don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XVII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [27 Luglio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa volta mi sono dilungato un poco nel presentare nelle NOTE alcuni dettagli importanti delle letture, utili per la meditazione personale e per la lectio divina in questo tempo di vacanza. 

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (18, 20-32)

Questo testo segna un passo avanti nell’idea che gli uomini si fanno del loro rapporto con Dio: è la prima volta che si osa immaginare che un uomo possa intervenire nei progetti di Dio. Purtroppo, la lettura liturgica non ci fa ascoltare i versetti precedenti nei quali leggiamo che subito dopo l’incontro alle Querce di Mamre, Abramo si congeda accompagnando i tre misteriosi uomini a contemplare dall’alto Sodoma. Il Signore, parlando tra sé, dice: ”Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?” (vv.17-19). Dio prende molto sul serio l’alleanza appena fatta ed è qui che inizia quella che potremmo chiamare “la più bella trattativa della storia”: Abramo, armato di tutto coraggio, intercede per cercare di salvare Sodoma e Gomorra da un castigo certamente meritato. In sostanza chiede se Dio vuole veramente sterminare queste città anche se incontra almeno cinquanta giusti, o solo quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci. Che audacia! Eppure, a quanto pare, Dio accetta che l’uomo si ponga come interlocutore: in nessun momento il Signore sembra spazientirsi ed anzi risponde ogni volta esattamente come Abramo sperava. Forse Dio apprezza che Abramo abbia una così alta idea della sua giustizia. A questo proposito, si può notare che questo testo è stato redatto in un’epoca in cui si comincia ad avere coscienza della responsabilità individuale: infatti Abramo si scandalizzerebbe all’idea che dei giusti possano essere puniti insieme ai peccatori e per loro colpa. Siamo lontani dal tempo in cui un’intera famiglia veniva eliminata per la colpa di uno solo. La grande scoperta della responsabilità individuale risale al profeta Ezechiele e al periodo dell’esilio a Babilonia, cioè al VI secolo a.C. Possiamo quindi formulare un’ipotesi sulla composizione del capitolo letto oggi e domenica scorsa: si tratta di un testo redatto in epoca piuttosto tarda, pur derivando da racconti forse molto più antichi, la cui forma orale o scritta non era ancora definitiva. Dio ama che l’uomo si faccia intercessore per i suoi fratelli come possiamo vedere con Mosè:  quando il popolo si fabbricò un “vitello d’oro” da adorare subito dopo aver giurato di non seguire mai più gli idoli. Mosè intervenne per supplicare Dio di perdonare e Dio, che non aspettava altro, si affrettò a perdonare(Es 32). Mosè intercedeva per il popolo di cui era responsabile; Abramo, invece, intercede per dei pagani e questo è logico, in fondo, visto che egli è portatore di una benedizione per tutte le famiglie della terra. Questo testo è un grande passo avanti nella scoperta del volto di Dio, ma è solo una tappa collocandosi ancora in una logica di contabilità: quanti giusti serviranno per ottenere il perdono dei peccatori? L’ultimo passo teologico sarà scoprire che con Dio non si tratta mai di pagamento.  La sua giustizia non ha nulla a che vedere con una bilancia, i cui due piatti devono essere perfettamente in equilibrio ed è ciò che san Paolo cercherà di farci capire nel passo della lettera ai Colossesi di questa domenica. Questo testo della genesi è anche una bella lezione sulla preghiera, che ci viene proposta nel giorno in cui il vangelo di Luca riporta l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, a cominciare dal Padre Nostro, la preghiera plurale per eccellenza che ci invita pregando ad allargare il cuore alla dimensione dell’intera umanità. 

 

NOTA: Sviluppo della nozione di giustizia di Dio nella Bibbia: All’inizio si trovava normale che tutto il gruppo pagasse per la colpa di uno: vedi il caso di Akân ai tempi di Giosuè (Gs 7,16-25). In una seconda fase si immagina che ognuno paghi per sé. Qui, c’è un nuovo passo avanti: se si trovano dieci giusti, essi possono salvare tutta una città. Geremia oserà andare oltre: un solo giusto può ottenere il perdono per tutti: «Percorrete le strade di Gerusalemme, cercate: se trovate un solo uomo che pratichi il diritto… io perdonerò alla città» (Ger 5,1). Anche Ezechiele ragiona in questi termini: «Ho cercato tra loro un uomo che si ponesse sulla breccia davanti a me… ma non l’ho trovato» (Ez 22,30). È con il libro di Giobbe, fra gli altri, che si compie l’ultimo passo: quando si comprenderà finalmente che la giustizia di Dio è sinonimo di salvezza, non di punizione. Geremia arriva persino a invocare un perdono senza condizioni, fondato sulla sola grandezza di Dio: «Se i nostri peccati testimoniano contro di noi, agisci, Signore, per l’onore del tuo nome!» (Ger 14,7-9). Davanti a Dio, proprio come Geremia, Abramo ha capito che i peccatori non hanno altro argomento che Dio stesso!  Infine, si noti l’ottimismo di Abramo, che gli vale pienamente il titolo di “padre nella fede”: egli continua a credere che non tutto è perduto, che non tutti sono perduti. Persino in una città orrenda come Sodoma, egli è convinto che ci siano almeno dieci uomini buoni!

 

Salmo responsoriale (137/138), 1-2a, 2bc-3, 6-7ab, 7c-8)

Questo salmo è tutto un canto di ringraziamento per l’Alleanza che Dio propone all’umanità: l’Alleanza conclusa, in primo luogo, con Israele, ma anche l’Alleanza aperta a  tutte le nazioni e la vocazione di Israele è proprio introdurre in essa le altre nazioni. Torna tre volte 

il ringraziamento: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”, “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”, e – nel versetto 4 che non ascoltiamo questa domenica – “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. Qui si nota una progressione: dapprima è Israele che parla a nome proprio: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”; poi viene precisato il motivo: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”; infine, è l’intera umanità che entra nell’Alleanza e rende grazie: “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. 

Poiché si parla dell’Alleanza, è normale che vi siano allusioni all’esperienza del Sinai e si colgono echi della grande scoperta del roveto ardente quando Dio disse a Mosè di aver visto la miseria del suo popolo e di essere sceso a liberarlo (Es 2,23-24). In eco, il salmo canta: “Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto”(v.3) Un altro richiamo alla rivelazione di Dio al Sinai è l’espressione “Il tuo amore e la tua fedeltà”(v.2): sono le stesse parole con cui Dio si è definito davanti a Mosè (Es 34,6). La frase “La tua destra mi salva” (v.7) è, per gli ebrei, un’allusione all’uscita dall’Egitto. La “destra” è, naturalmente, la mano destra e, sin dal cantico di Mosè dopo il passaggio miracoloso del Mar Rosso (Es 15), si è presa l’abitudine di parlare della vittoria che Dio ha ottenuto con mano forte e braccio potente (Es 15,6.12). Anche l’espressione “Signore, il tuo amore è per sempre” (v.8) evoca tutta l’opera di Dio, in particolare l’Esodo come il salmo 135/136, il cui ritornello è: “Perché il suo amore è per sempre”. Un un altro legame tra questo salmo e il cantico di Mosè è il nesso tra tutta l’epopea dell’Esodo, l’Alleanza del Sinai e il Tempio di Gerusalemme. Mosè cantava:

“Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. È il mio Dio, lo voglio lodare, è il Dio di mio padre, lo voglio esaltare” (Es 15,1-2.13), e il salmo riprende in eco:

“Non agli dei, ma a Te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo” (vv.1-2) perché il

Tempio è il luogo in cui si fa memoria di tutta l’opera di Dio a favore del suo popolo. La presenza di Dio non si limita però a un tempio di pietra, ma quel tempio, o ciò che ne resta, è un segno permanente di quella presenza. E ancora oggi, dovunque si trovi nel mondo, ogni ebreo prega rivolto verso Gerusalemme, verso il monte del tempio santo perché è il luogo scelto da Dio, ai tempi del re Davide, per offrire al suo popolo un segno della sua presenza. Infine, la grandezza di Dio non schiaccia l’uomo; almeno non colui che sa riconoscere la propria piccolezza: “Eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano”(v.6). Anche questo è un grande tema biblico: la sua grandezza si manifesta proprio nella sua bontà verso la piccolezza dell’uomo (cf.Sap 12,18) e il salmo 113/112: “Dalla polvere rialza il debole, dall’immondizia solleva il povero” e nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Il credente lo sa e ne resta meravigliato: Il Dio è grande non ci schiaccia, ma al contrario, ci fa crescere.

Questi parallelismi cioè l’influenza del cantico di Mosè, l’esperienza del Sinai dal roveto ardente fino all’uscita dall’Egitto e all’Alleanza, si ritrovano in molti altri salmi e testi biblici.

Ciò dimostra quanto questa esperienza sia stata – e resti – il fondamento della fede di Israele.

 

Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Colossesi (2,12-14)

Dio ha annullato il documento scritto contro di noi (Col 2,14). Paolo qui fa riferimento a una pratica molto diffusa quando si prendeva in prestito del denaro: era consuetudine che il debitore consegnasse al creditore un “documento di riconoscimento del debito”. Anche Gesù ha utilizzato questa immagine nella parabola dell’amministratore disonesto. Il giorno in cui il padrone lo minaccia di licenziamento, egli pensa a procurarsi degli amici; a questo scopo convoca i debitori del suo padrone e a ciascuno dice: «Ecco il tuo documento di debito, cambia la somma. Dovevi cento sacchi di grano? Scrivi ottanta.» (Lc 16,7). Come fa spesso, Paolo utilizza il linguaggio della vita quotidiana per esprimere un pensiero teologico. Questo il suo ragionamento: a causa della gravità dei nostri peccati, possiamo considerarci debitori nei confronti di Dio. Del resto, nel giudaismo, i peccati erano spesso chiamati “debiti”; e una preghiera ebraica del tempo di Gesù diceva: “Per la tua grande misericordia, cancella tutti i documenti che ci accusano.” Ebbene, chiunque alzi lo sguardo verso la croce di Cristo scopre fino a che punto arriva la misericordia di Dio per i suoi figli: con Lui non si tratta di tenere una contabilità: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” è la preghiera del Figlio; ma è Lui stesso ad aver detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Il corpo di Cristo inchiodato alla croce mostra che Dio è così: dimentica ogni nostro torto, ogni nostra colpa verso di Lui. Il suo perdono è esposto davanti ai nostri occhi: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, diceva il profeta Zaccaria (Zc 12,10; Gv 19,37). È come se il documento del nostro debito fosse stato inchiodato alla croce di Cristo. Si resta comunque sorpresi perché tutto questo passaggio è scritto al passato: “con Cristo sepolti nel battesimo, con Lui siete anche risorti… con lui Dio ha dato vita anche a voi… perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi … lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. 

NOTA Paolo vuole affermare che la salvezza del mondo è già compiuta: questo “già-realizzato” della salvezza è uno dei grandi temi della Lettera ai Colossesi.  La comunità cristiana è già salvata attraverso il battesimo; partecipa già alla realtà celeste. Anche qui si nota una evoluzione rispetto ad alcune lettere precedenti di Paolo, come “Siamo stati salvati, ma nella speranza” (Rm 8,24); “Se siamo stati totalmente uniti a Lui nella morte, lo saremo anche nella risurrezione.” (Rm 6,5). Mentre la Lettera ai Romani pone la risurrezione nel futuro, le Lettere ai Colossesi e agli Efesini parlano al passato, sia della sepoltura con Cristo sia della risurrezione come realtà già attuale. “Quando eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo – per grazia siete salvati –; con Lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù.” (Ef 2,5-6). “Siete stati sepolti con Cristo, con Lui siete anche risorti… Eravate morti… ma Dio vi ha dato la vita con Cristo.” Il battesimo per Paolo è come una seconda nascita e l’insistenza sul fatto che la salvezza è già avvenuta, mediante la nascita a una vita totalmente nuova, è probabilmente legata anche al contesto storico: dietro molte espressioni della Lettera si intravede un clima di tensione e di conflitto. La comunità di Colosse sembra subire influenze pericolose, contro cui Paolo vuole metterla in guardia: “Nessuno vi inganni con discorsi seducenti” (Col 2,4)… “Nessuno vi intrappoli con una filosofia vuota e ingannevole” (Col 2,8)… “Nessuno vi giudichi per questioni di cibo, di bevande, di feste o di sabati” (Col 2,16). Riappare così, in filigrana, un problema ricorrente: come si entra nella salvezza? Bisogna continuare a osservare rigorosamente tutta la legge ebraica?  Paolo risponde: per mezzo della fede. Questo tema è presente in molte lettere, e lo ritroviamo chiaramente anche qui (v.12): sepolti nel battesimo con Cristo… risorti… per mezzo della fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La Lettera agli Efesini lo ripete ancora più chiaramente: “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. Non viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene.” (Ef 2,8-9) La vita con Cristo nella gloria del Padre non è solo una speranza futura, ma un’esperienza attuale dei credenti: un’esperienza di vita nuova, di vita divina. D’ora in poi, se lo vogliamo, Cristo vive in noi; e siamo resi capaci di vivere nella vita quotidiana la vita divina del Cristo risorto!  Questo significa che nessuna delle nostre vecchie condotte è più una condanna inevitabile. L’amore, la pace, la giustizia, la condivisione sono possibili. E se non lo riteniamo possibile, allora diciamo che Cristo non ci ha salvati! Attenzione! Finora abbiamo sempre parlato della Lettera ai Colossesi come se Paolo ne fosse l’autore; in realtà, molti esegeti ritengono che sia stata scritta da un discepolo molto vicino a Paolo, ispirato dal suo pensiero, ma di una generazione successiva, 

 

Dal Vangelo secondo Luca (11,1-13)

Può forse sorprendere ma Gesù non ha inventato le parole del Padre Nostro: esse provengono direttamente dalla liturgia ebraica e, più in profondità, dalle Scritture. A partire dal vocabolario, che è molto biblico: Padre, nome, santo, regno, pane, peccati, tentazioni…. Cominciamo dalle prime due domande: con grande pedagogia, esse si rivolgono innanzitutto verso Dio e ci insegnano a dire “il tuo nome”, “il tuo Regno”. Educano il nostro desiderio e ci impegnano a collaborare alla crescita del suo Regno. Il Padre Nostro, probabilmente insegnato da Gesù in aramaico “Abun d’bashmaya…nethqadash shimukin che richiama l’ebraico liturgico, è una scuola di preghiera, o se si preferisce, un metodo per imparare a pregare: non dimentichiamo la richiesta del discepolo che direttamente precede: “Signore, insegnaci a pregare” (v.1). Ebbene, se seguiamo il metodo di Gesù, grazie al Padre Nostro, finiremo per sapere parlare la lingua di Dio il cui primo termine è Padre. L’invocazione “Padre nostro” ci pone subito in relazione filiale con Dio ed era già presente nell’Antico Testamento: “Tu, Signore, sei nostro Padre, nostro Redentore da sempre.” (Is 63,16). Le prime due domande riguardano il nome e il regno. “Sia santificato il tuo nome”: nella Bibbia, il nome rappresenta la persona stessa; dire che Dio è santo (kadosh / shmokh in aramaico - separato) significa affermare che Egli è “al di là di tutto e questa richiesta significa: “Fa’ che tu sia riconosciuto come Dio”. “Venga il tuo regno”: ripetuta ogni giorno, questa domanda ci trasformerà in operai del Regno. La volontà di Dio – lo sappiamo – è che l’umanità, radunata nel suo amore, diventi regina della creazione: “Riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,27) e i credenti aspettano il giorno in cui Dio sarà riconosciuto re su tutta la terra, come annunciava il profeta Zaccaria: “Il Signore sarà re su tutta la terra” (Zc 14,9). La nostra preghiera, questo nostro metodo per imparare la lingua di Dio, ci farà diventare persone che desiderano sopra ogni cosa che Dio sia riconosciuto, adorato, amato, che tutti lo riconoscano come Padre, appassionati dell’evangelizzazione e del Regno di Dio. Le tre domande successive riguardano la vita quotidiana: “Dacci”, “Perdonaci”, “Non abbandonarci alla tentazione”. Dio non smette mai di compiere tutto questo e noi ci poniamo in un atteggiamento di accoglienza dei suoi doni. “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano ”τν πιούσιον”: la manna che cadeva ogni mattina nel deserto educava il popolo a confidare giorno per giorno e questa richiesta ci invita a non preoccuparci del domani e a ricevere ogni giorno il cibo come dono di Dio: qui il pane riveste vari significati, compreso il pane eucaristico come spiegherò nella Nota e il plurale “nostro pane” c’invita a condividere la preoccupazione del Padre di sfamare tutti i suoi figli. “Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”: il perdono di Dio non è condizionato dal nostro comportamento e il perdono fraterno non compra il perdono di Dio, ma è l’unica via per entrare nel perdono divino che è già donato: chi ha il cuore chiuso non può accogliere i doni di Dio. “Non abbandonarci alla tentazione” qui c’è un problema di traduzione, perché – ancora una volta – la grammatica ebraica è diversa dalla nostra: il verbo usato nella preghiera ebraica significa «fa’ che non entriamo nella tentazione» Si tratta di ogni tentazione, certamente, ma soprattutto della più grave, la tentazione di dubitare dell’amore di Dio. Nella preghiera del Padre nostro tutta la vita del mondo è coinvolta: parlare la lingua di Dio significa sapere chiedere e la preghiera di domanda non solo è permessa, ma è raccomandata perché è esercizio di umiltà e fiducia, e non sono richieste qualsiasi: pane, perdono, forza contro le tentazioni. Tutte le domande sono al plurale e ognuno di noi le formula a nome dell’intera umanità. In fondo c’è un legame stretto tra le prime domande del Padre Nostro e le successive: chiediamo a Dio ciò che serve per compiere la nostra missione battesimale: Dacci tutto ciò che ci serve – pane e amore – e proteggici, affinché abbiamo la forza di annunciare il tuo Regno. Nel vangelo segue immediatamente la parabola dell’amico importuno che invita a non smettere mai di pregare, certi che il Padre celeste dà sempre lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (v.13) per cui anche se i problemi non saranno risolti con un colpo di bacchetta magica, non li vivremo però più da soli ma insieme a Lui.

 

NOTA 

1 – A proposito del “pane”, nel versetto 3: lo stesso aggettivo è presente in una preghiera del libro dei Proverbi: «Non darmi né povertà né ricchezza; concedimi solo il cibo necessario.» (Pr 30,8).  

2 Il termine pane τν πιούσιον, aggettivo molto raro è un hapax legomenon, cioè appare solo qui (e in Mt 6,11), e non si trova altrove nella letteratura greca classica o nei LXX (Settanta). Molteplici le interpretazioni, ma πιούσιος resta enigmatico e porta con sé una ricchezza di significati: il pane materiale necessario per vivere ogni giorno; il pane spirituale, cioè la Parola di Dio e l’Eucaristia, il segno di una fiducia giorno per giorno nella Provvidenza del Padre. Alcuni esegeti lo leggono come “il pane per il giorno che sta per venire”, quindi un’invocazione fiduciosa per il futuro immediato. 

3. Gesù prende il Padre nostro direttamente dalla liturgia ebraica ed ecco alcune preghiere ebraiche che ne sono all’origine: Padre nostro che sei nei cieli» (Mishnah Yoma, invocazione comune); Sia santificato il tuo nome eccelso nel mondo che hai creato secondo la tua volontà (Qaddish, Qedushah e Shemoné Esré); Venga presto e sia riconosciuto nel mondo intero il tuo Regno… Sia fatta la tua volontà in cielo e sulla terra… Dacci il pane quotidiano…

Rimetti i nostri peccati come noi li rimettiamo… Non ci indurre in tentazione… A te appartengono grandezza, potenza, gloria… (1 Cr 29,11)

4. La dossologia finale del Padre Nostro: Molti gruppi cristiani, ben prima del Concilio Vaticano II, recitavano alla fine del Padre Nostro: Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Questa “dossologia” (parola di lode) si trova in alcuni manoscritti di Matteo, ed è probabilmente derivata da un uso liturgico molto antico, già nel I secolo, ma risale ancora più indietro, fino alla preghiera di Davide  (cf Cronache 29,11).

5. Sull’importanza delle preghiere di domanda, eco un’interessante immagine proposta da Denys l’Areopagita: immagina una barca sul mare; sulla riva, c’è una roccia, su di essa un anello e un altro anello sulla barca, legati da una corda L’uomo che prega è come chi, dalla barca, tira la corda: non attira la roccia verso di sé, ma avvicina sé stesso – e la barca – alla roccia.

+ Giovanni D’Ercole

16a Domenica T.O. (anno C) [20 luglio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! L’estate per chi può è tempo in cui si può dedicare più ascolto alla Parola e pregare per quanti invece vivono così immersi nelle preoccupazioni al punto da credere di non aver tempo per pregare.

 

*Prima Lettura dal Libro della Genesi (18, 1-10)

Mambré è un abitante del paese di Canaan che, in diverse occasioni, ha offerto ospitalità ad Abramo nel suo bosco di querce (vicino all’attuale città di Hebron). Sappiamo che per i Cananei le querce erano alberi sacri. Questo racconto riferisce un’apparizione di Dio nel bosco appartenente a Mambré. Ma, in realtà, non è la prima volta che Dio parla ad Abramo. Fin dal capitolo 12, il libro della Genesi ci narra le ripetute apparizioni e promesse di Dio ad Abramo. Ma, per il momento, nulla è ancora accaduto e Abramo e Sara stanno per morire senza figli. Si dice spesso che Dio ha scelto un popolo, ma in realtà  Dio ha scelto prima un uomo – e per di più, un uomo senza figli. E proprio a quest’uomo privo di futuro (almeno secondo criteri umani) Dio ha fatto una promessa inaudita: “Farò di te una grande nazione… In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2-3). A questo vecchio sterile, ha detto: “Conta le stelle, se riesci… Così sarà la tua discendenza”. Solo su questa promessa, apparentemente irrealizzabile, Abramo ha deciso di giocarsi tutta la vita. Abramo non dubitava che Dio avrebbe mantenuto la sua parola, ma conosceva bene l’ostacolo evidente: lui e Sara erano sterili o almeno tali credevano di essere, visto che a settantacinque e sessantacinque anni erano ancora senza figli. Abramo aveva immaginato delle soluzioni: Dio mi ha promesso una discendenza, ma, in fondo, il mio servo è come un figlio. “Signore Dio, che cosa mi darai? Vado via senza figli, e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco” (Gen 15,2). Ma Dio rifiutò: “Non costui sarà tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede” (Gen 15,4). Qualche anno più tardi, quando Dio tornò a parlare di quella nascita, Abramo non poté fare a meno di ridere (Gen 17,17); poi pensò a un’altra soluzione: potrebbe essere il mio vero figlio, Ismaele, quello che ho avuto dall’unione (autorizzata da Sara) con Agar. “Potrà forse nascere un figlio a un uomo di cent’anni? E Sara, a novant’anni, potrà ancora partorire?… Possa Ismaele vivere davanti a te!” Ma anche questa volta Dio rifiutò: “No! Tua moglie Sara ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco” (Gen 17,19). La Promessa è la Promessa. Il brano che leggiamo questa domenica presuppone tutta questa lunga storia di Alleanza di venticinque anni, secondo la Bibbia. L’evento si svolge vicino alla quercia di Mambré. Tre uomini apparvero ad Abramo e accettarono la sua ospitalità. Fermiamoci qui. Contrariamente a quanto si pensa, il punto centrale del testo non è l’ospitalità generosa offerta da Abramo! All’epoca, in quella civiltà, non era niente di straordinario, per quanto esemplare potesse essere. Il messaggio dell’autore, ciò che suscita la sua ammirazione e che lo spinge a scrivere per tramandare alle generazioni future, è molto più grande! È accaduto l’impensabile: per la prima volta nella storia dell’umanità, Dio in persona si è fatto ospite di un uomo! Nessuno ha dubbi sul fatto che i tre illustri visitatori rappresentino Dio. La lettura del testo, per noi, è un po’ difficile, perché non si capisce bene se ci sia un solo visitatore o più di uno: Abramo alzò gli occhi e vide tre uomini… disse: mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi… si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi… andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi…Dov’è Sara, tua moglie?… Tornerò da te fra un anno… tua moglie avrà un figlio. In realtà, l’autore scrive molto tempo dopo, sulla base di racconti diversi. Di tutte queste fonti, ne fa una sola, armonizzando il tutto il più possibile. E poiché vuole evitare ogni apparenza di politeismo, si preoccupa di ribadire più volte che Dio è uno solo. All’epoca l’autore non poteva immaginare che fosse la Trinità, ma certamente Abramo ha riconosciuto senza esitazione, in quei tre visitatori, la presenza divina. Dio, dunque – perché è proprio Lui, senza dubbio – si è fatto ospite nella casa di Abramo. E per dirgli cosa? Per confermargli quel progetto inaudito che aveva per lui: l’anno prossimo, in questo stesso tempo la vecchia Sara avrà un figlio. E da questo figlio nascerà un popolo che sarà lo strumento della benedizione divina. Sara, che stava origliando dietro la tenda, non poté trattenere una risata: erano così vecchi tutti e due e il viandante rispose con una frase che non dovremmo mai dimenticare: “C’è forse qualcosa d’impossibile per il Signore?” (Gen 18,14). E l’impossibile accadde: nacque Isacco, primo anello della discendenza promessa, numerosa come le stelle del cielo.

 

*Salmo responsoriale (14 /15, 1a. 2-3a, 3bc-4ab, 4d-5)

I salmi sono stati tutti composti per accompagnare un’azione liturgica durante i pellegrinaggi e le feste al Tempio di Gerusalemme e il Salterio potrebbe essere paragonato ai libretti dei canti che troviamo nelle nostre chiese. Qui, il pellegrino arriva alle porte del Tempio e pone la domanda: sono degno di entrare? La risposta si trova nel Libro del Levitico: “Siate santi, perché io sono santo” (19,2) e questo salmo ne trae le conseguenze: a colui che desidera entrare nel Tempio (la “casa” di Dio), deve avere una condotta degna del Dio santo. “Chi dimorerà sulla tua santa montagna? (v.1) La risposta è semplice: “Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore” (v.2) e i versetti seguenti lo precisano: essere giusto, essere vero, non fare torto a nessuno. In fin dei conti tutto questo richiama il Decalogo (Es 20) e l’identikit dell’uomo giusto tracciato da Ezechiele (Ez 18,5-9). Michea riprende esattamente la domanda del nostro salmo e la sviluppa (Mi 6,6-8) come anche Isaia, suo contemporaneo (Is 33,15-16). Un po’ più tardi, anche Zaccaria sentirà il bisogno di ripeterlo (Zc 8,16-17). Leggendo questi testi che indico solamente ma che è utile andare a meditare, si capisce quanto sia indispensabile attendere l’intervento di Colui che può trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne, come dice Ezechiele. Tutto ci aiuta a rileggere questo salmo applicandolo a Gesù che i vangeli descrivono “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), attento agli esclusi: i lebbrosi (Mc 1), la donna adultera (Gv 8), malati e indemoniati ebrei o pagani. Gesù è completamente estraneo alle logiche del profitto e non ha nemmeno dove posare il capo. Gesù ci aiuta a rileggere il versetto 3: “Non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo, non lancia insulti al suo vicino” dandogli una dimensione nuova e insegnando nella parabola del buon Samaritano che il cerchio dei nostri “prossimi” può allargarsi all’infinito. Il v 4: “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio” potrebbe apparire una stonatura in mezzo a tutti questi bei sentimenti: probabilmente però indica un impegno di fedeltà perché il “malvagio” è l’infedele, l’idolatra e il pellegrino deve rifiutare ogni forma di idolatria per cui in Israele la fedeltà al Dio unico è stata un combattimento costante. Infine, il richiamo alle esigenze dell’Alleanza costituisce una catechesi rivolta ai pellegrini, non una condizione per entrare nel Tempio perché diversamente nessuno avrebbe mai potuto entrarci eccetto Gesù di Nazaret il solo Santo.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1, 24 – 28)

“Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa”. Come intendere la prima frase di questo testo? Manca qualcosa alle sofferenze di Cristo? Oppure, ci sono altre sofferenze da sopportare da parte nostra per “compensare”, in qualche modo? In verità ci sono sofferenze ancora da sopportare, poiché Paolo lo afferma, ma non si tratta di completare una misura. Non è il frutto di una pretesa divina, bensì una necessità  dovuta alla durezza del cuore umano. Ciò che resta da soffrire sono le difficoltà, le opposizioni, persino le persecuzioni, che ogni opera di evangelizzazione incontra. Gesù lo ha detto chiaramente, prima e dopo la sua Passione e  Risurrezione. Se il Figlio dell’uomo ha dovuto soffrire molto, rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, messo a morte e il terzo giorno risorgere (cf Lc 9,22), analogo destino sarà quello dei suoi discepoli: Vi consegneranno ai tribunali e alle sinagoghe, sarete percossi, comparirete davanti a governatori e re a causa mia e ciò sarà per voi un’occasione di testimonianza, ma prima, bisogna che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni (cf Mc 13,9-10). L’avvertimento è che finché la missione non sarà conclusa, il discepolo dovrà continuare a faticare, affrontare difficoltà, persino persecuzioni certamente non per decreto divino, come se Dio desiderasse la sofferenza dei suoi figli e contasse le loro lacrime perché una simile supposizione deformerebbe l’immagine del Dio di tenerezza e di compassione che Mosè stesso aveva già scoperto. Due per Paolo sono le caratteristiche qualificanti il discepolo di Cristo: l’imitazione del divino Maestro sofferente e l’annuncio del “mistero” (v.26) La prima caratteristica è descritta in questo difficile versetto iniziale e sant’Agostino applica questa partecipazione alle sofferenze di Cristo a tutti i cristiani che soffrono perché l’intera comunità sia purificata dal male. La seconda caratteristica è l’annuncio, l’impegno missionario il cui contenuto è “il mistero”, il progetto cioè della salvezza rivelato in Cristo. Per l’opera dell’evangelizzazione, Dio chiama dei collaboratori perché non vuole agire senza di noi. Il mondo però rifiuta di ascoltare la Parola e resiste con tutte le sue forze alla diffusione del vangelo, un’opposizione che arriva fino a perseguitare e sopprimere i martiri, testimoni scomodi. È esattamente ciò che Paolo sta vivendo, imprigionato per aver parlato troppo di Gesù di Nazaret. Nelle sue lettere alle giovani comunità cristiane, egli incoraggia spesso i destinatari ad accettare, a loro volta, l’inevitabile persecuzione (cf 1Ts 3,3). E anche Pietro dice la stessa cosa: “Resistete, saldi nella fede, sapendo che le stesse sofferenze sono riservate ai vostri fratelli sparsi nel mondo.” (1Pt 5,9-10).  Dunque non ci si deve arrendere e occorre annunciare Cristo,  malgrado tutto, “ ammonendo ogni uomo, istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.”(v.28).  Cristo ha iniziato, a noi il compito di portare a compimento l’opera dell’annuncio e in tal modo la Chiesa cresce poco a poco, come Corpo di Cristo. Nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12) l’immagine del corpo serviva per parlare dell’armonia tra i membri all’interno di ogni Chiesa locale. Qui invece la visione di Paolo si amplia e contempla la Chiesa universale, grande corpo di cui Cristo è il capo.  Questo mistero, disegno di Dio è stato rivelato ai cristiani, e diventa per loro fonte inesauribile di gioia e di speranza: “Cristo in voi, lui, speranza della gloria!” (v. 27) ed è lo stupore della presenza del Cristo in mezzo a loro che trasforma i credenti in testimoni. Allora comprendiamo meglio la frase iniziale del testo di oggi: Trovo la gioia nelle sofferenze che sopporto per voi, poiché quello che manca alle sofferenze di Cristo, lo completo nella mia carne, per il bene del suo corpo che è la Chiesa.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (10, 38-42)

“Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33): questo è forse il miglior commento alla lezione di Gesù nella casa di Marta e Maria, un racconto esclusivo dell’evangelista Luca che segue immediatamente la parabola del buon samaritano. Gesù è in cammino con i discepoli verso Gerusalemme, occasione per lui di dare molte istruzioni ai suoi discepoli offrendo punti di riferimento che li aiutino a restare fedeli alla vocazione di seguirlo. Ha prima raccomandato ai discepoli in missione di accettare l’ospitalità (cf Lc 9,4; 10,5-9) e ora volentieri entra in questa casa a Betania che ben conosceva. Bisogna evitare di contrapporre Marta, l’attiva, a Maria, la contemplativa, perché l’evangelista sembra piuttosto concentrarsi sulla relazione dei discepoli con il Signore, come si percepisce dal contesto e dalla ripetizione del termine “Signore”, che compare tre volte: Maria stava seduta ai piedi del Signore… Marta disse: Signore, non ti importa? Il Signore le rispose.... L’uso insistito di questo termine indica che la relazione descritta da Luca tra Gesù e le due sorelle, Marta e Maria, non va giudicata secondo i criteri umani del “buon comportamento”, ma secondo ciò che il Maestro desidera insegnare ai suoi discepoli. Qui invita al discernimento di ciò che è la “parte migliore”, cioè l’atteggiamento essenziale e indispensabile nella vita e nella missione dei cristiani. Le due donne accolgono il Signore con tutta la loro attenzione: Marta è assorbita da molte faccende legate al servizio, Maria s’intrattiene con l’ospite ascoltandolo e non perde nessuna delle sue parole. Non si può dire che una sia attiva e l’altra contemplativa: entrambe, a loro modo, sono totalmente concentrate su di lui. L’evangelista si focalizza su Gesù che parla, anche se non ci viene detto che cosa dica, mentre Maria, “seduta ai pedi del Signore” ascolta con l’atteggiamento del discepolo per lasciarsi istruire (cf. Is 50). Marta protesta: “Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. E qui Gesù pronuncia una frase che ha fatto versare molto inchiostro: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose”. Gesù non rimprovera Marta per il suo desiderio di accoglierlo bene perché, nella cultura dell’ospitalità (soprattutto in Oriente), l’accoglienza significava preparare un buon pasto: “uccidere il vitello grasso”. L’agitazione e l’inquietudine di Marta ispirano a Gesù un insegnamento utile per tutti i suoi discepoli perché va all’essenziale: “Di una cosa solo c’è bisogno”: cioè tutto è utile se non si dimentica però “la parte migliore” cioè l’essenziale. Nella vita, tutti dobbiamo essere sia Marta che Maria, ma attenzione a non confondere le priorità. Gesù riprenderà questa lezione più avanti, in modo più esteso (Lc 12,22-32) che però la liturgia non sempre lo propone. Mi permetto allora di richiamarlo: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di ciò che mangerete, né per il corpo, di cosa vi vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito... Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più vestirà voi, gente di poca fede! Non cercate dunque che cosa mangerete o che cosa berrete, e non state con l’animo in ansia. Sono i pagani del mondo che ricercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo Regno, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta”. Gesù ci mette in guardia dal rischio che le preoccupazioni d’ogni giorno c’impediscano di ascoltare la sua parola che è “la parte migliore”. Dedicandoci al servizio come Marta, dobbiamo evitare di dimenticare che è sempre Dio a prendersi cura di noi e non il contrario. Possiamo parafrasare le parole di Gesù così: Marta, per accogliermi tu ti affanni e ti agiti facendo molte cose utili, ma il modo migliore è sapere che sono io a voler fare delle cose per te e quindi restami in ascolto.

+ Giovanni D’Ercole

15a Domenica Tempo Ordinario (anno C) [13 Luglio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Viviamo l’estate lasciandoci accompagnare e guidare dalla Parola di Dio.

 

*Prima Lettura dal Libro del Deuteronomio (30,10-14)

 Il libro del Deuteronomio contiene l’ultimo discorso di Mosè, una sorta di suo testamento spirituale anche se di sicuro non è stato scritto da Mosè, visto che si ripete spesso: “Mosè ha detto…Mosè ha fatto”. L’autore poi è molto solenne nel ricordare il contributo maggiore di Mosè: aver fatto uscire Israele dall’Egitto e aver concluso l’Alleanza con Dio sul Sinai. In questa Alleanza, Dio si impegna a a proteggere il suo popolo per sempre e il popolo promette di rispettare la sua Legge, riconoscendo in essa la migliore garanzia della libertà ritrovata. Israele s’impegna, ma non si mostra spesso fedele. Quando il regno del Nord, annientato dagli Assiri, scompare dalla carta geografica, l’autore invita gli abitanti del regno del Sud, imparando da tale disfatta, ad ascoltare la voce del Signore, a osservare i suoi comandi e decreti scritti nella Torah. Non sono infatti né difficili da capire né da mettere in pratica: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te né troppo lontano da te” (v.11).

Una domanda: Se osservare la Legge non è difficile perché non si mettono in pratica i comandamenti di Dio? Per Mosè la ragione sta nel fatto che Israele è “un popolo di dura cervice”: ha provocato l’ira del Signore nel deserto e poi è stato ribelle al Signore dal giorno in cui è uscito dall’Egitto fino al suo arrivo della terra promessa (Cf. Dt 9,6-7). L’espressione “dura cervice” evoca un animale che si rifiuta di piegare il collo sotto il giogo e l’Alleanza tra Dio e il suo popolo era paragonata a un giogo di aratura. Per raccomandare l’obbedienza alla Legge, Ben Sira, scrive: “Mettete il vostro collo sotto il giogo e ricevete l’istruzione” (Sir 51,26). Mentre Geremia, rimprovera a Israele le sue infedeltà alla Legge: “Da tempo tu hai spezzato il tuo giogo, hai rotto i tuoi legami” (Ger 2,20; 5,5). E Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me… Sì, il mio giogo è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,29-30). Questa frase trova proprio qui, nel nostro testo del Deuteronomio, le sue radici: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te né troppo lontano da te”(v11) . Sia nel Deuteronomio come nel vangelo emerge il messaggio positivo della Bibbia: la Legge divina è alla nostra portata e il male non è irrimediabile per cui se l’umanità cammina verso la salvezza, che consiste nell’amare Dio e il prossimo, sperimenta la felicità. Eppure l’esperienza dimostra che la pratica di una vita conforme al progetto di Dio è impossibile per l’uomo quando si affida solo alle proprie forze. Ma se questo è impossibile agli uomini, tutto è invece possibile a Dio (Cf Mt 19,26) che, come leggiamo in questo testo, trasforma la nostra “dura cervice” e cambia il nostro cuore: egli “circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, e viva” (Dt 30,6). Per circoncisione del cuore si intende l’adesione di tutto il nostro essere alla volontà di Dio, possibile, come annotano i profeti specialmente Geremia ed Ezechiele,  solamente grazie a un intervento diretto di Dio: “Metterò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”(Ger 31,33).

 

*Salmo responsoriale 18/19

L’obbedienza alla Legge è un cammino verso la vera Terra Promessa e questo salmo sembra una litania in onore della Legge: “la Legge del Signore”, ”i precetti del Signore», “il comando del Signore”, “i giudizi del Signore”. Il Signore ha scelto il suo popolo, lo ha liberato e gli ha proposto la sua Alleanza per accompagnarlo lungo tutta la sua esistenza, educandolo con l’osservanza della Torah. Non bisogna dimenticare che, prima di ogni altra cosa, il popolo ebraico ha fatto l’esperienza di essere stato liberato dal suo Dio. La Legge e i comandamenti si collocano dunque nella prospettiva dell’uscita dall’Egitto: sono un’impresa di liberazione da tutte le catene che impediscono all’uomo di essere felice e si tratta di un’Alleanza eterna. Il libro del Deuteronomio insiste su questo punto: “Ascolta dunque, Israele, osserva e metti in pratica ciò che ti renderà felice” (Dt 6,3). E il nostro salmo fa eco: “I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore”. La grande certezza acquisita dagli uomini della Bibbia è che Dio vuole la felicità dell’uomo e gli offre un mezzo molto semplice perché basta ascoltare la sua Parola scritta nella Legge: “Il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. Il cammino è tracciato, i comandamenti sono come segnali stradali che indicano eventuali pericoli e la Legge è il nostro maestro: del resto la radice della parola Torah in ebraico significa prima di tutto insegnare. Non c’è altra esigenza e non c’è nemmeno un’altra via per essere felici: “I giudizi del Signore sono tutti giusti, più preziosi dell’oro, più dolci del miele”. Se per noi, come per il salmista, l’oro è un metallo al tempo stesso incorruttibile e prezioso, quindi desiderabile, il miele invece non evoca per noi ciò che rappresentava per un abitante della Palestina. Quando Dio chiama Mosè e gli affida la missione di liberare il suo popolo, gli promette: “Io vi farò salire dalla miseria d’Egitto… verso un paese dove scorre latte e miele” (Es 3,17). Quest’espressione, molto antica, caratterizza l’abbondanza e la dolcezza. Il miele, ovviamente, si trova anche altrove persino nel deserto dove Giovanni Battista si nutriva di locuste e miele selvatico (Cf Mt 3,4), ma resta comunque una rarità e proprio questo rende meravigliosa la Terra Promessa dove la presenza del miele indica la dolcezza dell’azione di Dio, che ha preso l’iniziativa di salvare il suo popolo, semplicemente per amore. Per questo d’ora in poi non si parlerà più delle cipolle d’Egitto, ma del miele di Canaan e Israele è certo che Dio lo salverà perché, come inizia il salmo,  “la Legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima, la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice”.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,15-20)

Comincio parafrasando l’ultima frase, che forse per noi è la più difficile: Dio ha giudicato bene che tutto, per mezzo di Cristo, gli sia finalmente riconciliato, facendo la pace per tutti gli esseri sulla terra e nel cielo mediante il sangue della sua croce (vv19-20). Paolo qui paragona la morte di Cristo a un sacrificio come quelli che si offrivano abitualmente nel tempio di Gerusalemme. In particolare, esistevano dei sacrifici chiamati “sacrifici di comunione” o “sacrifici di pace”. Paolo sa bene che quanti hanno condannato Gesù non avevano di certo l’intenzione di offrire un sacrificio sia perché i sacrifici umani non esistevano più in Israele, sia perché Gesù è stato condannato a morte come un malfattore ed è stato giustiziato fuori dalla città di Gerusalemme. Paolo qui contempla una cosa inaudita: nella sua grazia, Dio ha trasformato l’orribile passione inflitta al suo Figlio dagli uomini in un’opera di pace. In altre parole, l’odio umano che uccide il Cristo, in un misterioso rovesciamento ad opera della grazia divina, diventa strumento di riconciliazione e di pacificazione perché finalmente conosciamo Dio così com’è: Dio è puro amore e perdono.  Questa scoperta può trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne (cf. Ezechiele), se lasciamo agire in noi il suo Spirito. In questa lettera ai Colossesi troviamo la stessa meditazione che troviamo nel vangelo di Giovanni ispirata dalle parole del profeta Zaccaria: “Riverserò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica. Guarderanno a me, a colui che hanno trafitto… piangeranno per lui amaramente» (Zc 12,10). Quando contempliamo la croce, da questa contemplazione può nascere la nostra conversione e riconciliazione. Nel Cristo in croce contempliamo l’uomo così come Dio lo ha voluto e scopriamo nel Gesù trafitto l’uomo giusto per eccellenza, l’uomo perfetto immagine di Dio. Per questo Paolo parla di pienezza, nel senso di compimento: “E’ piaciuto a Dio che abiti in lui tutta la pienezza”. Riprendiamo ora l’inizio del testo: “Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”. In Gesù contempliamo Dio stesso; in Gesù Cristo, Dio si lascia vedere o, per dirlo in un altro modo, Gesù è la visibilità del Padre: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, dice lui stesso nel vangelo di Giovanni (Gv 14,9). Contemplando il Cristo, contempliamo l’uomo, contemplando il Cristo, contempliamo Dio. Resta ancora un versetto fondamentale: “Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose” (v.18). Questo è forse il testo del Nuovo Testamento, dove si dice il più chiaramente possibile, che siamo il Corpo di Cristo, cioè è il capo di un grande corpo di cui noi siamo le membra. Se altrove aveva già detto che siamo tutti membra di un unico corpo (Rm 12,4-5) e (1 Cor 12,12), qui lo precisa chiaramente: “Il Cristo è il capo del corpo, che è Chiesa” (come anche in Ef 1,22; 4,15; 5,23) e tocca a noi fare in modo che questo Corpo cresca in maniera armoniosa. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (10,25-37)

Un dottore della Legge pone a Gesù due domande impegnative: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” e, ancor più impegnativa, “E chi è il mio prossimo? La risposta che riceve è esigente. Partendo infatti dalle sue domande, Gesù lo conduce al cuore stesso di Dio e colloca tale percorso in un contesto concreto e familiare ai suoi ascoltatori: la strada di trenta chilometri che separa Gerusalemme da Gerico, una strada in pieno deserto, che all’epoca era davvero un luogo di agguati per cui il racconto dell’assalto e della cura del ferito suonava estremamente verosimile. Scendeva un uomo da Gerusalemme a Gerico è cadde nelle mani dei briganti, che lo derubano e lo lasciano mezzo morto. Alla sua disgrazia fisica e morale si aggiunge anche un’esclusione di tipo religioso perché toccato da “impuri”, diventa egli stesso impuro. Questa è la ragione dell’apparente indifferenza, anzi della repulsione del sacerdote e del levita, preoccupati di preservare la propria integrità rituale. Un samaritano, invece, non si pone questi scrupoli. Questa scena sul ciglio della strada esprime in immagini ciò che Gesù stesso ha fatto tante volte quando guariva anche di sabato, quando si chinava sui lebbrosi, quando accoglieva i peccatori, citando più volte il profeta Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6). Alla prima domanda del dottore della Legge Gesù risponde a sua volta come i rabbini con una domanda: “Nella Legge, cosa vi è scritto? Come leggi?”e l’interlocutore recita con entusiasmo: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Hai risposto bene”, replica Gesù, perché la sola cosa che conta per Israele, è la fedeltà a questo duplice amore. Il segreto di questa conoscenza, che l’intera Bibbia ci rivela, è che Dio è “misericordioso” (letteralmente in ebraico: “le sue viscere fremono”). Non è un caso se Luca utilizza la stessa espressione per descrivere l’emozione di Gesù alla vista della vedova di Nain che portava il figlio unico al cimitero (Lc 7) o per raccontare la commozione del Padre al ritorno del figlio prodigo (Lc 15). Anche il buon samaritano quando vide l’uomo ferito, “ne ebbe compassione” (si commosse nelle viscere). Anche se è misericordioso per i giudei resta solo un samaritano, cioè uno dei meno raccomandabili dato che giudei e samaritani erano nemici: i giudei disprezzavano i samaritani perché eretici (un disprezzo antico: nel libro del Siracide si cita tra i popoli detestabili «il popolo stolto che abita in Sichem» (Sir 50,26)), mentre i samaritani non perdonavano ai giudei la distruzione del loro santuario sul monte Garizim (nel 129 a.C.). Eppure, quest’uomo disprezzato è dichiarato da Gesù più vicino a Dio dei dignitari e dei servitori del Tempio, che passarono oltre senza fermarsi. La “compassione nelle viscere” del samaritano — miscredente agli occhi dei giudei — diventa “immagine di Dio” e Gesù propone un rovesciamento di prospettiva. Alla domanda “chi è il mio prossimo?”, non risponde con una “definizione” di prossimo (in definizione c’è la anche parola latina “finis” che significa limite), ma ne fa una questione di cuore. Attenzione al vocabolario: la parola “prossimo” fa intendere che ci siano anche dei lontani. E allora, alla domanda: “Chi è dunque il mio prossimo?” il Signore risponde: Spetta a te decidere fino a dove vuoi tu farti prossimo. E propone come esempio proprio il samaritano semplicemente  perché è capace di compassione. E chiude Gesù: “Va’, e anche tu fa’ lo stesso”. Non è un semplice consiglio. Al dottore della Legge aveva già detto prima: “Fa’ questo e vivrai” e ora Luca evidenzia l’esigenza di coerenza tra parole e fatti: è bello parlare come un libro (è il caso del dottore della Legge), ma non basta perché Gesù diceva: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). In definitiva Gesù ci provoca a un amore senza confini!

NOTA La domanda «Qual è il più grande comandamento?» compare anche nei vangeli di Matteo e Marco, mentre la parabola del buon Samaritano è propria di Luca. È interessante anche osservare che la presentazione così positiva di un samaritano (Lc 10) segue immediatamente il rifiuto di un villaggio samaritano di accogliere Gesù e i suoi discepoli in cammino verso Gerusalemme (Lc 9). Gesù rifiuta ogni tipo di generalizzazione e questa parabola evidenzia, in fondo, una questione di scelte prioritarie nella nostra vita.

+Giovanni D’Ercole

XIV Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [6 luglio 2025]

Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga! Anche se entriamo nel tempo delle vacanze continuerò a farvi avere i commenti ai testi biblici di ogni domenica

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66, 10-14)

Quando un profeta parla tanto di consolazione, significa che le cose vanno molto male per cui avverte il bisogno di consolare e tener viva la speranza: questo testo è dunque stato scritto in un momento difficile. L’autore, il Terzo Isaia, è uno dei lontani discepoli del grande Isaia e sta predicando agli esuli tornati dall’esilio babilonese verso il 535 a.C. Il loro ritorno, tanto sognato, si è rivelato deludente sotto ogni aspetto perché dopo 50 anni tutto era cambiato. Gerusalemme portava le cicatrici della catastrofe del 587 quando fu distrutta da Nabucodonosor; il Tempio era in rovina come buona parte della città e gli esuli non avevano ricevuto l’accoglienza trionfale come speravano.  Il profeta parla di lutto e di consolazione, ma a fronte dello scoraggiamento dominante, non si accontenta di parole di conforto, ma osa persino un discorso quasi trionfale: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto” (v10). Da dove trarre quest’ottimismo? La risposta è semplice: dalla fede, o meglio dall’esperienza d’Israele che continua a sperare in ogni epoca perché ha certezza che Dio è sempre presente e, anche quando tutto sembra perduto, sa che nulla è impossibile a Dio. Già nei tempi di forte scoraggiamento durante l’Esodo si proclamava: “il braccio del Signore si è forse raccorciato?  (Nm 11,23), immagine  che ricorre più volte  nel libro di Isaia. Durante l’esilio, quando vacillava la speranza, il Secondo Isaia comunicava a nome di Dio: “È forse troppo corta la mia mano per liberare?» (Is 50,2) e dopo il ritorno, in un periodo di forte preoccupazione, il Terzo Isaia, che leggiamo oggi, riprende due volte la stessa immagine sia nel capitolo 59,1 sia nell’ultimo versetto dell’odierna lettura: “La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi” (v.14). Dio che ha liberato il suo popolo tante volte in passato, mai l’abbandonerà. Anche da solo il termine “mano” è un’allusione all’uscita dall’Egitto, quando Dio intervenne con mano potente e braccio teso. Il versetto 11 dell’odierno testo: “Sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni” richiama la terribile prova di fede che il popolo visse nel deserto quando ebbe fame e sete, e anche allora Dio gli assicurò ciò che era necessario.  Questo richiamo al libro dell’Esodo offre due lezioni: da una parte, Dio ci vuole liberi e sostiene tutti i nostri sforzi per instaurare la giustizia e la libertà; ma d’altra parte è importante e necessaria la nostra collaborazione. Il popolo è uscito dall’Egitto grazie all’intervento di Dio e questo Israele non lo dimentica mai, ma ha dovuto camminare verso la terra promessa a volte con grande fatica. Quando poi al versetto 13 Isaia promette da parte di Dio: “Io farò scorrere verso di essa come un fiume la pace” non significa che la pace si instaurerà magicamente. Il Signore è sempre fedele alle sue promesse: occorre continuare a credere che egli resta ed opera al nostro fianco in ogni situazione. Al tempo stesso è indispensabile che noi agiamo perché la pace, la giustizia, la felicità hanno bisogno del nostro apporto convinto e generoso. 

 

*Salmo responsoriale (65/66, 1-3a, 4-5, 6-7a, 16.20)

 Come spesso accade, l’ultimo versetto dà il senso di tutto il salmo: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Il vocabolario impiegato mostra che questo salmo è un canto di ringraziamento: “Acclamate, cantate, dategli gloria… a te si prostri tutta la terra… narrerò quanto per me ha fatto” composto probabilmente per accompagnare i sacrifici nel Tempio di Gerusalemme e a parlare non è un individuo, bensì l’intero popolo che rende grazie a Dio. Israele ringrazia come sempre per la liberazione dall’Egitto con cenni molto chiari: “Egli cambiò il mare in terraferma… passarono a piedi il fiume”; oppure: “Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini”. Anche l’espressione “le opere di Dio” nella Bibbia, indica sempre la liberazione dall’Egitto. Colpisce, del resto, la somiglianza tra questo salmo e il cantico di Mosè dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15), evento che illumina l’intera storia di Israele: l’opera di Dio per il suo popolo non ha altro scopo che liberarlo da ogni forma di schiavitù. Questo è il senso del capitolo 66 di  Isaia che leggiamo questa domenica nella prima lettura: in un’epoca molto buia della storia di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, il messaggio è chiaro: Dio vi consolerà. Non si sa se questo salmo sia stato composto nella stessa epoca, in ogni caso il contesto è lo stesso perché è scritto per essere cantato nel Tempio di Gerusalemme e i fedeli che vi affluiscono per il pellegrinaggio prefigurano l’umanità intera che salirà a Gerusalemme alla fine dei tempi. E se il testo di Isaia annuncia la nuova Gerusalemme dove affluiranno tutte le nazioni, il salmo risponde: “Acclamate Dio, voi tutti tutta della terra… a te si prostri tutta la terra…a te canti inni al tuo nome”. La gioia promessa è il tema centrale di questi due testi: quando i tempi sono duri, occorre ricordarsi che Dio non vuole altro che la nostra felicità e un giorno la sua gioia riempirà tutta la terra, come scrive Isaia a cui il salmo risponde in eco: “Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio e narrerò quanto per me ha fatto” (vv16.20). I testi del profeta Isaia e del salmista sono immersi nella stessa atmosfera, ma non si trovano sullo stesso registro: il profeta esprime la rivelazione di Dio, mentre il salmo è la preghiera dell’uomo. Quando Dio parla si preoccupa della gloria e della felicità di Gerusalemme. Quando il popolo, attraverso la voce del salmista, parla rende a Dio la gloria che a lui solo spetta: “Acclamate Dio, voi tutti della terra, cantate la gloria del suo nome, dategli gloria con la lode” (vv1-3). Infine il salmo diventa voce di tutto Israele: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Un modo meraviglioso per dire che sarà l’amore ad avere l’ultima parola

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Galati (6, 14-18)

“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce “. Il fatto che Paolo insiste sulla croce come unico vanto, lascia intuire che c’è un problema. In effetti la lettera ai Galati inizia con un forte rimprovero perché molto in fretta i credenti erano passati da Cristo a un altro vangelo e alcuni seminavano confusione volendo capovolgere il vangelo di Cristo. A seminare zizzania erano ebrei convertiti al cristianesimo (giudeo-cristiani) che volevano obbligare tutti a praticare tutte le prescrizioni della religione ebraica, compresa la circoncisione. Paolo allora li mette in guardia perché teme che dietro la discussione sul sì o no alla circoncisione  si nasconda una vera eresia dato che ci salva solo la fede in Cristo concretizzata dal Battesimo e  imporre la circoncisione equivarrebbe a negarlo, ritenendo la croce di Cristo non  sufficiente. Per questo ricorda ai Galati che il loro unico vanto è la croce di Cristo. Ma, per comprendere Paolo, bisogna precisare che per lui la croce è un evento e non si concentra solo sulle sofferenze di Gesù: per lui è l’evento centrale della storia del mondo. La croce –cioè  Cristo crocifisso e risorto - ha riconciliato Dio e l’umanità, e ha riconciliato gli uomini tra loro. Scrivendo che per mezzo della croce di Cristo, “il mondo per me è stato crocifisso” intende dire che a a partire dall’evento della croce il mondo è definitivamente trasformato e nulla sarà più come prima, come scrive anche nella lettera ai Colossesi (Col 1, 19-20). La prova che la croce è l’evento decisivo della storia è che la morte è stata vinta: Cristo è risorto. Per Paolo, croce e risurrezione sono inseparabili trattandosi di un solo medesimo evento. Dalla croce è nata la creazione nuova, contrapposta al mondo antico.  In tutta questa lettera, Paolo ha contrapposto il regime della Legge mosaica con il regime della fede; la vita secondo la carne e la vita secondo lo Spirito; l’antica schiavitù e la libertà che riceviamo da Gesù Cristo. Aderendo per fede a Cristo, diventiamo liberi di vivere secondo lo Spirito. Il mondo antico è in guerra e l’umanità non crede che Dio sia amore misericordioso e di conseguenza, disobbedendo ai suoi comandamenti, crea rivalità e guerre per il potere e per il denaro. La creazione nuova, al contrario, è l’obbedienza del Figlio, la sua fiducia totale, il perdono ai suoi carnefici, la sua guancia tesa a chi gli strappa la barba, come scrive Isaia. La Passione di Cristo è stata un culmine di odio e di ingiustizia perpetrati in nome di Dio; Cristo però ne ha fatto un culmine di non-violenza, di dolcezza, di perdono. E noi, a nostra volta, innestati nel Figlio, siamo resi capaci della stessa obbedienza e dello stesso amore. Questa conversione straordinaria, che è opera dello Spirito di Dio, ispira a Paolo una formula particolarmente incisiva: Per mezzo della croce, il mondo è crocifisso per me e io per il mondo che vuol dire: Il modo di vivere secondo il mondo è abolito, ormai viviamo secondo lo Spirito e questo diventa  motivo di vanto per i cristiani. Proclamare la croce di Cristo non è facile e quando dice: “io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo” allude alle persecuzioni che egli stesso ha subito per aver annunciato il vangelo. Un’annotazione finale: questo è l’unico scritto paolino che termina con la parola “fratelli”. Dopo aver dibattuto polemicamente con i Galati alla fine Paolo ritrova nella sua comunità la fraternità che lega evangelizzatori a evangelizzati e l’unica sorgente dell’amore ritrovato è “nella grazia del Signore nostro Gesù Cristo” (v.18). 

 

*Dal vangelo secondo Luca (10, 1- 20)

 Questa pagina del vangelo presenta Gesù mentre si dirige verso Gerusalemme. Dopo aver superato tutte le tentazioni e aver vinto il principe di questo mondo, gli resta da trasmettere il testimone ai suoi discepoli che a loro volta dovranno consegnarlo ai loro successori. La missione è troppo importante e preziosa e va condivisa. In primo luogo c’è l’invito a pregare “il signore della messe perché mandi operai nella sua messe” (v.2).  Dio conosce tutto ma c’invita a pregare perché ci lasciamo illuminare da Lui. La preghiera non mira mai a informare Dio: sarebbe ben presuntuoso da parte nostra, ma ci prepara a lasciarci trasformare da lui. Invia così il folto gruppo dei discepoli in missione fornendo loro tutti i consigli necessari per affrontare prove e ostacoli a lui ben noti. Quando saranno rifiutati, come Gesù ha sperimentato in Samaria, non dovranno scoraggiarsi ma partendo annunceranno a tutti: “E’ vicino a voi il Regno di Dio” (v.9).  E aggiungeranno: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi” (v.11).  Ecco inoltre alcune specifiche consegne per i discepoli. “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (v.3) e questo indica che occorre restare sempre miti come agnelli essendo la missione del discepolo recare la pace: “in qualsiasi casa entriate, dite prima: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui” (vv.5-6). Bisogna cioè credere a tutti i costi nel potere contagioso della pace perché quando auguriamo sinceramente la pace, realmente la pace cresce. E se qualcuno non vi accetta non lasciatevi appesantire dagli insuccessi e dai rifiuti. Ogni discepolo avrà vita difficile perché, se Gesù stesso non aveva dove posare il capo, questo toccherà pure ai suoi discepoli. E per questo dovranno imparare a vivere giorno per giorno senza preoccuparsi del domani, accontentandosi di mangiare e bere quello che sarà servito, come nel deserto il popolo di Dio poteva raccogliere la manna solo per il giorno stesso. Per evangelizzare porteranno con sé solo l’essenziale: “senza borsa, né sacca, né sandali” (v.4) e non passate di casa in casa.” (v.7). Ci saranno spesso scelte dolorose da compiere a causa dell’urgenza della missione e sarà importante resistere alla tentazione della vanità del successo:  ”Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (v.20). Da sempre il desiderio di notorietà insidia i discepoli, ma i veri apostoli non sono necessariamente i più famosi. Si può pensare che i settantadue discepoli abbiano superato bene la prova  perché al ritorno, Gesù potrà dire: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore” (v.18).  Intraprendendo la sua ultima marcia verso Gerusalemme, Gesù sente per questo un grande conforto; tanto che subito dopo Luca ci dice: “In quello stesso istante, esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”

+Giovanni D’Ercole

Nella società odierna i fattori che procurano affanno e inquietudine sono molteplici e sovente le strategie per combatterle sono più difficili da trovare. 

Questo tempo caratterizza il  “barcollare” di valori fondamentali, di norme, di aspirazioni, che spingevano l’uomo verso la sua realizzazione, verso una sana relazione con gli altri.

Le attuali guerre nel mondo, il ricordo di esse per i meno giovani, le minacce atomiche, si aggiungono alla lista.

In un clima  così ostile l’isolamento dell’uomo si accentua.

Ogni persona  ha il proprio modo di reagire: quello più usuale è un senso di disagio, di ansietà, di sentirsi in pericolo senza sapere quale esso sia; di rovina, o altro.

Sovente ci sfugge la causa di tutto questo. La persona si sente disarmata, e se questa inquietudine è forte, può essere scaricata sul corpo.

Si noterà una rigidità muscolare, o possono essere presenti tremori, un sentirsi deboli, stanchi; anche la voce può tremare.

A livello cardio-circolatorio possono manifestarsi palpitazioni, svenimenti, aumento del battito cardiaco, aumento della pressione. 

Anche a  livello dell’intestino possono manifestarsi nausee, vomiti, mal di pancia - che non hanno origine organica. 

Vi possono essere anche altre manifestazioni tipiche della storia di ogni persona, e non c’è organo su cui non può essere scaricata la tensione interna.

Ricordo che nella mia attività  professionale ho incontrato soggetti con problematiche psicologiche “scaricate” in diverse parti del corpo; a volte, le più impensabili.

Mi sono ritrovato di fronte alopecie (perdita di capelli), arti bloccati, disturbi della vista, svenimenti, e negli ultimi tempi adolescenti che si tagliavano…

Se la persona si sente sopraffare da un’onda anomala di malessere interiore, può reagire in maniera inadeguata o addirittura pericolosa (alcol, droghe, corse in auto, gioco d’azzardo, ecc.).

La comprensione di queste agitazioni, preoccupazioni, ansie, è importante per stabilire quando esse sono nella norma o meno.

Gli stati di ansia non comuni si distinguono da una apprensione più o meno persistente, con crisi acute.

Questi stati sono da distinguersi dallo stato di preoccupazione diffusa che troviamo come usuale nella nostra vita quotidiana.

Ricordiamoci che per definire la nostra ansia, agitazione, dobbiamo convincerci che essa è qualcosa di normale quando l’individuo si sente minacciato.

L’agitazione va distinta dalla paura, dove il pericolo è reale: l’individuo può valutare la situazione e scegliere se affrontarla, o fuggire.

Quando parliamo di agitazione nella norma, vogliamo dire che è nella natura umana provarla di fronte ad un pericolo, a una malattia, etc.

Rappresenta il modo di vivere più profondo della nostra esistenza umana,

Ci fa trovare dinanzi ai nostri limiti, alle nostre debolezze, che non sono  manifestazioni del malessere interiore o di malattia, ma espressioni della natura umana. 

Più siamo coscienti dei nostri limiti, più riusciamo a vivere con le nostre ansie.

Per i nostri simili che si sentono onnipotenti l’agitazione, l’ansia, risultano insopportabili, poiché vengono alla coscienza i limiti che sono una ferita al proprio “sentirsi una creatura superiore”. 

Sperimentiamo una normale inquietudine anche quando lasciamo una “strada vecchia per una nuova”.

Sotto questo punto di vista essa ci accompagna nei nostri cambiamenti, nella nostra evoluzione, e nel trovare un significato nella nostra vita.

 

Dott Francesco Giovannozzi  psicologo-psicoterapeuta

Pagina 34 di 37
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)
Pride compromises every good deed, empties prayer, creates distance from God and from others. If God prefers humility it is not to dishearten us: rather, humility is the necessary condition to be raised (Pope Francis)
La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati (Papa Francesco)
A “year” of grace: the period of Christ’s ministry, the time of the Church before his glorious return, an interval of our life (Pope Francis)
Un “anno” di grazia: il tempo del ministero di Cristo, il tempo della Chiesa prima del suo ritorno glorioso, il tempo della nostra vita (Papa Francesco)
The Church, having before her eyes the picture of the generation to which we belong, shares the uneasiness of so many of the people of our time (Dives in Misericordia n.12)
Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei (Dives in Misericordia n.12)
Addressing this state of mind, the Church testifies to her hope, based on the conviction that evil, the mysterium iniquitatis, does not have the final word in human affairs (Pope John Paul II)
Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane (Papa Giovanni Paolo II)
Jesus reminds us today that the expectation of the eternal beatitude does not relieve us of the duty to render the world more just and more liveable (Pope Francis)
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo (Papa Francesco)
Those who open to Him will be blessed, because they will have a great reward: indeed, the Lord will make himself a servant to his servants — it is a beautiful reward — in the great banquet of his Kingdom He himself will serve them [Pope Francis]
E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli [Papa Francesco]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.