tempo per gli stessi apostoli - uno sconfitto e umiliato non poteva essere il Messia atteso.
La stessa Torah affermava che tutti i crocifissi dovevano essere considerati persone maledette da Dio [cf. Dt 21,22-23: «l’appeso è una maledizione di Dio»].
Proprio in detto contesto, Mc sembra alludere che… i veri ciechi sono Pietro e gli apostoli stessi, condizionati dalla propaganda del Messia Re glorioso; nonché i giudaizzanti.
Tutti volevano un Gesù trionfatore. Erano come non-vedenti che non capivano nulla, se non la propaganda facile e appariscente - nonché il mondo organizzato sulla base dell’egoismo.
Per guarire la cecità dei suoi dirigenti o dei semplici membri di comunità ancora incertissimi, il Signore doveva condurli «fuori dal villaggio» - luogo delle solite, antiche credenze illusorie.
E doveva proibire ai suoi intimi di rientrarvi: lì nessuno sarebbe mai riuscito a comprendere il valore del dono di sé nella vita ordinaria o nella convivenza di assemblea, testimonianze di Dio (vv.23.26).
Lo stesso del «cieco di Betsaida» è capitato anche a noi: solo quando il rapporto si è interiorizzato e consolidato, siamo passati dai barlumi a una maggiore chiarezza, imparando a capire persone, tematiche, realtà.
Per essere infine ‘illuminati’ abbiamo dovuto accettare che il dono di Dio venisse introdotto attraverso l'identità di vita nel Figlio.
Il Signore ci ha sanato lo sguardo, facendoci crescere nel tempo. Un “portento” che si è fatto recupero anche naturale.
Prospettiva che ha suscitato la decisione e l’azione, che ora si misurano perfino con cose grandi. A partire da un punto di osservazione nuovo, colmo di Speranza.
Ciò vale anche nella percezione dei disagi, che via via rigenerano l’essere - perché stenti e inquietudini sono semplici voci di un’energia che vuole allontanare nebbie e zavorre, e farci fiorire altrimenti.
Ecco gli accadimenti-testimonianza della Venuta del Messia nella nostra vita.
Eventi e immagini intime - guida - che i Vangeli non inquadrano in una cornice cristologica o ecclesiologica trionfalistica, bensì quasi sommaria e dai tratti spontanei; umanissima e relazionale.
Per dire che la persona nuova è forse ancora immersa nell’ombra, ma via via pone sullo sfondo l’uomo vecchio.
E nella metamorfosi del suo sguardo prospettico, in Cristo avvicina la persona futura.
[Mercoledì 6.a sett. T.O. 19 febbraio 2025]
(Mc 8,22-26)
L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che suscita la decisione e l’azione: un occhio nuovo, colmo di Speranza.
Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» [n.55; da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].
In questa sezione di Mc è descritta l’iniziazione della Fede; in filigrana, l’istradamento alla relazione con Cristo che ci toglie le difficoltà di “vista”, e i passi tipici delle prime liturgie battesimali.
Il contesto generale del brano fa comprendere che l’episodio prelude una lunga istruzione di Gesù.
Egli per tre volte annuncia la sua Passione a Pietro e ai discepoli, riottosi nell’impegno della Croce.
Il Maestro insiste - non per rincarare la dose e logorare i suoi intimi.
[Come anche riconosce il Tao Tê Ching (xxxiii): «Ha vita perenne ciò che muore però non perisce»].
Quando Mc scrive, la situazione delle comunità non era facile. Si sperimentava molta sofferenza: non risultava così semplice comprendere tante pene.
Nel 64 Nerone decretò la prima grande persecuzione, che produsse molte vittime fra i credenti.
L’anno successivo scoppiava la rivolta giudaica, che aveva fatto scattare la riconquista sanguinosa della Palestina a partire dalla Galilea.
Nel frattempo, a Roma i torbidi della sanguinosa guerra civile (68-69) stavano sgretolando l’idea dell’età dell’oro e recando piuttosto molte angustie.
Infine la città santa, Gerusalemme, veniva rasa al suolo (70).
E malgrado Tito fosse tornato a Roma, la guerra si stava protraendo in altri focolai, sino alla caduta di Masada (74).
In tale quadro, fuori dalla Palestina sorgevano forti tensioni tra giudei convertiti al Signore e giudei osservanti, e la maggiore difficoltà era sulla interpretazione della Croce di Gesù.
Per i tradizionalisti - e in un primo tempo per gli stessi apostoli - uno sconfitto e umiliato non poteva essere il Messia atteso.
La stessa Torah affermava che tutti i crocifissi dovevano essere considerati “maledetti da Dio” [cf. Dt 21,22-23: «l’appeso è una maledizione di Dio»].
Proprio in detto contesto, Mc sembra alludere che… i veri ciechi sono Pietro e gli apostoli stessi, condizionati dalla propaganda del Messia Re glorioso, nonché i giudaizzanti.
Tutti volevano un Monarca trionfatore. Ma erano come non-vedenti che non capivano nulla, se non la propaganda facile e appariscente - nonché il mondo organizzato sulla base dell’egoismo.
Per guarire la cecità dei suoi “dirigenti” o dei semplici membri di comunità ancora incertissimi, il Figlio doveva condurli «fuori dal villaggio» - luogo delle solite, antiche credenze illusorie.
E proibire ai suoi intimi di rientrarvi: lì nessuno sarebbe mai riuscito a comprendere il valore del dono di sé nella vita ordinaria o nella convivenza di assemblea, testimonianze di Dio (vv.23.26).
Sin dalle origini l’avviamento alla Fede comprendeva rito e Parola nuova.
Quest’ultima rivelava appieno il significato delle prime liturgie - protese verso una trasformazione che toccasse in concreto tutto l’uomo.
Erano coinvolti mente e cuore, spirito e sensi, individuo e comunità - per una visione chiara del senso della vita.
Nella lingua del Primo Testamento, Parola ed evento attivo si esprimono in un solo termine: «Dabar».
Qui visione e ascolto coincidono in un solo processo di percezione, assimilazione, interiorizzazione e sintonia, quindi azione.
Tutto in Cristo e in noi si offre ai sensi e all’intelligenza.
Pare appunto di vedere un catecumeno che viene - come si diceva - «illuminato», ossia strappato dal disorientamento d’una vita paganeggiante.
Il candidato era introdotto nella nuova solarità della Fede: progressivamente “iniziato” alla Persona di Cristo, alle esigenze della Comunione e della Missione.
Lo stesso del «cieco di Betsaida» è capitato pressoché a tutti.
Lanciati i primi contatti informali con Gesù, anche noi abbiamo esordito percependo qualcosa, forse in modo dapprima confuso…
Come da bambini, tracciavamo “disegni” - e sulle prime non sapevamo ben delineare le differenze, neppure i profili di massima dei volumi circostanti.
Solo quando il rapporto si è interiorizzato e consolidato siamo passati dai barlumi a una maggiore chiarezza, imparando a capire persone, tematiche, realtà.
È stato e continua ad essere un “prodigio” tutto da assimilare, che si adatta poco a poco al corso naturale.
Ciò sebbene non si limiti a un aggiornamento di formule culturali, ma giunga infine a “compromettere” il testimone.
Un «segno» (direbbe Gv) di realtà maggiori, un segnale di cose mirabili - se vogliamo.
Un’opera potente, ma che si dispiega in un processo evolutivo di conoscenza di sé e degli altri, di apprendimento esistenziale, e fioritura nelle facoltà.
[Non si parla di scienza infusa; né di «mirabilia Dei» in senso antico, ossia d’una meraviglia vistosamente immediata. Come fosse un’impresa incredibile, eccezionale, irripetibile, clamorosa (e fortuita - o estremamente difficoltosa e stentata). Per convincere solo qualcuno e in modo perentorio].
Elemento di Rivelazione essenziale delle sacre Scritture - comparate ad altri testi religiosi del mondo antico - è il cosmo demitizzato, a misura umana.
I problemi sono ricondotti alla dialettica della nostra scelta fra morte e vita, nonché alla capacità di accogliere una Vocazione nella Vocazione.
Passaggi e metamorfosi servono a non pietrificare la vita. Partoriscono novità provvidenziali alla donna e all’uomo, alla storia e sensibilità.
Aprendo lo sguardo, sgretoliamo convincimenti inutili; spalanchiamo l’attitudine all’ascolto del rinnovamento proposto.
Anzi, vedere ciò che prima non si era mai notato fa parte del processo che conduce dall’oscurità alla Fede.
Per essere infine illuminati abbiamo dovuto accettare che il dono di Dio venisse introdotto attraverso l'identità di vita nel Figlio, che spinge ad altre nascite.
Il Signore ha sanato lo sguardo facendoci crescere nel tempo. Un “portento” che si è fatto recupero anche naturale.
Il contatto col Signore che apre gli occhi e fa scrutare sempre meglio avviene a tappe - un evento scaturigine non puntuale; espresso anche attraverso il linguaggio tattile dei Sacramenti.
E passo passo Egli lascia che avanziamo nell’acutezza dell’intuizione, nella comprensione del mondo circostante.
Prospettiva che ha suscitato la decisione e l’azione, che ora si misurano perfino con cose grandi. A partire da un punto di osservazione nuovo, colmo di Speranza.
Ciò vale anche nella percezione dei disagi, che via via rigenerano l’essere - perché stenti e inquietudini sono semplici voci di un’energia che vuole allontanare nebbie e zavorre, e farci fiorire altrimenti.
Ecco gli accadimenti-testimonianza della Venuta del Messia nella nostra vita.
Eventi e immagini intime guida, che i Vangeli non inquadrano in una cornice cristologica o ecclesiologica trionfalistica, bensì quasi sommaria e dai tratti spontanei - umanissima e relazionale.
Per dire che la persona nuova è forse ancora immersa nell’ombra, ma via via pone sullo sfondo l’uomo vecchio.
E nella metamorfosi del suo sguardo prospettico, in Cristo avvicina la persona futura.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale acume di vista ti ha concesso la Persona di Cristo? Quale icona intima e coinvolgente?
Quale salto di relazioni, in termini di umanizzazione?
Anche noi a causa del peccato di Adamo siamo nati “ciechi”, ma nel fonte battesimale siamo stati illuminati dalla grazia di Cristo. Il peccato aveva ferito l’umanità destinandola all’oscurità della morte, ma in Cristo risplende la novità della vita e la meta alla quale siamo chiamati. In Lui, rinvigoriti dallo Spirito Santo, riceviamo la forza per vincere il male e operare il bene. Infatti la vita cristiana è una continua conformazione a Cristo, immagine dell’uomo nuovo, per giungere alla piena comunione con Dio. Il Signore Gesù è “la luce del mondo” (Gv 8,12), perché in Lui “risplende la conoscenza della gloria di Dio” (2 Cor 4,6) che continua a rivelare nella complessa trama della storia quale sia il senso dell’esistenza umana. Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento. Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione.
[Papa Benedetto, Angelus 3 aprile 2011]
Cari pellegrini.
Voi siete lieti di trovarvi riuniti nella casa del Papa. E anch’io sono molto lieto di accogliervi. Insieme, noi stiamo vivendo alcuni momenti “cuore a cuore”, come all’Arca di Trosly-Breuil, come nelle 67 Arche del mondo. Voi tutti che avete alcune limitazioni nella salute o che circondate con tanta delicatezza questi giovani affetti da handicap, avete un posto prioritario nel mio cuore di Pastore universale. Non è così che Gesù si comportava? Non è così che genitori ed educatori qui presenti si comportano?
Per alcuni istanti voglio raccogliermi con voi e contemplare Gesù insieme a voi. Leggendo attentamente il Vangelo, noi siamo - quasi ad ogni pagina - meravigliati dall’atteggiamento del Signore nel suo rapportarsi alle persone. Egli ha una maniera unica - possiede, direi, il segreto - di avvicinarsi alle persone o di lasciarle venire a lui. Una maniera unica di dialogare con loro ascoltandole e facendole esprimere. Una maniera unica di liberarle o di iniziare a liberarle dalle loro miserie: le apre progressivamente ad altro che a loro stesse, ad altre realtà valide. Si direbbe: Gesù le libera attraverso una progressiva decentrazione da loro stesse.
Perciò, come voi nelle comunità dell’Arca, Gesù utilizza con rispetto e delicatezza le risorse umane della vicinanza, dello sguardo, dei gesti, del silenzio, del dialogo. Voi potete anche - in questa prospettiva di meditazione - esaminare a lungo i suoi incontri con i primi apostoli, con Nicodemo, gli invitati alle nozze di Cana, la Samaritana, Zaccheo, il centurione romano, il cieco di Betsaida o quello della piscina di Siloe, Marta e Maria di Betania, i discepoli di Emmaus, Tommaso, l’apostolo incredulo . . .
Il rapporto di Gesù con i suoi compatrioti manifesta in altissimo grado il suo senso della dignità, del valore sacro di ogni persona.
Voi siete persuasi della ricchezza inaudita di questa rivelazione, che non può essere che divina. ma sappiamo, purtroppo, che troppi uomini e troppi responsabili dei popoli la dimenticano. le vostre arche sono e possono essere, ancor più, una serena e vigorosa dimostrazione di rispetto sacro, di attenzione paziente, di promozione umana possibile, in favore di bambini e di adolescenti limitati fin dalla nascita da diversi handicap. voi contribuite, senza far rumore, alla “civiltà dell’amore”.
Di tutto cuore, vi incoraggio a proseguire il vostro lavoro educativo e di ispirazione evangelica, svolto in modo originale e comunitario, nella 67 Arche diffuse in diversi continenti. Immagino che questa vita comunitaria non sia senza problemi. Risolverli una volta per tutte richiederà del tempo. Ma ciò che conta è vivere con i vostri problemi, rinnovando e affermando ogni giorno la vostra volontà, la vostra scelta di rispetto, di ascolto, di tenerezza, di perdono, di cooperazione, di speranza, di gioia. In verità, questo comportamento attenua i problemi, creando un clima di apertura di spirito e di cuore tra coloro che hanno degli handicap e favorendo la crescita della personalità degli adulti dediti anima e corpo al loro servizio.
Invoco con fervore sul gruppo che ho la gioia di ricevere, ma anche su tutte le Arche del mondo, sui loro membri e sui loro responsabili, e sul loro fondatore, monsignor Jean Vanier, rinnovate grazie di luce e di forza divina.
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso alla Comunità Arche 16 febbraio 1984]
Il Vangelo odierno ci presenta l’episodio dell’uomo cieco dalla nascita, al quale Gesù dona la vista. Il lungo racconto si apre con un cieco che comincia a vedere e si chiude – è curioso questo - con dei presunti vedenti che continuano a rimanere ciechi nell’anima. Il miracolo è narrato da Giovanni in appena due versetti, perché l’evangelista vuole attirare l’attenzione non sul miracolo in sé, ma su quello che succede dopo, sulle discussioni che suscita; anche sulle chiacchiere, tante volte un’opera buona, un’opera di carità suscita chiacchiere e discussioni, perché ci sono alcuni che non vogliono vedere la verità. L’evangelista Giovanni vuol attirare l’attenzione su questo che accade anche ai nostri giorni quando si fa un’opera buona. Il cieco guarito viene prima interrogato dalla folla stupita – hanno visto il miracolo e lo interrogano -, poi dai dottori della legge; e questi interrogano anche i suoi genitori. Alla fine il cieco guarito approda alla fede, e questa è la grazia più grande che gli viene fatta da Gesù: non solo di vedere, ma di conoscere Lui, vedere Lui come «la luce del mondo» (Gv 9,5).
Mentre il cieco si avvicina gradualmente alla luce, i dottori della legge al contrario sprofondano sempre più nella loro cecità interiore. Chiusi nella loro presunzione, credono di avere già la luce; per questo non si aprono alla verità di Gesù. Essi fanno di tutto per negare l’evidenza. Mettono in dubbio l’identità dell’uomo guarito; poi negano l’azione di Dio nella guarigione, prendendo come scusa che Dio non agisce di sabato; giungono persino a dubitare che quell’uomo fosse nato cieco. La loro chiusura alla luce diventa aggressiva e sfocia nell’espulsione dal tempio dell’uomo guarito.
Il cammino del cieco invece è un percorso a tappe, che parte dalla conoscenza del nome di Gesù. Non conosce altro di Lui; infatti dice: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi» (v. 11). A seguito delle incalzanti domande dei dottori della legge, lo considera dapprima un profeta (v. 17) e poi un uomo vicino a Dio (v. 31). Dopo che è stato allontanato dal tempio, escluso dalla società, Gesù lo trova di nuovo e gli “apre gli occhi” per la seconda volta, rivelandogli la propria identità: «Io sono il Messia», così gli dice. A questo punto colui che era stato cieco esclama: «Credo, Signore!» (v. 38), e si prostra davanti a Gesù. Questo è un brano del Vangelo che fa vedere il dramma della cecità interiore di tanta gente, anche la nostra perché noi alcune volte abbiamo momenti di cecità interiore.
La nostra vita a volte è simile a quella del cieco che si è aperto alla luce, che si è aperto a Dio, che si è aperto alla sua grazia. A volte purtroppo è un po’ come quella dei dottori della legge: dall’alto del nostro orgoglio giudichiamo gli altri, e perfino il Signore! Oggi, siamo invitati ad aprirci alla luce di Cristo per portare frutto nella nostra vita, per eliminare i comportamenti che non sono cristiani; tutti noi siamo cristiani, ma tutti noi, tutti, alcune volte abbiamo comportamenti non cristiani, comportamenti che sono peccati. Dobbiamo pentirci di questo, eliminare questi comportamenti per camminare decisamente sulla via della santità. Essa ha la sua origine nel Battesimo. Anche noi infatti siamo stati “illuminati” da Cristo nel Battesimo, affinché, come ci ricorda san Paolo, possiamo comportarci come «figli della luce» (Ef 5,8), con umiltà, pazienza, misericordia. Questi dottori della legge non avevano né umiltà, né pazienza, né misericordia!
Io vi suggerisco, oggi, quando tornate a casa, prendete il Vangelo di Giovanni e leggete questo brano del capitolo 9. Vi farà bene, perché così vedrete questa strada dalla cecità alla luce e l’altra strada cattiva verso una più profonda cecità. Domandiamoci come è il nostro cuore? Ho un cuore aperto o un cuore chiuso? Aperto o chiuso verso Dio? Aperto o chiuso verso il prossimo? Sempre abbiamo in noi qualche chiusura nata dal peccato, dagli sbagli, dagli errori. Non dobbiamo avere paura! Apriamoci alla luce del Signore, Lui ci aspetta sempre per farci vedere meglio, per darci più luce, per perdonarci. Non dimentichiamo questo! Alla Vergine Maria affidiamo il cammino quaresimale, perché anche noi, come il cieco guarito, con la grazia di Cristo possiamo “venire alla luce”, andare più avanti verso la luce e rinascere a una vita nuova.
[Papa Francesco, Angelus 30 marzo 2014]
E il molto lievito, che impoverisce
(Mc 8,14-21)
Gesù dice una cosa, gli apostoli ne comprendono un’altra. Il «lievito dei farisei e quello di Erode» è tema che allude all’ideologia di dominio.
I discepoli erano vicini al Cristo, perché personaggio del momento.
Ma rapiti da illusioni dozzinali, essi non ascoltavano più il Maestro, che li stava incalzando.
Ancora oggi alcuni seguaci non se la sentono di coinvolgersi in cose che non vogliono conoscere e li metterebbero in penuria (v.14) - con la sola possibilità della condivisione fraterna.
Costoro non sembrano disposti a percepire altro che proclami di potere, opulenza, fama e vittoria imperiale.
La loro testa e i loro desideri restano distanti, impegnati solo nei riscontri di “gonfiore” e tornaconto - malgrado le apparenze contrarie.
Essi giungono a voler sequestrare il Figlio di Dio, perché sembrano diventati esattamente come gli avversari della nuova Fede: cuore indurito (v.17) - occhi che non guardano, orecchi che non ascoltano (v.18).
Allontanandosi da Lui per volgersi volentieri alle consuete idolatrie e speranze paganeggianti.
Ovvio, in giro c’erano idee confuse sul Messia - tutte però legate alla concezione [infedele] di ‘grandiosità’.
Ma il Messia autentico non vuole raggiungere una posizione eminente grazie a contatti e raggiri, bensì sovvenire l'umanità bisognosa e spaurita.
Molti attendevano un Re, altri un sommo sacerdote finalmente santo.
Alcuni si aspettavano un guerrigliero, o un guaritore; altri un giudice o un profeta.
Certo, nessuno un Servitore.
Tutti lo riducevano a normalissime lusinghe, secondo i propri interessi - e ceto di appartenenza.
Infatti proprio gli intimi del Maestro si dimostravano disposti ad andar dietro a qualsiasi venticello di dottrina, purché ciò potesse consentir loro di trattenere i tesori del Regno.
Ogni titolo per il Messia - religioso, politico, nazionalista - poteva essere tollerato, digerito e reso addomesticabile... meno quello che li costringeva a farsi servitori degli altri.
Unica presenza scomoda.
Eppure, la prolungata assenza di spirito profetico diventa causa principale di molti tormenti.
L’inclinazione alla convivenza e alla comunione è ‘verità’ missionaria. Strumento per la redenzione di tutti, a partire da chi si protende verso sorelle e fratelli bisognosi.
Per sua natura e mandato, la Barchetta della Chiesa resta inviata a tutte le nazioni. ‘Sale della terra’, ‘Luce del mondo’.
Nessun fedele deve credersi esonerato.
Il Battesimo ci ha incorporati, affinché veniamo lanciati a cooperare - secondo capacità e contesti.
Un respiro che non può interrompersi, né limitarsi. Pena la morte.
Insomma, il Signore non ci chiede comportamenti marginali e sfumati, bensì ricettivi e globali.
Attitudini che intaccano il senso della storia e i suoi “quadri”…
Perché spartire il poco «pane» non impoverisce; piuttosto, arricchisce.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
«Non avevano se non ‘un solo pane’ con sé nella barca»: te ne lamenti o ne valuti il senso?
[Martedì 6.a sett. T.O. 18 febbraio 2025]
Cari amici, non esitate a seguire Gesù Cristo. In Lui troviamo la verità su Dio e sull'uomo. Egli ci aiuta a sconfiggere i nostri egoismi, ad uscire dalle nostre ambizioni e a vincere ciò che ci opprime. Colui che opera il male, colui che commette peccato, è schiavo del peccato e non raggiungerà mai la libertà (cfr Gv 8,34). Solo rinunciando all'odio e al nostro cuore indurito e cieco, saremo liberi, ed una nuova vita germoglierà in noi.
Con la ferma convinzione che Cristo è la vera misura dell'uomo, e sapendo che in Lui si trova la forza necessaria per affrontare ogni prova, desidero annunciarvi apertamente il Signore Gesù come Via, Verità e Vita. In Lui tutti troveranno la piena libertà, la luce per capire in profondità la realtà e trasformarla con il potere rinnovatore dell'amore.
[Papa Benedetto, omelia a L’Avana 28 marzo 2012]
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
St Teresa of Avila wrote: «the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ» (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7). Therefore, only by believing in Christ, by remaining united to him, may the disciples, among whom we too are, continue their permanent action in history [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia [Papa Benedetto]
Just as he did during his earthly existence, so today the risen Jesus walks along the streets of our life and sees us immersed in our activities, with all our desires and our needs. In the midst of our everyday circumstances he continues to speak to us; he calls us to live our life with him, for only he is capable of satisfying our thirst for hope (Pope Benedict)
Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza (Papa Benedetto)
Truth involves our whole life. In the Bible, it carries with it the sense of support, solidity, and trust, as implied by the root 'aman, the source of our liturgical expression Amen. Truth is something you can lean on, so as not to fall. In this relational sense, the only truly reliable and trustworthy One – the One on whom we can count – is the living God. Hence, Jesus can say: "I am the truth" (Jn 14:6). We discover and rediscover the truth when we experience it within ourselves in the loyalty and trustworthiness of the One who loves us. This alone can liberate us: "The truth will set you free" (Jn 8:32) [Pope Francis]
La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé [Papa Francesco]
don Giuseppe Nespeca
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