Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questa domenica 2 Febbraio 2025 celebriamo la Presentazione del Signore al Tempio di Gerusalemme
*Prima Lettura Dal libro del profeta Malachia (3,1-4)
Siamo in presenza di un misterioso frammento profetico visto da molti come una testimonianza di universalismo, di libertà e di speranza. Non è però facile capire come accogliere questo testo. Perché il profeta Malachia insiste così tanto sul Tempio, sui leviti (o sacerdoti), sulle offerte e su tutto ciò che riguarda il culto? Per capire questa insistenza, occorre tener conto del contesto storico. Malachia scrive intorno al 450 a.C., in un periodo in cui in Israele non c’era più un re discendente di Davide, il paese era sotto il dominio persiano e il popolo ebraico era comandato dai sacerdoti. Ecco perché l’autore insiste sull’alleanza di Dio con i sacerdoti he erano i rappresentanti di Dio presso il suo popolo. Malachia ricorda il legame privilegiato tra Dio e la discendenza di Levi, ma assiste a una degenerazione nella condotta di questa casta sacerdotale ed era perciò molto importante richiamare l’ideale e la responsabilità del sacerdozio. L’alleanza con i sacerdoti era al servizio dell’alleanza di Dio con il suo popolo ed è proprio di questa alleanza che qui si parla: “subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire”. Malachia si rivolge a tutti coloro che aspettano, desiderano, cercano e annuncia loro che non hanno atteso, cercato, desiderato invano e il loro desiderio, la loro attesa saranno esauditi. E questo avverrà presto.
“E subito entrerà”, la parola ebraica pit’ôm indica sia rapidità che vicinanza, ed è forte come l’espressione che segue: ”eccolo venire”. Le due espressioni sinonime “subito entrerà” e “eccolo venire” incorniciano (inclusione) l’annuncio della venuta del Signore. ”Subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire”. L’angelo dell’alleanza viene per ristabilire l’alleanza: prima di tutto con i figli di Levi, ma soprattutto, attraverso di loro, con il popolo intero e si capisce che quest’angelo dell’alleanza è Dio stesso. Nella Bibbia, per non nominare direttamente Dio per rispetto, si usa spesso l’espressione “l’Angelo di Dio”. Si tratta quindi della venuta stessa di Dio. Nel suo piccolo libro di appena quattro pagine nella nostra Bibbia, Malachia parla più volte del giorno della sua venuta; lo chiama il “giorno del Signore” e ogni volta questo giorno appare desiderabile e al tempo stesso inquietante. Per esempio, nel versetto che segue immediatamente il testo dell’odierna liturgia, Dio dice: “Io mi accosterò a voi per il giudizio” (v. 5), cioè vi libererò dal male. Questo è desiderabile per i giusti ma temibile per chi vive nel male e opera il male. L’intervento di Dio è un discernimento che deve avvenire dentro di noi nel giorno del giudizio e un messaggero deve precedere la venuta del Signore che chiamerà tutto il popolo alla conversione. Come scrive Malachia: “Io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me. Più tardi, Gesù citerà precisamente questa profezia riferendosi a Giovanni Battista. Chiedendo alla gente chi erano andati a vedere dirà che Giovanni Battista è “più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te; egli preparerà la tua strada davanti a te”(Mt 11,7-10 e Lc 7,27). Con queste parole, Gesù identificava sé stesso come l’Angelo dell’alleanza che viene nel suo tempio e lo capiremo meglio approfondendo il Vangelo di san Luca oggi, festa della Presentazione del Signore
*Salmo responsoriale 23/24 (7, 8, 9, 10)
“Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. Quest’espressione è solenne e un po’ sorprendente dato che è difficile immaginare che i lintei delle porte possano sollevarsi. Siamo in un contesto poetico e l’iperbole serve a esprimere la maestà di questo Re di gloria che entra solennemente nel Tempio di Gerusalemme. L’espressione “re della gloria” è riferita a Dio stesso, il Signore dell’universo. Il pensiero va alla grande festa della Dedicazione del primo Tempio, realizzata dal re Salomone intorno al 950 a.C. Con la fantasia rivediamo l’enorme processione, le gradinate gremite di fedeli… Come leggiamo nel salmo 67/68: “Appare il tuo corteo, Dio, il corteo del mio Dio, del mio re, nel santuario. Precedono i cantori, seguono i suonatori di cetra, insieme a fanciulle che suonano tamburelli” (Sal 67,25-26). La Dedicazione del primo Tempio da parte di Salomone è descritta nel primo libro dei Re. In quell’occasione Salomone radunò a Gerusalemme gli anziani d’Israele, i capi delle tribù, i prìncipi delle famiglie dei figli d’Israele, per far salire l’Arca del Signore dalla città di Davide, cioè da Sion nel mese di Etanim, il settimo mese, durante la festa delle Capanne. Quando tutti gli anziani d’Israele erano arrivati, i sacerdoti portarono l’Arca, la tenda del convegno e tutti gli oggetti sacri che si trovavano nella tenda e fu sacrificato così tanto bestiame minuto e grande che non si poteva contare né enumerare. I sacerdoti sistemarono l’Arca dell’Alleanza del Signore al suo posto, nella camera interna della Casa, il Santo dei Santi, sotto le ali dei cherubini. I cherubini, nella Bibbia, non assomigliano ai piccoli angioletti della nostra immaginazione, ma sono animali alati con volto umano, più simili a grandi sfingi egiziane. In Mesopotamia, erano i guardiani dei templi. Nel Tempio di Gerusalemme, sopra l’Arca dell’Alleanza si trovavano due statue di legno dorato raffiguranti questi esseri. Le loro ali spiegate sopra l’Arca simboleggiavano il trono di Dio. In questo contesto, possiamo immaginare la folla e un coro che canta: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. E un altro coro risponde: “Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia”. Dietro i termini che richiamano la guerra, che oggi possono sorprenderci, dobbiamo leggere il ricordo di tutte le battaglie necessarie a Israele per conquistarsi uno spazio vitale. Sin dal dono della Legge sul Sinai, l’Arca accompagnava il popolo d’Israele in ogni battaglia, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. L’ipotesi più comune è che questo salmo sia molto antico, poiché si è persa ogni traccia dell’Arca dall’esilio babilonese. Nessun testo biblico parla chiaramente di essa né durante né dopo l’esilio, ma si sa che finì come parte del bottino portato via da Nabucodonosor durante la presa di Gerusalemme. Fu nascosta poi da Geremia sul monte Nebo, come raccontano alcuni? Nessuno lo sa. Eppure questo salmo è stato cantato regolarmente nelle cerimonie del Tempio di Gerusalemme persino molto dopo l’esilio babilonese, in un’epoca in cui non vi era più nessuna processione intorno all’Arca. Proprio per questo ha acquisito maggiore importanza: avendo perso definitivamente l’Arca dell’’Alleanza, segno tangibile della presenza di Dio, il salmo rappresentava tutto ciò che restava dello splendore passato. Insegnava al popolo il necessario distacco: la presenza di Dio non è legata a un oggetto, per quanto carico di memoria. Inoltre, con il passare dei secoli, questo salmo ha assunto un significato nuovo: “Entri il re della gloria” è diventato il grido di impazienza per la venuta del Messia. Venga finalmente il Re eterno che regnerà sull’umanità rinnovata alla fine dei tempi! Sarà davvero il “Signore valoroso in battaglia” colui cioè che vince definitivamente il Male e le potenze della morte; sarà davvero il Signore, Dio dell’universo e tutta l’umanità parteciperà alla sua vittoria. Questa era l’attesa d’Israele, che cresceva di secolo in secolo. Non stupisce, dunque, che la liturgia cristiana canti il salmo 23/24 il giorno in cui celebra la Presentazione di Gesù Bambino al Tempio di Gerusalemme: un modo per affermare che questo bambino è il re della gloria, cioè Dio stesso.
*Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei ( 2,14-18)
Il tema della mediazione di Cristo è fondamentale nella Lettera agli Ebrei. E' senz’altro utile ricordare che fu scritta in un contesto di non poche polemiche e proprio da questa lettera possiamo intuire il tipo di obiezioni che i primi cristiani di origine ebraica dovevano affrontare. Essi si sentivano dire continuamente: Il vostro Gesù non è il Messia; abbiamo bisogno di un sacerdote, e lui non lo è. Era quindi fondamentale per un cristiano del I° secolo sapere che Cristo è veramente sacerdote, essendo l’istituzione del sacerdozio centrale nell’Antico Testamento, come abbiamo notato anche nella prima lettura tratta dal libro di Malachia, che è l’ultimo dell’Antico Testamento. Ora, un’istituzione così importante nella storia del popolo ebraico e per la sua sopravvivenza, non poteva essere ignorata nel Nuovo Testamento. Gesù però, secondo la legge ebraica, non era sacerdote e non poteva aspirare a esserlo, tanto meno poteva considerarsi sommo sacerdote. Non discendeva da Davide, quindi dalla tribù di Giuda, e nemmeno da quella di Levi e l’autore della Lettera lo sa bene e afferma chiaramente (cf Eb 7,14). La Lettera agli Ebrei risponde: Gesù non è sommo sacerdote discendente da Aronne, ma lo è a somiglianza di Melchisedek. Questo personaggio menzionato nel capitolo 14 della Genesi visse molto prima di Mosè e di Aronne ed è legato ad Abramo. Eppure viene chiamato “sacerdote del Dio Altissimo” (Cf. Gn 14,18-20). Dunque Gesù è effettivamente sommo sacerdote, a suo modo, in continuità con l’Antico Testamento. Ecco precisamente lo scopo della Lettera agli Ebrei: mostrarci come Gesù realizzi l’istituzione del sacerdozio e realizzare nel linguaggio biblico non significa riprodurre il modello dell’Antico Testamento, ma portarlo alla sua piena perfezione. Vediamo allora i tre aspetti del sacerdozio antico e quali ne erano gli elementi essenziali: Il sacerdote era un mediatore, un membro del popolo ammesso a comunicare con la santità di Dio e, in cambio, trasmetteva al popolo i doni e le benedizioni di Dio. Nel brano odierno si sottolinea che Gesù è davvero un membro del popolo: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe… perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli…” (Eb 2,14-17). Essere «simile» significa condividere le stesse debolezze: tentazioni, prove, sofferenza e morte. Gesù ha condiviso la nostra povera condizione umana e per avvicinare Dio all’uomo, si è fatto uno di noi annullando così la distanza tra Dio e l’uomo. Inoltre il sacerdote doveva essere ammesso a comunicare con la santità di Dio che è il Santo, cioè il totalmente Altro (Kadosh, El Elyon, HaKadosh HaMufla), come spesso ci ricorda la Bibbia. Per avvicinarsi al Dio santo, i sacerdoti venivano sottoposti a riti di separazione: bagni rituali, unzioni, vestizioni e sacrifici. Anche i luoghi sacri in cui i sacerdoti officiavano erano separati dagli spazi di vita comune del popolo. Con Gesù, tutto ciò è stravolto: egli non si è mai separato dalla vita del suo popolo, anzi si è mescolato con i piccoli, gli emarginati, gli impuri. Eppure, dice la Lettera agli Ebrei, abbiamo una prova certa che Gesù è il Giusto per eccellenza, il Figlio di Dio, il Santo: la sua resurrezione sconfiggendo la morte ha ristabilito l’Alleanza con Dio, che era l’obiettivo stesso dei sacerdoti. Ora siamo liberi e il più grande nemico della libertà è la paura. Ma, grazie a Gesù, non abbiamo più nulla da temere perché conosciamo l’amore di Dio. Chi ci faceva dubitare di questo amore era satana, ma mediante la morte, Gesù l’ ha ridotto all’impotenza.(cf 2,14-15). La sofferenza di Gesù mostra fin dove arriva l’amore di Dio per noi. Infine una domanda: Perché in questa Lettera si parla dei «figli di Abramo» e non dei «figli di Adamo»? Dice infatti. “Non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo”. La risposta è perché Abramo, nella meditazione biblica, rappresenta la fede, intesa come fiducia e a noi resta la libertà di non essere figli di Abramo, cioè credenti. Sta a noi decidere se entrare o no nel progetto di Dio.
*Dal Vangelo secondo Luca (2, 22 – 40)
Nel racconto dell’evangelista Luca emerge una doppia insistenza: prima sulla Legge, poi sullo Spirito. Nei primi versetti (vv. 22-24), egli cita tre volte la Legge per rimarcare che la vita del bambino inizia sotto il segno della Legge. Va però chiarito che Luca cita la Legge d’Israele non come una serie di comandamenti scritti e anzi si potrebbe sostituire la parola “Legge” con “Fede di Israele”. La vita della Famiglia di Nazaret è tutta impregnata della fede e, quando si presentano al Tempio di Gerusalemme per adempiere le usanze giudaiche, lo fanno con un atteggiamento di fervore. Il primo messaggio di Luca è questo: la salvezza di tutta l’umanità ha preso forma nel quadro della Legge d’Israele, della fede di Israele: in una parola, il Verbo di Dio si è incarnato in questo contesto e così si è compiuto il disegno misericordioso di Dio per l’umanità. Poi entra in scena Simeone, spinto dallo Spirito, menzionato anch’esso tre volte. È dunque lo Spirito che ispira a Simeone le parole che rivelano il mistero di questo bambino: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza”. E’ bene riprendere queste parole di Simeone una per una: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli”. L’Antico Testamento è la storia di questa lunga e paziente preparazione da parte di Dio per la salvezza dell’umanità. E si tratta proprio della salvezza dell’umanità, non solo del popolo d’Israele. È esattamente ciò che Simeone precisa: “Luce per irivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. La gloria di Israele, infatti, sta nell’essere stato scelto non per se stesso, ma per tutta l’umanità. Con il progredire della storia, durante tutte le vicende dell’Antico Testamento il popolo che Dio si è scelto ha scoperto sempre più chiaramente che il progetto di salvezza di Dio riguarda l’intera umanità. inoltre tutto questo avviene nel Tempio. Per Luca il messaggio è fondamentale e lo comunica a noi: assistiamo già all’ingresso glorioso di Gesù, Signore e Salvatore, nel tempio di Gerusalemme, come aveva annunciato il profeta Malachia. Questo è proprio l’incipit della prima lettura: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti”.
Luca riconosce in Gesù l’Angelo dell’Alleanza che entra nel suo tempio. Le parole di Simeone sulla gloria e sulla luce si collocano perfettamente in questa linea: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. Un’altra eco del vangelo di oggi nell’Antico Testamento si trova nel Salmo: “Chi è questo re di gloria? Alzate, o porte, la vostra fronte”. Il salmo attendeva un Messia-re discendente di Davide; sappiamo che il re di gloria è questo bambino. Luca descrive una scena maestosa di gloria: tutta la lunga attesa di Israele è rappresentata da due personaggi, Simeone e Anna. “Simeone, uomo giusto e pio aspettava la consolazione d’Israele”. Quanto ad Anna, si può pensare che, se parlava del bambino a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme, era perché anche lei viveva con impazienza l’attesa del Messia. Quando Simeone proclama: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola., perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele», afferma chiaramente che questo bambino è il Messia, il riflesso della gloria di Dio. Con Gesù, è la Gloria di Dio che entra nel Santuario; il che equivale a dire che Gesù è la Gloria, che egli è Dio stesso. Da questo momento, il tempo della Legge è compiuto. L’Angelo dell’Alleanza è entrato nel suo tempio per diffondere lo Spirito sull’intera umanità di ogni razza e cultura.
P.S. Per un ulteriore approfondimento, visto che questa pagina evangelica la ritroviamo anche nella festa della Santa Famiglia di Nazaret, unisco qualche nota supplementare.
L’attesa del Messia era viva nel popolo ebraico all’epoca della nascita di Gesù, ma non tutti ne parlavano allo stesso modo anche se l’impazienza era condivisa da tutti. Alcuni parlavano della “Consolazione di Israele”, come Simeone, altri della “liberazione di Gerusalemme”, come la profetessa Anna. Alcuni aspettavano un re, discendente di Davide, che avrebbe scacciato gli occupanti, rappresentanti del potere romano. Altri attendevano un Messia completamente diverso: Isaia lo aveva lungamente descritto e lo chiamava “il Servo di Dio”.
A coloro che aspettavano un re, i racconti dell’Annunciazione e della Natività hanno mostrato che Gesù era proprio colui che attendevano. Per esempio, l’angelo nell’Annunciazione aveva detto a Maria: “Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre; regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Certamente la giovane di Nazaret rimase sorpresa, tuttavia il messaggio era chiaro. Eppure nel racconto della presentazione di Gesù al Tempio, non si parla di questo aspetto della personalità del bambino appena nato. E d’altronde, il bambino che entra nel Tempio tra le braccia dei suoi genitori non è nato in un palazzo reale, ma in una famiglia modesta e in condizioni precarie. Sembra piuttosto che san Luca ci inviti a riconoscere nel bambino presentato nel Tempio, il servo annunciato da Isaia nei capitoli 42, 49, 50 e 52-53: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio (42, 1)… Il Signore mi ha chiamato fin dal seno materno, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome (I49, 1)…Ogni mattina fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come i discepoli; il Signore Dio ha aperto il mio orecchio” (50, 4-5). Un tal modo di esprimersi dichiara che questo servo era molto docile alla parola di Dio; e aveva ricevuto la missione di portare la salvezza a tutto il mondo. Isaia diceva: “Ti ho posto come alleanza per i popoli, come luce delle nazioni” (42, 6)… “Ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (49, 6). Il che mostra che già all’epoca di Isaia si era compreso che il progetto d’amore e di salvezza di Dio riguarda tutta l’umanità e non solo il popolo d’Israele. Infine, Isaia non nascondeva il terribile destino che attendeva questo salvatore: egli avrebbe compiuto la sua missione di salvezza per tutti, ma la sua parola, ritenuta troppo scomoda, avrebbe suscitato persecuzioni e disprezzo. Ricordiamo questo passo: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che strappavano la barba” (50, 6). Probabilmente sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e grazie alla sua conoscenza delle profezie di Isaia, Simeone capì immediatamente che il bambino era il Servo annunciato dal profeta. Intuì il destino doloroso di Gesù, la cui parola ispirata sarebbe stata rifiutata dalla maggioranza dei suoi contemporanei. Disse a Maria: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”. Simeone comprese che era giunta l’ora della salvezza per tutta l’umanità: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. Sì, Gesù è il Messia Servo, descritto nei “Canti del Servo del Signore” d’Isaia (42,49,50,52-53) colui che porta la salvezza: “Per mezzo suo si compirà la volontà del Signore” (53, 10).
+Giovanni D’Ercole
Offro anche su richiesta di qualcuno una breve sintesi che è possibile diffondere tra i fedeli. Domenica prossima 2 Febbraio 2025 celebriamo la Presentazione del Signore e
prepariamoci dando un rapido sguardo alla parola di Dio che ascolteremo nella santa Messa
*Prima Lettura Dal libro del profeta Malachia (3,1-4)
Siamo in presenza di un misterioso frammento profetico visto da molti come una testimonianza di universalismo, di libertà e di speranza. Non è però facile capire come accogliere questo testo. Il profeta Malachia insiste tanto sul Tempio, sui leviti (o sacerdoti), sulle offerte e su tutto ciò che riguarda il culto perché Israele era sotto il dominio persiano e il popolo ebraico era comandato dai sacerdoti i quali erano i rappresentanti di Dio presso il suo popolo. L’alleanza con i sacerdoti era al servizio dell’alleanza di Dio con il suo popolo ed è proprio di questa alleanza che qui si tratta. Malachia si rivolge a tutti coloro che aspettano, desiderano, cercano e annuncia loro che non hanno atteso, cercato, desiderato invano e il loro desiderio, la loro attesa saranno esauditi perché presto arriverà L’Angelo dell’Alleanza cioè Dio stesso. Come scrive Malachia: “Io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me. Più tardi, Gesù citerà precisamente questa profezia riferendosi a Giovanni Battista. Chiedendo alla gente chi erano andati a vedere dirà che Giovanni Battista è “più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te; egli preparerà la tua strada davanti a te”(Mt 11,7-10 e Lc 7,27). Con queste parole, Gesù identificava sé stesso come l’Angelo dell’alleanza che viene nel suo tempio e lo capiremo meglio approfondendo il Vangelo di san Luca oggi, festa della Presentazione del Signore
*Salmo responsoriale 23/24 (7, 8, 9, 10)
“Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. Quest’espressione è solenne e un po’ sorprendente dato che è difficile immaginare che i lintei delle porte possano sollevarsi. Siamo in un contesto poetico e l’iperbole serve a esprimere la maestà di questo Re di gloria che entra solennemente nel Tempio di Gerusalemme. L’espressione “re della gloria” è riferita a Dio stesso, il Signore dell’universo. Possiamo immaginare la folla e un coro che canta: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. E un altro coro risponde: “Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia”. Questo salmo è stato cantato nelle cerimonie del Tempio di Gerusalemme persino molto dopo l’esilio babilonese, in un’epoca in cui non vi era più nessuna processione intorno all’Arca. Proprio per questo ha acquisito maggiore importanza: avendo perso definitivamente l’Arca dell’’Alleanza, segno tangibile della presenza di Dio, il salmo rappresentava tutto ciò che restava dello splendore passato. Insegnava al popolo il necessario distacco: la presenza di Dio non è legata a un oggetto, per quanto carico di memoria. Inoltre, con il passare dei secoli, questo salmo ha assunto un significato nuovo: “Entri il re della gloria” è diventato il grido di impazienza per la venuta del Messia. Venga finalmente il Re eterno che regnerà sull’umanità rinnovata alla fine dei tempi! Questa era l’attesa d’Israele, che cresceva di secolo in secolo. Non stupisce, dunque, che la liturgia cristiana canti il salmo 23/24 il giorno in cui celebra la Presentazione di Gesù Bambino al Tempio di Gerusalemme: un modo per affermare che questo bambino è il re della gloria, cioè Dio stesso.
*Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei ( 2,14-18)
Il tema della mediazione di Cristo è fondamentale nella Lettera agli Ebrei. E' senz’altro utile ricordare che fu scritta in un contesto di non poche polemiche e proprio da questa lettera possiamo intuire il tipo di obiezioni che i primi cristiani di origine ebraica dovevano affrontare. Essi si sentivano dire continuamente: Il vostro Gesù non è il Messia; abbiamo bisogno di un sacerdote, e lui non lo è. Era quindi fondamentale per un cristiano del I° secolo sapere che Cristo è veramente sacerdote. Gesù però, secondo la legge ebraica, non era sacerdote e non poteva aspirare a esserlo, tanto meno poteva considerarsi sommo sacerdote. La Lettera agli Ebrei risponde: Gesù non è sommo sacerdote discendente da Aronne, ma lo è a somiglianza di Melchisedek, personaggio che appare nel capitolo 14 della Genesi e visse molto prima di Mosè e di Aronne ed è legato ad Abramo. Eppure viene chiamato “sacerdote del Dio Altissimo” (Cf. Gn 14,18-20). Dunque Gesù è effettivamente sommo sacerdote, a suo modo, in continuità con l’Antico Testamento. Ecco precisamente lo scopo della Lettera agli Ebrei: mostrarci come Gesù realizzi l’istituzione del sacerdozio e realizzare nel linguaggio biblico non significa riprodurre il modello dell’Antico Testamento, ma portarlo alla sua piena perfezione. Infine una domanda: Perché in questa Lettera si parla dei «figli di Abramo» e non dei «figli di Adamo»? Dice infatti. “Non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo”. La risposta è perché Abramo, nella meditazione biblica, rappresenta la fede, intesa come fiducia e a noi resta la libertà di non essere figli di Abramo, cioè credenti. Sta a noi decidere se entrare o no nel progetto di Dio.
*Dal Vangelo secondo Luca (2, 22 – 40)
Nel racconto dell’evangelista Luca emerge una doppia insistenza: prima sulla Legge, poi sullo Spirito. Nei primi versetti (vv. 22-24), egli cita tre volte la Legge per rimarcare che la vita del bambino inizia sotto il segno della Legge. Va però chiarito che Luca cita la Legge d’Israele non come una serie di comandamenti scritti e anzi si potrebbe sostituire la parola “Legge” con “Fede di Israele” e la vita della Famiglia di Nazaret è tutta impregnata di questa fede. Il primo messaggio di Luca è questo: la salvezza di tutta l’umanità ha preso forma nel quadro della Legge d’Israele, della fede di Israele: in una parola, il Verbo di Dio si è incarnato in questo contesto e così si è compiuto il disegno misericordioso di Dio per l’umanità. Poi entra in scena Simeone, spinto dallo Spirito, menzionato anch’esso tre volte. È dunque lo Spirito che ispira a Simeone le parole che rivelano il mistero di questo bambino: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli”. L’Antico Testamento è la storia di questa lunga e paziente preparazione da parte di Dio per la salvezza dell’umanità. E si tratta proprio della salvezza dell’umanità, non solo del popolo d’Israele. È esattamente ciò che Simeone precisa: “Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. La gloria di Israele, infatti, sta nell’essere stato scelto non per se stesso, ma per tutta l’umanità. Per Luca il messaggio è fondamentale e lo comunica a noi: assistiamo già all’ingresso glorioso di Gesù, Signore e Salvatore, nel tempio di Gerusalemme, come aveva annunciato il profeta Malachia. Luca riconosce in Gesù l’Angelo dell’Alleanza che entra nel suo tempio. Il salmo attendeva un Messia-re discendente di Davide; sappiamo che il re di gloria è questo bambino. Luca descrive una scena maestosa di gloria: tutta la lunga attesa di Israele è rappresentata da due personaggi, Simeone e Anna. “Simeone, uomo giusto e pio aspettava la consolazione d’Israele”. Quanto ad Anna, si può pensare che, se parlava del bambino a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme, era perché anche lei viveva con impazienza l’attesa del Messia. Quando Simeone proclama: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola., perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza “afferma chiaramente che questo bambino è il Messia. Con Gesù, la Gloria di Dio entra nel Santuario; il che equivale a dire che Gesù è la Gloria, Dio stesso entrato nel suo tempio per diffondere lo Spirito sull’intera umanità.
+Giovanni D’Ercole
(Mc 4,21-25)
Quella di Mc è una catechesi narrativa e popolare, che riflette le problematiche di una comunità di Fede molto primitiva - rispetto a quelle degli altri Vangeli.
Il suo modo di esprimersi è correlativo a tali origini poco sofisticate.
Ai tempi, ancora a Roma non mancava un forte dibattito interno alle chiese, su tematiche essenziali.
Alcuni fedeli restavano attaccati alla mentalità mummificata del Messia potente, che avrebbe dovuto calarsi come un fulmine e rimanere a sé.
Un Re glorioso, paragonabile all’imperatore, il quale assicurava vittorie ai suoi. Risolvendo ogni problema in modo dirompente e immediato.
Coloro che leggevano le Scritture con tale criterio - o anche come testo scarsamente popolare (v.22), da interpretare a piccole dosi, misteriche, cerebrali, moraliste; tipiche - facevano difficoltà a interiorizzare il senso dell’Insegnamento nuovo. E a ben disporsi nel confronto reale con gl’inevitabili rischi della verità evangelica.
Il Messaggio di Cristo apre invece all’apostolato ininterrotto; anche travagliato. E va proclamato in faccia al mondo, altrimenti lo Spirito non si scatena dentro il discepolo, né opera fuori di lui.
L’Annuncio porta con sé la consapevolezza di aver molto ricevuto, e di essere stati introdotti senza condizioni di perfezione nel Segreto di Dio; quindi, col desiderio che tutti ne siano partecipi.
In Mc il linguaggio delle parabole e delle immagini che il Signore usa per esplicitare il suo insegnamento trasmettono il senso di una lettura non esoterica né difficilmente decifrabile delle cose del Regno di Dio - sempre ricollocato dentro gli elementi normali della vita.
Trasmettendo Cristo anche nel modo nuovo che ci sta insegnando il Magistero [pratico e largo] apriamo i segreti del Padre (v.22) - non più legato a chiose, né opinioni rielaborate su mode e costumanze, o consigli devoti.
Certo, chi si aggiorna e rimane attento, avanza.
Nessuno si sorprenderà che i tattici, i poco volenterosi o i nostalgici che si attardano e permangono impaludati nelle loro posizioni [antiche o all’ultimo grido] finiscano per estinguere il loro influsso e man mano sparire dalla scena (vv.24-25).
La «lucerna» che Viene e ‘orienta nell'oscurità della sera’ è solo la Parola di Dio, che non va soffocata di consuetudini o idee à la page.
Nel buio dev’essere sempre accesa, ossia non può rimanere chiusa in un libro (v.21).
È ‘lampada che illumina’ solo quando viene unita alla vita - e ad una chiave di lettura non trionfalista, né a circuito fisso (v.21).
In caso contrario, resta ambivalente (vv.23-24). Bisogna fare massima attenzione ai codici con cui interpretiamo la Scrittura, e le nostre stesse pulsioni o pregiudizi.
Spesso le idee radicate [o senza spina dorsale] deviano la comprensione del senso degli accadimenti, delle emozioni che suscitano, e la Persona stessa del Figlio di Dio.
La sua è una Luce ‘fuori Misura’ - che irrompe con l’inevitabile rischio della fragranza evangelica.
«Misura» che non ha “limite”. Sproporzione propria dell’Annuncio.
[Giovedì 3.a sett. T.O. 30 gennaio 2025]
Il rischio della Verità
(Mc 4,21-25)
Quella di Mc è una catechesi narrativa e popolare, che riflette le problematiche di una comunità di Fede molto primitiva - rispetto a quelle degli altri Vangeli.
Il suo modo di esprimersi è correlativo a tali origini poco sofisticate (solo pratiche e ordinarie).
Identificando il pensiero di Lao Tse, il maestro Ho-shang Kung confessa: «Poiché non vedo la forma e l’aspetto della Via, non so con quale nome convenga chiamarla» (commento al Tao Tê Ching xxv,7-8).
Ai tempi, ancora a Roma non mancava un forte dibattito interno alle chiese, su tematiche essenziali: Chi è Dio e come onorarlo? Qual è il rapporto giusto con la Tradizione? E fra dottrina e vita? Come realizzarsi e voler bene?
Per essere liberi... bisogna mollare tutto, o cambiare testa? Come affrontare le persecuzioni? C’è spazio per i Sogni? Chi ci orienta? Cosa fare della natura spontanea? Come rapportarsi con le istituzioni e i lontani? E così via.
Alcuni fedeli restavano attaccati alla mentalità mummificata del Messia potente, che avrebbe dovuto calarsi come un fulmine e rimanere a sé.
Un Re glorioso, paragonabile all’imperatore, il quale assicurava vittorie ai suoi. Risolvendo ogni problema in modo dirompente e immediato.
Coloro che leggevano le Scritture con tale criterio - o anche come testo scarsamente popolare (v.22), da interpretare a piccole dosi, misteriche, cerebrali, moraliste; tipiche - facevano difficoltà a interiorizzare il senso dell’Insegnamento nuovo. E a ben disporsi nel confronto reale con gl’inevitabili rischi della verità evangelica.
Il Messaggio di Cristo apre invece all’apostolato ininterrotto; anche travagliato. E va proclamato in faccia al mondo, altrimenti lo Spirito non si scatena dentro il discepolo, né opera fuori di lui.
L’Annuncio porta con sé la consapevolezza di aver molto ricevuto, e di essere stati introdotti senza condizioni di perfezione nel Segreto di Dio; quindi, col desiderio che tutti ne siano partecipi.
In Mc il linguaggio delle parabole e delle immagini che il Signore usa per esplicitare il suo insegnamento trasmettono il senso di una lettura non esoterica né difficilmente decifrabile delle cose del Regno di Dio - sempre ricollocato dentro gli elementi normali della vita.
Trasmettendo Cristo (anche nel modo nuovo che ci sta insegnando il Magistero, pratico e largo) apriamo i segreti del Padre (v.22) - non più legato a chiose, né opinioni rielaborate sulle costumanze, o consigli devoti.
Certo, chi si aggiorna e rimane attento, avanza. Nessuno si sorprenderà che i poco volenterosi o nostalgici che si attardano e permangono impaludati nelle loro posizioni, finiscano per estinguere il loro influsso e man mano sparire dalla scena (vv.24-25).
La «lucerna» che viene e orienta nell'oscurità della sera è solo la Parola di Dio, che non va soffocata di consuetudini.
Nel buio dev’essere sempre accesa, ossia non può rimanere chiusa in un libro (v.21).
È lampada che illumina solo quando viene unita alla vita - e ad una chiave di lettura non trionfalista, né a circuito fisso (v.21).
In caso contrario, resta ambivalente (vv.23-24). Bisogna fare massima attenzione ai codici con cui interpretiamo la Scrittura, e le nostre stesse pulsioni o pregiudizi.
Spesso le idee radicate deviano la comprensione del senso degli accadimenti, delle emozioni che suscitano, e la Persona stessa del Figlio di Dio.
Anche oggi qualche volenteroso lettore della Bibbia resta inceppato da modi d’intendere precipitosi e unilaterali, o pensieri cerebrali, coltivati dentro club di presunti eletti chiamati a parte.
Talora restiamo condizionati da grandi narrazioni (tutto sommato conformiste); da opzioni di giro, disincarnate, più o meno ricercate - anche ecclesiali. Alcune sotto forma di privilegi dinastici e fanatismi banali, i quali minacciano la vita in Cristo di gravi errori.
Il Mistero del Regno non è un monopolio che qualche casta ristretta e demarcata può permettersi di custodire gelosamente.
Esso è viceversa come una Luce che travalica ogni linguaggio scelto, surclassa gerontocrazie, cerchie e oligarchie che pretendessero di sequestrarlo - e con esso trattenere in ostaggio anche Gesù vivo.
«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150). Il nostro bruciante desiderio, l’Eros fondante che appassiona la nostra anima, non possono essere normalizzati, sottoposti a cliché.
Nell’itineranza dell’homo viator, il Verbo-Logos e la Parola-evento del divino già in noi si fa Chiarore, orizzonte di Vita. Viene a illustrare, sostenere e motivare ogni personalistica antropologia della soglia e dell’oltre.
Insomma, il Principio che irrompe e chiama è come un impulso fuori Misura.
«E diceva loro: State attenti a quello che ascoltate. Con la misura con cui misurate sarà misurato a voi, e sarà aggiunto a voi. Perché chi ha gli sarà dato, e chi non ha anche quello che ha sarà tolto da lui» (vv.24-25).
Sproporzione propria dell’Annuncio:
L’Evangelo non può perdere la propria fragranza, perché l’Amico penetra la nostra condizione di finitudine per farsi virtù di ricerca sempre nuova.
Motivo e Motore del crescere - con l’inevitabile rischio della verità, che non ha limite.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Qual è la tua forma non condizionata ma luminosa e crescente di dedizione attiva?
In tutte le chiese, nelle cattedrali e nei conventi, dovunque si radunano i fedeli per la celebrazione della Veglia pasquale, la più santa di tutte le notti è inaugurata con l’accensione del cero pasquale, la cui luce viene poi trasmessa a tutti i presenti. Una minuscola fiamma irradia in tanti luci ed illumina la casa di Dio al buio. In tale meraviglioso rito liturgico, che abbiamo imitato in questa veglia di preghiera, si svela a noi, attraverso segni più eloquenti delle parole, il mistero della nostra fede cristiana. Lui, Cristo, che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12), fa brillare la nostra vita, perché sia vero ciò che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Non sono i nostri sforzi umani o il progresso tecnico del nostro tempo a portare luce in questo mondo. Sempre di nuovo facciamo l’esperienza che il nostro impegno per un ordine migliore e più giusto incontra i suoi limiti. La sofferenza degli innocenti e, infine, la morte di ogni uomo costituiscono un buio impenetrabile che può forse essere rischiarato per un momento da nuove esperienze, come da un fulmine nella notte. Alla fine, però, rimane un’oscurità angosciante.
Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo, che è risorto dai morti, brilla in questo mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte – Egli vive – e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Chi crede in Gesù, certamente non vede sempre soltanto il sole nella vita, quasi che gli possano essere risparmiate sofferenze e difficoltà, ma c’è sempre una luce chiara che gli indica una via, la via che conduce alla vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiarore di un nuovo giorno.
La luce non rimane sola. Tutt’intorno si accendono altre luci. Sotto i loro raggi si delineano i contorni dell’ambiente così che ci si può orientare. Non viviamo da soli nel mondo. Proprio nelle cose importanti della vita abbiamo bisogno di altre persone. Così, in modo particolare, nella fede non siamo soli, siamo anelli della grande catena dei credenti. Nessuno arriva a credere se non è sostenuto dalla fede degli altri e, d’altra parte, con la mia fede contribuisco a confermare gli altri nella loro fede. Ci aiutiamo a vicenda ad essere esempi gli uni per gli altri, condividiamo con gli altri ciò che è nostro, i nostri pensieri, le nostre azioni, il nostro affetto. E ci aiutiamo a vicenda ad orientarci, ad individuare il nostro posto nella società.
Cari amici, “Io sono la luce del mondo – Voi siete la luce del mondo”, dice il Signore. È una cosa misteriosa e grandiosa che Gesù dica di se stesso e di tutti noi insieme la medesima cosa, e cioè di “essere luce”. Se crediamo che Egli è il Figlio di Dio che ha guarito i malati e risuscitato i morti, anzi, che Egli stesso è risorto dal sepolcro e vive veramente, allora capiamo che Egli è la luce, la fonte di tutte le luci di questo mondo. Noi invece sperimentiamo sempre di nuovo il fallimento dei nostri sforzi e l’errore personale nonostante le nostre buone intenzioni. Il mondo in cui viviamo, nonostante il progresso tecnico, in ultima analisi, a quanto pare, non diventa più buono. Esistono tuttora guerre, terrore, fame e malattia, povertà estrema e repressione senza pietà. E anche quelli che nella storia si sono ritenuti “portatori di luce”, senza però essere stati illuminati da Cristo, l’unica vera luce, non hanno creato alcun paradiso terrestre, bensì hanno instaurato dittature e sistemi totalitari, in cui anche la più piccola scintilla di umanesimo è stata soffocata.
A questo punto non dobbiamo tacere il fatto che il male esiste. Lo vediamo, in tanti luoghi di questo mondo; ma lo vediamo anche – e questo ci spaventa – nella nostra stessa vita. Sì, nel nostro stesso cuore esistono l’inclinazione al male, l’egoismo, l’invidia, l’aggressività. Con una certa autodisciplina ciò forse è, in qualche misura, controllabile. E’ più difficile, invece, con forme di male piuttosto nascosto, che possono avvolgerci come una nebbia indistinta, e sono la pigrizia, la lentezza nel volere e nel fare il bene. Ripetutamente nella storia, persone attente hanno fatto notare che il danno per la Chiesa non viene dai suoi avversari, ma dai cristiani tiepidi. “Voi siete la luce del mondo“: solo Cristo può dire “Io sono la luce del mondo”. Tutti noi siamo luce solamente se stiamo in questo “voi”, che a partire dal Signore diventa sempre di nuovo luce. E come il Signore afferma circa il sale, in segno di ammonimento, che esso potrebbe diventare insipido, così anche nelle parole sulla luce ha inserito un lieve ammonimento. Anziché mettere la luce sul lampadario, si può coprirla con un moggio. Chiediamoci: quante volte copriamo la luce di Dio con la nostra inerzia, con la nostra ostinazione, così che essa non può risplendere, attraverso di noi, nel mondo?
Cari amici, l’apostolo san Paolo, in molte delle sue lettere, non teme di chiamare “santi” i suoi contemporanei, i membri delle comunità locali. Qui si rende evidente che ogni battezzato – ancor prima di poter compiere opere buone – è santificato da Dio. Nel Battesimo, il Signore accende, per così dire, una luce nella nostra vita, una luce che il catechismo chiama la grazia santificante. Chi conserva tale luce, chi vive nella grazia è santo.
Cari amici, ripetutamente l’immagine dei santi è stata sottoposta a caricatura e presentata in modo distorto, come se essere santi significasse essere fuori dalla realtà, ingenui e senza gioia. Non di rado si pensa che un santo sia soltanto colui che compie azioni ascetiche e morali di altissimo livello e che perciò certamente si può venerare, ma mai imitare nella propria vita. Quanto è errata e scoraggiante questa opinione! Non esiste alcun santo, fuorché la beata Vergine Maria, che non abbia conosciuto anche il peccato e che non sia mai caduto. Cari amici, Cristo non si interessa tanto a quante volte nella vita vacilliamo e cadiamo, bensì a quante volte noi, con il suo aiuto, ci rialziamo. Non esige azioni straordinarie, ma vuole che la sua luce splenda in voi. Non vi chiama perché siete buoni e perfetti, ma perché Egli è buono e vuole rendervi suoi amici. Sì, voi siete la luce del mondo, perché Gesù è la vostra luce. Voi siete cristiani – non perché realizzate cose particolari e straordinarie – bensì perché Egli, Cristo, è la vostra, nostra vita. Voi siete santi, noi siamo santi, se lasciamo operare la sua Grazia in noi.
Cari amici, questa sera, in cui ci raduniamo in preghiera attorno all’unico Signore, intuiamo la verità della parola di Cristo secondo la quale non può restare nascosta una città collocata sopra un monte. Questa assemblea brilla nei vari significati della parola – nel chiarore di innumerevoli lumi, nello splendore di tanti giovani che credono in Cristo. Una candela può dar luce soltanto se si lascia consumare dalla fiamma. Essa resterebbe inutile se la sua cera non nutrisse il fuoco. Permettete che Cristo arda in voi, anche se questo può a volte significare sacrificio e rinuncia. Non temete di poter perdere qualcosa e restare, per così dire, alla fine a mani vuote. Abbiate il coraggio di impegnare i vostri talenti e le vostre doti per il Regno di Dio e di donare voi stessi – come la cera della candela – affinché per vostro mezzo il Signore illumini il buio. Sappiate osare di essere santi ardenti, nei cui occhi e cuori brilla l’amore di Cristo e che, in questo modo, portano luce al mondo. Io confido che voi e tanti altri giovani qui in Germania siate fiaccole di speranza, che non restano nascoste. “Voi siete la luce del mondo”. “Dove c’è Dio, là c’è futuro!” Amen.
[Papa Benedetto, Veglia a Friburgo 24 settembre 2011]
3. "Voi siete la luce del mondo...". Per quanti da principio ascoltarono Gesù, come anche per noi, il simbolo della luce evoca il desiderio di verità e la sete di giungere alla pienezza della conoscenza, impressi nell'intimo di ogni essere umano.
Quando la luce va scemando o scompare del tutto, non si riesce più a distinguere la realtà circostante. Nel cuore della notte ci si può sentire intimoriti ed insicuri, e si attende allora con impazienza l'arrivo della luce dell'aurora. Cari giovani, tocca a voi essere le sentinelle del mattino (cfr Is 21, 11-12) che annunciano l'avvento del sole che è Cristo risorto!
La luce di cui Gesù ci parla nel Vangelo è quella della fede, dono gratuito di Dio, che viene a illuminare il cuore e a rischiarare l'intelligenza: "Dio che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse anche nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo" (2 Cor 4,6). Ecco perché le parole di Gesù assumono uno straordinario rilievo allorché spiega la sua identità e la sua missione: "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12).
L'incontro personale con Cristo illumina di luce nuova la vita, ci incammina sulla buona strada e ci impegna ad essere suoi testimoni. Il nuovo modo, che da Lui ci viene, di guardare al mondo e alle persone ci fa penetrare più profondamente nel mistero della fede, che non è solo un insieme di enunciati teorici da accogliere e ratificare con l'intelligenza, ma un'esperienza da assimilare, una verità da vivere, il sale e la luce di tutta la realtà (cfr Veritatis splendor, 88).
Nel contesto attuale di secolarizzazione, in cui molti dei nostri contemporanei pensano e vivono come se Dio non esistesse o sono attratti da forme di religiosità irrazionali, è necessario che proprio voi, cari giovani, riaffermiate che la fede è una decisione personale che impegna tutta l'esistenza. Il Vangelo sia il grande criterio che guida le scelte e gli orientamenti della vostra vita! Diventerete così missionari con i gesti e le parole e, dovunque lavoriate e viviate, sarete segni dell'amore di Dio, testimoni credibili della presenza amorosa di Cristo. Non dimenticate: "Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio" (Mt 5,15)!
Come il sale dà sapore al cibo e la luce illumina le tenebre, così la santità dà senso pieno alla vita, rendendola riflesso della gloria di Dio. Quanti santi, anche tra i giovani, annovera la storia della Chiesa! Nel loro amore per Dio hanno fatto risplendere le proprie virtù eroiche al cospetto del mondo, diventando modelli di vita che la Chiesa ha additato all'imitazione di tutti. Tra i molti basti ricordare: Agnese di Roma, Andreas di Phú Yên, Pedro Calungsod, Giuseppina Bakhita, Teresa di Lisieux, Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo, Francisco Castelló Aleu o ancora Kateri Tekakwitha, la giovane irochese detta "il giglio dei Mohawks". Prego il Dio tre volte Santo che, per l'intercessione di questa folla immensa di testimoni, vi renda santi, cari giovani, i santi del terzo millennio!
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XVII Giornata Mondiale della Gioventù]
Il tema della testimonianza, intesa come elemento fondante della vita del cristiano, è stato al centro della riflessione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta nella mattina di giovedì 28 gennaio. Ma cosa deve caratterizzare questa testimonianza? La risposta il Pontefice l’ha tratta direttamente dal Vangelo del giorno, riprendendo il brano di Marco (4, 21-25) immediatamente successivo alla «parabola del seme». Dopo aver parlato «del seme che riesce a dare frutto» e di quello che, invece, cadendo «in terra non buona non può dare frutto», Gesù «ci parla della lampada» che non viene posta sotto il moggio ma sopra al candelabro. Essa — ha spiegato — «è luce e il Vangelo di Giovanni ci dice che il mistero di Dio è luce e che la luce venne al mondo e le tenebre non la accolsero». Una luce, ha aggiunto, che non può essere nascosta, ma serve «per illuminare».
Ecco, quindi, «uno dei tratti del cristiano, che ha ricevuto la luce nel battesimo e deve darla». Il cristiano, ha detto il Papa, «è un testimone». E proprio la parola «testimonianza» racchiude «una delle peculiarità degli atteggiamenti cristiani». Infatti: «un cristiano che porta questa luce, deve farla vedere perché lui è un testimone». E se un cristiano «preferisce non far vedere la luce di Dio e preferisce le proprie tenebre», allora «gli manca qualcosa e non è un cristiano completo». Una parte di lui è occupata, le tenebre «gli entrano nel cuore, perché ha paura della luce» e lui preferisce «gli idoli». Ma il cristiano «è un testimone», testimone «di Gesù Cristo, luce di Dio. E deve mettere quella luce sul candelabro della sua vita».
Nel brano evangelico proposto dalla liturgia si parla anche «della misura» e si legge: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più». È questa, ha detto Francesco, «l’altra peculiarità, l’altro atteggiamento» tipico del cristiano. Si fa riferimento, infatti, alla magnanimità: «un altro tratto del cristiano è la magnanimità, perché è figlio di un padre magnanimo, dall’animo grande».
Anche quando dice: «Date e vi sarà dato», la misura di cui parla Gesù, ha spiegato il Papa, è «piena, buona, traboccante». Allo stesso modo «il cuore cristiano è magnanimo. È aperto, sempre». Non è, quindi, «un cuore che si chiude nel proprio egoismo». Non è un cuore che si pone dei limiti, che «conta: fino a qui, fino a qua». E ha continuato: «Quando tu entri in questa luce di Gesù, quando tu entri nell’amicizia di Gesù, quando ti lasci guidare dallo Spirito Santo, il cuore diventa aperto, magnanimo». Si innesca, a quel punto, una dinamica particolare: il cristiano «non guadagna: perde». Ma, in realtà, ha concluso il Pontefice, «perde per guadagnare un’altra cosa, e con questa “sconfitta” di interessi, guadagna Gesù, guadagna diventando testimone di Gesù».
Per calare nel concreto la sua riflessione, Francesco si è a questo punto rivolto a un gruppo di sacerdoti che celebravano il giubileo d’oro della loro ordinazione: «cinquanta anni sulla strada della luce e della testimonianza» e «cercando di essere migliori, cercando di portare la luce sul candelabro»; una luce che, è l’esperienza di tutti, a «volte cade», ma che sempre è bene cercare di riproporre «generosamente, cioè con il cuore magnanimo». E, nel ringraziare i sacerdoti per quanto hanno fatto «nella Chiesa, per la Chiesa e per Gesù», e augurando loro la «gioia grande di avere seminato bene, di avere illuminato bene e di avere aperto le braccia per ricevere tutti con magnanimità», il Papa ha anche detto loro: «Soltanto Dio e la vostra memoria sanno quanta gente avete ricevuto con magnanimità, con bontà di padri, di fratelli» e «a quanta gente che aveva il cuore un po’ oscuro avete dato luce, la luce di Gesù». Perché, ha concluso tirando le fila del ragionamento, «nella memoria di un popolo» rimangono «il seme, la luce della testimonianza, e la magnanimità dell’amore che accoglie».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 29/01/2016]
III Domenica Tempo Ordinario (anno C) [26 gennaio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa domenica, 26 gennaio 2025, ricorre la VI Domenica della Parola di Dio. Nella Basilica di San Pietro sarà papa Francesco a presiederla nel contesto dell’Anno Giubilare. Il motto scelto è ripreso dal libro dei Salmi: «Spero nella tua Parola» (Sal 119,74).
III Domenica Tempo Ordinario Anno C
*Prima Lettura dal Libro di Neemia (8, 2-4a. 5-6. 8-10)
Per noi che cominciamo a lamentarci quando le liturgie durano più di un’ora, saremmo sicuramente ben serviti restando tutti insieme in piedi dall’alba fino a mezzogiorno, come un solo uomo: uomini, donne e bambini. E durante un cosi lungo tempo per ascoltare letture in ebraico, una lingua che ormai non si comprendeva più, anche se lo scriba, il lettore, si interrompeva di tanto in tanto per lasciare spazio al traduttore, che traduceva il testo in aramaico, lingua comunemente usata a Gerusalemme. Quanti partecipano non sembrano stanchi né trovano il tempo troppo lungo: al contrario, tutti piangono di commozione, cantano e continuamente intervengono acclamando insieme con le mani alzate: Amen! Esdra, il sacerdote, e Neemia, il governatore, possono ritenersi soddisfatti perché sono riusciti a ridare fiducia al popolo che, dopo l’esilio babilonese, continua ad attraversare un periodo complicato e difficile.
Abbiamo qui una bella testimonianza della ricostruzione del “focolare nazionale” d’Israele dopo la deportazione babilonese. Siamo a Gerusalemme intorno al 450 a.C.: l’esilio a Babilonia era ormai finito e si era riusciti finalmente dopo tante polemiche a ricostruire il Tempio di Gerusalemme, anche se non era proprio come quello di Salomone e a riprendere anche la vita della comunità. Potremmo dire che tutto andava bene, ma non è così e il morale era a terra perché la gente sembrava aver perso la speranza, che sempre aveva conservato pur nei tratti più sofferti della sua esistenza. La verità è che permanevano le cicatrici dei drammi del secolo precedente perché non era semplice riprendere a vivere dopo l’invasione e il saccheggio della città. Anzi, le cicatrici restarono per generazioni: cicatrici dell’esilio stesso, ma anche quelle del ritorno in patria dato che con la deportazione a Babilonia si era perso tutto. Il ritorno tanto atteso non è stato un trionfo, ma occasione di scontro tra quanti erano rimasti a Gerusalemme e ormai avevano cominciato una loro vita introducendo persino riti pagani e la “comunità del ritorno” che dopo oltre cinquant’anni pensava di trovare quanto i loro antenati avevano lasciato, cosa del resto impossibile e che creava seri scontri tra di loro. Il miracolo è che quel periodo, pur terribile, è stato molto fecondo perché la fede d’Israele sopravvisse alla prova. Non solo questo popolo mantenne intatta la sua fede durante l’esilio, in mezzo a tutti i pericoli dell’idolatria, ma rimase unito e crebbe persino il suo fervore. Tutto ciò grazie ai sacerdoti e ai profeti, che hanno compiuto un lavoro pastorale instancabile. Fu, per esempio, un periodo di intensa rilettura e meditazione delle Scritture dato che uno degli scopi principali durante i cinquant’anni di esilio fu quello di orientare tutte le speranze verso il ritorno nella terra promessa. Tuttavia il ritorno, tanto auspicato, si rivelò una doccia fredda perché, come l’esperienza insegna, tra il sogno e la realtà c’è quasi sempre un abisso. A ben vedere, il grande problema del ritorno, come abbiamo visto nei testi di Isaia per l’Epifania e la seconda domenica del Tempo Ordinario (domenica scorsa), fu la difficoltà di vivere insieme tra quelli che erano rientrati da Babilonia pieni di ideali e progetti, la cosiddetta “comunità di ritorno”, e quanti invece nel frattempo si erano stabiliti a Gerusalemme. Tra di loro non c’era un fossato, ma un vero baratro: alcuni erano pagani che avevano occupato il territorio e recato con sé culti idolatrici e le loro preoccupazioni erano lontane anni luce dalle molteplici esigenze della legge ebraica. Le loro priorità erano incompatibili con le richieste della Torah. La ricostruzione del Tempio si scontrò con la loro ostilità, e i membri meno ferventi della comunità ebraica furono spesso tentati dal lassismo prevalente. Le autorità erano particolarmente preoccupate per questo rilassamento religioso, che continuava ad aggravarsi a causa dei numerosi matrimoni tra ebrei e pagani e diventava praticamente impossibile preservare la purezza e le esigenze della fede in tali condizioni. E’ a questo punto che Esdra, il sacerdote e Neemia, il governatore laico, unirono le forze e riuscirono a ottenere insieme dal re di Persia, Artaserse, una missione per ricostruire le mura della città e pieni poteri per riorganizzare questo popolo. Va ricordato che si era ancora sotto il dominio persiano. Esdra e Neemia fecero il massimo possibile per risollevare la situazione e per ridare forza e svegliare il morale del popolo. La comunità ebraica aveva tanto più bisogno di coesione poiché ormai viveva quotidianamente a contatto con il paganesimo e l’indifferenza religiosa. Nella storia d’Israele, l’unità del popolo è sempre stata costruita in nome dell’Alleanza con Dio e i pilastri dell’Alleanza restano sempre gli stessi: sono cioè la Terra, la Città Santa, il Tempio e la Parola di Dio. Poiché erano rientrati in patria la Terra c’era; Neemia, il governatore si dedicò a riorganizzare la Città Santa, Gerusalemme e il Tempio si riuscì a ricostruirlo. Restava la Parola che venne proclamata durante una gigantesca celebrazione all’aperto.
Era importante curare ogni dettaglio per la messa in scena della celebrazione di cui qui si parla: anche la data venne scelta con attenzione e si riprese un’antica tradizione, una grande festa in occasione di quella che allora era la data del Capodanno: “il primo giorno del settimo mese”. Per l’occasione fu costruita una tribuna in legno che dominava il popolo e da quel palco in alto il sacerdote e i traduttori proclamarono la Parola. L’omelia poi fu un invito a fare festa: mangiate, bevete, perché è giorno di gioia, giorno del vostro raduno intorno alla Parola di Dio. Non è più tempo per lacrime e nemmeno di tristezza e commozione. C’è qui una lezione che può esserci utile: per rinsaldare la comunità, Esdra e Neemia non fanno la morale al popolo, ma propongono una festa intorno alla Parola di Dio. Per ravvivare il senso di famiglia non c’è di meglio che organizzare e condividere in maniera regolare momenti di gioiosa festa condivisa.
*Salmo responsoriale (18 (19), 8. 9. 10. 15)
Si incontra più volte questo salmo e abbiamo quindi già avuto l’occasione di sottolineare l’importanza per Israele della Legge che è un valore estremamente positivo, così come importante è il timore di Dio, un atteggiamento anch’esso profondamente positivo e filiale. Ci sono diversi passaggi dell’Antico Testamento in cui la Legge è presentata come un cammino: se un figlio di Israele vuole essere felice, deve fare attenzione a non deviare né a destra né a sinistra. Oggi, per comprendere meglio questo salmo, propongo di rileggere il libro del Deuteronomio. Il libro del Deuteronomio è relativamente tardivo, scritto in un periodo in cui il regno di Giuda, il regno del sud, si stava pericolosamente allontanando dalla pratica della Legge. Questo libro risuonò dunque come un grido d’allarme: Se non volete che vi accada la stessa catastrofe che ha colpito il regno del Nord, fareste bene a cambiare condotta. È quindi un rimando a tutti i comandamenti di Mosè e ai suoi avvertimenti. Il Deuteronomio contiene inoltre una meditazione sul ruolo della Legge il cui unico scopo è educare il popolo e mantenerlo sul retto cammino. Se Dio tiene così tanto al fatto che il suo popolo rimanga sulla retta via, è perché questo è l’unico modo per vivere felicemente e portare a compimento la vocazione di essere un popolo eletto fra le nazioni. Il re di Gerusalemme, Giosia, intraprese una riforma religiosa profonda intorno al 620 a.C., appoggiandosi proprio sul libro del Deuteronomio. Mentre noi saremmo inclini a vedere la legge come un peso, appare invece chiaro nella Bibbia che è uno strumento di libertà. Per aiutare a capire questo è Interessante nella tradizione biblica l’immagine dell’aquila che insegna ai suoi piccoli a volare. Gli ornitologi che hanno osservato le aquile nel deserto del Sinai raccontano che, quando i piccoli si lanciano, i genitori rimangono nelle vicinanze e planano sopra di loro tracciando ampi cerchi; quando i piccoli sono stanchi, possono in qualsiasi momento riposarsi (nel doppio senso di riprendere fiato e posarsi sulle ali dei genitori) per poi rilanciarsi una volta recuperate le forze. Il fine ultimo, naturalmente, è che i piccoli diventino presto capaci di cavarsela da soli. L’autore biblico ha preso questa immagine per spiegare che Dio dà la sua Legge agli uomini per insegnare loro a volare con le proprie ali. Non c’è ombra di dominio in questo, tutt’altro; liberando il suo popolo dalla schiavitù in Egitto, il Signore ha dimostrato una volta per tutte che il suo unico obiettivo è liberare il suo popolo. Ecco cosa dice il libro del Deuteronomio: “Il Signore trovò il suo popolo in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo educò, lo allevò, lo custodì come sulla pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali” (Dt 32, 9-11). Un Dio che vuole l’uomo libero! Questo è il messaggio che si trasmette fedelmente di generazione in generazione: «Domani, quando tuo figlio ti chiederà: perché queste prescrizioni, queste leggi e queste usanze che il Signore nostro Dio vi ha comandato?» allora risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto, ma con mano potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto… Il Signore ci ha comandato di mettere in pratica tutte queste leggi e di temere il Signore nostro Dio, affinché fossimo sempre felici e ci mantenesse in vita come oggi» (Dt 6, 20-24). Quando il re Giosia cercò di riportare il suo popolo sul retto cammino, si comprese quanto importante fosse per lui far conoscere questo libro, che ripete in tutti i modi questo messaggio: la via più breve per essere un popolo libero e felice è vivere secondo i comandi del Dio d’Israele. Sottinteso, se i vostri fratelli del Nord sono finiti così male, è perché hanno dimenticato questa verità elementare (da tenere sempre presente la divisione fra il regno del sud, regno di Giuda e quello del nord, il regno d’Israele e come il regno del nord a causa di alleanze con popoli stranieri finì per essere occupato e praticamente distrutto). E ora, ricorda Giosia, non è solo la salvezza del regno del Sud a essere in gioco – che ovviamente era la sua prima preoccupazione – ma la salvezza dell’intera umanità. E come potrà il popolo eletto essere testimone del Dio liberatore dinanzi a tutte le genti se non si comporta esso stesso come un popolo libero e ricade invece nelle costanti tentazioni dell’umanità: idolatria, ingiustizia sociale, lotta per il potere?
Nel corso della storia, gli autori biblici hanno preso gradualmente coscienza di questa responsabilità che Dio ha affidato al suo popolo proponendogli la sua Alleanza: «Al Signore nostro Dio appartengono le cose nascoste, mentre quelle rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre, affinché siano messe in pratica tutte le parole di questa Legge» (Dt 29, 28). Questo ispira a Israele un grande orgoglio che mai diventa presunzione; se necessario, il Deuteronomio richiama il popolo all’umiltà: «Se il Signore si è affezionato a voi e vi ha scelti, non è perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli, perché siete il più piccolo di tutti» (Dt 7, 7); e ancora: «Riconosci che non è perché sei giusto che il Signore tuo Dio ti dà in possesso questa terra buona, perché tu sei un popolo dalla dura cervice» (Dt 9, 6).
l nostro salmo oggi riprende questa lezione di umiltà: «I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi” (v.9). “I precetti del Signore sono retti”: ecco un bel modo per dire che solo Dio è saggio. Non serve allora credersi furbi, ma lasciarsi piuttosto guidare da lui con semplicità. A tal proposito il re Giosia avrà ripetuto volentieri questo richiamo per incoraggiare i suoi sudditi : «Sì, questo comando che oggi ti ordino non è troppo difficile per te, né fuori dalla tua portata. Non è in cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo a prendercelo, affinché ce lo faccia udire e possiamo metterlo in pratica? Non è neppure al di là del mare, perché tu dica: Chi attraverserà il mare per noi a prendercelo, affinché ce lo faccia udire e possiamo metterlo in pratica? Sì, la parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». La pratica umile e quotidiana della Legge può trasformare gradualmente un intero popolo; come dice ancora il salmo: «Il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi” Dt 30, 11)..
Un’ultima osservazione: Il libro del Deuteronomio, che noi oggi conosciamo, è posteriore a Giosia; tuttavia le basi erano ben poste già in un manoscritto trovato dagli operai di Giosia durante la restaurazione del tempio di Gerusalemme (cf. Secondo Libro dei Re 22,8-13 e Secondo Libro delle Cronache 34,14-19). Si tratta di un interessante manoscritto portato probabilmente dai rifugiati del regno del Nord dopo la caduta di Samaria nel 721 e che costituiva una solida esortazione per una vera conversione e un invito a tornare alla pratica dei comandamenti. Gli studiosi ritengono che faccia parte dei capitoli 12-26 del libro del Deuteronomio.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12, 12-30)
San Paolo in maniera semplice e diretta afferma che ciascuno nella comunità cristiana e civile ha un compito da svolgere e il suo posto da occupare stando attenti l’uno all’altro: non bisogna disprezzarsi a vicenda, e anzi occorre ricordare che tutti hanno bisogno di tutti. Il lungo ragionamento di Paolo è prova di una situazione concreta: la comunità di Corinto affrontava esattamente gli stessi problemi che conosciamo noi oggi.
Per dare una lezione ai suoi fedeli, Paolo ricorre a un metodo che funziona meglio di qualsiasi discorso: propone loro un esempio con una parabola che in realtà non ha inventato del tutto perché usa una favola che tutti conoscevano e la adatta al suo obiettivo. Si tratta di una narrazione allegorica più nota come l’apologo “la pancia e le membra” di Menenio Agrippa, un console e diplomatico romano del V secolo a.C. In verità questa narrazione è già presente in Esopo, narratore e favolista dell’antica Grecia (VI secolo a.C.) come pure in Fedro (contemporaneo di Gesù 20 a. C. - 50 d.C.) entrambi ben noti al tempo di san Paolo. Questa parabola si trova nella Storia Romana di Tito Livio e Jean Fontaine (1621-1695) l’ha ripresa e trasformata in versi nel IX libro delle sue favole. Come tutte le favole, comincia con: C’era una volta un uomo come tutti gli altri… tranne per il fatto che, in lui, tutte le membra parlavano e discutevano tra loro, ma non tutte mostravano un buon carattere, a quanto pare, probabilmente perché alcune avevano l’impressione di essere meno considerate o un po’ sfruttate. Un giorno, durante una discussione, i piedi e le mani si ribellarono contro lo stomaco: perché lo stomaco, lui, si limitava a mangiare e bere ciò che le altre membra gli procuravano e tutto il piacere era per lui? Non era certo lo stomaco a stancarsi lavorando, coltivando la vigna, facendo la spesa, tagliando la carne, masticando e via dicendo. Allora decisero tutte le membra semplicemente di scioperare e da quel momento, nessuno si sarebbe più mosso: lo stomaco avrebbe visto cosa gli sarebbe successo. In questo modo se lo stomaco moriva la soddisfazione sarebbe stata di chi aveva smesso di lavorare. Avevano però dimenticato una cosa molto semplice: se lo stomaco muore di fame, non sarà l’unico a soffrirne. Quel corpo, come tutti gli altri, era un tutt’uno, e tutti hanno bisogno di tutti!
San Paolo riprese dunque dal patrimonio culturale del suo tempo una parabola molto facile da capire. E, se qualcuno non avesse compresa, si prese la briga di spiegare lui stesso il significato della parabola del corpo e delle membra illustrandone l’insegnamento. Per Paolo, la morale è chiara: le nostre diversità sono una ricchezza, a patto di usarle come strumenti per l’unità. Uno dei punti salienti del discorso di Paolo è che, nemmeno per un istante, parla in termini di gerarchia o superiorità: giudei o pagani, schiavi o uomini liberi dato che tutte le nostre distinzioni umane non contano più. Ormai conta una sola cosa: il nostro Battesimo nello stesso Spirito, la nostra partecipazione a un unico corpo, il corpo di Cristo.
Le prospettive di Dio sono completamente diverse come Gesù ha chiaramente insegnato ai suoi apostoli: “Tra voi non sarà così” (Mt20, 25-28). Paolo sa tuttavia che questa maniera di vedere le cose, non pensare più in termini di superiorità, gerarchia, avanzamenti o onori, è molto difficile e allora insiste sul rispetto che bisogna riservare a tutti: semplicemente perché la dignità più alta, l’unica che conta, è essere tutti membra dell’unico corpo di Cristo.
Il rispetto, nel senso etimologico del termine, è una questione di sguardo: a volte, le persone che ci sembrano o riteniamo poco importanti non le vediamo nemmeno, il nostro sguardo non si sofferma su di loro. A tutti può capitare di sentirsi ignorati agli occhi di qualcuno: il suo sguardo scivolava su di noi come se non esistessimo. Non è così?
Insomma, Paolo ci offre una grande lezione di rispetto: rispetto delle diversità, da un lato, e rispetto della dignità di ciascuno, qualunque sia la funzione che svolge e il ruolo sociale che riveste. So che non è semplice, ma è necessario avere uno sguardo meno egoista per scoprire ciò che di singolare ciascuno di noi può apportare nella vita delle nostre famiglie, delle nostre comunità e nella società. C’è chi è una mente pensante, chi è un ricercatore, un inventore, un organizzatore… C’è chi ha fiuto, chi sa essere paziente, chi è chiaroveggente, chi ha il dono della parola e chi è più bravo nello scrivere e c’è chi soffre una malattia o è molto povero materialmente e spiritualmente ma tutti possono offrire qualcosa agli altri. Si potrebbe continuare nell’enumerare i tanti carismi da scoprire e valorizzare: basta orientare bene lo sguardo. Se domenica scorsa, seconda domenica del Tempo ordinario, leggendo l’inizio del capitolo 12 della prima lettera ai Corinti, sembrava che fosse un inno alla diversità, lo sviluppo odierno è un richiamo all’unità attraverso il rispetto delle differenze.
*Dal Vangelo secondo Luca (1,1-4;4,14-21)
Nelle domeniche del tempo ordinario dell’Anno liturgico C ci accompagna l’evangelista Luca e di lui abbiamo già potuto meditare il racconto della nascita e dell’infanzia di Gesù nel tempo di Natale. Sappiamo molto poco su come sono stati scritti i vangeli e, in particolare, sulle loro date di composizione. Tuttavia, dal vangelo odierno possiamo dedurre alcune precisazioni. Ci fu certamente una predicazione orale prima che i vangeli venissero messi per iscritto, poiché Luca dice a Teofilo di voler permettergli di verificare «la solidità degli insegnamenti che ha ricevuto». Luca riconosce anche di non essere stato un testimone oculare degli eventi; ha potuto informarsi solo tramite i testimoni oculari, il che implica che questi erano ancora vivi quando scrisse. Possiamo dunque supporre che la predicazione sulla risurrezione di Cristo sia iniziata già a partire dalla Pentecoste e che il vangelo di Luca sia stato scritto più tardi, ma prima della morte degli ultimi testimoni oculari, fissando così una data limite intorno all’80-90 d.C.
Quanto leggiamo oggi si colloca dopo il battesimo di Gesù e il racconto delle sue tentazioni nel deserto. Apparentemente, tutto sembrava procedere bene per Gesù che inizia la sua missione pubblicamente dopo la morte di Giovanni Battista. Scrive l’evangelista: “Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle sinagoghe dei Giudei, e gli rendevano lode”. Quel sabato mattina Gesù, da buon ebreo tornato da un viaggio, si recò per il culto nella sinagoga. Nulla di sorprendente se gli affidano una lettura, dato che ogni fedele aveva il diritto di leggere le Scritture. La celebrazione nella sinagoga si svolse normalmente, fino a quando Gesù lesse il testo del giorno, che era un celebre passo del profeta Isaia. Nel grande silenzio che seguì la lettura, Gesù affermò con tranquillità qualcosa di straordinario: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Seguì qualche minuto di imbarazzato silenzio, il tempo necessario per interpretare il significato delle sue parole. Infatti i presenti si aspettavano che Gesù facesse un commento, come era consuetudine, ma non un commento capace di sorprendere tutti. E’ difficile oggi a noi immaginare l’audacia di quell’affermazione così pacata di Gesù, ma per i suoi contemporanei, quel venerabile testo del profeta Isaia era riferito al Messia. Soltanto il Re-Messia, quando sarebbe venuto, avrebbe potuto permettersi di affermare: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione…” Dall’inizio della monarchia, infatti, il rito di consacrazione dei re prevedeva un’unzione con olio. Questo gesto era il segno che Dio stesso ispirava il re in modo permanente per renderlo capace di compiere la sua missione di salvare il popolo. Si diceva allora che il re era «mashiach», che in ebraico significa semplicemente «unto» e che in italiano è tradotto con Messia mentre in greco con Christos e in latino Christus.
Al tempo di Gesù, non c’erano più re sul trono di Gerusalemme, ma si attendeva che Dio inviasse finalmente il re ideale, che avrebbe portato al suo popolo libertà, giustizia e pace. In particolare, nella Palestina occupata dai Romani, si attendeva colui che avrebbe liberato il popolo dall’occupazione romana. Chiaramente, Gesù di Nazareth, il figlio del falegname, non poteva pretendere di essere quel Re-Messia atteso. Come avrebbero potuto riconoscere il Messia che aspettavano in Gesù umile falegname in terra di Galilea? Eppure era davvero il Messia. Bisogna riconoscere che Gesù non ha smesso di sorprendere i suoi contemporanei. San Luca sottolinea, introducendo questo passo, che Gesù era accompagnato dalla potenza dello Spirito, caratteristica essenziale del Messia. Ma questa è l’affermazione di Luca, il cristiano; gli abitanti di Nazareth, invece, non sapevano che, realmente, lo Spirito del Signore riposava su Gesù. C’è poi da aggiungere quest’osservazione sul brano evangelico appena ascoltato. Gesù cita il profeta Isaia e la citazione l’attribuisce a sé stesso, la fa propria come un vero discorso programmatico: “Lo Spirito del Signore è sopra di me… Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare un anno di grazia del Signore. Della profezia di Isaia (61,1-2) egli non legge e anzi salta del tutto l’ultima parte del versetto 2, che dice: “…e un giorno di vendetta per il nostro Dio.” Si tratta di un’omissione significativa perché si concentra sull’annuncio della grazia e della liberazione, lasciando da parte l’idea di vendetta e tutto il suo ministero è centrato sulla misericordia, sulla salvezza e sull’amore di Dio, piuttosto che sul giudizio o sulla punizione immediata. Quest’omissione dell’ultima frase di Isaia e l’applicazione del passo a sé stesso hanno urtato i suoi ascoltatori per diverse ragioni. Anzitutto gli abitanti di Nazareth si aspettavano un Messia che avrebbe liberato Israele dai suoi oppressori, soprattutto dai Romani, e avrebbe portato giustizia e vendetta contro i nemici del popolo ebraico. L’omissione del “giorno di vendetta del nostro Dio” sembrava allontanare l’idea di un Messia politico e giustiziere. Proclamando un messaggio di grazia e salvezza universale, Gesù sfidava le loro attese nazionalistiche. In merito alla sua dichiarazione, cioè che la profezia di Isaia si realizza in Lui, molti dei presenti la ritenevano scandalosa e presuntuosa perché lo conoscevano come il “figlio del falegname” (Luca 4,22) che viveva tra loro, e non riuscivano a conciliare la sua umile origine con l’idea di un inviato di Dio. inoltre Gesù, quando più tardi menzionerà gli episodi di Elia ed Eliseo (Luca 4,25-27), andrà a sottolineare il fatto che Dio spesso è intervenuto per il bene di pagani come la vedova di Sarepta in Sidone o Naaman il Siro e questo mostrava che la salvezza e la grazia di Dio non erano esclusivamente per Israele, ma anche per i pagani. Proclamare quest’universalismo però offendeva l’orgoglio nazionale e religioso dei suoi ascoltatori. Infine, molti ebrei dell’epoca speravano in un giudizio immediato contro i nemici di Israele. Il fatto che Gesù enfatizzasse solo il tempo di grazia senza menzionare la vendetta poteva essere percepito come una negazione della giustizia divina contro i malvagi e questo urtava coloro che desideravano una liberazione rapida e definitiva. La combinazione di tanti elementi fa comprendere la reazione violenta dei suoi concittadini che tentano di cacciarlo dalla sinagoga e persino di ucciderlo gettandolo da una rupe (Luca 4,28-30). Infine, l rifiuto di Gesù da parte dei suoi compaesani diventa un simbolo del rifiuto più ampio che Egli incontrerà nel suo ministero.
Una nota informativa. Durante le prime domeniche del Tempo Ordinario nei cicli liturgici A, B, C la liturgia ci fa rileggere la Prima Lettera di San Paolo ai Corinti. E’ una lettura semicontinua, che inizia la prima domenica del Tempo Ordinario e termina la domenica che precede Mercoledì delle Ceneri.
Anno A. Le letture si concentrano principalmente sui primi quattro capitoli della lettera.
Tema principale: l’unità della Chiesa e la centralità di Cristo.
*Domenica I: 1Cor 1,1-3 – Saluto iniziale e chiamata alla santità.
*Domenica II: 1Cor 1,10-13.17 – Esortazione all’unità nella comunità cristiana.
*Domenica III: 1Cor 1,26-31 – La sapienza di Dio contro la sapienza umana.
*Domenica IV: 1Cor 2,1-5 – La predicazione fondata sulla potenza dello Spirito.
Anno B. Le letture proseguono nei capitoli 6-9 della lettera. Tema principale: la vita morale e le responsabilità personali e comunitarie.
*Domenica II: 1Cor 6,13c-15a.17-20 – Il corpo come tempio dello Spirito Santo.
*Domenica III: 1Cor 7,29-31 – L’urgenza di vivere in vista del Regno di Dio.
*Domenica IV: 1Cor 8,1b-7.10-13 – La responsabilità verso i fratelli più deboli nella fede.
*Domenica V: 1Cor 9,16-19.22-23 – San Paolo come apostolo che si fa tutto per tutti.
Anno C Le letture si concentrano sui capitoli 12-15 della lettera. Tema principale: i carismi, l’amore cristiano e la risurrezione.
*Domenica II: 1Cor 12,4-11 – Diversità di carismi, un unico Spirito.
*Domenica III: 1Cor 12,12-30 – La Chiesa come corpo di Cristo.
*Domenica IV: 1Cor 13,4-13 – L’inno alla carità.
*Domenica V: 1Cor 15,12. 16- 20 – La risurrezione dei morti come fondamento della fede.
Ogni anno liturgico utilizza una sezione diversa della lettera per riflettere sulle diverse esigenze e temi della vita cristiana. Si evidenziano temi chiave come l’unità, la carità, la vita morale e la speranza nella risurrezione. Questo schema semicontinuo consente ai fedeli di approfondire progressivamente l’insegnamento dell’apostolo Paolo.
+Giovanni D’Ercole
Nella differenza tra religiosità comune e Fede
(Mc 4,1-20)
Le parabole pongono a confronto la realtà vissuta e il mondo dello Spirito:
«E altri [semi] caddero sulla terra quella bella e davano frutto salendo e crescendo e portavano uno trenta e uno sessanta e uno cento» (v.8).
Il terreno sassoso e il clima rovente della Palestina non rendevano facile la vita dei lavoratori che vivevano di agricoltura.
La scarsità di piogge e l’intrusione nei campi di chi voleva abbreviare il cammino distruggeva le piante.
Un’azione faticosa e pochi risultati tangibili.
Malgrado le enormi difficoltà, ogni anno il contadino gettava chicchi a spaglio, generosamente - e arava, animato dalla fiducia nella forza vitale interna del seme e nella munificenza della natura.
L’aratura era successiva alla seminagione, per evitare che le zolle di terreno rivoltato seccassero immediatamente sotto la potente calura, e non consentissero ai grani di attecchire grazie a un minimo di umidità.
Quindi il seminatore non selezionava anzitempo i diversi tipi di terreno.
Il Seme già opera: il nuovo ‘Regno che Viene’ non è glorioso, ma qua e là alligna e produce - anche dove non t’aspetti.
A norma di mentalità religiosa antica sembra una follia, ma il divino Agricoltore non sceglie il tipo di “terreno”, né lo discrimina sulla base della percentuale produttiva - che pur sembrerebbe facile prevedere.
Il Seminatore accetta persino che il suo ‘chicco’ caduto sul terreno «bello» [v.8 testo greco] frutti in maniera diversa: il cento, il sessanta, il trenta per uno.
Con il termine «bello» (in senso orientale) s’intende il terreno pieno e fecondo [l’anima e l’opera dei discepoli più intimi, anche anonimi].
Il Signore vuol dire che un sapiente impegno di evangelizzazione non è misurabile con pignoleria.
La sua Parola permane come Inizio gettato nel cuore umano da Colui che non è taccagno, né esclusivo - bensì magnanimo.
In tal guisa, la Chiesa suo Popolo nuovo è un piccolo mondo alternativo sia all’Impero che alle religioni selettive.
Il nuovo Rabbi non aveva intenzione di ritagliarsi discepoli migliori di altri - isolati dalla realtà della famiglia umana.
Proponeva un nuovo stile di vita, convivente.
Insomma, Dio non forza la crescita del ‘granello’ in ciascuno di noi, in modo astratto; ma attende con pazienza.
Accetta perfino che nasca male o che non spunti affatto. Conosce dove andare.
Visto che sparge in modo trabocchevole su tutti i generi di cuori (anche sull’asfalto), sa che verrà tacciato di essere poco accorto.
Ma Egli non si preoccupa della quantità, né dei frutti esteriori immediati della sua ‘semente’.
Non si cura che il lavoro risulti “efficace in partenza”!
Tale la amabile, umanizzante e divina, genitoriale Tolleranza che salva. Essa non ci sequestra ogni attimo, a pianificare.
Gl’interessa piuttosto farci capire che non è un Dio calcolatore e avaro, esteriore, taccagno e prevenuto; bensì Padre munifico e conciliante.
Signore del Regno che non attende prima le nostre piccole ‘perfezioni’.
La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che l’eventuale scarsità di risultato non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina, bensì alla libertà dell’uomo; alla sua condizione di limite o incoerenza.
Purtroppo, fin dalle prime generazioni di credenti, il richiamo positivo di Gesù è stato reinterpretato un po’ al contrario: con venature moraliste e individualiste (vv.10-20) che ne hanno intaccato la genuinità.
In tal guisa, la iniziale proposta di Fede personale si è contaminata con la consuetudinaria ottica purista e di ripiego [colpevolizzante] tipica delle filosofie e religioni circostanti, come del pensiero comune.
Alcune configurazioni di ordine ecclesiale hanno di seguito normalizzato la stessa potenza eccezionale del Messaggio; così inedito. In particolare, il nuovo senso di adeguatezza, fiducia e autostima che il Figlio di Dio intendeva comunicare ai suoi amici, e al mondo dei piccoli.
[Mercoledì 3.a sett. T.O. 29 gennaio 2025]
Un nuovo Dio: forse un illuso?
(Mc 4,1-20)
In un mondo che ha perduto i riferimenti ma forse tenta di crearne di più autentici e profondi, la missione di maternità e paternità di coloro che hanno esperienza non è solo un appoggio materiale: si allarga al discernimento più antico sulle cose dell’anima.
Il terreno sassoso e il clima rovente della Palestina non rendevano facile la vita dei lavoratori che vivevano di agricoltura.
La scarsità di piogge e l’intrusione nei campi di chi voleva abbreviare il cammino distruggeva le piante.
Un’azione faticosa e pochi risultati tangibili.
Malgrado le enormi difficoltà, ogni anno il contadino gettava il seme a spaglio, generosamente - e arava, animato dalla fiducia nella forza vitale interna del seme e nella munificenza della natura.
L’aratura era successiva alla seminagione, per evitare che le zolle di terreno rivoltato seccassero immediatamente sotto la potente calura e non consentissero al seme di attecchire, grazie a un minimo di umidità.
Quindi il seminatore non selezionava anzitempo i diversi tipi di terreno.
Le parabole pongono a confronto la realtà vissuta e il mondo dello Spirito.
Il seme già opera: il nuovo ‘Regno che Viene’ non è glorioso, ma qua e là attecchisce e produce - anche dove non t’aspetti.
A norma di mentalità perbene sembra una follia, ma il divino Agricoltore non sceglie il tipo di “terreno”, né lo discrimina sulla base della percentuale produttiva [che pur sembrerebbe facile prevedere].
Il Seminatore accetta persino che il suo ‘chicco’ caduto sul terreno «bello» (v.8 testo greco) ossia pieno e fecondo [dei suoi discepoli e non] frutti in maniera diversa: «e portavano uno trenta e uno sessanta e uno cento».
Gesù vuol dire che l’opera di evangelizzazione non è misurabile con pignoleria.
La sua Parola permane come Inizio gettato nel cuore umano da Colui che non è spilorcio, né esclusivo - bensì magnanimo.
La sua Chiesa è un piccolo mondo alternativo sia all’Impero che alle religioni selettive: non ha intenzione di ritagliarsi discepoli “migliori” di altri e isolati dalla realtà della famiglia umana.
Un nuovo stile di vita.
Dice il Tao Tê Ching (XL): «Il tornare è il movimento del Tao; la debolezza è quel che adopra il Tao. Le diecimila creature che sono sotto il cielo hanno vita dall’essere; l’essere ha vita dal non-essere».
E il maestro Wang Pi commenta: «L’essere ha per utilità il non-essere: questo è il suo tornare». Aggiunge il maestro Ho-shang Kung: «La radice è quella verso cui muove il Tao, che nel suo moto fa vivere le diecimila creature. Se esse lo contrastano, periscono. Il Tao s’avvale sempre della mollezza e della debolezza, per questo può durare a lungo».
Dio non forza la crescita del ‘granello’ in ciascuno di noi, ma attende con pazienza. Accetta anche che nasca male, o che non spunti affatto.
Visto che sparge in modo trabocchevole su tutti i generi di cuori [anche sull’asfalto] sa che verrà tacciato di essere poco accorto: non si preoccupa della quantità (!), né dei frutti esteriori immediati (!) della sua ‘semente’ - non si cura che il lavoro risulti “efficace in partenza” (!).
Ma gl’interessa farci capire che è Padre, non il Dio calcolatore delle più varie credenze: avaro, esteriore, taccagno, scostante, e prevenuto.
La parabola del Seminatore come storicamente narrata da Gesù (vv.1-9) denota la totale positività del suo Messaggio: Egli proclama un mondo nuovo; anzitutto un Cielo differente, tollerante e benevolo.
Principio della nostra vita da salvati non è quanto noi facciamo per Dio, bensì ciò che Lui - Generoso e Sereno - fa per noi. Proprio come un Genitore condiscendente e longanime, il quale ripropone incessantemente occasioni di vita.
Il Regno del Signore non va preparato e allestito [secondo le normali precomprensioni] bensì accolto.
Il Maestro intendeva spostare il criterio della vita pia: dallo sforzo personale al ‘lasciarsi salvare’.
La Redenzione ha radici d’inedito che spiazza i propostiti e le aspettative.
Essa non fonda sui binari tracciati.
Si delinea a partire da un’iniziativa provvidente, nella gratuita liberalità; per la calma tollerante del Cielo - che ci consente un processo e un tempo largo di crescita.
La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che l’eventuale scarsità di risultato non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina, bensì alla libertà dell’uomo; alla sua condizione di limite o incoerenza.
Purtroppo, la riflessione successiva - sin da pochi decenni dalla morte del Signore - inizia a risentire del cliché culturale dominante [facendo scattare una ridicola competizione con le religioni].
Le aspettative puriste a contorno hanno intaccato via via sia il senso dell’annuncio del Regno vicino e sovrabbondante, sia la natura del Dono, nonché la trasparenza della sua remissiva disponibilità verso tutti.
Il Figlio proclamava esclusivamente la longanimità del Padre: Soggetto, Motivo e Motore della nostra capacità di accogliere la Vocazione, e affrontare il cammino personale.
Nella rielaborazione successiva, le parabole originali diventano allegorie, stracolme di simboli dal significato moralistico definito.
Le allegorie sono in genere narrazioni tutto sommato banali, venate di considerazioni impersonali e primordiali [qui, sulla “qualità del terreno”].
Questo passaggio testimonia la difficoltà di comprensione dello sbalorditivo Richiamo originario del Figlio di Dio.
Egli intendeva proporre a tutti un sentiero di Fede, proprio per soppiantare il peso ansiogeno dell’archetipo oppressivo delle varie dottrine e casistiche comportamentali.
Il giogo eticista non parte dall’Amore: suppone spilorcerie, inadeguatezze, e vergogne ovunque; anche nella vita spirituale [rattrappita, perennemente in bilico, sempre e ovunque insufficiente].
Protagonista del brano (dal v.15) non è più Dio e il suo gesto munifico [che non bada a spese nel gettare il Suo Seme a spaglio], bensì il tipo di terra: l’apostolo stesso - che diverrebbe così il soggetto del cammino spirituale.
Un disastro.
Colpevole sempre (vv.15-19): non hai vigilato su chi rapisce il Seme; hai avuto un fervore solo iniziale, non hai radice in te e sei incostante; e se preoccupato, sedotto o bramoso, sarai infruttuoso...
Infine, se anche tu fossi terreno «quello bello» (v.20) dovresti ancora stare attento... perché si possono avere diversi risultati: «uno trenta e sessanta e cento» (v.20).
Impossibile farcela. Insomma, devozione e ossessione sembra vadano a braccetto [contro la ‘natura’].
Ma si entra in un campo minato - contromano rispetto alle linee portanti di ogni inclinazione e talento personale, o carisma autentico perfino di gruppo.
Sembra che siano la donna e l’uomo [chi riceve la Parola] a doversi centrare su di sé, individuare i propri difetti, e - avendone finalmente contezza e capacità nitida - adoperarsi a «migliorare», sotto pena di esclusione dal novero appunto dei “migliori”.
Tutto ciò indurrebbe proprio le persone più motivate o euforiche alla spersonalizzazione del carattere stesso della Chiamata, alla negazione della loro vita intima, a un pazzesco dispendio di energie.
Cancellata la fiducia nella marea del Seme che Viene - ossia, smarrito il dinamismo propulsivo dell’esistenza ordinaria e delle sue opportunità di vita - ciascuno troverebbe sempre davanti a sé quelle imperfezioni che poi intralciano la strada.
Infatti, coloro che non conoscono le difformi e normalissime energie dell’uomo [tutte plasmabili e potenzialmente preparatorie degli sviluppi; da percepire a tutto tondo, assumere e investire] trascurano la propria essenza e si trasformano in quelle alcove mortifere (di sé e degli altri) che a proclami non vorrebbero mai essere.
A motivo degli sforzi estrinseci o reconditi, proprio i “fenomeni” unilaterali, e gli sterilizzati, finiscono per smarrire la strada dello stupore di Dio che spiazza.
Ciò a partire dalla valorizzazione degli opposti.
Nonché, più delle anime spontanee, proprio tali primi della classe mettono in bilico la loro reale inclinazione dell’anima - magari scambiando la natura caratteriale per zavorra.
Risultato (storico): eccoci tutti pronti all’attacco, gli uni degli altri. È la foto delle lacerazioni odierne; dei soliti guelfi contro ghibellini.
Ciò per il fatto che siamo passati dall’affascinante proposta di Fede, alla fatica del ripiegamento religioso [e moralizzatore] sul “terreno”.
Landa paradossalmente sempre più superficiale, inconsistente, dura, sassosa, soffocata, non integrata - a senso unico ed esterno!
Parabole, e il mistero della cecità: Narrazione e trasmutazione
Smarrirsi, per la trasformazione
(Mc 4,10-12.25; cf. Mt 13,10-17; Lc 8,9-10.18)
San Paolo esprime il senso del “mistero della cecità” che gli fa contrasto nel cammino con la celebre espressone «spina nel fianco»: dovunque andasse, erano già pronti i nemici; e disaccordi inattesi.
Così anche per noi: eventi funesti, catastrofi, emergenze, disgregazione delle antiche certezze rassicuranti - tutte esterne e paludose; sino a poco prima valutate con senso di permanenza.
Forse nell’arco della nostra esistenza, già ci siamo resi conto che le incomprensioni sono state i modi migliori per riattivarci, e introdurre le energie della Vita rinnovata.
Si tratta di quelle risorse o situazioni che forse mai avremmo immaginato alleate della nostra e altrui realizzazione.
Dice Erich Fromm:
«Vivere significa nascere in ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere. La nascita non è quindi un atto; è un processo ininterrotto. Lo scopo della vita è di nascere pienamente, ma la tragedia è che la maggior parte di noi muore prima di essere veramente nato».
Infatti, nel clima dei disordini o delle divergenze assurde [che ci obbligano a rigenerare] si affacciano talora le più trascurate virtù intime.
Energie nuove - che cercano spazio - e potenze esterne. Entrambi plasmabili; inconsuete, inimmaginabili, eterodosse.
Ma che trovano le soluzioni, la vera via d’uscita ai nostri problemi; la strada per un futuro che non sia un semplice riassetto della situazione precedente, o di come abbiamo immaginato “si sarebbe dovuti essere e fare”.
Concluso un ciclo, iniziamo una nuova fase; forse con maggiore rettitudine e franchezza - più luminosa e naturale, umanizzante, vicina al ‘divino’.
Il contatto autentico e coinvolgente con i nostri stati dell’essere profondi viene generato in modo acuto proprio dai distacchi.
Essi ci portano al dialogo dinamico con le riserve eterne di forze trasmutatrici che ci abitano, e più ci appartengono.
Esperienza primordiale che arriva dritta al cuore.
Dentro di noi tale via “pesca” l’opzione creativa, fluttuante, inedita.
In tal guisa il Signore trasmette e apre la sua proposta servendosi di ‘immagini’.
Freccia di Mistero che va oltre i frammenti della coscienza, della cultura, delle procedure, di ciò che è comune.
Per una conoscenza di se stessi e del mondo che travalica quella della storia e della cronaca; per la consapevolezza attiva di altri contenuti.
Sino a che il travaglio e il caos stesso guidano l’anima e la obbligano a un Altro inizio, a un differente sguardo (tutto spostato), a un’inedita comprensione di noi stessi e del mondo.
Ebbene, la trasformazione dell’universo non può esser frutto di un insegnamento cerebrale o dirigista; piuttosto, di una esplorazione narrativa - che non allontana la gente da se stessa.
E Gesù lo sa.
Nuova interpretazione dei diversi Terreni
Evoluzione dell’Alleanza, nel tempo della crisi: solite pecche, diverse armonizzazioni
(Mt 13,18-23)
Dio è munifico, in modo particolare nell’età della rinascita dalla crisi: anch’esso tempo di generosa seminagione da parte del Padre.
Egli permane Agricoltore delle sue pianticelle - più avventurose e meno perbene che tradizionaliste, o alla moda.
Ovviamente la Parola del Maestro e Signore mette in guardia da tutto ciò che potrebbe impedire una nuova Genesi - anzitutto per il fatto che spesso attendiamo di tornare meccanicamente ai ruoli antichi e al vecchio sistema di cose; al modello assuefatto, esteriore, dirigista.
Siamo forse ancora troppo legati a brame e precedenti livelli economici (v.22) ormai travolti dalle cose... non accettando l’affacciarsi degli opposti che mai avevamo sperimentato né programmato (v.19).
Pensiamo ancora di poter tornare al “tutto come prima”; alla superficialità della società del look non radicato nel convincimento; dell’esteriorità subito entusiasta (vv.20-21) e che non fa spostare lo sguardo.
Invece la marea difforme Viene affinché impariamo a fissare l’occhio dentro, altrove, e oltre - per mettere a fuoco la nostra e altrui ‘figura unica’ nella convivialità delle differenze.
È probabile che il sapere o stile di vita che vorremmo ribadire sia ancora legato a standards, graditi, vecchi, o à la page - ora inadeguati a dare risposte nuove a domande nuove.
E forse tutto ciò ci ha portato troppo a ricalcare e imitare lo squalificato “avere-apparire”, invece che l’essere, e quel carattere prezioso al centro della nostra Chiamata per Nome.
Non è escluso che ci siamo lasciati avvezzare a nomenclature decisionali o alla precipitazione per ansia di prestazioni.
Esse non badano al «terreno bello» dell’unicità, del dono vocazionale inedito [porterebbe a un migliore contatto con le energie disattese della nostra inclinazione genuina - annidata fra le inconsistenze].
Eccoci anzi, tutti presi dalle preoccupazioni del ripristino “come prima” o “come dovremmo essere”...
Ciò, malgrado i traumi attuali siano espliciti segnali ad allargare le consapevolezze finora soffocate (come da «rovi»: v.22).
Appelli eloquenti - anche contemporanei - a lanciare ogni lato verso l’Esodo, per la conquista di rinnovate libertà; territori dell’anima, pur reconditi, nel nucleo dell’essenza.
Tutto l’influsso di una spiritualità vuota e formale che ci trasciniamo, inibisce ancora una buona percezione dell’oggi, e snerva, toglie forza intima.
Non consente di seguire il proprio impulso in armonia col mondo interno - o le stesse tendenze in ascolto del Richiamo incessante dei Vangeli [che ancora viene disseminato da profeti non omologati, per annunciare la verità e la creazione d’un mondo alternativo].
Ebbene, qualcosa o l’intera vita potrebbero risultare frastornate; più che mai non andare dalla parte giusta e sgombra: non renderci speciali come il Seminatore desidererebbe - proprio per gli stereotipi o i vuoti emotivi che rubano il Seme, ovvero soffocano la pianta, oppure a motivo della solita presunzione che vuol tornare a svettare subito e così impedisce di farci mettere «radici» profonde.
Bisognerà allora deporre i turbinii cerebrali e i parapiglia volitivi unilaterali; lasciare spazio e cedere alla nuova corrente di qualità che ci sta portando.
E abbandonarsi alle proposte della marea di ‘chicchi che vengono’ per guidarci oltre le vecchie contese: all’energia naturale, originale, della Provvidenza, che ne sa più di noi.
Al Vento dello Spirito che dispiega oltre, i granellini - dove non ti aspetti - non importa la percentuale produttiva (v.23b) ma la nostra sintonia «bella» (v.23a testo greco) che aiuta a rimetterci all’altezza della realtà di lungimiranti mescolanze.
Esse riordineranno altrimenti ogni cosa: al di là dei sistemi mentali abitudinari - e ogni risultato sarà più avveduto, in favore delle Periferie.
Senza troppa disposizione e calcolo nella scelta del terreno [un tempo pretenziosamente rimosso e sanificato a monte] ci renderemo conto che il Seminatore avrà infine sgretolato tanti piedistalli mondani; non per umiliare qualcuno, ma per donare sorprese di fecondità sbalorditiva, anche per la crescita di ogni credo (tutte le denominazioni).
La sua è ovunque e sempre un’Azione generosa e creatrice d’eccezione, messa in campo per rigenerare e dare potenza alle convinzioni.
Non per farci rifare le solite azioni o cliché da manuale [e riprendere a giocare con la performance, o con ristrettezze incatenate di schemi largamente approvati].
Se vogliamo sincronizzare lo stesso movimento del Seminatore, bisogna con Lui e come Lui muoversi verso l’indigenza dei vari terreni (situazioni esistenziali).
Ristrettezza speciale - ancor più acuta, nel tempo dell’emergenza globale - che obbliga a ‘spostarsi’, divenire itineranti, disseminare ovunque.
E non solo raccogliere il «cento» (v.23) nel solito ‘centro’ protetto.
For those who first heard Jesus, as for us, the symbol of light evokes the desire for truth and the thirst for the fullness of knowledge which are imprinted deep within every human being. When the light fades or vanishes altogether, we no longer see things as they really are. In the heart of the night we can feel frightened and insecure, and we impatiently await the coming of the light of dawn. Dear young people, it is up to you to be the watchmen of the morning (cf. Is 21:11-12) who announce the coming of the sun who is the Risen Christ! (John Paul II)
Per quanti da principio ascoltarono Gesù, come anche per noi, il simbolo della luce evoca il desiderio di verità e la sete di giungere alla pienezza della conoscenza, impressi nell'intimo di ogni essere umano. Quando la luce va scemando o scompare del tutto, non si riesce più a distinguere la realtà circostante. Nel cuore della notte ci si può sentire intimoriti ed insicuri, e si attende allora con impazienza l'arrivo della luce dell'aurora. Cari giovani, tocca a voi essere le sentinelle del mattino (cfr Is 21, 11-12) che annunciano l'avvento del sole che è Cristo risorto! (Giovanni Paolo II)
Christ compares himself to the sower and explains that the seed is the word (cf. Mk 4: 14); those who hear it, accept it and bear fruit (cf. Mk 4: 20) take part in the Kingdom of God, that is, they live under his lordship. They remain in the world, but are no longer of the world. They bear within them a seed of eternity a principle of transformation [Pope Benedict]
Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr Mc 4,14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr Mc 4,20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione [Papa Benedetto]
In one of his most celebrated sermons, Saint Bernard of Clairvaux “recreates”, as it were, the scene where God and humanity wait for Mary to say “yes”. Turning to her he begs: “[…] Arise, run, open up! Arise with faith, run with your devotion, open up with your consent!” [Pope Benedict]
San Bernardo di Chiaravalle, in uno dei suoi Sermoni più celebri, quasi «rappresenta» l’attesa da parte di Dio e dell’umanità del «sì» di Maria, rivolgendosi a lei con una supplica: «[…] Alzati, corri, apri! Alzati con la fede, affrettati con la tua offerta, apri con la tua adesione!» [Papa Benedetto]
«The "blasphemy" [in question] does not really consist in offending the Holy Spirit with words; it consists, instead, in the refusal to accept the salvation that God offers to man through the Holy Spirit, and which works by virtue of the sacrifice of the cross [It] does not allow man to get out of his self-imprisonment and to open himself to the divine sources of purification» (John Paul II, General Audience July 25, 1990))
«La “bestemmia” [di cui si tratta] non consiste propriamente nell’offendere con le parole lo Spirito Santo; consiste, invece, nel rifiuto di accettare la salvezza che Dio offre all’uomo mediante lo Spirito Santo, e che opera in virtù del sacrificio della croce [Esso] non permette all’uomo di uscire dalla sua autoprigionia e di aprirsi alle fonti divine della purificazione» (Giovanni Paolo II, Udienza Generale 25 luglio 1990)
Every moment can be the propitious “day” for our conversion. Every day (kathēmeran) can become the today of our salvation, because salvation is a story that is ongoing for the Church and for every disciple of Christ. This is the Christian meaning of “carpe diem”: seize the day in which God is calling you to give you salvation! (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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