Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Dedicazione della Basilica Lateranense [9 Novembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Lasciamoci scuotere dallo zelo di Gesù per la sua Chiesa che ama resti integra e fedele
Prima Lettura dal libro di Ezechiele (47, 1… 12)
Prima di rileggere la visione di Ezechiele, è utile ricordare il piano del Tempio che lui conosceva, quello di Salomone. Diverso dalle nostre chiese, il Tempio era un’ampia spianata suddivisa in cortili: dei pagani, delle donne e degli uomini. Il Tempio vero e proprio aveva tre parti: all’aperto con l’altare degli olocausti, il Vestibolo, il Santo e il Santo dei Santi. Per Israele, il Tempio era il centro della vita religiosa: unico luogo di pellegrinaggio e sacrifici. La sua distruzione nel 587 a.C. rappresentò un crollo totale, non solo fisico ma anche spirituale. La domanda era: la fede sarebbe crollata con esso? Come sopravvivere dopo la distruzione? Ezechiele, deportato a Babilonia nel 597 a.C., si trovò sulle rive del fiume Kebar, a Tel Aviv. Nei venti anni dell’Esilio (dieci prima e dieci dopo la distruzione), dedicò tutte le sue energie a mantenere viva la speranza del popolo. Doveva agire su due fronti: sopravvivere e mantenere intatta la speranza del ritorno. Come sacerdote, parlava soprattutto in termini di culto e visioni, molte delle quali riguardano il Tempio. Sopravvivere significava comprendere che il Tempio non era il luogo della presenza di Dio, ma il suo segno. Dio non era tra le rovine, ma con il suo popolo sul Kebar. Come diceva Salomone: «I cieli stessi e i cieli dei cieli non possono contenerti! Quanto meno questa Casa che ho edificato!» (1 Re 8,27). Dio è sempre in mezzo al suo popolo e non abbandona Israele: prima, durante e dopo il Tempio, è sempre in mezzo al suo popolo. Anche nella sventura, la fede si approfondisce. La speranza del ritorno è salda perché Dio è fedele e le promesse rimangono valide. Ezechiele immagina il Tempio del futuro e descrive un’acqua abbondante che scorre dal Tempio verso oriente, portando vita ovunque: la Mer Morto non sarà più morta, come il Paradiso della Genesi (Gn 1). Questo messaggio dice ai contemporanei: il paradiso non è dietro, ma davanti; i sogni di abbondanza e armonia saranno realizzati. La ricostruzione del Tempio, alcune decadi dopo, fu forse frutto di questa ostinata speranza di Ezechiele. Forse in ricordo di Ezechiele e della speranza che incarnò, la capitale d’Israele oggi si chiama Tel Aviv, “collina della primavera”.
Salmo responsoriale 45/46
La liturgia della festa della Dedicazione propone solo una suddivisione del Salmo 45/46, ma è utile leggerlo interamente. Si presenta come un cantico di tre strofe separate da due ritornelli (vv 8 e 12): “Il Signore degli eserciti è con noi; nostro baluardo è il Dio di Giacobbe”. Dio, re del mondo. Prima strofa: dominio di Dio sugli elementi cosmici (terra, mare, montagne. Seconda strofa: Gerusalemme, “la città di Dio, la più santa dimora dell’Altissimo”(v.5). Terza strofa: dominio di Dio sulle nazioni e su tutta la terra: «Io domino le nazioni, domino la terra». Il ritornello ha un tono di vittoria e guerra: l Signore dell’universo è con noi…. Il nome «Sabaoth» significa «Signore degli eserciti», un titolo guerriero che all’inizio della storia biblica indicava Dio a capo delle armate israelite. Oggi si interpreta come Dio dell’universo, riferendosi agli eserciti celesti. La seconda strofa e il Fiume. Sorprende l’evocazione di un Fiume a Gerusalemme, che in realtà non esiste. L’approvvigionamento idrico era garantito da sorgenti come il Gihon e Ain Roghel. Il Fiume non è reale, ma simbolico: anticipa la profezia di Ezechiele di un fiume miracoloso che irrigherà tutta la regione fino al Mar Morto. Analogie si trovano in Gioele e Zaccaria, dove acque vive scorrono da Gerusalemme e portano vita ovunque, mostrando Dio come re di tutta la terra.Tutte le iperboli del Salmo anticipano il Giorno di Dio, la vittoria definitiva su tutte le forze del male. La tonalità guerriera nei ritornelli e nell’ultima strofa ( “Eccelso tra le genti, eccelso sulla terra”) significa che Dio combatte contro la guerra stessa. Il Regno di Dio sarà stabilito su tutta la terra, su tutti i popoli, e tutte le guerre finiranno. Gerusalemme, «Città della Pace», simboleggia questo sogno di armonia e prosperità. Per alcuni commentatori, il Fiume rappresenta anche la folla che attraversa Gerusalemme durante le grandi processioni.
Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (3, 9… 17)
Il desiderio più profondo dell’Antico Testamento era che Dio fosse per sempre presente tra il suo popolo, instaurando un regno di pace e giustizia. Ezechiele lo esprime con il nome profetico di Gerusalemme: “Il Signore è là”. Tuttavia, il compimento di questa promessa supera ogni attesa: Dio stesso si fa uomo in Gesù di Nazaret, “il Verbo che si è fatto carne e ha posto la sua dimora tra noi”. San Paolo, rileggendo l’Antico Testamento, riconosce che tutta la storia della salvezza converge verso Cristo, centro eterno del progetto di Dio. Quando i tempi sono compiuti, Dio manifesta la sua presenza non più in un luogo (il Tempio di Gerusalemme), ma in una persona: Gesù Cristo, e in coloro che, mediante il Battesimo, sono uniti a lui. I Vangeli mostrano in vari modi questo mistero della nuova presenza di Dio: la Presentazione al Tempio, lo squarcio del velo al momento della morte di Gesù, l’acqua che sgorga dal suo costato (nuovo Tempio da cui fluisce la vita), e la purificazione del Tempio. Tutti questi segni indicano che in Cristo Dio abita definitivamente in mezzo agli uomini. Dopo la risurrezione, la presenza di Dio continua nel suo popolo: lo Spirito Santo abita nei credenti. Paolo lo afferma con forza: «Siete il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi». Questa realtà ha una doppia dimensione: Ecclesiale: la comunità dei credenti è il nuovo tempio di Dio, edificato su Cristo, pietra angolare. Tutto deve essere fatto per l’edificazione comune e per essere segno vivo della presenza di Dio nel mondo. Personale: ogni battezzato è “tempio dello Spirito Santo”. Il corpo umano è luogo santo in cui Dio abita, e per questo va rispettato e custodito. Il nuovo Tempio non è un edificio materiale, ma una realtà viva, in continua crescita, “un tempio che si dilata senza fine”, come diceva il cardinale Daniélou: l’umanità trasformata dallo Spirito. Infine, Paolo ammonisce: “Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui”. La dignità del credente come dimora di Dio è sacra e inviolabile. La promessa di Cristo a Pietro ne è la garanzia: «Le potenze del male non prevarranno contro la mia Chiesa». In sintesi: Dio, che nell’Antico Testamento abitava in un tempio di pietra, nel Nuovo abita in Cristo e, attraverso lo Spirito, nel cuore e nella comunità dei credenti. La Chiesa e ogni cristiano sono oggi il segno vivente della presenza di Dio in mezzo al mondo.
Dal Vangelo secondo Giovanni (2, 13-22)
Il commercio sulla spianata del Tempio. Nel Vangelo di Giovanni (cap. 2), Gesù compie uno dei suoi gesti più forti e simbolici: scaccia i mercanti dal Tempio di Gerusalemme. L’episodio avviene all’inizio della sua missione pubblica e rivela il senso profondo della sua presenza nel mondo: Gesù è il nuovo Tempio di Dio. Ai tempi di Gesù, la presenza di venditori di animali e di cambiavalute attorno al Tempio era una pratica normale e necessaria: i pellegrini dovevano acquistare animali per i sacrifici e cambiare il denaro romano, che portava l’effigie dell’imperatore, con monete giudaiche. Il problema non era quindi l’attività in sé, ma il fatto che i mercanti avevano invaso la spianata del Tempio, trasformando la prima corte – destinata alla preghiera e alla lettura della Parola – in un luogo di commercio. Gesù reagisce con forza profetica: “Non fate della casa del Padre un mercato” Denuncia così la trasformazione del culto in interesse economico e riafferma che non si possono servire due padroni, Dio e il denaro. Le sue parole richiamano quelle dei profeti: Geremia aveva denunciato il Tempio come “spelonca di ladri” (Ger 7,11), e Zaccaria aveva annunciato che, nel giorno del Signore, “non vi sarà più mercante nella casa del Signore” (Zc 14,21). Gesù si inserisce in questa linea profetica e porta a compimento le loro parole. Di fronte al gesto di Gesù, si manifestano due atteggiamenti: I discepoli, che lo conoscono e hanno già visto i suoi segni (come a Cana), comprendono il senso profetico del gesto e ricordano il Salmo 68(69): “Lo zelo per la tua casa mi divora”. Giovanni modifica il tempo del verbo (“mi divorerà”) per annunciare la futura passione di Gesù, segno del suo amore totale per Dio e per l’uomo. Gli oppositori (“i Giudei” in Giovanni) reagiscono con diffidenza e ironia: chiedono a Gesù di giustificare la sua autorità e non accettano di essere ammoniti da lui. Alla loro richiesta di un segno, Gesù risponde con parole misteriose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Essi pensano al Tempio di pietra, restaurato da Erode in quarantasei anni, simbolo della presenza di Dio tra il popolo. Ma Gesù parla di un altro tempio: il suo corpo. Solo dopo la risurrezione i discepoli comprendono il senso delle sue parole: il vero Tempio, segno della presenza di Dio, non è più un edificio, ma la persona stessa di Gesù risorto, “la pietra scartata dai costruttori, divenuta pietra angolare”. Questo episodio, posto da Giovanni all’inizio del suo Vangelo, annuncia già tutto il mistero cristiano: Gesù è il nuovo luogo dell’incontro con Dio, il Tempio vivente dove l’uomo trova la salvezza. Il culto antico è superato: non si tratta più di offrire sacrifici materiali, ma di accogliere e seguire Cristo, che offre se stesso per l’umanità. La fede divide: alcuni (i discepoli) accolgono questa novità e diventano figli di Dio; altri (gli oppositori) la rifiutano e si chiudono alla rivelazione. Gesù, cacciando i mercanti dal Tempio, rivela che la vera casa di Dio non è fatta di pietre ma di persone unite a Lui. Il suo corpo risorto è il nuovo Tempio, segno definitivo della presenza di Dio tra gli uomini. L’episodio diventa così una profezia della Pasqua e un invito alla purificazione del cuore, perché la dimora di Dio non si trasformi mai in un luogo di interesse, ma resti spazio di fede, comunione e amore.
+ Giovanni D’Ercole
Fra cadaveri e avvoltoi: diversi nella Profondità
(Lc 17,26-37)
C’è un discernimento essenziale assai semplice: dove la vita si spegne, non è favorita, non rallegrata né promossa, la terra diventa un camposanto anticipato, e il “cielo” si popola di stormi interi d’avvoltoi.
È l’amaro risultato di una cultura dalla quale purtroppo non trapela la netta ‘presenza’ di Colui che ha rivestito il mondo di Bellezza.
Mentalità che appare totalmente inerte: non in grado di farci riconoscere - noi senza voce - quali Motivo reale e Termine dell’iniziativa di Dio. Addirittura gli unici autentici Santuari.
Dovremmo essere Relazioni viventi e parlanti, che riempiono il cuore di sogni. E centri d’irradiazione, icone d’appagamento pieno; luoghi di passioni non statiche, bensì rispettose dell’intima natura delle cose.
Ma convinzioni e proposta pastorale sembra non reggano. E non incidono forse perché hanno perduto magia dentro: che fa amicizia con ciò che c’è nel viaggio di ciascuno.
Qui vige un discernimento più sottile - cifra del brano di Vangelo di oggi: il Giudizio si presenta in forma di sorpresa.
I minimi problemi dell’esistenza quotidiana possono diventare così assorbenti da farci smarrire il senso stesso delle imperfezioni - e in genere, la dimensione di profondità.
Le frontiere del Regno sono nel mondo, nelle persone, nei loro lamenti e gioie, negli accadimenti. Il luogo del ‘giudizio’ è ovunque.
L’invito di Gesù è a non lasciarsi distrarre, neanche dalle minuzie della religiosità.
La manifestazione dei tempi ultimi - ossia la possibilità di avviare un mondo nuovo - continuamente Viene: dev’essere ricevuta e farsi consapevole.
Mantenuta viva personalmente.
L’Incontro decisivo non accade in spazi e tempi preposti: si ripropone in mille fogge, momenti e luoghi, ma - ecco l’altro dato saliente - c’è qualcuno che si accorge, altri no.
La “divisione” tra chi viene associato alla vita divina e chi non può esserlo, non concerne gli eticismi sui vizi capitali, bensì il discernimento vivente.
Si tratta della realtà anche minuta (vv.31.34-35) e il suo messaggio.
La Fede nelle svolte e l’unione a Cristo che pulsa nell’anima, e sogna - intimo Fratello di ognuno e sfolgorante misura di ben altre cose - vuol spalancarci la Visione.
Lo leggiamo anche nel nostro cuore in rivolta, che vuole ridestarci dai loculi e dalla dittatura dei pensieri già confezionati.
Il Sé nascosto ha sete di comprendere l’appello del quotidiano e sommario, del precario, dei “difetti”; il richiamo della bifrontalità delle situazioni.
Le “simmetrie” che tanto sembravano rassicuranti non fanno crescere virtù, dentro le debolezze.
Ecco allora raggiungerci il pungolo dei fastidi, persino epocali: l’idea di perfezione non ci farebbe altrettanto spostare lo sguardo, per fare esodo, crescere, fiorire.
Il ‘Giudizio’ attivo in Cristo trasmette invece la capacità di cogliere uno scenario che non sapevamo.
L’avvento del «Figlio dell'uomo» (vv.26.30) mette in discussione, e il suo Giudizio sovrasta i distratti, i contratti dall’abitudine.
Coglie viceversa il nucleo dell’esistenza: saremo riconosciuti diversi… non nella morale, ma nella Profondità.
[Venerdì 32.a sett. T.O. 14 novembre 2025]
Fra cadaveri e avvoltoi: diversi nella profondità
(Lc 17,26-37)
C’è un discernimento essenziale assai semplice: dove la vita si spegne, non è favorita, non rallegrata né promossa, la terra diventa un camposanto anticipato, e il “cielo” si popola di stormi interi d’avvoltoi.
Fotografia dell’invecchiamento, dello stagno, del problema d’Occidente a monopolio spirituale (abituato) che non fa fiorire più nulla.
È l’amaro risultato di una struttura religiosa forse devotissima, di sicuro abile a soddisfare i sensi, però indolente; certo capillare, esperta, e che si pronuncia su tutto, ma disarticolata in campanilismi d’ogni tipo.
Un’istituzione spettacolare, tuttavia ripiegata, in sé estranea e a volte ostile [che spegne la spinta creativa e non si mescola con le speranze della donna e dell’uomo di oggi]; dalla quale purtroppo non trapela la netta presenza di Colui che ha rivestito il mondo di Bellezza.
La piramide gerarchica sul territorio rimane esagerata, forse allo scopo stesso di autolegittimarsi, serrando le fila per fare meglio corpo.
La mentalità che ne deriva appare totalmente inerte: non in grado di farci riconoscere - noi senza voce - quali Motivo reale e Termine dell’iniziativa di Dio. Addirittura gli unici autentici Santuari.
Dovremmo essere Relazioni viventi e parlanti, che riempiono il cuore di sogni. E centri d’irradiazione, icone d’appagamento pieno; luoghi di passioni non statiche, bensì rispettose dell’intima natura delle cose.
Viceversa, cogliamo attorno sprazzi di vita sì giovane ed esuberante che tenta di fiorire, ma oscuramente soffocata da troppi lacci, idee passate o disincarnate, interessi di gruppo consolidati, e padroncini.
Ecco la crisi di senso, il tempo davvero umano che viene meno; come in un anticipo di perdizione - fuori prospettiva del Padre, amante della vita.
Convinzioni e proposta pastorale paiono incapaci di costituire: non reggono, impallidiscono, non incidono, non ricercano l’unicità.
Tutto ciò, malgrado l’esercito (distratto) di realtà istituzionali e capillari, che succhia vocazioni persino da terre in piena Missione.
Motivo in più per iniziare a edificare una ecclesialità profondamente differente, che non si attende di essere solo imboccata da programmi di professionisti del sacro.
Regno di Dio a partire dalla vita reale nuda e cruda; eppure, con la magia dentro: che fa amicizia con ciò che c’è nel viaggio di ciascuno.
Qui vige un discernimento più sottile - cifra del brano di Vangelo di oggi: il Giudizio si presenta in forma di sorpresa.
I minimi problemi dell’esistenza quotidiana (le nostalgie dei tradizionalisti, come le stesse idee disincarnate dei sofisticati) possono diventare così assorbenti da farci smarrire il senso stesso delle imperfezioni - e in genere, la dimensione di profondità.
Le frontiere del Regno sono nel mondo, nelle persone, nei loro lamenti e gioie, negli accadimenti - se letti come appuntamenti di svolta.
Non nelle convocazioni dove le cerchie d’iniziati si autorappresentano con una pletora di segni non confortati dalla vita.
Il luogo del “Giudizio” è ovunque.
In specie fuori dalle sagrestie: «vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità [...] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione» [da un’omelia del settembre 2015 a Santiago di Cuba, cit. in: Fratelli Tutti n.276].
L’invito di Gesù è a non lasciarsi distrarre, neanche dalle minuzie della religiosità.
La manifestazione dei tempi ultimi - ossia la possibilità di avviare un mondo nuovo - continuamente Viene: dev’essere ricevuta e farsi consapevole.
Mantenuta viva personalmente.
L’Incontro decisivo non accade in spazi e tempi preposti: si ripropone in mille fogge, momenti e luoghi, ma - ecco l’altro dato saliente - c’è qualcuno che si accorge, altri no.
La “divisione” tra chi viene associato alla vita divina e chi non può esserlo, non concerne gli eticismi sui vizi capitali, bensì il discernimento vivente
Si tratta della realtà anche minuta (vv.31.34-35) e il suo messaggio - ciò che la persona di Fede sente consistenza indistruttibile, ed è rivelazione totale di sé.
Senza la Fede delle svolte, il senso cultuale alienante riempie l'umanità di apparenze, di vesti divenute maschere e scorie - incapaci ormai d’interrogarci. Atteggiamento devastante.
La devozione poi che cura solo i dettagli o le grandi visioni del mondo e tira diritto, combatte i rovesci dell’esistere e non ne coglie gli appelli, la ricchezza per noi.
Anche nel tempo dell’emergenza, le fughe in avanti, il malessere dell’assuefazione o dell’errore piccino, stanno arrestando anche i festival spirituali più esuberanti nel punto in cui erano.
Ossia nelle tombe in cui ci siamo volentieri lasciati seppellire, e lo si nota in modo drammatico.
L’unione a Cristo che pulsa nell’anima, e sogna - intimo Fratello di ognuno e sfolgorante misura di ben altre cose - vuol spalancarci la Visione.
Una Visione di cieli e terra alternativi. Un’ottica oggi spesso rapita da vane attese di ripristino al “come eravamo”.
Lo leggiamo anche nel nostro cuore in rivolta, che vuole ridestarci dai loculi e dalla dittatura dei pensieri già confezionati.
Il Sé nascosto ha sete di comprendere l’appello del sommario, dei “difetti”, il richiamo della bifrontalità delle situazioni.
Duplicità purtroppo poco coltivate nelle realtà ingessate o unilaterali, quelle senza prodigio, e che ormai non vogliamo.
Le “simmetrie” che tanto sembravano rassicuranti non fanno crescere virtù, dentro le debolezze.
Ecco allora raggiungerci il pungolo dei fastidi, persino epocali: l’idea di perfezione non ci farebbe altrettanto spostare lo sguardo, per fare esodo, crescere, fiorire.
Il “Giudizio” attivo in Cristo trasmette invece la capacità di cogliere uno scenario che non sapevamo, e di capovolgere tutta una impostazione d’esistenza vintage avvezza.
Anche reagendo d’improvviso (v.31).
Insomma, Gesù sta richiamando i suoi a non camminare per aria:
Molte conquiste devote saranno in conto perdita. Tanti rischi d’amore, sia negli eventi ordinari che straordinari, saranno calcolati a “guadagno”.
In tal guisa saremo pronti a ricevere il Dio-Insieme.
Ciò sia nei rapporti con gli uomini, che nei segni del tempo e negli eventi personali.
Non ci faremo prendere alla sprovvista dal pensiero solo retrospettivo - o frutto di attaccamenti opposti - che si accontenta di praticucce esterne, ma non vigila.
L’avvento del «Figlio dell'uomo» (vv.26.30) mette in discussione. E il suo Giudizio sovrasta i distratti, i contratti dall’abitudine; senza più capacità di lettura profonda e intuizione.
Il Signore viceversa coglie il nucleo dell’esistenza.
La sua teologia d’Incarnazione vuole creare alleanza tra le nostre variegate potenze primordiali [tutte in sé genuine].
Saremo dunque riconosciuti diversi [viventi o meno]… non nei manierismi o luoghi spiccioli della “morale” (vv.31.34).
Neppure nella faticosa elaborazione (epidermica) delle virtù ammesse: «Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33).
Tutto ciò, bensì, nella profondità della percezione.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti fai imbeccare da altri o stai edificando te stesso e il tuo modo di comprendere?
Ti senti sicuro per aver assunto sogni, virtù, speranze, successi comuni e altrui? Ovvero per averli vissuti e riconosciuti - come una vera storia d’amore - in prima persona?
Quale differenza profonda rechi con te nel tempo degli attaccamenti e degli sconvolgimenti?
L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è « estasi », ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: « Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in genere.
[Papa Benedetto, Deus Caritas est, n.6]
Salmo 10 - Nel Signore è la fiducia del giusto
Vespri del lunedì della 1a settimana (Lettura: Sal 10, 1.3-5.7).
1. Continua la nostra riflessione sui testi salmici, che costituiscono l’elemento sostanziale della Liturgia dei Vespri. Quello che ora abbiamo fatto risuonare nei nostri cuori è il Salmo 10, una breve preghiera di fiducia che, nell’originale ebraico, è scandita dal nome sacro divino, ’Adonaj, il Signore. Questo nome echeggia in apertura (cfr v. 1), si trova tre volte al centro del Salmo (cfr vv. 4-5) e ritorna alla fine (cfr v. 7).
La tonalità spirituale dell’intero canto è ben espressa dal versetto conclusivo: «Giusto è il Signore, ama le cose giuste». È questa la radice di ogni fiducia e la sorgente di ogni speranza nel giorno dell’oscurità e della prova. Dio non è indifferente nei confronti del bene e del male, è un Dio buono e non un fato oscuro, indecifrabile e misterioso.
2. Il Salmo si svolge sostanzialmente in due scene. Nella prima (cfr vv. 1-3) si descrive l’empio nel suo apparente trionfo. Egli è tratteggiato con immagini di taglio bellico e venatorio: è il perverso, che tende il suo arco da guerra o da caccia per colpire violentemente la sua vittima, ossia il fedele (cfr v. 2). Quest’ultimo è, perciò, tentato dall’idea di evadere e di liberarsi da una morsa così implacabile. Vorrebbe fuggire «come un passero verso il monte» (v. 1), lontano dal gorgo del male, dall’assedio dei malvagi, dalle frecce delle calunnie lanciate a tradimento dai peccatori.
C’è una sorta di scoraggiamento nel fedele che si sente solo e impotente di fronte all’irruzione del male. Gli sembrano scosse le fondamenta del giusto ordine sociale e minate le basi stesse della convivenza umana (cfr v. 3).
3. Ecco, allora, la svolta, delineata nella seconda scena (cfr vv. 4-7). Il Signore, assiso sul trono celeste, abbraccia col suo sguardo penetrante tutto l’orizzonte umano. Da quella postazione trascendente, segno dell’onniscienza e onnipotenza divina, Dio può scrutare e vagliare ogni persona, distinguendo il bene dal male e condannando con vigore l’ingiustizia (cfr vv. 4-5).
È molto suggestiva e consolante l’immagine dell’occhio divino la cui pupilla è fissa e attenta alle nostre azioni. Il Signore non è un remoto sovrano, chiuso nel suo mondo dorato, ma una vigilante Presenza schierata dalla parte del bene e della giustizia. Egli vede e provvede, intervenendo con la sua parola e la sua azione.
Il giusto prevede che, come era accaduto a Sodoma (cfr Gn 19,24), il Signore «farà piovere sugli empi brace, fuoco e zolfo» (Sal 10,6), simboli del giudizio di Dio che purifica la storia, condannando il male. L’empio, colpito da questa pioggia ardente, che prefigura la sua sorte ultima, sperimenta finalmente che «c’è Dio che fa giustizia sulla terra!» (Sal 57,12).
4. Il Salmo, però, non si conclude con questo quadro tragico di punizione e di condanna. L’ultimo versetto apre l’orizzonte alla luce e alla pace destinate al giusto che contemplerà il suo Signore, giudice giusto, ma soprattutto liberatore misericordioso: «Gli uomini retti vedranno il suo volto» (Sal 10,7). Un’esperienza, questa, di comunione gioiosa e di serena fiducia nel Dio che libera dal male.
Una simile esperienza hanno fatto innumerevoli giusti nel corso della storia. Molte narrazioni descrivono la fiducia dei martiri cristiani di fronte ai tormenti e la loro fermezza che non rifuggiva dalla prova.
Negli Atti di Euplo, diacono catanese, morto verso il 304 sotto Diocleziano, il martire esce spontaneamente in questa sequenza di preghiere: «Grazie, o Cristo: proteggimi perché soffro per te… Adoro il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Adoro la Santa Trinità… Grazie, o Cristo. Vieni in mio soccorso, o Cristo! Per te soffro, Cristo… Grande è la tua gloria, o Signore, nei servi che ti sei degnato di chiamare a te!… Ti rendo grazie, Signore Gesù Cristo, perché la tua forza mi ha consolato; tu non hai permesso che la mia anima perisse con gli empi e mi hai concesso la grazia del tuo nome. Ora conferma quello che hai fatto in me, affinché sia confusa l’impudenza dell’Avversario» (A. Hamman, Preghiere dei primi cristiani, Milano 1955, pp. 72-73).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 gennaio 2004]
«Pensare alla nostra morte non è una brutta fantasia»; anzi, vivere bene ogni giorno come se fosse «l’ultimo», e non come se questa vita fosse «una normalità» che dura per sempre, potrà aiutare a trovarsi davvero pronti quando il Signore chiamerà. È un invito a riconoscere serenamente la verità essenziale della nostra esistenza quello che Papa Francesco ha riproposto nella messa celebrata venerdì mattina, 17 novembre, a Santa Marta.
«In queste due ultime settimane dell’anno liturgico — ha subito fatto presente — la Chiesa nelle letture, nella messa, ci fa riflettere sulla fine». Da una parte, certo, «la fine del mondo, perché il mondo crollerà, sarà trasformato» e ci sarà «la venuta di Gesù, alla fine». Ma, dall’altra parte, la Chiesa parla anche della «fine di ognuno di noi, perché ognuno di noi, morirà: la Chiesa, come madre, maestra, vuole che ognuno di noi pensi alla propria morte».
«A me attira l’attenzione — ha confidato il Pontefice, facendo riferimento al brano evangelico di Luca (17, 26-37) — quello che dice Gesù in questo passo che abbiamo letto». In particolare la sua risposta «quando domandano come sarà la fine del mondo». Ma intanto, ha rilanciato il Papa seguendo le parole del Signore, «pensiamo a come sarà la mia fine». Nel Vangelo Gesù usa le espressioni «come avvenne anche nei giorni di Noè» e «come avvenne anche nei giorni di Lot». Per dire, ha spiegato, che gli uomini «in quel tempo mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno che Noè entrò nell’arca». E, ancora, «come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano».
Ecco però, ha proseguito il Papa, che arriva «il giorno che il Signore fa piovere fuoco e zolfo dal cielo». Insomma, «c’è la normalità, la vita è normale — ha fatto notare Francesco — e noi siamo abituati a questa normalità: mi alzo alle sei, mi alzo alle sette, faccio questo, faccio questo lavoro, vado a trovare questo domani, domenica è festa, faccio questo». E «così siamo abituati a vivere una normalità di vita e pensiamo che questo sarà sempre così». Ma lo sarà, ha aggiunto il Pontefice, «fino al giorno che Noè salì sull’arca, fino al giorno che il Signore ha fatto cadere fuoco e zolfo dal cielo».
Perché sicuramente «verrà un giorno in cui il Signore dirà a ognuno di noi: “vieni”», ha ricordato il Pontefice. E «la chiamata per alcuni sarà repentina, per altri sarà dopo una malattia, in un incidente: non sappiamo». Ma «la chiamata ci sarà e sarà una sorpresa: non l’ultima sorpresa di Dio, dopo di questa ce ne sarà un’altra — la sorpresa dell’eternità — ma sarà la sorpresa di Dio per ognuno di noi».
A proposito della fine, ha proseguito, «Gesù ha una frase, l’abbiamo letta ieri nella messa: sarà “come la folgore che guizzando brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”, il giorno che busserà alla nostra vita».
«Noi siamo abituati a questa normalità della vita — ha proseguito Francesco — e pensiamo che sarà sempre così». Però «il Signore, e la Chiesa, ci dice in questi giorni: fermati un po’, fermati, non sempre sarà così, un giorno non sarà così, un giorno tu sarai tolto e quello che è accanto a te sarà lasciato».
«Signore, quando sarà il giorno in cui sarò tolto?»: proprio «questa — ha suggerito il Papa — è la domanda che la Chiesa invita a farci oggi e ci dice: fermati un po’ e pensa alla tua morte». Ecco il significato della frase citata da Francesco, posta all’ingresso «in un cimitero, al nord di Italia: “Pellegrino, tu che passi, pensa dai tuoi passi, l’ultimo passo”». Perché «ci sarà un ultimo» passo.
«Questo vivere la normalità della vita come fosse una cosa eterna, un’eternità — ha spiegato il Papa — si vede anche nelle veglie funebri, nelle cerimonie, nelle onorificenze funebri: tante volte le persone che davvero sono coinvolte con quella persona morta, per la quale preghiamo, sono poche».
E così «una veglia funebre si è trasformata normalmente in un fatto sociale: “Dove vai oggi?” — “Oggi devo andare a fare questo, questo, questo, poi al cimitero perché c’è la cerimonia”». Diventa così «un fatto in più e lì incontriamo gli amici, parliamo: il morto è lì ma noi parliamo: normale». Così «anche quel momento trascendente, per il modo di camminare della vita abituale, diventa un fatto sociale». E «questo — ha confidato ancora Francesco — io l’ho visto nella mia patria: in alcune veglie funebri c’è un servizio di ricevimento, si mangia, si beve, il morto è lì: ma noi qui facciamo un po’, non dico “festa”, ma parliamo, mondanamente; è una riunione in più, per non pensare».
«Oggi — ha affermato il Pontefice — la Chiesa, il Signore, con quella bontà che ha, dice a ognuno di noi: fermati, fermati, non tutti i giorni saranno così; non abituarti come questa fosse l’eternità; ci sarà un giorno che tu sarai tolto, l’altro rimarrà, tu sarai tolto». Insomma, così «è andare col Signore, pensare che la nostra vita avrà fine, e questo fa bene perché lo possiamo pensare all’inizio del lavoro: oggi forse sarà l’ultimo giorno, non so, ma farò bene il lavoro». E «farò» bene anche «nei rapporti a casa, con i miei, con la famiglia: andare bene, forse sarà l’ultimo giorno, non so». Lo stesso dobbiamo pensarlo, ha proseguito Francesco, «anche quando andiamo a fare una visita medica: questa sarà una in più o sarà l’inizio delle ultime visite?».
«Pensare alla morte non è una fantasia brutta, è una realtà», ha insistito il Pontefice, spiegando: «Se è brutta o non brutta dipende da me, come io la penso, ma ci sarà e lì sarà l’incontro col Signore: questo sarà il bello della morte, sarà l’incontro col Signore, sarà lui a venire incontro, sarà lui a dire “vieni, vieni, benedetto da mio Padre, vieni con me”». A nulla serve dire: «Ma, Signore, aspetta che devo sistemare questo, questo». Perché tanto «non si può sistemare niente: quel giorno chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa non scenda: dove stai ti prenderanno, ti prenderanno, tu lascerai tutto».
Però «avremo il Signore, questa è la bellezza dell’incontro», ha rassicurato il Papa. «L’altro giorno — ha aggiunto — ho trovato un sacerdote, più o meno sessantacinquenne: non si sentiva bene, è andato dal dottore», il quale «dopo la visita» gli «ha detto: “Guardi, lei ha questo, questa è una cosa brutta, ma forse stiamo in tempo di fermarla, faremo questo; se non si ferma faremo quest’altro e se non si ferma incominceremo a camminare e io la accompagnerò fino alla fine”». Perciò, ha commentato Francesco, «bravo quel medico! Con quanta dolcezza ha detto la verità: anche noi accompagniamoci in questa strada, andiamo insieme, lavoriamo, facciamo del bene e tutto, ma sempre guardando là».
«Oggi facciamo questo» ha concluso il Papa, perché «ci farà bene a tutti fermarsi un po’ e pensare il giorno nel quale il Signore verrà a trovarmi, verrà a prendermi per andare da lui».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/11/2017]
La Venuta del Regno non sopra né davanti
(Lc 17,20-25)
Il tema della venuta del Figlio dell’uomo è precristiano, e tutti i dati del testo compaiono già nell’apocalittica giudaica. Ma in essa l’Eterno «verrà» e “si farà vedere” alla fine del tempo.
Tuttavia il Padre non governa i figli emanando disposizioni come farebbe un sovrano, bensì trasmettendo la sua stessa Vita, di qualità indistruttibile.
Perciò non chiede obbedienza - come un re. Desidera ‘somiglianza’.
È il Dono, e il saper leggere dentro le cose, poi la nostra qualità e impegno relazionale, che realizzano o decelerano l’instaurarsi di un mondo nuovo, continuamente ritemprato.
Nulla a che fare coi pronostici (v.20): è in campo la sapienza inattesa del Dono, e il “potere” all’incontrario di Dio. Non di forza, non aggressivo.
Egli stesso si colloca non davanti o sopra, ma «in mezzo». Nulla di perentorio, straripante, gigantesco. Stile Famiglia.
«In mezzo»: per illuminare tutte le circostanze. Per coabitare, preparare, attecchire nei cuori in modo amabile, intimo, convincente.
L’avvento del suo Regno non potremo ammirarlo come fosse uno show.
La Presenza delle Fraternità nel mondo è tessuta di vita reale, non di ruoli o vaghe narrazioni, rappresentazioni sofisticate, o illusioni.
Così la Chiesa non sarà un’anonima e ostile società che trae con astuzia il maggior “rendimento”.
La Comunità che Viene non dovrebbe appartenere alla fattispecie mondana, bensì sfuggire ogni prevedibilità e limitazione.
Il Regno alternativo è di condizione umana, eppure… ‘forma’ che non accetta la finitudine come unica sorte, né si adatta alla nostra piccina misura di determinatezze e rassicurazioni.
Il Regno in Persona Christi traluce una Energia lucida e sognante, vicina e proiettiva, la quale non impone se stessa: anima l’intero afflato di creature che si mettono in gioco.
Fuori dai suoi circuiti ordinari, il Signore non chiede nessuna manifestazione gloriosa.
«Il Regno di Dio non viene in modo che si possa osservare, né si dirà: Ecco qui o là» [vv.20b-21a].
Non si tratta di fine del mondo, ma di fine di un certo tipo di modello di umanità riuscita - ora intima al «Figlio dell’uomo» (vv.22.24).
E l’opportunità per rovesciare le concatenazioni [antiche o alla moda] si presenta da un momento all’altro; guizza immediata (v.24).
Tutto ciò mette i fedeli a contatto con la natura interna del Regno. E in tal guisa ne conoscono la saggezza, l’azione nascosta che estrae fecondità dai lati caotici.
Altre vene, fluenti di Spirito.
Altrimenti può anche sembrare che Dio perda il controllo della storia.
E noi, scoraggiati, metterci su un lato della strada, a osservare intimiditi, forse arresi; sperando l’arrivo di altre cose, esterne.
Invece, tappa dopo tappa il suo progetto di umanizzazione si realizza - qui - in tutti coloro che accolgono la proposta di accentuare la propria vita, donando se stessi.
Nessun Dominio.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come incarni la profezia del Messia che ‘viene’ senza posa? Corrispondi personalmente o corri dietro eventi eclatanti?
[Giovedì 32.a sett. T.O. 13 novembre 2025]
La Venuta del Regno non sopra né davanti
(Lc 17,20-25)
Il tema della venuta del Figlio dell’uomo è precristiano, e tutti i dati del testo compaiono già nell’apocalittica giudaica. Ma in essa l’Eterno verrà e si farà vedere alla fine del tempo.
Allora come oggi, secondo i leaders della religiosità popolare il Regno si sarebbe instaurato dopo che tutto il popolo fosse giunto alla perfetta osservanza della Legge e delle tradizioni.
Come ricompensa per la nostra obbedienza, Dio avrebbe concesso la venuta del Messia, e il suo popolo lo avrebbe accolto [sceso dai pinnacoli o dalle nubi] in modo solenne, come si fa con un principe.
Ma nei Vangeli il termine Regno di Dio designa l'ambito in cui il Padre “regna”, ossia la comunità dei credenti - dove il futuro del Signore sulla terra già irrompe nella logica e potenza attiva della Pasqua.
In essa una Provvidenza creatrice e rigenerante interviene senza posa, nelle Persone e nella virtù qualitativa del suo Popolo.
Attraverso la Chiesa autentica semper conformanda, la vita si apre alla sua Azione - e la nostra vicenda si trasforma in modo radicale.
Ciò si compie, sia per l’Amicizia in noi, che gettando Speranza. Linfa e Sogno divinizzante, che attiva nuove configurazioni.
Infatti il Padre non governa i figli emanando disposizioni come farebbe un sovrano, ma trasmettendo la sua stessa Vita di qualità indistruttibile.
Perciò non chiede obbedienza - come un re - bensì somiglianza.
È il Dono, e il saper leggere dentro le cose, poi la nostra qualità e impegno relazionale, che realizzano o decelerano l’instaurarsi di un mondo nuovo, continuamente ritemprato.
Nulla a che fare coi pronostici (v.20): è in campo la sapienza inattesa del Dono, e il “potere” all’incontrario di Dio. Non di forza, non aggressivo.
Egli stesso si colloca non davanti o sopra, ma «in mezzo». Nulla di perentorio, straripante, gigantesco.
Così i suoi che lo rappresentano genuinamente.
Il Padre non è un capofila; figuriamoci se la sua Assemblea può permettersi di legittimare atteggiamenti esclusivisti.
Questi ultimi si rintracciano purtroppo in situazioni piramidali; in scelte insulse di alcuni dirigenti, che per sentirsi “qualcuno” destinano altri a stare sempre dietro o sotto [soprattutto quelli che non li riveriscono].
Dio è viceversa equidistante da tutti, questo il criterio di valutazione - unico attributo sovreminente, imperativo delle vere guide, le più schiette e trasparenti.
Stile Famiglia.
Insomma, il “Cielo” non dispone che qualche eletto sia abilitato a collocarsi comunque vicino e sopra - altri destinati alle retrovie, scartati perché meno utili agli obbiettivi.
Non c’è chi dica di rappresentarlo e possa farsi “grande”, sempre in posizione dominante. Comunque alto - e tu piccolo, sempre sotto.
Al contrario. «In mezzo»: per illuminare tutte le circostanze.
Per coabitare con le donne e gli uomini, come una sposa; onde preparare e attecchire nei cuori in modo amabile, intimo, convincente.
L’avvento del suo Regno non potremo ammirarlo come fosse uno show di professionisti - spettacolo di vecchi o nuovi eletti al potere, sostenuti da portaborse (e altrettanti manichini di cartapesta, anch’essi a scalare).
La Presenza delle Fraternità nel mondo è tessuta di vita reale, non di ruoli o vaghe narrazioni, rappresentazioni sofisticate o illusioni.
Così la Chiesa non sarà un’anonima e ostile società [più o meno invocata] di sacre autocelebrazioni. Né di opere meritorie, o di forza - forse per alcuni, di profitto.
Neppure, agenzia turbo-efficiente, che trae con astuzia il maggior “rendimento”.
La Comunità che Viene non dovrebbe appartenere alla fattispecie mondana, bensì sfuggire ogni prevedibilità e limitazione.
Il Regno alternativo è di condizione umana, eppure… Forma che non accetta la finitudine come unica sorte, né si adatta alla nostra piccina misura di determinatezze e rassicurazioni.
Il Regno in Persona Christi traluce una Energia lucida e sognante, vicina e proiettiva, la quale non impone se stessa: anima l’intero afflato di creature che si mettono in gioco.
Fuori dai suoi circuiti ordinari, il Signore non chiede nessuna manifestazione gloriosa di ricchi paraventi, orizzonti arcaici o viceversa disincarnati; né intolleranze, disparità, distacchi.
«Il Regno di Dio non viene in modo che si possa osservare, né si dirà: Ecco qui o là» [vv.20b-21a, testo greco].
Non si tratta di fine del mondo, ma di fine di un certo tipo di modello di umanità riuscita.
E l’opportunità per rovesciare le concatenazioni [antiche o alla moda] si presenta da un momento all’altro; guizza immediata (v.24).
«Perché come la folgore, folgoreggiando da un capo del cielo risplende fino all’altro capo del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo [nel suo giorno]».
Gesù è l’autentico, repentino Sogno di Giacobbe, che preludeva a una vasta discendenza; ulteriormente dispiegata (Gen 28,10-22) e divenuto realtà.
Ma nessuno si sarebbe atteso che il Messia potesse identificarsi col «Figlio dell’uomo» (vv.22.24), Colui che crea abbondanza dov’essa non c’è - e prima non sembrava lecito potesse espandersi.
Il nuovo legame fra Dio e gli esseri umani è nel Fratello che si fa “parente prossimo”, che crea un’atmosfera di umanizzazione dai contorni ampi - affatto discriminanti.
«Figlio dell’uomo» è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo come ci si aspettava.
“Figlio riuscito”: la Persona dal passo definitivo, che in noi aspira alla pienezza più dilatata nelle vicende e relazioni, a una caratura indistruttibile dentro ciascuno che accosta [e incontra contrassegni divini].
È crescita e umanizzazione del popolo: lo sviluppo tranquillo, vero e pieno del progetto divino sull’umanità.
«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo religioso, riposto, cauto, controllato e riservato, ma un’occasione per tutti coloro che danno adesione alla proposta del Signore, e reinterpretano la vita in modo creativo personale.
Essi superano i fermi e propri confini sommari, facendo spazio al Dono; accogliendo dalla Grazia pienezza di essere e di carattere, nei suoi nuovi irripetibili binari.
E noi particolarmente precari, sentendoci totalmente e immeritatamente amati, scopriamo altre sfaccettature... cambiamo il modo di stare con noi stessi, e di leggere la storia.
Pertanto, possiamo crescere, realizzarci, fiorire, irradiare la completezza ricevuta - senza più chiusure.
Senza più supremazie unilaterali.
Eccoci in Cristo: da Figlio di Davide [il capo militare assolutamente vittorioso, che avrebbe imposto la Legge e sottomesso le altre nazioni] a «Figlio dell’uomo».
Come ha dichiarato il card. Bassetti a commento dell’enciclica Fratelli Tutti, anche quello più recente del Magistero è un appello ad «accorciare le distanze e non erigere muri».
Tutto ciò mette i fedeli a contatto con la natura interna del Regno. E in tal guisa ne conoscono la saggezza, l’azione nascosta - che estrae fecondità dai lati caotici.
Da altre vene, anche dissidenti, eppure fluenti di Spirito.
Altrimenti può anche sembrare che Dio perda il controllo della storia.
E noi, scoraggiati, metterci su un lato della strada, ad osservare intimiditi, forse arresi; sperando l’arrivo di altre cose, esterne.
Invece, tappa dopo tappa il suo progetto di umanizzazione si realizza - qui - in tutti coloro che accolgono la proposta di accentuare la propria vita, donando se stessi.
Nessun Dominio.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come incarni la profezia del Messia che viene senza posa? Corrispondi personalmente o corri dietro eventi eclatanti?
Quali ritieni siano le strade sbagliate o le fantasie di fine del mondo che mortificano la vita del Regno?
Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l'argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema fondamentale di tale predicazione è il dominio di Dio, il “Regno di Dio”. Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. Nel termine “Regno di Dio” la parola “Dio” è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al “Regno” che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. “È in mezzo a voi!” (cfr Lc 17,20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona: l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva.
[Papa Benedetto, alla Curia romana 22 dicembre 2006]
It has made us come here the veneration of martyrdom, on which, from the beginning, the kingdom of God is built, proclaimed and begun in human history by Jesus Christ (Pope John Paul II)
Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall’inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo (Papa Giovanni Paolo II)
The evangelization of the world involves the profound transformation of the human person (Pope John Paul II)
L'opera evangelizzatrice del mondo comporta la profonda trasformazione delle persone (Papa Giovanni Paolo II)
The Church, which is ceaselessly born from the Eucharist, from Jesus' gift of self, is the continuation of this gift, this superabundance which is expressed in poverty, in the all that is offered in the fragment (Pope Benedict)
La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento (Papa Benedetto)
He is alive and wants us to be alive; he is our hope (Pope Francis)
È vivo e ci vuole vivi. Cristo è la nostra speranza (Papa Francesco
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Ecclesial life is made up of exclusive inclinations, and of tasks that may seem exceptional - or less relevant. What matters is not to be embittered by the titles of others, therefore not to play to the downside, nor to fear the more of the Love that risks (for afraid of making mistakes)
La vita ecclesiale è fatta di inclinazioni esclusive, e di incarichi che possono sembrare eccezionali - o meno rilevanti. Ciò che conta è non amareggiarsi dei titoli altrui, quindi non giocare al ribasso, né temere il di più dell’Amore che rischia (per paura di sbagliare).
Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
don Giuseppe Nespeca
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