Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
25a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [21 settembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Riprendendo le attività pastorali la parola di Dio ci guida a comprendere dove sta la vera ricchezza della vita.
*Prima Lettura dal libro del profeta Amos (8, 4 – 7)
L’ora è certamente grave, poiché questo testo del profeta Amos si conclude con una formula solenne: “Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe”(v.7) . “Il vanto di Giacobbe” è Dio stesso, perché è lui che è (o che dovrebbe essere) l’unico vanto del suo popolo; in altre parole, il Signore giura per sè stesso. Dio non può impegnarsi che per se stesso! Ma a proposito di cosa Dio giura? Assicura di non dimenticare “tutte le loro opere “, cioè tutte le malefatte d’Israele che il profeta Amos stigmatizza perché cercano solo di arricchirsi a spese degli altri. Amos è un profeta dell’VIII secolo a.C., quando la Palestina è divisa in due regni. Piccolo pastore di un villaggio del Sud (Téqoa, vicino a Betlemme), fu scelto da Dio per andare a predicare nel regno del Nord, chiamato anche Samaria dal nome della sua capitale. Sotto il regno di Geroboamo II, verso il 750 a.C, la Samaria vive un periodo di prosperità economica ma questa prosperità non giova a tutti; al contrario, Amos constata che l’arricchimento degli uni nasce dall’impoverimento degli altri, semplicemente perché i prodotti di prima necessità, come il pane quotidiano o i sandali, sono nelle mani di venditori senza scrupoli. Così si arriva al punto che i poveri non hanno altra soluzione, per non morire di fame o di freddo, se non quella di vendersi come schiavi “ comprare con denaro gli indigenti e il povero con un paio di sandali” (v.6). Chi subisce un torto può tentare di rivolgersi alla giustizia, ma ogni volta che c’è un processo per frodi o truffe manifeste, i tribunali prendono le parti dei ricchi contro i poveri semplicemente perché i ricchi pagano i giudici. Amos lo dice chiaramente: “Cambiano il diritto in veleno e gettano a terra la giustizia”(5,7). La stessa giustizia è falsata, corrotta. Il testo che abbiamo ascoltato è dunque uno di quelli in cui Amos prende la parola per annunciare il giudizio di Dio ed è un vero e proprio atto d’accusa: enuncia i fatti, poi rende il suo verdetto: Voi schiacciate i poveri, annientate gli umili della terra e vi domandate quando passerà la festa della luna nuova perché possiamo vendere il nostro grano? La luna nuova, il primo giorno del mese (detta «neomenia»), era un giorno festivo: nessun lavoro, nessuno spostamento, nessuna attività commerciale era autorizzata perché giorno del riposo come il sabato. Questo tempo di sospensione negli affari serviva a rivolgere l’uomo verso Dio. Ma qui sembra che lo si viva con impazienza, perché ormai l’uomo ha un altro padrone: il denaro e, per chi ha come unico pensiero il guadagno, un giorno festivo è una perdita. Per questo Amos rimprovera: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero…e dite: quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? (v.7). Prende di mira i venditori disonesti, per i quali commercio significa truffa, con prezzi esorbitanti e bilance falsate. L’immagine della bilancia falsata è a doppio senso: da una parte si capisce come un bilanciere storto possa falsare una misura, ma, più profondamente, significa che tutta la società vive su bilance truccate. In fondo, Amos rimprovera al popolo di Samaria di vivere nella menzogna e nell’ingiustizia: le bilance sono falsate, la giustizia è corrotta, si rispettano controvoglia i giorni festivi e con un secondo fine; tutto è falsato, insomma. Ecco dunque il giudizio: «Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mi tutte le loro opere” (v.7). In altre parole: Voi che vi arricchite ingiustamente, dimenticate in fretta i vostri delitti, e i tribunali vi seguono; ma il Signore vi dichiara che tutto questo non va dimenticato e non dovete abituarvi all’ingiustizia. Amos pronuncia la sua ammonizione nel modo più solenne possibile, perché c’è una lezione molto seria: la prima cosa che Dio chiede al suo popolo è di vivere nella giustizia e la società fondata su ingiustizie e miserie di ogni genere, non può che offendere Dio. Amos è tanto più severo perché, da cent’anni, il regno del Nord si vanta di aver eliminato l’idolatria abolendo i culti dei Baal; ma in realtà, ciò che Amos rimprovera è di essere caduti in un’idolatria ancora più pericolosa: quella del denaro.
*Salmo responsoriale (113/[112])
Questo salmo è il primo di quelli che Gesù ha cantato la sera del Giovedì Santo prima di partire per il Monte degli Ulivi. La prima parola che ha cantato è Alleluia che significa letteralmente Lodate Dio: Allelu è l’imperativo, lodate; e Ya la prima sillaba del Nome santo. Dunque, si tratta di un salmo di lode e si capisce dalla prima parola: Alleluia. Interessante è la composizione di questo salmo, formato da due parti di quattro versetti ciascuna, che incorniciano un versetto centrale. Il versetto centrale è una domanda: “Chi è come il Signore nostro Dio? (v.5) e le due parti contemplano le due facce del mistero di Dio: la sua santità e la sua misericordia. Nella sua rivelazione Dio si è fatto conoscere come il Trascendente, il tutto Santo e come il Misericordioso il Tutto Vicino. Per manifestare la sua santità, si ripete il suo Nome, “il Signore”, il Nome di Dio, rivelato da Lui stesso in quattro lettere (YHWH) che però non viene mai pronunciato. E come sappiamo, nella Bibbia, quando compaiono queste quattro lettere, spontaneamente il lettore ebreo le sostituisce con «Adonai», che significa Mio Signore, e che non pretende descrivere né definire Dio. Il termine “Signore”, che esprime bene la distanza tra Dio e noi, è usato cinque volte mentre “il Nome” tre volte, e il verbo lodare tre volte. La grande scoperta si trova nel versetto centrale: ”Chi è come il Signore nostro Dio?”: il Dio della gloria è nello stesso tempo il Dio della misericordia. e la seconda parte del salmo descrive l’azione di Dio a favore dei più piccoli, dei più poveri: solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero (v.7). Tra i deboli e i poveri, vi era la donna sterile, che viveva con la continua paura di essere ripudiata: “Fa abitare nella casa la sterile, come madre gioiosa di figli” (v.9). Sara, moglie di Abramo, ha conosciuto questo miracoloso rovesciamento: la gioia della sterile che si ritrova, dopo alcuni anni, con la casa piena di figli. La Bibbia ama sottolineare questi rovesciamenti di situazione: perché nulla è impossibile a Dio. Il Magnificat di Maria è pieno di questa certezza fiduciosa. Quando dopo l’Ultima Cena Gesù ha cantato questo salmo con i discepoli salendo verso il Monte degli Ulivi, ha sentito in modo particolare il versetto “solleva dalla polvere il debole”. Si avviava alla sua morte, e ha certamente riconosciuto qui un annuncio della sua risurrezione.
*Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 1-8)
Nel cuore di questo brano si trova una frase che riassume tutta la Bibbia, è al centro del pensiero di Paolo, e soprattutto è il centro della storia dell’umanità: “Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (v.4). Ogni parola è importante: “Dio vuole”: è il mistero della sua volontà, quel progetto di misericordia che aveva già prestabilito in se stesso per condurre i tempi alla loro pienezza, come dice la lettera agli Efesini (cf. 1,9-10). La volontà di Dio è una volontà di salvezza che riguarda tutti gli uomini. Paolo insiste sulla dimensione universale del progetto di Dio: “Dio, nostro Salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”. In frasi di questo genere la parola “e” può essere sostituita da “cioè”; bisogna quindi intendere: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, cioè che giungano a conoscere pienamente la verità. E che cos’è la verità? È che Dio ci ama ed è sempre con noi per colmarci del suo amore. Essere salvati significa conoscere questa verità secondo il senso biblico del “conoscere”: cioè viverne, lasciarsi amare e trasformare da essa. Finché gli uomini non conoscono l’amore di Dio restano come prigionieri e Cristo è venuto per liberarci. Ecco perché troviamo l’espressione “ha dato se stesso in riscatto per tutti”(v.6) : ogni volta si può sostituire la parola riscatto con liberazione: credere nell’amore di Dio per tutti gli uomini e vivere di questo amore, significa essere salvati. Allora, la vera preghiera, – come dice Paolo – è entrare nel progetto di Dio per essere capaci di diffondere il vangelo come una scintilla che si propaga. Nell’ultima frase, l’insistenza di Paolo non riguarda tanto la posizione esteriore, ma lo stato d’animo con cui ci si deve presentare nella preghiera: “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese”. Come entrare nel progetto d’amore di Dio per tutti se il cuore è pieno di collera e di cattive intenzioni? Molto probabilmente qui si intravedono segni di difficoltà gravi, di opposizioni, di divisioni, forse persino di persecuzioni, nella comunità alla quale era destinata questa lettera. Non possiamo avanzare ipotesi precise, poiché non siamo nemmeno sicuri della data di composizione della lettera, né se sia interamente di Paolo o di un suo discepolo. Ma poco importa: ciò che conta, in ogni epoca e in qualunque difficoltà non bisogna dimenticare mai che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla piena conoscenza della verità, cioè dell’amore di Dio.
*Dal Vangelo secondo Luca (16, 1-13)
Questo testo riserva una sorpresa: Gesù sembra fare i complimenti ai truffatori: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”(v.8). Attenzione a non sbagliare! Gesù lo definisce disonesto, cioè malvagio perché l’onestà faceva parte della morale più elementare. Dunque, l’intenzione di Gesù non è certo quella di andare contro la morale di base e si premura di precisare che il padrone loda quell’uomo per la sua scaltrezza. Se Gesù usa un esempio provocatorio, è per farci riflettere su qualcosa di serio, come mostra l’ultima frase: c’è una scelta urgente da fare tra Dio e il denaro perché non si può servire Dio e il denaro. Gesù elenca una serie di opposizioni: tra i figli di questo mondo e i figli della luce, tra una piccola cosa e una grande cosa, tra il denaro ingannevole e il bene autentico, tra i beni altrui e ciò che è veramente nostro. Tutte queste opposizioni hanno un unico scopo: farci scoprire che il denaro è un inganno e che dedicare la vita a fare soldi è una strada sbagliata; è grave quanto l’idolatria, che i profeti hanno sempre combattuto. Nella frase: “Non potete servire Dio e il denaro”, il verbo servire ha un senso religioso. C’è un solo Dio: non fatevi idoli, perché ogni idolatria vi rende schiavi e il denaro può diventare un fine a se stesso e non più un mezzo. Quando si è ossessionati dal desiderio di guadagnare, si diventa presto schiavi: è importante guardarsi da ciò che si possiede per non esserne posseduti, dice la saggezza popolare. Il sabato era stato istituito anche per riscoprire, una volta alla settimana, il gusto della gratuità, un modo per restare liberi. Il denaro è ingannevole in due sensi: anzitutto, ci fa credere che ci assicurerà la felicità, ma un giorno dovremo lasciare tutto. Nella frase di Gesù l’espressione “quando verrà a mancare” (v.9) è un’allusione alla morte e certamente non c’è grande interesse a essere il più ricco del cimitero! Inoltre, il denaro ci inganna se pensiamo che ci appartenga solo per noi. Gesù non disprezza il denaro, ma lo mette al servizio del Regno, cioè per il bene degli altri e nessuno ne è proprietario, bensì amministratore. Se è vero che non serve a nulla essere il più ricco del cimitero, ha però molto senso essere ricchi per farne beneficiare anche gli altri. La domanda “se non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta chi vi affiderà quella vera?” (v.11) aiuta a capire che nell’uso del denaro è importante la fiducia: Dio si fida di noi, ci affida del denaro di cui siamo amministratori e responsabili. Ogni nostra ricchezza, di qualunque genere, ci è stata affidata come a degli amministratori perché la condividiamo trasformandola in felicità per chi ci circonda. Così si comprende meglio la parabola precedente, la storia di quell’amministratore minacciato di licenziamento che, per salvarsi, fa ancora una volta dei regali con i beni del suo padrone per farsi degli amici che lo accolgano. Era del tutto disonesto, ma ha saputo trovare rapidamente una soluzione ingegnosa per assicurarsi un futuro. L’astuzia, qui, consiste nell’usare il denaro come un mezzo e non come un fine. Non è quindi la disonestà che Gesù ammira, ma l’abilità: che cosa aspettiamo anche noi a trovare soluzioni creative per assicurare l’avvenire di tutti? La sete di guadagnare rende molte persone piene di inventiva; Gesù vorrebbe che la passione per la giustizia o la pace ci rendesse altrettanto inventivi! Il giorno in cui dedicheremo tanto tempo e tanta intelligenza a ricercare vie di pace, di giustizia e di condivisione quanto ne dedichiamo ad accumulare denaro oltre il necessario, il volto del mondo cambierà. In fondo, la morale della parabola può essere riassunta così: scegliete Dio, con decisione, e mettete al servizio del Regno la stessa intelligenza che mettereste nel fare soldi. I figli della luce sanno che il denaro è solo una piccola cosa; il Regno è la grande cosa e per questo non servono il denaro come una divinità, ma se ne servono per il bene di tutti.
+ Giovanni D’Ercole
Esaltazione della Santa Croce [Domenica 14 settembre 2025]
Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga! Contemplando il Mistero della Croce scopriamo la dolcezza di un amore che nasce laddove sembra spegnersi la vita. Mentre muore crocifisso, Gesù rivela per sempre la vittoria definitiva dell’Amore e della Misericordia.
*Prima Lettura dal libro dei Numeri (21, 4 – 9)
Il Libro dell’Esodo e quello dei Numeri raccontano episodi simili: quando il popolo, liberato dalla schiavitù dell’Egitto cammina verso la Terra Promessa, deve affrontare la quotidianità nel deserto, un luogo totalmente inospitale. Schiavi in Egitto erano sedentari, non certo abituati a lunghe marce a piedi, ma avevano un padrone che li nutriva per cui non morivano di fame come nel deserto deve invece presero a rimpiangere le famose cipolle d’Egitto. Vennero tentati da crisi di scoraggiamento per la fame, la sete e la paura per tutti gli inconvenienti del deserto, e sfiduciati si misero a mormorare contro Dio e contro Mosè perché li avevano condotti a morire nel deserto. Il Signore mandò allora contro il popolo serpenti velenosi e molti Israeliti morirono. A questo punto il popolo si pente, riconosce di aver peccato e prega il Signore di allontanare i serpenti. Dio ordina a Mosè di fabbricare un serpente (la tradizione dice di bronzo) perché, fissatolo sopra un’asta, potesse guarire chiunque lo guardava. Interessante considerare come Mosè reagisce: non discute se i serpenti vengano o no da Dio, ma il suo scopo è di condurre questo popolo diffidente a un atteggiamento di fiducia, qualunque siano le difficoltà perché non tanto i serpenti, bensì la mancanza di fiducia in Dio stava rallentando il loro cammino verso la libertà. Per educarli alla fede, utilizza una pratica già conosciuta: l’adorazione di un dio guaritore raffigurato da un serpente di bronzo su un’asta (probabile antenato del caduceo, simbolo oggi della medicina). Bastava guardare il feticcio per essere guariti. Mosè non distrugge la tradizione, ma la trasforma: Fate come sempre, ma sappiate che non è il serpente a guarirvi bensì il Signore e non confondetevi perché un solo Dio vi ha liberati dall’Egitto e guardando il serpente, in realtà adorate il Dio dell’Alleanza. Secoli dopo, il Libro della Sapienza commenterà così: “Chi si volgeva a guardarlo veniva salvato, non per l’oggetto guardato, ma da te, Salvatore di tutti» (Sp 16,7). La lotta contro idolatria, magia e divinazione percorre tutta la storia biblica e forse continua ancora. Quel serpente di bronzo, segno per condurre alla fede, tornò ad essere considerato oggetto magico e per questo il re Ezechia lo distrusse definitivamente come leggiamo nel libro dei Re (2 Re 18,4).
*Salmo responsoriale (77/78, 3-4, 34 – 39)
Nel salmo responsoriale, tratto dal salmo 77/78, abbiamo un riassunto della storia d’Israele che si snoda nella relazione fra Dio sempre fedele e quel popolo incostante perché smemorato, ma pur sempre consapevole dell’importanza del ricordo per cui ripete: “Abbiamo udito ciò che i nostri padri ci hanno raccontato, lo ripeteremo alla generazione che verrà”. La fede si trasmette quando, chi ha vissuto un’esperienza di salvezza, può dire “Dio mi ha salvato” e a sua volta condivide con altri la sua esperienza. Sarà poi la sua comunità a far memoria e a conservare tale testimonianza perché la fede è un’esperienza di salvezza condivisa nel tempo. Il popolo ebraico sa da sempre che la fede non è un bagaglio intellettuale, ma l’esperienza comune del dono e del perdono sempre rinnovato di Dio. Questo salmo esprime tutto ciò: ricorda in settantadue versetti l’esperienza di salvezza, che ha fondato la fede d’Israele, cioè la liberazione dall’Egitto e per questo il salmo presenta tante allusioni all’Esodo e al Sinai. Ascoltare nel senso biblico significa aderire con tutto il cuore alla Parola di Dio e, se una generazione trascura di proseguire a testimoniare la propria fedeltà a Dio, si spezza la catena della trasmissione della fede. Spesso nel corso dei secoli i padri hanno confessato ai propri figli di aver mormorato contro Dio nonostante le sue azioni di salvezza. Di questo parla il salmo e accusa il popolo di infedeltà, di incostanza: ”Lo lusingavano con la loro bocca ma gli mormoravano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza”(vv36-37). Ecco l’idolatria, verso bersaglio di tutti i profeti perché è causa della disgrazia dell’umanità. Ogni idolo ci fa retrocedere sul cammino della libertà e la definizione di un idolo e proprio ciò che ci impedisce di essere liberi. Marx diceva che la religione è l’oppio del popolo, rivelando in modo crudo quale potere, quale manipolazione una religione, qualunque essa sia, può esercitare sull’umanità. La superstizione, il feticismo, la stregoneria ci impediscono di essere liberi e di imparare ad assumere liberamente le nostre responsabilità, perché ci fanno vivere in un regime di paura. Ogni culto idolatrico. ci allontana dal Dio vivo e vero: solo la verità può fare di noi uomini liberi. Anche il culto eccessivo di una persona o di un’ideologia fa di noi degli schiavi: basta pensare a tutti gli integralismi e i fanatismi che ci deturpano e il denaro pure può benissimo diventare un idolo. In altri versetti che non fanno parte della liturgia di questa domenica, il salmo offre un’immagine molto eloquente, quella di un arco deformato: il cuore d’Israele dovrebbe essere come un arco teso verso il suo Dio, ma è storto. E proprio all’interno dell’ingratitudine che Israele ha fatto l’esperienza più bella: quella del perdono di Dio come dice il salmo chiaramente: “Il loro cuore non era costante verso di lui; non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa invece di distruggere”(v.38). Questa descrizione della tenera pietà di Dio dimostra che il salmo è stato scritto in un’epoca in cui la Rivelazione del Dio d’amore aveva già profondamente penetrato la fede di Israele.
NOTA La grande assemblea di Sichem organizzata da Giosuè aveva proprio questo scopo: ravvivare la memoria di questo popolo oggetto di tanta sollecitudine, ma così spesso incline a dimenticare (Gs 24: vedi la XX domenica del tempo ordinario B): dopo aver ricordato alle tribù radunate tutta l’opera di Dio a partire da Abramo, disse loro: «Scegliete oggi chi volete servire: o il Signore, o un idolo». E le tribù quel giorno fecero la scelta giusta, anche se poi l’avrebbero presto dimenticata. La trasmissione della fede è allora come una corsa a staffetta: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”, dice Paolo ai Corinzi (1 Cor 11,23) e la liturgia è il luogo privilegiato di questa testimonianza e di questo ravvivare la memoria nel senso di gratitudine che nasce dall’esperienza.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Filippesi (2, 6 – 1)
Questo passo paolino si legge ogni anno per la festa delle Palme e ora per la festa della Croce Gloriosa: il che significa che le due celebrazioni hanno un punto in comune, che è il legame stretto tra la sofferenza di Cristo e la sua gloria, tra l’abbassamento della croce e l’esaltazione della risurrezione. Paolo lo dice chiaramente: “Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce… Per questo Dio lo esaltò al di sopra di ogni nome”(vv8-9). L’espressione “per questo” indica un legame e un contrasto forte tra abbassamento ed esaltazione, ma non bisogna leggere queste frasi in termini di ricompensa, come se, essendosi Gesù comportato in modo ammirevole, ha ricevuto una ricompensa ammirevole. Questa potrebbe essere la “tendenza” o meglio “tentazione” ma Dio è amore e non conosce calcoli, scambi, il do ut des perché l’amore è gratuito. La meraviglia dell’amore di Dio è che non aspetta i nostri meriti per colmarci e nella Bibbia questo gli uomini l’hanno scoperto poco a poco perché la grazia, come il suo nome indica, è gratuita. Quindi, se, come dice Paolo, Gesù ha sofferto e poi è stato glorificato, non è perché con la sua sofferenza avesse accumulato abbastanza meriti da guadagnarsi il diritto ad essere ricompensato. E allora, per essere fedeli al testo, bisogna leggerlo in termini di gratuità. Per Paolo è evidente che il dono di Dio è gratuito e questo si percepisce in tutte le sue lettere, avendolo lui stesso sperimentato. Quando poi leggiamo: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v.6) è chiaro che Paolo allude ad Adamo ed Eva e qui probabilmente Paolo ci offre un commento al racconto del Paradiso terrestre: il tentatore aveva detto: “Sarete come Dio” e per diventarlo bastava disobbedire a Dio. Eva stese la mano verso il frutto proibito e lo ha preso (il greco labousa nella lettura teologica è “rivendicò l’essere come Dio” come se fosse un suo diritto). Paolo contrappone l’atteggiamento di Adamo/Eva (afferrare/vendicare) a quello di Cristo (accogliere gratuitamente, obbedire). Gesù Cristo è stato soltanto accoglienza (ciò che Paolo chiama «obbedienza»), e proprio perché è stato pura accoglienza del dono di Dio e non rivendicazione, ha potuto lasciarsi colmare dal Padre, completamente disponibile al suo dono. La scelta di Gesù è la “kénosis”, lo svuotamento totale di sé scandito con cinque verbi di umiliazione: svuotarsi, assumere una condizione di servo, diventare simile agli uomini, umiliarsi, farsi obbediente. La croce è il baratro dell’annientamento (vv.6-8), ma anche l’apice della seconda frase dell’inno (vv9-11). “Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v9). Gesù riceve il Nome che è al di sopra di ogni nome: il nome “Signore” è il nome di Dio! Dire che Gesù è Signore significa dire che è Dio: nell’Antico Testamento il titolo di Signore era riservato a Dio come pure la genuflessione. Quando Paolo dice: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”… allude a una frase del profeta Isaia: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua presterà giuramento” (Is 45,23). L’inno si conclude con “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre” (v.11): vedendo Cristo portare l’amore al suo culmine, accettando di morire per rivelare fino a dove arriva l’amore di Dio, possiamo dire come il centurione: «Davvero costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 13 – 17)
La prima sorpresa di questo testo è che Gesù parla della croce con un linguaggio positivo, potremmo dire «glorioso»: da una parte, usa il termine “innalzato” – “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo” (v.14) – e poi questa croce che ai nostri occhi è strumento di supplizio e di dolore, viene presentata come prova dell’amore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo” (v17). Come può lo strumento di tortura di un innocente essere glorioso? E qui sta la seconda sorpresa: il richiamo al serpente di bronzo. Gesù utilizza questa immagine perché era allora ben conosciuta. Nella prima Lettura si parla ampiamente di questo evento nel deserto del Sinai durante l’Esodo, al seguito di Mosè. Gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi e, non avendo la coscienza tranquilla perché avevano mormorato, sono convinti che ciò sia una punizione del Dio di Mosè. Supplicano Mosè di intercedere e Mosè riceve il comando di fissare un serpente ardente (cioè velenoso) sopra un’asta: chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita (Nm 21, 7-9). Se a prima vista, sembra pura magia, in realtà, è esattamente il contrario. Mosè trasforma quello che fino ad allora era un atto magico in un atto di fede. Gesù riprende questo episodio parlando di sé: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”(vv14-15). Se nel deserto, bastava guardare con fede verso il Dio dell’Alleanza per essere guariti fisicamente, ora occorre guardare con fede Cristo in croce per ottenere la guarigione interiore. Come spesso avviene nel vangelo di Giovanni, ritorna il tema della fede: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”(v.17). Quando Gesù mette in parallelo il serpente di bronzo innalzato nel deserto e la sua elevazione sulla croce, manifesta anche il salto straordinario che esiste tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù porta tutto a compimento, ma in lui tutto assume una dimensione nuova. Nel deserto era interessato solo il popolo dell’Alleanza; ora, in lui, è l’umanità intera a essere invitata a credere per avere la vita: ben due volte Gesù ripete che “chiunque crede in lui avrà la vita eterna”. Inoltre, non si tratta più solo di guarigione esteriore, ma della trasformazione profonda dell’uomo. Al momento della crocifissione, Giovanni scrive: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), citando il profeta Zaccaria che aveva scritto: “In quel giorno effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Questo “spirito di grazia e supplica” è l’opposto delle mormorazioni del deserto: l’uomo ora finalmente è convinto dell’amore di Dio per lui. Ci sono dunque due modi di guardare la croce di Cristo: come segno dell’odio e della crudeltà degli uomini, ma soprattutto come l’emblema della mitezza e del perdono di Cristo che accetta la croce per mostrarci fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’umanità. La croce è il luogo stesso della rivelazione dell’amore di Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre”(Gv14,9) aveva detto Gesù a Filippo. Cristo crocifisso mostra la tenerezza di Dio, malgrado l’odio degli uomini. Ecco perché possiamo dire che la croce è gloriosa: perché è il luogo in cui si manifesta l’amore perfetto, cioè Dio stesso, un Dio abbastanza grande da farsi piccolo per condividere la vita degli uomini malgrado incomprensioni e odio: non fugge davanti ai suoi carnefici e perdona dall’alto della Croce. Chi accetta di cadere in ginocchio davanti a tale grandezza viene trasformato per sempre: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12).
+ Giovanni D’Ercole
XXIII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [7 settembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questa domenica Gesù nel vangelo sviluppa il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questo prova che la Parola di Dio è sapienza divina che, come cogliamo nella prima lettura e nel salmo responsoriale, illumina ogni umana scelta e decisione. Saggezza che è sempre segreto di vera felicità.
*Prima Lettura dal libro della Sapienza (9, 13-18)
La Sapienza, nel senso biblico, è in qualche modo l’arte di vivere. Israele, come tutti i popoli vicini, sviluppò un’ampia riflessione su questo tema a partire dal regno di Salomone e il suo contributo in questo campo è del tutto originale. Si riassume in due punti: anzitutto per la Bibbia solo Dio conosce i segreti della felicità e se l’uomo pretende di scoprirli da solo percorre false piste, come è chiara la lezione del giardino dell’Eden. In secondo luogo Dio solo rivela al suo popolo e a tutta l’umanità il segreto della felicità: ecco il messaggio di questo testo che è anzitutto una lezione di umiltà. Già Isaia aveva affermato che i pensieri e le vie di Dio sono diversi dai nostri (cf. Is 55,8) e il libro della Sapienza, scritto molto tempo dopo con uno stile ben diverso, ripete: “Quale uomo può scoprire il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?” (v.13). Non riusciamo ad avere la minima idea di ciò che Dio pensa e conosciamo solo quanto Egli ha comunicato attraverso i suoi profeti. Giobbe aveva chiesto dove cercare la sapienza perché non esiste sulla terra dei viventi e Dio solo sa dove si trova (cf. Gb 28,12-13.23); poco dopo Dio ricorda a Giobbe i suoi limiti (cc. 38–41) e, alla fine della dimostrazione, Giobbe si inchina e ammette di aver parlato senza capire le meraviglie che “sono al di sopra di me e che non conoscevo” (Gb 42,3). Nel libro della Sapienza la discussione sulle conoscenze umane si sviluppa tra i più intellettuali che esistevano ad Alessandria, quando erano assai sviluppate le discipline scientifiche e filosofiche ed era celebre la Biblioteca di Alessandria. A tali sapienti l’autore ricorda i limiti del sapere umano: “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni” (v.14). E ancora: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? (v.16). L’autore non vuol dire che se riusciamo a scoprire la terra, potremo capire le cose celesti, ma afferma che non esiste soltanto una questione di livello di conoscenze, come se l’uomo potesse scoprire i misteri di Dio con il ragionamento e le ricerche, ma è questione di natura: noi siamo solo uomini, e tra Dio e noi vi è un abisso essendo Dio il Totalmente Altro e i suoi pensieri sono al di là della nostra portata. Sta qui la seconda lezione del testo: se riconosciamo la nostra impotenza Dio stesso ci rivela ciò che da soli non possiamo scoprire facendoci dono del suo Spirito (cf.1,9). Le altre letture di questa domenica indicano i comportamenti nuovi ispirati dallo Spirito che abita in noi. Ancora una osservazione: Al v. 14 “un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni” appare una concezione dell’uomo non abituale nella Bibbia, che solitamente insiste sull’unità dell’essere umano, mentre qui è descritto come un essere composto da uno spirito immateriale e un involucro materiale che lo contiene. Il libro della Sapienza, scritto in ambiente greco, utilizza questo vocabolario per non scandalizzare i suoi lettori greci, ma di certo non vuole descrivere un dualismo dell’essere umano: presenta piuttosto il combattimento interiore che si svolge in ciascuno di noi e che san Paolo descrive così: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). In definitiva, questo testo porta un contributo originale a una grande duplice scoperta biblica: Dio è insieme il Totalmente Altro e il Totalmente Vicino. Dio è il Totalmente Altro: “Qual uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”(v. 13). Allo stesso tempo, Egli si fa il Totalmente Vicino dando all’uomo la sapienza e il suo santo spirito (v.17). E così gli uomini furono istruiti in ciò che è a Dio gradito e furono salvati per mezzo della sapienza (cf.v.18).
*Salmo responsoriale (89/90,3-4,5-6,12-13,14.17)
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, trova un’eco in questo salmo che offre una magnifica definizione della sapienza: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (v.12). Questi versetti danno un’idea dell’atmosfera generale e suona del tutto insolita un’espressione: “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13). E’ come se si dicesse: ‘in questo momento siamo infelici, siamo puniti per le nostre colpe; perdonaci e togli la punizione”, quindi una formula tipica di una liturgia penitenziale nel contesto di una cerimonia penitenziale nel tempio di Gerusalemme. Perché Israele chiede perdono? I primi versetti suggeriscono la risposta: “Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: Ritornate, figli dell’uomo”( v.3). Il problema è che la nostra condizione di peccatori è legata ad Adamo e l’intero salmo medita sul racconto della colpa di Adamo nel libro della Genesi. All’inizio Dio e l’uomo si trovavano faccia a faccia: Dio, creatore e l’uomo sua creatura uscita dalla polvere. Il secondo versetto (qui assente) del salmo dice appunto: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”. Di fronte a Lui, noi siamo soltanto un pugno di polvere nelle sue mani. Eppure l’uomo ha osato sfidare Dio e non gli resta che meditare sulla sua vera condizione: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via” (v.10). E noi siamo veramente piccoli: “Mille anni ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4) come san Pietro commenterà: “Una cosa non sfugga mai a voi, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pt 3,8). Dopo la presa di coscienza viene la supplica: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi. Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (vv. 12-14). Vera sapienza è stare piccoli davanti a Dio e il salmo paragona la vita umana all’erba che “al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca” (v.6). Quante volte davanti a una morte improvvisa capita di dire che siamo proprio nulla! Non si tratta di umiliarsi, ma di essere realisti e restare sereni nelle mani di Dio. “Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni” (v.14): questa è l’esperienza del credente, consapevole della propria piccolezza e fiducioso tra le mani di Dio al quale possiamo chiedere che “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli. Sia su di noi la bontà del Signore nostro Dio” (vv. 16-17a). Ancora più audace l’ultimo versetto del salmo che ripete due volte “Rendi salda per noi l’opera delle nostre mani” (v.17). Forse il salmista si riferiva alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, in mezzo a ogni genere di opposizione. Più in generale, esprime però l’opera comune di Dio e dell’uomo nel compimento della creazione: l’uomo lavora nella creazione, ma è Do a dare all’opera umana stabilità ed efficacia.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo a Filemone ( 9b-10.12-17)
Nelle domeniche passate abbiamo letto brani della lettera di Paolo ai Colossesi; oggi invece Paolo, mentre si trova in prigione, scrive a Filemone, un cristiano di Colossi (in Turchia) ed è una lettera personale, piena di diplomazia, su un argomento molto delicato. Filemone aveva probabilmente diversi schiavi, anche se la storia non lo specifica, e uno si chiama Onesimo. Un bel giorno, Onesimo fuggì, cosa totalmente proibita e severamente punita dal diritto romano perché lo schiavo apparteneva al padrone come un oggetto e non era libero di disporre di sé. Durante la sua fuga Onesimo incontra Paolo, si converte e si mette al servizio dell’apostolo. Situazione complicata: se Paolo tratteneva Onesimo si rendeva complice dell’abbandono di posto e ciò non piaceva a Filemone. Se invece Paolo lo rimandava, lo schiavo avrebbe corso seri rischi dato che Paolo riconosce più avanti nella lettera che Onesimo era debitore verso il suo padrone. Decide comunque di rimandare Onesimo con una richiesta di perdono in cui dispiega tutte le sue risorse persuasive per convincere Filemone: “Io, Paolo, così come sono, vecchio e, ora anche prigioniero a causa di Cristo Gesù ti prego per Onesimo, figlio mio” (vv.9-10). Precisa che lo vorrebbe trattenere ma sa che la decisione finale spetta a Filemone (vv12-14) e allora non intende forzare la mano a Filemone, sa però bene cosa vuole ottenere e lo rivela gradualmente. Chiede anzitutto di perdonare Onesimo per la fuga e, più che il semplice perdono, Paolo suggerisce una vera conversione: Onesimo è battezzato e quindi è ora un fratello per Filemone cristiano, suo ex padrone: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre, non più però come schiavo, ma, molto più che schiavo, come fratello carissimo”(vv.15-16). Paolo si spinge oltre: “Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”(v.17).
*Dal Vangelo secondo Luca (14,25-33)
La fine illumina tutto il discorso: sottolineando la totalità (la rinuncia a tuti i suoi averi v.33) Luca ripropone la sua teologia della povertà come radicale sequela di Cristo. Cominciamo dalla frase che riguarda i legami familiari (v.26): Gesù non dice di considerarli come nulla perché sarebbe contrario a tutto il suo insegnamento sull’amore e al comandamento “Onora tuo padre e tua madre”. Vuol dire, piuttosto, che questi legami sono buoni, però non devono diventare ostacoli che impediscono di seguire Cristo perché il legame che ci unisce a Cristo mediante il Battesimo è più forte di qualsiasi altro legame terreno. La difficoltà di questo Vangelo è altrove: a prima vista non si vede bene il nesso tra le diverse parti. Gesù dice: “Se uno viene a me e non mi ama (nel linguaggio semitico orientale “odiare” vale anche per amare meno) più di suo padre, sua madre… non può essere mio discepolo” (v.26), frase che ritroviamo in eco (in inclusione) nell’ultima: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Tra queste due affermazioni ci sono due brevi parabole: quella dell’uomo che vuole costruire una torre e quella del re che parte in guerra. La loro lezione è simile: chi vuole costruire una torre deve prima calcolare la spesa per non imbarcarsi in un’impresa insensata; allo stesso modo, il re che pensa di affrontare una guerra occorre che valuti in anticipo le proprie forze. La saggezza consiste nell’adeguare le proprie ambizioni alle proprie possibilità: verità valida in ogni ambito. Quanti progetti falliscono perché iniziati troppo in fretta senza riflettere, prevedere e calcolare i rischi: questa è la saggezza elementare, il segreto del successo. Governare infatti è prevedere e forse si diventa adulti proprio il giorno in cui si impara finalmente a calcolare le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo non sembra in contraddizione con il messaggio delle frasi che aprono e chiudono il discorso di Gesù? Queste sembrano parlare un linguaggio tutt’altro che prudente e misurato: anzitutto per essere discepolo di Cristo bisogna preferirlo a chiunque altro e seguirlo con tutto se stesso, eppure, la saggezza e persino la giustizia chiedono di rispettare i legami naturali con la famiglia e l’ambiente. La seconda esigenza è portare con decisione la propria croce, accettando il rischio della persecuzione e terza condizione: rinunciare a tutti i propri beni. In sintesi, lasciare per Cristo ogni sicurezza affettiva e materiale. Ma tutto questo è prudente? Non sembra lontano dai calcoli aritmetici delle due brevi parabole? Eppure è chiaro che Gesù non si diverte a coltivare il paradosso e non si contraddice. Sta quindi a noi comprendere il suo messaggio e come le due brevi parabole illuminino le scelte che dobbiamo fare per seguirlo. A ben vedere Gesù dice sempre la stessa cosa: Prima di lanciarsi in un’impresa: si tratti di seguirlo, o di costruire una torre, oppure di partire in guerra, invita a fare bene i conti e a non sbagliare. Chi costruisce una torre calcola il costo; chi parte in guerra valuta il numero di uomini e di armi e chi segue Cristo deve fare anch’egli i suoi conti, che però sono di altro genere: deve rinunciare a ciò che può ostacolarlo e così mettere al servizio del Regno tutte le sue ricchezze, anche affettive e materiali. E soprattutto, deve contare sulla potenza dello Spirito che “continua la sua opera nel mondo e porta a compimento ogni santificazione”, come dice la quarta preghiera eucaristica. Anche qui si tratta di un rischio calcolato: per seguire Gesù, egli ci indica i rischi — saper lasciare tutto, accettare l’incomprensione e talvolta la persecuzione, rinunciare alla resa immediata. Per essere cristiani, il vero calcolo, la vera saggezza, è non contare su nessuna delle nostre sicurezze terrene; è come se ci dicesse: Accetta di non avere sicurezze: ti basta la mia grazia!. Già la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, lo affermava chiaramente: la sapienza di Dio non è quella degli uomini; ciò che agli occhi degli uomini appare follia è la sola vera sapienza davanti a Dio. Con lui, si è sempre nella logica del chicco di grano: accetta di morire sotto terra ma solo così può germogliare e dare frutto. Beati coloro che sanno liberarsi dalle false precauzioni per prepararsi a passare per la porta stretta di cui parlava il vangelo alla ventunesima domenica (Lc 13,24).
NOTA Gesù sviluppa qui il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Nelle due parabole è evidente: bisogna sedersi per calcolare rischi e spese, adottando misure preventive - anche in assenza di prove scientifiche complete. Nel caso del discepolo i dati del calcolo sono completamente diversi: Gesù vuole che valutiamo bene che l’unica nostra ricchezza è in lui e l’unica nostra forza è la sua grazia. E persino la valutazione di rischi e obiettivi ci sfugge: come dice il libro della Sapienza, nella prima lettura: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni».
+ Giovanni D’Ercole
Uno sguardo nel «buio».
Come ho già detto in precedenza molti poeti e scrittori hanno descritto il fluire dell’animo umano.
Eugenio Montale lo esprime in una sua poesia del 1925, sul male di vivere, fornendoci l’immagine di un ruscello che non riesce a far scorrere le sue acque, di una foglia accartocciata dal troppo calore, di un cavallo sfinito a terra.
Immagini che nella nostra mente non passano senza lasciare una riflessione e qualche interrogativo.
Momenti di “buio” nella nostra vita ce ne sono stati e forse ci saranno ancora.
Sensazioni di scoraggiamento e di non sapere quale strada prendere - ognuno di noi lo ha sperimentato sulla propria pelle.
L’intensità e la durata del “buio” variano a seconda delle circostanze e dalle capacità di reagire personali.
Di fronte a sconfitte o delusioni reagiamo in modo differente; ciò che disturba un soggetto, può lasciare un altro individuo del tutto indifferente.
Un incontro col “ buio” può essere usuale di fronte a gravi difficoltà come un lutto, la perdita del lavoro, l’insorgere di una malattia, la fine di relazioni affettive, e altro.
Tale stato d’animo è provvisorio e finisce spontaneamente, senza portare cambiamenti nella vita di una persona.
In casi diversi è bene non sottovalutare lo stato d’animo, perché potrebbe essere un segno di una sofferenza psicosomatica o psichica.
In questi casi spesso si provano delle sensazioni inspiegabili di preoccupazione, di apatia; e ci sentiamo più affaticati.
Ricordiamoci che la reazione al “buio” segue sovente un’esperienza traumatica, la quale in circostanze ordinarie della vita non avrebbe causato nessuna sensazione temporanea di cattivo umore.
Una reazione maggiore e più protratta nel tempo, una reazione che l’individuo non riesce a superare da solo, è una condizione non usuale.
Nelle persone anziane le scosse emotive possono far insorgere momenti di “buio” più facilmente che nei giovani.
Talora gli anziani vengono messi da parte, hanno meno relazioni sociali, e spesso ne viene a soffrire il loro prestigio; principalmente quando viene meno la speranza.
Ma anche gli adolescenti [con la loro precarietà] non sono immuni a questi momenti di inquietudine.
Non è vero che l’adolescenza è un periodo felice della vita; anzi, forse è uno dei più travagliati.
In questi momenti di “buio” che la clinica chiama «depressione», notiamo: le persone che attraversano questa fase riducono di molto le loro attività, hanno meno fiducia in se stessi, si intesseranno a poche cose.
Sono capaci di conservare il lavoro anche se devono intensificare gli sforzi. Di solito la memoria e il rapporto con la realtà non sono alterati - a meno che non è insorto uno stato grave («psicosi»).
Arieti parla della depressione che qui abbiamo chiamato “buio” come una combinazione di tristezza e pessimismo.
Quest’ultimo costituisce l’elemento essenziale della combinazione; l’idea non sana sta nel credere che ciò che è accaduto a una persona gli succederà sempre, o che lo stato d’animo in cui si trova non muterà mai.
Il disfattismo, l’illusione di saper cosa ci succederà in futuro, consolida la tristezza in “buio”.
Spesso il “buio” dell’anima viene scaricato sul corpo.
Possiamo subire perdita di peso, sensazioni di oppressione a livello cardiaco; diminuzione delle secrezioni corporee; insonnia; e sovente mal di testa.
Nel comportamento con gli altri il “buio” ci fa tendere a sfruttare e condizionare il prossimo; ci fa essere poco inclini a essere persuasi. Difficilmente diamo soddisfazione al prossimo, e spesso l’ostilità ci invade.
Faber Andrew ha scritto una poesia intitolata ‘A chi sta attraversando il suo buio’…
Il poeta invita il lettore a «credere nella poesia. Negli occhi di chi quella strada l’ha già ritrovata».
Poi ancora: «C’è un cielo di qua che vi aspetta, con un panorama di sogni da togliere il fiato».
Per un poeta la poesia è la strada maestra, ma noi che non siamo poeti abbiamo qualcosa in cui Credere, e che costituisce il pilastro della nostra realtà.
Ricordiamoci sempre che quando la notte raggiunge il suo punto più oscuro, lì inizia l’alba di un nuovo giorno.
Francesco Giovannozzi psicologo psicoterapeuta.
XXII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [31 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Sta per chiudersi per molti il tempo delle ferie e ci si prepara a riprendere il ritmo abituale della vita. La Parola di Dio ci viene incontro con appropriati consigli.
*Prima Lettura dal libro del Siracide (3, 17-18. 20. 28-29 NV 3,19-21.30.31)
Questo testo si illumina se si comincia a leggerlo dalla fine: “Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio” (v.29). Quando la Bibbia parla di saggezza intende l’arte di vivere felici. Essere un “un uomo saggio” è l’ideale di tutti in Israele: un popolo così piccolo, nato come “popolo” solo al momento dell’uscita dall’Egitto, ha il privilegio, grazie alla Rivelazione, di sapere che “ogni sapienza viene dal Signore” (Sir 1,1), nel senso che solo Dio conosce i misteri della vita e il segreto della felicità. È dunque al Signore che bisogna chiedere la sapienza perché, nella sua libertà sovrana, Egli ha scelto Israele per essere il depositario della sua sapienza. Yeshua Ben Sira (Gesù figlio di Sira), l’autore del libro, fa parlare la sapienza stessa come se fosse una persona (cf. Sir 24,8); Israele ricerca ogni giorno la sapienza (cf. Sir 51,14) e, secondo il Salmo 1, in essa trova la sua felicità: “Beato l’uomo che medita la legge del Signore giorno e notte (1,2). “Giorno e notte” significa sempre. Chi cerca trova, dirà più tardi Gesù: ma bisogna cercare, cioè riconoscere di non possedere tutto e bisognosi sempre di qualcosa. Ben Sira aveva aperto a Gerusalemme verso il 180 a.C. una scuola di teologia (beth midrash) e per promuoverla diceva: “Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola” (Sir 51,23). Un vero figlio d’Israele sa che la sapienza viene da Dio, si lascia istruire da Lui, medita le massime della sapienza e il suo ideale è un orecchio che ascolta. Israele ha talmente fatto tesoro di questa lezione che recita più volte al giorno lo “Shema‘ Israel, Ascolta, Israele” (Dt 6,4). Un’“orecchio aperto” significa ascoltare consigli, indicazioni, comandamenti; il superbo invece crede di sapere tutto e chiude le orecchie, ma dimentica che, se la casa ha le imposte chiuse, il sole non potrà entrarvi. Leggiamo al v. 28: ”Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. In altre parole, il superbo è un malato incurabile perché, essendo pieno di sé, chiude il cuore. Interessante al riguardo la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18): il pubblicano si è limitato ad essere vero perché l’umile ha i piedi per terra e per questo si riconosce povero e conta solo su Dio. Il fariseo, autosufficiente in tutto, tornò a casa come era venuto mentre il pubblicano trasformato. Isaia descrive la gioia di questi umili: “Gli umili si rallegreranno sempre di più nel Signore, e i poveri esulteranno a causa del Santo d’Israele” (Is 29,19) e Gesù esclamerà: “Ti rendo lode, Padre…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.” (Mt 11,25 // Lc 10,21). Dio può realizzare grandi cose con gli umili, facendoli servitori del suo progetto, come con Mosè, grande e instancabile suo servitore, il cui segreto, come leggiamo nel libro dei Numeri, è che era uomo molto umile, più di ogni altro sulla terra” (12,3) e Gesù, il Servo di Dio, dice di sé:” Io sono mite e umile di cuore.» (Mt 11,29), mentre Paolo scrive: “Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza… Il Signore mi ha detto…la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.» (2Cor 11,30; 12,9). In definitiva, l’umiltà è più che una virtù: è un minimo vitale e condizione preliminare.
*Salmo responsoriale (67/68)
”Signore è il suo nome” (v.5), questa frase piccolissima fa capire il tono dell’insieme: “Signore” è il nome tetragramma (YHWH) rivelato a Mosè che esprime la presenza permanente di Dio in mezzo ai suoi “Ehyeh-Asher-Ehyeh”(Io sono colui che sono). E poiché Egli ci circonda in ogni tempo della sua sollecitudine, ciascuno dei versetti può essere letto a più livelli e la ricchezza e complessità di questo salmo sta nel poterlo cantare in ogni epoca sentendosi coinvolti. “I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia. Cantate a Dio, inneggiate al suo nome. Signore è il suo nome” (vv4-5). Anche Davide danza davanti all’Arca, ma qui si parla della gioia del popolo liberato dall’Egitto: il canto di Mosè dopo il passaggio del mare; Miriam, sorella di Aronne (e di Mosè), prese in mano il tamburello e tutte le donne uscirono dietro a lei, danzando e suonando il tamburello. In seguito durante l’Esodo molteplici furono i motivi per cantare e danzare. Questo emerge nei seguenti versetti: “fa uscire con gioia i prigionieri” (7). “Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio” (10-11). Qui si sovrappongono diversi livelli di lettura, ma ogni allusione alla liberazione riguarda sempre sia l’uscita dall’Egitto, sia il ritorno dall’esilio babilonese e anche le altre liberazioni, cioè ogni volta che persone o interi popoli avanzano verso più giustizia e libertà e infine la liberazione definitiva, che ancora attendiamo. “Fa uscire con gioia i prigionieri”: per noi cristiani è il richiamo alla Risurrezione di Cristo pensando alla nostra. “Pioggia abbondante hai riversato” questo richiamo all’Esodo offre più letture: la manna nel deserto (cf. Es 16, 4.13-15) e molto probabilmente pure la pioggia benefica da cui dipende ogni vita perché senza “l’abbondante pioggia” la terra promessa non stilla «latte e miele». Nel passato ci sono state siccità (e quindi carestie) memorabili: i sette anni di carestia che portarono i figli di Giacobbe con il padre a scendere in Egitto da Giuseppe; la siccità al tempo di Elia (1Re 17-18) con il duro confronto tra Elia e la regina Gezabele, adoratrice di Baal, il dio della fecondità, della tempesta e della pioggia; la carestia sotto l’imperatore Claudio quando le comunità cristiane del bacino del Mediterraneo, regioni non colpite, furono invitate a soccorrere economicamente i sinistrati e san Paolo fece un richiamo alla comunità di Corinto per la lentezza a dare il loro contributo (cf. 2Cor 8-9). Infine anche noi abbiamo motivo di rendere grazie per la nuova manna, nostro pane quotidiano: Gesù Cristo, pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,48-51).
*Seconda Lettura dalla lettera agli Ebrei (12, 18-19. 22-24a)
Essendo indirizzata a cristiani di origine ebraica, la Lettera agli Ebrei ha come obiettivo di collocare correttamente la Nuova Alleanza rispetto all’Antica. Con la vita terrena, passione, morte e risurrezione di Cristo, l’intero passato è considerato dai cristiani come una tappa necessaria nella storia della salvezza, ma ormai superata anche se non annullata per cui tra la Prima e la Nuova Alleanza c’è sia continuità ma anche radicale novità. A favore della continuità ci sono elementi familiari a Israele: Sinai, fuoco, oscurità, tenebre, uragano, trombe, Sion, Gerusalemme, i nomi scritti nei cieli, giudice e giustizia, alleanza con un linguaggio che evoca tutta l’esperienza spirituale del popolo dell’Alleanza e di certo ben familiare agli ascoltatori di allora. (cf. Es 19,16-19;20,18.21; Dt 4,11). Israele si nutre di questi racconti essendo titoli di gloria del popolo dell’Alleanza. La Lettera agli Ebrei sembra però sminuire questa esperienza memorabile perché quell’Alleanza è ora completamente rinnovata. Mosè si avvicinava a Dio, ma il popolo restava a distanza; nella Nuova Alleanza i battezzati sono introdotti in una vera intimità con Dio e l’autore descrive questa nuova esperienza spirituale come ingresso in un mondo nuovo di bellezza e di festa (cf. vv. 22-24). La “paura di Dio” nell’AT era timore dinanzi a manifestazioni di potenza, tanto che il popolo arrivò a chiedere di non udire più la voce di Dio ma in seguito, a poco a poco, il rapporto con Dio si è trasformato e il timore è diventato fiducia filiale. Coloro che hanno conosciuto Gesù hanno scoperto in Lui il vero volto del Padre: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15-16). Gesù, dunque, svolge pienamente il ruolo di mediatore della Nuova Alleanza e permette a tutti i battezzati di accostarsi a Dio e di diventare “primogeniti” (nel senso di “consacrati”). Così, l’antica promessa a Mosè sul Sinai: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli… sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,4) si realizza finalmente in Cristo e per questo anche noi “accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16).
*Dal vangelo secondo Luca (14, 1a. 7 – 14)
Nel Vangelo di Luca si trovano spesso scene di pasti: a casa di Simone il fariseo (7,36); da Marta e Maria (10,38); di nuovo a casa di un fariseo (11,37); da Zaccheo (19); il pasto pasquale (22). L’importanza che Gesù attribuiva ai pasti faceva perfino dire ai malintenzionati: “Ecco un mangione e un beone” (Lc 7,34). Tre di questi pasti si svolgono in casa di farisei e diventano occasione di disaccordo. Durante il primo, a casa di Simone (Lc 7,36), una donna di cattiva reputazione si era gettata ai piedi di Gesù e, contro ogni aspettativa, Egli l’aveva presa come esempio. Il secondo (Lc 11,37) fu ugualmente occasione di un grave malinteso, questa volta perché Gesù non si era lavato le mani prima di mettersi a tavola: la discussione degenera e Gesù ne approfitta per intavolare una severa diatriba tanto che l’episodio si chiude con gli scribi e i farisei che cominciano ad accanirsi contro di lui tendendogli insidie per sorprenderlo in fallo (cf. Lc 11,53). Oggi il terzo pasto in casa di un fariseo avviene di sabato, giorno di riposo (“shabbat” in ebraico significa cessare ogni attività) e di festa: memoria della creazione del mondo, della liberazione del popolo dall’Egitto e attesa della grande festa del Giorno in cui Dio rinnoverà l’intera creazione. Il sabato prevedeva un pasto solenne, spesso occasione per invitare correligionari, anche se i divieti rituali della Legge erano così numerosi che il rispetto delle prescrizioni aveva, per alcuni, oscurato l’essenziale: la carità fraterna. Quel sabato Gesù aveva guarito un malato di idropisia (scena che non figura nella nostra lettura liturgica: cf.Lc14, 2-6) e si aprono vive discussioni perché si accusa Gesù di aver infranto il sabato. Qui mi fermo e pongo una domanda: i rapporti tra Gesù e i farisei sono sempre uno scontro? In verità sono un misto di simpatia e di severità: simpatia perché il loro movimento religioso, nato verso il 135 a.C. da un desiderio di conversione, era stimato e il nome “fariseo”, che significa “separato”, esprimeva il rifiuto di ogni compromesso politico, di ogni lassismo nella pratica religiosa, due problemi allora assai presenti. Al tempo di Cristo se ne apprezzava la fervente fede e il coraggio per il rispetto della tradizione, da non intendere in senso peggiorativo, ma come la ricchezza ricevuta dai padri e trasmessa sotto forma di precetti concernenti i minimi dettagli della vita quotidiana. Queste norme, messe per iscritto dopo il 70 d.C., somigliano a quelle di Gesù stesso e per questo erano rispettabili tanto che Gesù non rifiutava di parlare con loro come dimostrano questi pasti e l’incontro con Nicodemo (cf. Gv 3). Sotto Erode il Grande (39-4 a.C.), seimila di loro, per restare ligi alla Legge, rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Roma e a Erode e furono puniti con pesanti ammende. Tuttavia il rigore nell’osservanza generava talora eccessiva sicurezza di sé e disprezzo per gli altri e Gesù a questo reagiva perché creava alcune ambiguità e deviazioni ben simboleggiate nella parabola della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5; Lc 6,41-42). Nel testo odierno Gesù invita a non occupare i primi posti non per richiamare una norma di buona educazione e di filantropia, ma, alla maniera dei profeti, cerca di aprire i loro occhi prima che sia troppo tardi perché un eccessivo compiacimento di sé può condurre alla cecità. E quindi, proprio perché persone di valore e fedeli praticanti della religione giudaica, Gesù smaschera il rischio del loro disprezzo verso gli altri ricordando che per entrare nel Regno bisogna farsi come bambini (cf Lc 9,46-48; Mt 18,4), accogliendoli e rispettandoli senza attendere nulla in cambio e anzi aprendo il cuore a poveri, storpi, zoppi, ciechi (v.13). Una lezione per i farisei di ieri e di oggi tenendo ben presente quel che san Giacomo scrive: non mescolare mai favoritismi personali con la fede nel Cristo (cf. Gc 2,1).
+ Giovanni D’Ercole
XXI Domenica Tempo Ordinario (anno C) [24 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Utile in questi tempi rileggere questi testi biblici alla luce di quanto sta succedendo nel Medio Oriente.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66,18-21)
I profeti parlano in nome di Dio e gli ascoltatori lo sanno bene, ma quando vogliono sottolineare l’importanza delle loro affermazioni, ricordano che si tratta proprio della parola del Signore, quindi di qualcosa di molto importante, e in questo brano ci sono almeno due grandi annunci: la dimensione universale del progetto di Dio “ Io verrò a radunare”, e il ruolo del piccolo resto dei credenti, “i superstiti”, gli scampati che fra lo scoraggiamento generale conservano la fede. Mentre il primo Isaia o Michea (VIII secolo a.C.) annunciavano soltanto la salvezza del “piccolo Resto d’Israele”, durante e dopo l’esilio (VI secolo) Israele scopre la dimensione universale del progetto di Dio e impara a considerare la propria elezione non come un privilegio esclusivo, ma come una vocazione. Questo è un discorso nuovo perché pone in luce il ruolo missionario che Dio affidata a Israele al servizio dell’intera umanità, la dimensione universale del progetto di Dio: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue” e più sorprendente ancora: “essi verranno e vedranno la mia gloria” (v.18). Il termine gloria indica il fulgore della presenza di Dio (letteralmente in ebraico «peso»). Dio non ha bisogno che noi lo gloriamo; siamo invece noi a diventare felici quando viviamo nell’alleanza d’amore con Lui. “Vedranno la mia gloria” significa riconoscerlo come unico Dio liberando l’umanità da ogni forma di idolatria. E il testo continua: “Manderò i loro superstiti alle popolazioni più lontane… questi messaggeri annunceranno la mia gloria alle genti .. ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti, come offerta al Signore…al mio santo santo di Gerusalemme”(v.20). Ecco realizzata la vocazione del popolo eletto: essere luce delle nazioni, perché la salvezza giunga fino all’estremità della terra (cf Is 49,6). Questa è anche la vocazione della Chiesa, popolo di Dio chiamato a testimoniare la verità di Dio nel mondo, anche se non sostituisce Israele: annunciare la gloria di Dio a tutti i popoli, testimoniare il vangelo che illumina la vita: “Io porrò in essi un segno” (v.19) e in questa luce comprendiamo quel che Gesù dirà: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,32). L’ultima frase è un terzo annuncio importante: non solo i popoli si avvicineranno al Signore, ma “anche tra loro prenderò sacerdoti e leviti” (v.21), il che significa che non saranno più richieste le condizioni abituali per il sacerdozio e ogni essere umano può avvicinarsi al Dio vivente. Si capisce perché qualche versetto prima della lettura di questa domenica, Isaia invitava a rallegrarsi Gerusalemme tutti quelli che l’amano perché il Signore farà “scorrere verso di essa, come un fiume, la pace, e come un torrente in piena la gloria delle nazioni” (Is 66,10…12).
Alcune Note *Scrive sant’Agostino: «Chi sarebbe tanto folle da credere che Dio abbia bisogno dei sacrifici che gli si offrono? Il culto reso a Dio giova all’uomo e non a Dio. Non è alla sorgente che giova se vi si beve, né alla luce se la si vede» (La città di Dio, X, 5-6).
*Nel Terzo Isaia (profeta del dopo l’silio) si ritrova la teologia del “resto salvatore”, di cui leggiamo una traccia nel Salmo 39/40: “Molti vedranno, avranno timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4) da accostare all’annuncio che troviamo qui in Isaia (vv20-21)
*Nella Bibbia, non sempre si parla delle nazioni in modo positivo e il termine è carico di significati talvolta decisamente negativi: Il libro del Deuteronomio, ad esempio, parla delle “abominazioni delle nazioni” (18,9-12) a causa delle loro pratiche religiose in generale e i sacrifici umani in particolare. Nella pedagogia biblica, il popolo eletto viene guidato a restare fedele a Dio, a scoprire il volto del Dio unico, evitando ogni contatto con le nazioni a rischio di contagio idolatrico. Questa visione positiva è già con Abramo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3). Con fede più salda, Israele scoprirà l’universalismo del progetto di Dio comprendendo progressivamente di essere il fratello maggiore, non il figlio unico con il ruolo di aprire a tutta l’umanità la via verso il suo Dio: se Dio è l’unico vero Dio, è il Dio di tutti.
Salmo responsoriale 116/117
Questo salmo è più breve del salterio che potrebbe riassumersi in una sola parola: Alleluia, ultima parola del salmo, ma anche la prima, poiché, Lodate il Signore (v. 1) equivale a Alleluia: “Allelu” è imperativo: Lodate e “Ia” è la prima sillaba del nome di Dio. L’obiettivo dell’intero salterio, che significa “Lodi” (in ebraico Tehillim), deriva dalla stessa radice di Alleluia. Ecco il commento che i rabbini fanno dell’Alleluia: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre allo splendore, dalla schiavitù alla redenzione. Per questo, cantiamo davanti a lui l’Alleluia». “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà”: è ciò che Dio ha fatto per il suo popolo, ma è anche il progetto di Dio per tutta l’umanità. La salvezza del suo popolo è l’inizio e promessa di ciò che Dio farà per tutta l’umanità quando annunciò ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). E già Salomone lo aveva sognato: «Tutti i popoli della terra, come il tuo popolo Israele, riconosceranno il tuo Nome e ti adoreranno» (1Re 8,41-43; cfr. la prima lettura). Da qui la struttura di questo salmo, molto semplice ma suggestiva: “Lodate Dio”(v.1); “Poiché ha dimostrato il suo amore (v.2)”. Guardando più da vicino, leggiamo: “Lodate Dio, voi tutte le nazioni”(v.1); Per la sua opera a favore del suo popolo: “Poiché ha dimostrato il suo amore per noi”. Qui il «poiché» è molto importante: quando le nazioni vedranno ciò che Dio ha fatto per noi, crederanno. In altre parole: poiché Dio ha dato prova di sé salvando il suo popolo, le altre nazioni potranno credere in lui. Lo stesso ragionamento si trova nel Salmo 39/40 (XX domenica dell’anno C) dove il salmista dice: “Dio mi ha tratto dalla fossa della morte… vedendo questo, molti saranno presi da timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4). Allo stesso modo, il Salmo 125/126 canta, a proposito dell’esilio a Babilonia: «Allora si diceva fra le nazioni: Grandi cose ha fatto il Signore per loro!» (Sal 125/126,2). Questa idea si incontra più volte nei profeti: quando il popolo è nella disgrazia, le altre nazioni possono dubitare della potenza di Dio. È in questo senso che Ezechiele osa dire che l’esilio a Babilonia è una vergogna per Dio e arriva perfino ad affermare che l’esilio del popolo di Dio “profanava” il nome di Dio, mentre la liberazione, al contrario, sarà davanti a tutti la prova della sua potenza liberatrice. Questo lo porta a proclamare, in pieno esilio babilonese: “Mostrerò la santità del mio grande nome, profanato fra le nazioni, che voi avete profanato in mezzo a loro; allora le nazioni sapranno che io sono il Signore…quando avrò mostrato la mia santità in voi sotto i loro occhi” (Ez 36,23; 36,36). Riconoscere il Nome di Dio nel linguaggio biblico significa scoprire il Dio di tenerezza e fedeltà rivelato a Mosè (Es 34,6): tenerezza e fedeltà che Israele ha sperimentato lungo tutta la sua storia. Questo è il senso del secondo versetto del salmo: ” forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”. Ultima osservazione: questo salmo fa parte dell’Hallel (dal salmo 112/113 a 117/118) e occupa un posto particolare nella liturgia di Israele perché la sua recitazione segue il pasto pasquale. Gesù stesso lo ha cantato la sera del Giovedì Santo e i vangeli di Matteo e Marco ne fanno eco (cf. Mt 26,30; Mc 14,26). Possiamo ripetere anche noi: “Ha dimostrato il suo amore per noi” ascoltando Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13) e “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12, 5-7.11-13)
I destinatari della Lettera agli Ebrei, cristiani che attraversano un periodo di forte persecuzione, hanno già molto sofferto per la loro fede, come appare chiaramente nel capitolo 10,32-34. L’autore per consolarli e infondere coraggio, dice loro di non dimenticare l’esortazione a loro rivolta e si immerge nell’Antico Testamento riprendendo ciò che il profeta Isaia diceva ai suoi compatrioti esiliati in Babilonia: “Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche” (v12). Parla loro come se anche essi vivessero un esilio e affronta il problema della sofferenza non per giustificarla o spiegarla, ma per darle un senso. Invita alla perseveranza, virtù indispensabile nei tempi della prova quando Dio come un Padre mostra il suo amore anche con modi apparentemente assurdi. L’immagine dominante è dunque quella paterno pedagogica di Dio presente nella letteratura sapienziale della Bibbia, dove la sofferenza può diventare un cammino, una prova per la fede del credente, il quale sa che, qualunque cosa accada, Dio tace, ma non è né sordo né indifferente. Al contrario, come un padre, ci accompagna su questo difficile sentiero e da ogni male ci aiuta a uscire rafforzati. Quello che sopportate è dunque una “correzione” con richiami al libro dei Proverbi:”Non disprezzare, figlio mio, la correzione del Signore, e non stancarti delle sue riprensioni. Perché il Signore corregge colui che ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11-12). Per i primi cristiani, questo tema era familiare, poiché conoscevano bene il libro del Deuteronomio, che paragonava Dio a un pedagogo che accompagna la crescita di coloro che educa (cf Dt 8,2-5). Vissuta nella fiducia in Dio, la sofferenza può diventare un’occasione di testimonianza della speranza e della pace interiore che dona lo Spirito. La sofferenza può dunque diventare una scuola, in cui impariamo a vivere nello Spirito tutto ciò che accade perché, come scrive san Paolo, la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata, la virtù provata la speranza che non delude grazie all’amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfRm 5,3-4). La sofferenza dunque fa parte della condizione umana: anche in una tale situazione Dio ci affida l’onore e la responsabilità di testimoniare la fede e, se la persecuzione fa parte del cammino della vita, non è perché Dio la voglia, ma per cause legate a comportamenti umani. Quando Gesù diceva che è necessario che il Figlio dell’uomo soffra, non parlava di una richiesta di Dio, ma della triste realtà dell’opposizione umana e san Paolo, rivolgendosi alle prime comunità dell’Asia Minore, anch’esse perseguitate ricordava che dobbiamo entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni (cf. At 14,22).
Dal vangelo secondo Luca (13,22-30)
Gesù è in cammino verso Gerusalemme e, visibilmente, non perde occasione di insegnare, ma ciò che dice non è sempre quello che ci si aspetta. Qui, per esempio, qualcuno fa una domanda concernente la salvezza e lui non risponde direttamente: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (v.23). La risposta non riguarda chi si salva, come se ci fossero in anticipo degli eletti e degli esclusi, ma quale è la condizione per entrare nel regno: passare per porta! “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non ci riusciranno” (v.24). L’immagine della porta stretta è suggestiva ed eloquente: un tale eccessivamente obeso o chi si carica di pacchi ingombranti non riesce a passare per una porta stretta, a meno che non compia una forte cura dimagrante o decida di abbandonare ogni ingombro. Il testo che segue permette di capire quale sia l’obesità spirituale e quali i bagagli con cui non si riesce a transitare. Bussando alla porta questi diranno: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (vv25-26). Qui Gesù denuncia la sicurezza dei suoi interlocutori, convinti che, per il solo fatto di essere nati nel popolo eletto, abbiano diritto alla salvezza e che per loro la porta si aprirà. Gesù però precisa che la porta è la stessa per tutti e allora perché non riusciranno a passarla? Anzi il padrone preciserà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia” (v.27). È vero che Gesù è uno di loro, che ha mangiato e bevuto con loro e ha insegnato in mezzo a loro; è vero che i loro antenati Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti sono nel Regno di Dio, ma tutto ciò non dà loro diritti. L’obesità spirituale e i pesi ingombranti sono le loro certezze: non accolgono il regno di Dio come un dono, convinti di avere dei diritti. Allora appare chiara l’ultima frase: “vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” (v30). I primi nel disegno di Dio, come afferma san Paolo, sono i figli d’Israele, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, le alleanze, la Legge, il culto, le promesse, i patriarchi, ed è da loro che è nato il Cristo. (cf.Rm 9,4-5). Il popolo ebraico è il popolo dell’Alleanza per scelta sovrana di Dio come leggiamo nel Deuteronomio: «Solo ai tuoi padri il Signore si è attaccato per amarli; e dopo di loro, è la loro discendenza, cioè voi, che ha scelto fra tutti i popoli.» (Dt 10,15). E con giusto motivo, il popolo d’Israele era felice e fiero di essere scelto da Dio come è detto nel salmo 32/33: “Beata la nazione che ha il Signore per Dio. Beato il popolo che si è scelto come patrimonio… Noi aspettiamo il Signore. Egli è il nostro aiuto e il nostro scudo. La gioia del nostro cuore viene da lui e la nostra fiducia è nel suo santo nome.» (Sal 32/33,12.20-21). Ma, come ogni vocazione, la scelta di Dio è una missione: i primi invitati al regno avevano il compito di farvi entrare tutta l’umanità come Isaia ricordava più volte (cf Is 42,6; 49,5-6) perché la salvezza la raggiungesse tutta. Quando Gesù parla, loro rifiutano il suo insegnamento perché disturba le loro certezze e il loro compiacimento di sé e quando Gesù dice loro di allontanarsi perché compiono il male non intende azioni malvagie, ma si riferisce a questa chiusura del cuore. Poco prima egli aveva guarito una donna inferma in una sinagoga di sabato e invece di gioire per la guarigione, avevano criticato il luogo e il momento. Questa stessa ottusità spirituale e visione egoistica della fede può segnare la nostra vita di cristiani. Chiudendo il cuore alla Grazia diventiamo ciechi e obesi spiritualmente perché, come alcuni contemporanei di Gesù chiusi nelle loro certezze, non riuscirono a riconoscerlo e seguirlo come il Messia. Papa Francesco ripeteva che un cuore chiuso non ascolta la voce di Dio né riconosce il volto dei fratelli. Accogliamo allora l’invito del Signore a togliere dal nostro cuore la durezza, per ricevere in dono un cuore di carne: solo così potremo comprendere la sua volontà e annunciare il suo vangelo con gioia.
+ Giovanni D’Ercole
And thus we must see Christ again and ask Christ: “Is it you?” The Lord, in his own silent way, answers: “You see what I did, I did not start a bloody revolution, I did not change the world with force; but lit many I, which in the meantime form a pathway of light through the millenniums” (Pope Benedict)
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: “Sei tu?”. Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: “Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni” (Papa Benedetto)
Experts in the Holy Scriptures believed that Elijah's return should anticipate and prepare for the advent of the Kingdom of God. Since the Lord was present, the first disciples wondered what the value of that teaching was. Among the people coming from Judaism the question arose about the value of ancient doctrines…
Gli esperti delle sacre Scritture ritenevano che il ritorno di Elia dovesse anticipare e preparare l’avvento del Regno di Dio. Poiché il Signore era presente, i primi discepoli si chiedevano quale fosse il valore di quell’insegnamento. Tra i provenienti dal giudaismo sorgeva il quesito circa il peso delle dottrine antiche...
Gospels make their way, advance and free, making us understand the enormous difference between any creed and the proposal of Jesus. Even within us, the life of Faith embraces all our sides and admits many things. Thus we become more complete and emancipate ourselves, reversing positions.
I Vangeli si fanno largo, avanzano e liberano, facendo comprendere l’enorme differenza tra credo qualsiasi e proposta di Gesù. Anche dentro di noi, la vita di Fede abbraccia tutti i nostri lati e ammette tante cose. Così diventiamo più completi e ci emancipiamo, ribaltando posizioni
We cannot draw energy from a severe setting, contrary to the flowering of our precious uniqueness. New eyes are transmitted only by the one who is Friend. And Christ does it not when we are well placed or when we equip ourselves strongly - remaining in a managerial attitude - but in total listening
Non possiamo trarre energia da un’impostazione severa, contraria alla fioritura della nostra preziosa unicità. Gli occhi nuovi sono trasmessi solo da colui che è Amico. E Cristo lo fa non quando ci collochiamo bene o attrezziamo forte - permanendo in atteggiamento dirigista - bensì nell’ascolto totale
The Evangelists Matthew and Luke (cf. Mt 11:25-30 and Lk 10:21-22) have handed down to us a “jewel” of Jesus’ prayer that is often called the Cry of Exultation or the Cry of Messianic Exultation. It is a prayer of thanksgiving and praise [Pope Benedict]
Gli evangelisti Matteo e Luca (cfr Mt 11,25-30 e Lc 10,21-22) ci hanno tramandato un «gioiello» della preghiera di Gesù, che spesso viene chiamato Inno di giubilo o Inno di giubilo messianico. Si tratta di una preghiera di riconoscenza e di lode [Papa Benedetto]
The human race – every one of us – is the sheep lost in the desert which no longer knows the way. The Son of God will not let this happen; he cannot abandon humanity in so wretched a condition. He leaps to his feet and abandons the glory of heaven, in order to go in search of the sheep and pursue it, all the way to the Cross. He takes it upon his shoulders and carries our humanity (Pope Benedict)
L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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