«Il cielo e la terra passeranno, ma le mie Parole non passeranno»
(Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32)
«L’espressione “il cielo e la terra” è frequente nella Bibbia per indicare tutto l’universo, il cosmo intero. Gesù dichiara che tutto ciò è destinato a “passare”. Non solo la terra, ma anche il cielo, che qui è inteso appunto in senso cosmico, non come sinonimo di Dio. La Sacra Scrittura non conosce ambiguità: tutto il creato è segnato dalla finitudine, compresi gli elementi divinizzati dalle antiche mitologie: non c’è nessuna confusione tra il creato e il Creatore, ma una differenza netta. Con tale chiara distinzione, Gesù afferma che le sue parole “non passeranno”, cioè stanno dalla parte di Dio e perciò sono eterne. Pur pronunciate nella concretezza della sua esistenza terrena, esse sono parole profetiche per eccellenza, come afferma in un altro luogo Gesù rivolgendosi al Padre celeste: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato” (Gv 17,8). In una celebre parabola, Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr Mc 4,14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr Mc 4,20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione che si manifesta già ora». (Papa Benedetto, Angelus 15 novembre 2009)
Anche nell’era del progresso telematico il venir meno dei livelli economici e di numerose antiche sicurezze suscita confusione e apprensioni.
Se tutto sembra rimesso in forse, ci chiediamo: come rapportarsi con i fatti che allarmano, e in che modo coinvolgerci nella cronaca di un mondo sconvolto da rivolgimenti?
L’uomo antico protesta il pericolo di degrado morale e dottrinale, o abbassa il capo, umiliato.
L’uomo di Fede prende atto; non si abbatte. Piuttosto s’impegna a scorgere nelle pieghe della storia il genio del tempo.
Così affina il suo occhio interiore - e riconoscendo i nuovi guizzi di vita, alza lo sguardo.
Vuole il Tutto, non si accontenta del nulla monocromatico.
Al tempo di Gesù gli “apocalittici” nutrivano l’opinione che le vicende del mondo volgessero al peggio.
Una terra in cui gli agnelli sono destinati a soccombere di fronte alle belve non può che retrocedere verso una disunione crescente e il collasso sociale.
Ma da tale corruzione - e constatata l’incapacità dell’uomo - Dio avrebbe fatto sorgere cieli nuovi e terra nuova; per ciascuno una realtà propizia, rigogliosa, fiorente, governata direttamente dal Signore (unico di cui ci si può fidare).
In tale cornice si colloca l’incoraggiamento della prima Lettura: nessuna lacrima, nessun sacrificio svanirà; il nostro coinvolgimento - pur nella fatica o nella beffa - non è destinato a cadere nel vuoto.
Tutto ciò sarà anche frutto di una rinnovata consapevolezza: solo Dio umanizza la terra.
L’autore biblico trasmette questo messaggio attraverso l’icona di Michele, il cui nome in ebraico מִיכָאֵל (mì-chà-Él) sta a significare “chi come Dio?”.
Domanda retorica per dire che nessuno è come Dio: nessun sostituto può rimpiazzarlo o eguagliarlo.
Quando Michele avrà il sopravvento - ossia quando subentrerà detta coscienza - gli uomini comprenderanno in tutte le sue sfaccettature che solo l’Eterno rende vivibile il mondo.
Così rifiuteranno le antiche fissazioni, nonché gli idoli più recenti e sofisticati, che degradano e disumanizzano la terra.
Tale l’autenticità del Volto di Dio.
Egli ci risolleva dal senso di contaminazione o qualunquismo che accompagna l’itinerario del credente.
E non solo non ci lasceremo prendere dal panico dei rivolgimenti esterni, ma neppure da un’impressione d’indegnità legata alla percezione religiosa di peccato (cf. seconda Lettura).
Calamità, rivolgimenti, insicurezze, in Cristo saranno percepiti non come fatti allarmanti e affannosi - per il dramma d’un mondo agonizzante che ci trascinerebbe alla corruzione - ma come tempi e luoghi addirittura favorevoli alla soluzione dei veri problemi.
Un popolo trascinato da spinte caotiche sbaglia, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità grandi di crescita, che non possono essere scalfite neppure dall’angoscia d’imperfezione.
Sia l’uomo genericamente pio che la persona animata da Fede possono essere considerati madri e padri di Futuro…
Ma con una differenza sostanziale:
I putiferi della realtà sono un’occasione per scoprire nuovi punti di forza interiori.
L’uomo bigotto invece fa il paio con l’edonista: entrambi non sono che il prodotto paradossale d’una civiltà dell’esterno.
Lo si constata da come si manifestano: ossessivamente attaccati al ruolo, al posto, a modelli visibili da inseguire (condizionati dalla ricerca di circostanze brillanti).
Malgrado le apparenze, la devozione perbenista che si priva dell’autenticità viva e attuale del Cristo non estrae le persone dalla banalità della caccia a cariche e titoli.
Nelle religioni arcaiche, infatti, o nel mondo dell’utopismo disincarnato e incompetente, guai a toccare i già blasonati!
Non li si smuove da situazioni (anche di ministero ecclesiale) cui sono abituati e che contano.
(Sarebbe reato di lesa maestà smuoverli, anche dopo decenni di ufficio e qualsiasi cosa abbiano combinato).
Oggi basterebbe un minimo periscopio per cogliere che impulsi travolgenti scendono in campo a mettere in discussione situazioni che immaginavamo concluse e perfette.
Tali pungoli servono a farci riflettere su ciò che vogliamo: palesano cosa siamo.
Le nostre identificazioni rassicuranti d’improvviso evaporano, perché fossilizzate su obbiettivi che non ci appartengono profondamente... non erano i “nostri”.
Se l’abitudine ci ha soffocati, la Provvidenza “interviene” anche buttando tutto all’aria - perché ci vede aridi.
Il rattrappito è anche incapace di ottenere i veri risultati che Dio sogna in suo stesso favore.
Trascinando la vita, la persona contratta si compiace del solito becchime dell’aia, girando e rigirando solo attorno.
Ma Qualcuno dentro e fuori di noi sa molto più di noi.
Come per donarci una cascata d’autenticità, il Signore introduce negli eventi che ci scomodano un flusso di energia fresca che tende a liberarci dalle pastoie di ambizioni e schemi antichi.
Abitudine e quietismo delle mansioni non ci hanno consentito di scoprire noi stessi, figuriamoci gli altri e il mondo.
Quindi non importa se le situazioni consolidate si sgretolano e molte relazioni vecchie - pubbliche e private - rovinano.
Per voltare pagina si deve bloccare questa rincorsa delle aspettative ancestrali e (paradossalmente) accogliere la crisi - pericolo e possibilità.
Fondamentale è intuire nella problematicità degli eventi l’occasione per un colpo di mano che surclassi i sogni epidermici; essi che ci costringevano tanto a recitare.
In fondo, sono gli sconvolgimenti che risolvono i veri problemi e rimettono “le cose a posto”.
Per questo, l’autentico fedele è sempre un passo avanti e si diversifica dall’uomo pio unilaterale, devoto o sofisticato.
Egli non aspetta Futuro, né lo delega… ma lo costruisce.
Il nulla e il tutto
«Nel brano del Vangelo di questa domenica (cfr Mc 13,24-32), il Signore vuole istruire i suoi discepoli sugli eventi futuri. Non è in primo luogo un discorso sulla fine del mondo, piuttosto è l’invito a vivere bene il presente, ad essere vigilanti e sempre pronti per quando saremo chiamati a rendere conto della nostra vita. Dice Gesù: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo» (vv. 24-25). Queste parole ci fanno pensare alla prima pagina del Libro della Genesi, il racconto della creazione: il sole, la luna, gli astri, che dall’inizio del tempo brillano nel loro ordine e portano luce, segno di vita, qui sono descritti nel loro decadimento, mentre piombano nel buio e nel caos, segno della fine. Invece la luce che in quel giorno ultimo risplenderà sarà unica e nuova: sarà quella del Signore Gesù che verrà nella gloria con tutti i santi. In quell’incontro vedremo finalmente il suo Volto nella piena luce della Trinità; un Volto raggiante d’amore, di fronte al quale apparirà in totale verità anche ogni essere umano.
La storia dell’umanità, come la storia personale di ciascuno di noi, non può essere compresa come un semplice susseguirsi di parole e di fatti che non hanno un senso. Non può essere neppure interpretata alla luce di una visione fatalistica, come se tutto fosse già prestabilito secondo un destino che sottrae ogni spazio di libertà, impedendo di compiere scelte che siano frutto di una vera decisione. Nel Vangelo di oggi, piuttosto, Gesù dice che la storia dei popoli e quella dei singoli hanno un fine e una meta da raggiungere: l’incontro definitivo con il Signore. Non conosciamo il tempo né le modalità con cui avverrà; il Signore ha ribadito che «nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio» (v. 32); tutto è custodito nel segreto del mistero del Padre. Conosciamo, tuttavia, un principio fondamentale con il quale dobbiamo confrontarci: «Il cielo e la terra passeranno – dice Gesù –, ma le mie parole non passeranno» (v. 31). Il vero punto cruciale è questo. In quel giorno, ognuno di noi dovrà comprendere se la Parola del Figlio di Dio ha illuminato la propria esistenza personale, oppure se gli ha voltato le spalle preferendo confidare nelle proprie parole. Sarà più che mai il momento in cui abbandonarci definitivamente all’amore del Padre e affidarci alla sua misericordia.
Nessuno può sfuggire a questo momento, nessuno di noi! La furbizia, che spesso mettiamo nei nostri comportamenti per accreditare l’immagine che vogliamo offrire, non servirà più; alla stessa stregua, la potenza del denaro e dei mezzi economici con i quali pretendiamo con presunzione di comperare tutto e tutti, non potrà più essere usata. Avremo con noi nient’altro che quanto abbiamo realizzato in questa vita credendo alla sua Parola: il tutto e il nulla di quanto abbiamo vissuto o tralasciato di compiere. Con noi soltanto porteremo quello che abbiamo donato.
Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria, affinché la constatazione della nostra provvisorietà sulla terra e del nostro limite non ci faccia sprofondare nell’angoscia, ma ci richiami alla responsabilità verso noi stessi, verso il prossimo, verso il mondo intero». (Papa Francesco, Angelus 18 novembre 2018)