Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Venir meno senza venir meno: lotta incessante con noi stessi e con Dio
(Mt 7,7-12)
A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.
Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor (di una volta) o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…
Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.
All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.
Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto.
I desideri di accumulo, o rivalsa e trionfo, lasciano il posto all’ascolto e alla percezione.
L’occhio che penetra si accorge di quanto è a portata di mano e dell’inusitato - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.
Non sappiamo quanto tempo, ma il “risultato” subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.
Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.
Riceviamo il Dono massimo e completo. E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.
Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato (come trasmesso dalla famiglia o atteso a contorno).
Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.
Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.
Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.
Inventa orizzonti dilatati, ma in questo travaglio dev’essere chiaro che non bisogna venir meno a noi stessi. Ossia al carattere della nostra essenza e vocazione.
Tutto ciò, proprio venendo meno a noi stessi - ossia cedendo il punto di vista rigido e dialogando coi nostri strati profondi.
Tale processo sposta l’accento condizionato.
Non è che Dio si compiace di farsi incessantemente pregare e ripregare dai poveretti.
Siamo noi ad aver bisogno di tempo per incontrare la nostra stessa anima e lasciarci introdurre in un altro genere di programmi che non siano conformisti e scontati.
Leggere gli accadimenti secondo visioni totalmente “inadeguate”, eccentriche o eccessive, meno contratte dentro le solite armature (e così via) può aprire la mente.
L’espansione dello sguardo accresce l’intuizione, modifica i sentimenti, trasforma, attiva.
Coglie altri disegni, spalanca differenti orizzonti - con risultati intermedi già prodigiosi, sicuramente imprevedibili.
Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona auspici ulteriori, più intensi, che vorrebbero invadere il nostro spazio.
Questa “natura” artificiale di assetti spuri, esterni, o altrui, blocca l’itinerario che va verso la natura del carattere, la vera chiamata e missione personale.
La preghiera dev’essere insistente, perché è come una visuale posata su di sé; non come avevamo pensato: autenticamente.
L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro e individuale dentro, che apre alla nostra e altrui Presenza, tutta da guardare. Nel modo che conta.
Sarà il più sapiente, forte e affidabile compagno di viaggio… che porta la nostra identità-carattere e non tira altrove l’io essenziale della persona.
Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate [da noi stessi o altri] dev’essere colmato nel tempo mediante una intensità di Relazione.
Ecco il dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.
In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.
Sarà la profondità radicale del rapporto con la nostra Radice - forse smarrita in troppe aspettative regolarissime, anche elevate o funzionanti - che conferisce un’altra Via, più convincente.
E farà scoprire la tendenza e destinazione unica che ci appartiene, per la Felicità che non pensavamo.
Obbiettivi, propositi, discipline, memorie del passato, sogni di futuro, ricerche dei punti di riferimento, valutazioni abitudinarie di possibilità, cumuli di merito... talora sono zavorre.
Essi distraggono dalla terra dell’anima, dove il nostro grano vorrebbe attecchire per divenire ciò che è in cuore.
E dal Nocciolo far comprendere la proposta di Missione ricevuta - non conquistata, né posseduta - affinché conceda un’altra caratura prodigiosa (non: visibilità).
Spesso il sistema mentale e affettivo si riconosce in un album di pensieri, definizioni, gesti, forme, problemi, titoli, mansioni, personaggi, ruoli e cose già morte.
Tale morfologia d’interdizione smarrisce il presente autentico, dove viceversa attecchisce il Sogno divino che completa - realizzandoci nella specificità.
Allora, ecco la terapia dell’assoluto presentimento nell’Ascolto - della non pianificazione; a partire da ciascuno.
Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni, e asseconda banalità.
Attraverso il dialogo senza posa col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, che nel frattempo ci sta già colmando di visuali e occasioni per una sorte differente.
Riattivando la carica esplorativa soffocata negli ingranaggi, creiamo la giusta intercapedine e ripartiamo nell’Esodo.
Accontentarsi, fermarsi, installarsi in un punto, tramuterebbe le conquiste anche qualitative in una terra di nuove schiavitù.
Obbligherebbe a recitare e ripercorrere tappe ormai acquisite - che viceversa siamo per vocazione richiamati a valicare.
Esodo… all’interno di una Relazione sorgiva, cosmica e identificativa, singolarmente fondante.
Grazie all’Ascolto protratto nella preghiera, noi figli acquisiamo il sapere dell’anima e del Mistero.
Dimoriamo a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.
Così la piantiamo o radichiamo ancor più a fondo - per capirla e recuperarla completamente, nitida e colma.
Ormai affrancata dal destino tracciato in ambiente di ristrettezze, già segnato ma privo di sogni.
Quando saremo pronti, l’Unicità scenderà in campo con una nuova soluzione, anche stravagante.
Essa partorirà ciò che siamo davvero, al meglio - dentro quel caos che risolve i veri problemi. E di onda in onda balzerà a Traguardo.
Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in una sorta di venir meno di noi stessi - in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - daremo spazio al nuovo Germe che la sa più lunga di tutti.
Già qui e ora la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile vuole sfiorare la condizione divina.
La preghiera continua [ascolto e percezione senza tregua] scava e smaltisce in questo spazio il volume dei banali pensieri ridondanti.
In tale interstizio e “vuoto” si spalancano opportunità. Si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - non di seconda mano.
Vogliamo una decisiva conversione? Desideriamo il richiamo alla totalità dell’esistenza umanizzante, senza limitazioni e nella nostra unicità?
Allora l’azione divina può raggiungere chiunque? Attecchisce in qualsiasi volto? E come si fa a non spezzarla?.
Perché non ora il nuovo inizio?
La preghiera e il “nuovo pieno” dello Spirito diventano per noi - figli in fase di crescita - il latte dell’anima.
Come dice sant’Agostino: «La tua preghiera è la tua parola rivolta a Dio. Quando leggi è Dio che ti parla; quando preghi sei tu che parli a Dio». Origene, uno dei maestri in questa lettura della Bibbia, sostiene che l’intelligenza delle Scritture richieda, più ancora che lo studio, l’intimità con Cristo e la preghiera. Egli è convinto, infatti, che la via privilegiata per conoscere Dio sia l’amore, e che non si dia un’autentica scientia Christi senza innamorarsi di Lui. Nella Lettera a Gregorio il grande teologo alessandrino raccomanda: «Dedicati alla lectio delle divine Scritture; applicati a questo con perseveranza. Impegnati nella lectio con l’intenzione di credere e di piacere a Dio. Se durante la lectio ti trovi davanti a una porta chiusa, bussa e te l’aprirà quel custode, del quale Gesù ha detto: “Il guardiano gliela aprirà”. Applicandoti così alla lectio divina, cerca con lealtà e fiducia incrollabile in Dio il senso delle Scritture divine, che in esse si cela con grande ampiezza. Non ti devi però accontentare di bussare e di cercare: per comprendere le cose di Dio ti è assolutamente necessaria l’oratio. Proprio per esortarci ad essa il Salvatore ci ha detto non soltanto: “Cercate e troverete”, e “Bussate e vi sarà aperto”, ma ha aggiunto: “Chiedete e riceverete”».
[Papa Benedetto, Verbum Domini n.86]
1. Con l’incarnazione del Verbo di Dio la storia della preghiera conosce una svolta decisiva. In Gesù Cristo il cielo e la terra si toccano, Dio si riconcilia con l’umanità, si riallaccia in pienezza il dialogo tra la creatura e il suo Creatore. Gesù è la proposta definitiva dell’amore del Padre e, al tempo stesso, la risposta piena ed irrevocabile dell’uomo alle attese divine. È perciò Lui, Verbo incarnato, l’unico Mediatore che presenta a Dio Padre ogni preghiera sincera che sale dal cuore umano. La domanda, che i primi discepoli rivolsero a Gesù, diventa quindi anche domanda nostra: “Signore, insegnaci a pregare!” (Lc 11, 1).
2. Come ad essi, così anche a noi Gesù “insegna”. Lo fa innanzitutto con l’esempio. Come non ricordare la toccante preghiera con cui Egli si rivolge al Padre già nel primo momento dell’incarnazione? “Entrando nel mondo, dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato . . . Allora ho detto: Ecco io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5). Successivamente non c’è momento importante della vita di Cristo che non sia accompagnato dalla preghiera. All’inizio della sua missione pubblica, lo Spirito Santo scende su di lui mentre “ricevuto il battesimo, stava in preghiera” (Lc 3, 21 s). Dall’evangelista Marco sappiamo che, al momento di avviare la predicazione in Galilea, Gesù “al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e pregava” (Mc 1, 35). Prima della elezione degli apostoli “se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione” (Lc 6, 12). Prima della promessa del primato a Pietro Gesù, secondo il racconto di Luca, “si trovava in un luogo appartato a pregare” (Lc 9, 18). Anche al momento della trasfigurazione, quando sul monte la sua gloria s’irradiò prima che sul Calvario s’addensasse la tenebra, Gesù pregava (cf. Lc9, 28-29). Particolarmente rivelatrice è la preghiera nella quale, durante l’ultima Cena, Gesù effonde verso il Padre i suoi sentimenti di amore, di lode, di supplica, di fiducioso abbandono (cf. Gv 17). Sono gli stessi sentimenti che riaffiorano nell’orto del Getsemani (cf. Mt 26, 39. 42) e sulla croce (cf. Lc 23, 46), dall’alto della quale Egli ci offre l’esempio di quell’ultima, toccante invocazione: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).
3. A pregare Gesù ci insegna anche con la sua parola. Per sottolineare la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi”, Egli racconta la parabola del giudice iniquo e della vedova (cf. Lc 18, 1-5). Raccomanda poi: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26, 41). Ed insiste: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Mt 7, 7-8).
Ai discepoli, desiderosi di una guida concreta, Gesù insegna poi la formula sublime del Padre nostro (Mt 6, 9-13; Lc 11, 2-4), che diventerà nei secoli la preghiera tipica della comunità cristiana. Già Tertulliano la qualificava come “breviarium totius evangelii”, “un compendio di tutto il Vangelo” (De oratione, 1). In essa Gesù consegna l’essenza del suo messaggio. Chi recita in modo consapevole il Padre nostro “si compromette” col Vangelo: non può infatti non accettare le conseguenze che per la propria vita derivano dal messaggio evangelico, di cui la “preghiera del Signore” è l’espressione più autentica.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 settembre 1992]
«Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto». Sollecitato dal brano liturgico del Vangelo di Luca (11, 9-10), nella messa celebrata a Santa Marta giovedì mattina, 9 ottobre, Papa Francesco è tornato a meditare sul tema della preghiera, soffermandosi sulla condizione dell’uomo che chiede e sull’amore di Dio che risponde e dona in sovrabbondanza.
Dopo aver ricordato il testo della colletta pronunciata prima della liturgia della parola — «O Dio, fonte di ogni bene, che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito, effondi su di noi la tua misericordia: perdona ciò che la coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare» — il Pontefice ha iniziato la sua riflessione notando che «è proprio della misericordia di Dio non solo perdonare — quello tutti lo sappiamo — ma essere generoso e dare di più e di più...». Nel soffermarsi in particolare sull’invocazione «e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare», Francesco ha sottolineato: «Noi forse nella preghiera chiediamo questo e questo, e lui ci dà di più sempre! Sempre, sempre di più».
Riprendendo poi le fila del racconto evangelico, il Papa ha ricordato come, qualche versetto prima del passo proposto dalla liturgia, gli apostoli avessero chiesto a Gesù che insegnasse loro a pregare come Giovanni aveva fatto con i discepoli. «E il Signore — ha detto — gli ha insegnato il Padre Nostro». Dopodiché il Vangelo passa a parlare della «generosità di Dio», di quella «misericordia che dà sempre di più, di più di quello che noi crediamo si possa fare».
Papa Francesco è entrato nel cuore del testo: «Se uno di voi ha un amico, a mezzanotte... Ci sono tre parole, tre parole chiave in questo brano: l’amico, il Padre e il dono». È lo spunto per legarsi all’esperienza quotidiana di ogni persona: nella nostra vita, ha detto il Pontefice, ci sono amici d’oro, «che danno la vita per l’amico», e ce ne sono anche altri più o meno buoni, ma alcuni sono amici in maniera più profonda. Non ce ne sono moltissimi: «La Bibbia ci dice “uno, due o tre... non di più”. Poi gli altri sono amici, ma non come questi».
Sempre sulla falsariga del brano lucano, il Papa ha proseguito: «Io vado a casa di lui e chiedo, chiedo, e alla fine si sente importunato per l’invadenza; si alza e dà quello che l’amico chiede». Proprio «il legame di amicizia fa che ci sia dato quello che noi chiediamo». Ma, ha spiegato, «Gesù fa un passo avanti e parla del Padre», ponendo queste domande ai suoi ascoltatori: «Quale padre tra di voi, se un figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?». Da qui la successiva rassicurazione: «Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre del cielo!». Ciò significa che «non solo l’amico che ci accompagna nel cammino della vita ci aiuta e ci dà quello che noi chiediamo; anche il Padre del cielo, questo Padre che ci ama tanto», fino a preoccuparsi — dice Gesù — di dar da mangiare agli uccellini del campo.
In questo modo il Signore, ha fatto notare Papa Francesco, «vuole risvegliare la fiducia nella preghiera». E citando ancora il Vangelo di Luca — «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto» (11, 9-10) — il Pontefice ha spiegato: «Questa è la preghiera: chiedere, cercare il come e bussare al cuore di Dio, l’amico che ci accompagna, il Padre» che ama tutte le sue creature.
Alla fine del brano, ha messo in evidenza il Papa, c’è una frase che «sembra un po’ criptica: “Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà quello che chiedete?” Sì! Darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». Proprio «questo è il dono, questo è il di più di Dio». Perché il Padre, ha sottolineato, «mai ti dà un regalo, una cosa che gli chiedi, così, senza incartarlo bene, senza qualcosa di più che lo faccia più bello». E «quello che il Signore, il Padre ci dà di più, è lo Spirito: il vero dono del Padre è quello che la preghiera non osa sperare». L’uomo bussa con la preghiera alla porta di Dio per chiedere una grazia. E «lui, che è Padre, mi dà quello e di più: il dono, lo Spirito Santo».
È questa, ha ribadito il Papa, la dinamica della preghiera, che «si fa con l’amico, che è il compagno di cammino della vita, si fa col Padre e si fa nello Spirito Santo». L’amico vero è Gesù: è lui, infatti, «che ci accompagna e ci insegna a pregare. E la nostra preghiera deve essere così, trinitaria». Si tratta di una sottolineatura importante per Papa Francesco che, avviandosi alla conclusione, ha richiamato un tipico dialogo avuto tante volte con i fedeli: «Ma lei crede? Sì! Sì! In che crede? In Dio! Ma cosa è Dio per lei? Dio, Dio!». Una concezione un po’ generica, astratta, che per il vescovo di Roma non corrisponde alla realtà. Perché, ha affermato, «esiste il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: sono persone, non sono un’idea nell’aria» Insomma, ha precisato, «questo Dio spray non esiste: esistono persone!».
Questo in sintesi il messaggio finale del Pontefice: «Gesù è il compagno di cammino che ci dà quello che chiediamo; il Padre che ha cura di noi e ci ama; e lo Spirito Santo che è il dono, è quel di più che dà il Padre, quello che la nostra coscienza non osa sperare».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 10/10/2014]
Le manifestazioni del potere di Dio sulla terra: nulla di esteriore
(Lc 11,29-32)
La corrispondenza umana non cresce col moltiplicarsi dei segnali da capogiro. Dio non costringe i poco convinti, né surclassa con prove; così guadagna un patrimonio d’Amore.
La sua Chiesa autentica, senza strepiti né posizioni persuasive - apparentemente insignificante - è raccolta tutta in intima unità col suo Signore.
La regina del mezzogiorno cercava soluzioni accattivanti a curiosità enigmatiche, ma le poteva conoscere dentro la sua anima e nella vita.
Incarnazione: non ci sono altri segni validi che gli accadimenti e le nuove relazioni con se stessi e gli altri - le quali porgono la Persona stessa e inaudita del Risorto, senza involucri.
L’Eterno non è più la pura trascendenza dei giudei, né la vetta della sapienza del mondo antico: il Segno emozionante di Dio è la vicenda di Gesù vivo in noi.
Confidiamo in Cristo, quindi niente droghe spirituali che c’illudano di felicità.
È il senso della nuova Creazione: abbandono allo Spirito, ma tutto concreto (non di maniera) e che procede trascinando la realtà alternativa.
Egli è Segno unico, che scioglie dai molti surrogati della religione delle paure, delle pastoie, dei ruoli consolidati che vorrebbero imprigionarlo in un “alleato” facitore di miracoli seducenti; immediatamente risolutivi.
Alcuni membri di comunità sembrava volessero inquadrare il Messia nello schema delle normali attese sacrali e scenografiche.
Già se la intendevano e si mostravano stufi...
In questi “veterani” di Lc non c’era cifra alcuna di conversione all’idea del Figlio di Dio come Servitore, fiducioso nei sogni senza prestigio.
In loro? Nessuna traccia d’idea nuova - né cambio di passo che segnasse tramonto della società plateale, disumanizzante, cui erano abituati.
C’è sempre chi rimane legato a una ideologia di potere. Quindi non vuole aprire gli occhi se non per farsi catturare i sensi in modo banale.
A costoro il Signore non riserva mai conferme impressionanti - che sarebbero la paradossale convalida dei convincimenti antichi.
Unico ‘segnale’ è la sua Chiesa vivente e lo stesso Risorto che pulsa in tutti coloro che lo prendono sul serio; ad es. nei recuperi, risanamenti e rivalutazioni impossibili.
Ma nessun fulmine a scorciatoia.
Guidati dall’Amico invisibile, saremo una sola umanità inventiva ‘nel Maestro’.
La nostra testimonianza libera e vivificante rialimenterà una esperienza di Fede rigeneratrice, singolarmente incisiva.
Assai più dei miracoli, gli appelli della nostra essenza e della realtà faranno riconoscere il richiamo e l’agire di Dio negli uomini e nella trama della storia.
Il Padre vuole che i suoi figli producano ben altri sbalordimenti e prodigi di bontà divino-umana che visioni e sentimentalismi, o magie.
Unico «segno» di salvezza è Cristo in noi, senza cuciture isteriche; immagine e somiglianza dell’umanità nuova.
Per l’autentica ‘conversione’: potenza nativa - e nulla di esteriore.
[Mercoledì 1.a sett. Quaresima, 12 marzo 2025]
Quale strada conduce al Padre?
(Lc 11,29-32)
Gesù si scontra con l’incredulità. Essa viene da vari accecamenti e partiti presi, o (soprattutto nei discepoli) nasce da disattenzione.
Il Signore si allontana da chi lo mette alla prova e da coloro che rifiutano ciò ch’è donato da Dio, pretendendo di fissare come debba agire.
Il Figlio dell’uomo rispetta ogni persona che lo segue, ma fa comprendere che le decisioni e ancor prima la mancanza di percezione acuta impediscono l’Incontro e la redenzione della vita.
In tale ottica, i credenti non vivono per “dimostrare”. Cristo stesso non ci aspetta in manifestazioni subliminali e mirabolanti, ma sulla sponda d’una spiritualità terrestre.
Il Valore non ha bisogno di applausi (arma a doppio taglio) - maschera della proposta artificiosa, e della vita inautentica.
La corrispondenza umanizzante non cresce col moltiplicarsi dei segnali da capogiro.
Dio non costringe i poco convinti, né surclassa con prove; così guadagna un patrimonio d’Amore nella crescita.
La sua Chiesa autentica, senza strepiti né posizioni persuasive - apparentemente insignificante - è raccolta tutta in intima unità col suo Primogenito: potenza nativa, portentosa e rigeneratrice - solida e reale.
La regina del mezzogiorno cercava soluzioni accattivanti a curiosità enigmatiche, ma le poteva conoscere dentro la sua anima e nella vita.
Incarnazione: non ci sono altri segni validi che gli accadimenti e le nuove relazioni - con se stessi e gli altri - le quali porgono la Persona stessa e inaudita del Risorto [quello senza involucri].
L’Eterno non è più la pura trascendenza dei giudei, né la vetta della sapienza del mondo antico.
Il segno dell’Altissimo è la vicenda di Gesù vivo in noi. Essa apre la strada emozionante che conduce verso il Padre.
Confidiamo in Cristo, quindi niente droghe spirituali che c’illudano di felicità.
È il senso della nuova Creazione: nell’abbandono allo Spirito - ma tutto concreto (non di maniera) e che procede trascinando la realtà alternativa.
La sua Persona è segnale unico, che scioglie dai molti surrogati della religione delle paure, delle pastoie, dei ruoli consolidati.
Tare che vorrebbero imprigionarlo in “alleato” facitore di miracoli seducenti e immediatamente risolutivi.
Qualcuno in semplice purificatore del tempio o in un personaggio da mulino bianco - e così noi, se ci lasciamo manipolare.
Infatti, i leaders religiosi cui Gesù si rivolge sono quelli di ritorno nelle sue comunità!
Si trattava di giudaizzanti i quali volevano inquadrare il Messia nello schema delle normali attese cui erano stati da sempre abituati.
O già se la intendevano e si mostravano stufi...
In questi “veterani” non c’era cifra alcuna di conversione all’idea del Figlio di Dio come Servitore, fiducioso nei sogni senza prestigio.
In loro? Nessuna traccia d’idea nuova - né cambio di passo che segnasse tramonto della società plateale, disumanizzante, e anche sacrale - dell’esterno.
Ai leaders popolari talora sfugge il significato dell’unico Segno vivo: Gesù Alimento della vita.
Per causa loro, non dei lontani, il Signore «geme nello spirito» [cf. Mc 8,12 testo greco] - ancora oggi, rattristato da tanta cecità.
La vita è infatti preclusa a chi non sa spostare lo sguardo.
Subito dopo Lc (12,1) si riferisce infatti al pericolo dell’ideologia dominante che faceva perdere alle stesse guide la percezione obiettiva degli accadimenti.
Un «lievito» grossolano ma radicato nell’esperienza penosa della gente; che stimolava gonfiori persino nei discepoli, contaminandoli.
Ai primi della classe poteva sembrare che Gesù fosse un leader come Mosè, per il fatto che aveva appena alimentato il popolo affamato nel deserto [cf. Mt 15,32-39; Mc 8,1-9].
Ma il rifiuto è netto: in specie Mc (8,12) lo rende acuto sottolineando il senso di sofferenza del Maestro.
Quindi come anche Mt e Lc nell’episodio appunto di Giona - il suo radicale, perentorio diniego.
Per salvare il popolo bisognoso di tutto non c’è altra via che partire da dentro.
Poi procedere verso una pienezza di essere che dilaga, ci approva, e sfociando consente di spezzare la vita in favore dei fratelli.
Non c’è scappatoia.
Unicamente la comunione con la sorgente celata del proprio Sé eminente e il dialogo rispettoso e fattivo con gli altri, salva da una mentalità di gruppo chiuso.
In tal guisa, nessun club è ammesso - che rivendicasse l’esclusiva monopolista su Dio e sulle anime (Lc 9,49-50) con esplicita pretesa a disciplinare le moltitudini.
La comunità del Risorto aborrisce la concezione competitiva della stessa vita religiosa, se riflesso sacrale del mondo imperiale e d’una società che angustia e amareggia l’esistenza dei piccoli.
Sarebbe una vita malata nella ricerca di prestigio purchessia, anche solo apparente.
Viceversa, nelle realtà fraterne «il più piccolo tra tutti, questi è grande» (Lc 9,48).
Quindi bisogna assolutamente evitare che nei fedeli s’insinui una mentalità piramidale e dello scarto.
Spirito di competizione che poi inesorabilmente finisce per cercare rifugio nel miracolismo ipocrita, surrogato della vita di Fede.
Lo stesso fa il Maestro per educare i membri di Chiesa che restano [alcuni tuttora] affetti da senso di superiorità nei confronti delle folle e degli estranei.
Sentimento di popolo eletto e privilegiato (Lc 9,54-55) che si stava infiltrando persino nelle comunità primitive.
A chi non vuole aprire gli occhi se non per farsi catturare i sensi da fenomeni tutti da discernere - perché malgrado il credo ufficiale che professa rimane legato a una ideologia di potere - il Signore non riserva mai conferme impressionanti venute «dal cielo» (Lc 11,16) che ne sarebbero la paradossale convalida.
Unico segnale è e sarà la sua Chiesa vivente: “vittoria” del Risorto, che pulsa in tutti coloro che lo prendono sul serio.
Senza gerarchie fisse - sotto la guida infallibile della Chiamata e della Parola - i figli sanno reinterpretare, anche in modo inedito.
Tale il prodigio, incarnato nelle mille vicende della storia, della vita personale e comunitaria; nei recuperi, risanamenti e rivalutazioni impossibili.
L’autentico Messia non elargisce alcuna esibizione cosmica.
Nessun festival che obblighi gli spettatori a chinare il capo, a cospetto di tanta gloria sconvolgente e degnazione - come se fosse un dittatore celeste.
E nessun fulmine a scorciatoia.
Nel corso dei secoli le Chiese sono cadute spesso in questa tentazione “apologetica”, tutta interna alle devozioni dall’impulso arido: cercare segni meravigliosi e sbandierarli per mettere a tacere gli avversari.
Stratagemmi per un banale tentativo di chiudere la bocca a coloro che chiedono non esperienze di parapsicologia, bensì testimonianze poco avvizzite e senza trucco o escamotage: di concreta disalienazione.
Niente male, questa nostra attività di liberazione in favore degli ultimi, e che tiene duro; non avvinghiata all’idea d’un arruffapopolo dagli aspetti trionfalistici o consolatori.
Preferiamo l’onda del Mistero.
Aneliamo essere guidati da una energia sconosciuta, che ha in serbo un obbiettivo non artificioso - condotti dall’Amico eminente ma intimo e nascosto. Esclusivo in noi.
Saremo una sola umanità nel Maestro, sulla Via giusta e che ci appartiene. Anche percorrendo sentieri interrotti e incompleti, persino di smarrimento.
A commento del Tao Tê Ching (i) il maestro Ho-shang Kung scrive:
«L’eterno Nome vuol essere come l’infante che ancora non ha parlato, come il pulcino che ancora non s’è sgusciato.
La perla luminosa sta dentro l’ostrica, la bella gemma sta in mezzo alla roccia: per quanto all’interno esso risplenda, all’esterno esso è stolto e insipiente».
Tutto ciò è forse valutato “incoscienza” e “inconcludenza”... ma porta ciò che siamo - esprimendo un altro modo di vedere il mondo.
In noi stessi e dentro il Richiamo dei Vangeli abbiamo una potenza fresca, che approva il percorso differente dall’immediatamente normale e dal vistoso lampante.
Un Appello che è incanto, delizia e splendore, perché ci attiva rimettendo in discussione.
Verbo che non ragiona secondo gli schemi.
Istanza accorata, che non si fa impressionare dalle cose eccezionali, dalle recite che soffocano l’anima in ricerca di senso e autenticità.
Genuina Meraviglia, impulso indomabile annidato nella dimensione di pienezza umana, e che non si arrende: vuole esprimersi nella sua trasparenza e farsi realtà.
Una sorta d’Infante intimo: si muove in modo giudicato “astruso”, ma rimette le cose a posto, dentro e fuori.
La testimonianza libera e vivificante, attenta e sempre personalmente geniale, sarà innata e inedita, graffiante, inventiva senz’accorgimenti, imprevedibile e affatto conformista.
Essa farà scaturire e incessantemente rialimenterà una esperienza di Fede convinta, singolare, incisiva - malgrado possa apparire perdente e non di successo, poco onorevole e insensazionale.
Assai più dei miracoli, le suppliche della nostra essenza e della realtà faranno riconoscere il richiamo e l’agire di Dio negli uomini e nella trama della storia.
Inviti che possono germinare altri sbalordimenti e prodigi di bontà divino-umana, che visioni parossistiche condite di nevrosi e sentimentalismi vuoti o magie.
Unico segno di salvezza è Cristo in noi - senza cuciture, né grandi gesti isterici.
Persona immagine e somiglianza dell’umanità nuova; manifestazione del potere di Dio sulla terra.
Per l’autentica conversione: nulla di esteriore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Di che genere è la tua ricerca di prove?
In cosa si discosta il tuo Segno che fa credere dagli espedienti, da atti di forza, o da quello che altri vorrebbero che diffondessi?
2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente.
Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: "Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt12,39s).
La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: "Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione" (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.
Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente.
Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona "Gettatemi in mare" come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.
[Papa Benedetto card. Ratzinger, Lectio in s. Maria in Traspontina, 24 gennaio 2003; in “30Giorni” febbraio 2003]
4. In effetti Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo. Come sottolinea l'apostolo Paolo, "mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1 Cor 1,22-23).
Come primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), Cristo per primo ha vinto in se stesso la "tentazione" diabolica di servirsi di mezzi mondani per realizzare la venuta del Regno di Dio. Ciò è avvenuto dal momento delle prove messianiche nel deserto alla sarcastica sfida rivoltagli mentre era inchiodato alla croce: "Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!" (Mt 27,40). In Gesù crocifisso avviene come una trasformazione e concentrazione dei segni: è Lui stesso il "segno di Dio", soprattutto nel mistero della sua morte e resurrezione. Per discernere i segni della sua presenza nella storia, occorre liberarsi d'ogni mondana pretesa ed accogliere lo Spirito che "scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio" (1 Cor 2,10).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 settembre 1998]
Ecco la sindrome di Giona, che «colpisce quelli che non hanno lo zelo per la conversione della gente, cercano una santità — mi permetto la parola — una santità di tintoria, cioè tutta bella, tutta ben fatta ma senza lo zelo che ci porta a predicare il Signore». Il Papa ha ricordato che il Signore «davanti a questa generazione, malata della sindrome di Giona, promette il segno di Giona». E ha aggiunto: «Nell’altra versione, quella di Matteo, si dice: ma Giona è stato nella balena tre notti e tre giorni... Il riferimento è a Gesù nel sepolcro, alla sua morte e alla sua risurrezione. E questo è il segno che Gesù promette: contro l’ipocrisia, contro questo atteggiamento di religiosità perfetta, contro questo atteggiamento di un gruppo di farisei».
Per rendere più chiaro il concetto il vescovo di Roma si è riferito a un’altra parabola del Vangelo «che rappresenta bene quello che Gesù vuole dire. È la parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio (Luca 14, 10-14). Il fariseo è talmente sicuro davanti all’altare che dice: ti ringrazio Dio che non sono come tutti questi di Ninive e neppure come quello che è là! E quello che era là era il pubblicano, che diceva soltanto: Signore abbi pietà di me che sono peccatore».
Il segno che Gesù promette «è il suo perdono — ha precisato Papa Francesco — tramite la sua morte e la sua risurrezione. Il segno che Gesù promette è la sua misericordia, quella che già chiedeva Dio da tempo: misericordia voglio e non sacrifici». Dunque «il vero segno di Giona è quello che ci dà la fiducia di essere salvati dal sangue di Cristo. Ci sono tanti cristiani che pensano di essere salvati solo per quello che fanno, per le loro opere. Le opere sono necessarie ma sono una conseguenza, una risposta a quell’amore misericordioso che ci salva». Le opere da sole, senza questo amore misericordioso, non sono sufficienti.
Dunque «la sindrome di Giona colpisce quelli che hanno fiducia solo nella loro giustizia personale, nelle loro opere». E quando Gesù dice «questa generazione malvagia», si riferisce «a tutti quelli che hanno in sé la sindrome di Giona». Ma c’è di più: «La sindrome di Giona — ha affermato il Papa — ci porta all’ipocrisia, a quella sufficienza che crediamo di raggiungere perché siamo cristiani puliti, perfetti, perché compiamo queste opere osserviamo i comandamenti, tutto. Una grossa malattia, la sindrome di Giona!». Mentre «il segno di Giona» è «la misericordia di Dio in Gesù Cristo morto e risorto per noi, per la nostra salvezza».
«Ci sono due parole nella prima lettura — ha aggiunto — che si collegano con questo. Paolo dice di se stesso che è apostolo, non perché ha studiato, ma è apostolo per chiamata. E ai cristiani dice: siete voi chiamati da Gesù Cristo. Il segno di Giona ci chiama». La liturgia odierna, ha concluso il Pontefice, ci aiuti a capire e a fare una scelta: «Vogliamo seguire la sindrome di Giona o il segno di Giona?».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 15.10.13]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Ecco il commento per le letture di Mercoledì delle Ceneri
5 Marzo 2025 (anno C)
La liturgia del mercoledì delle Ceneri, che apre la Quaresima, era segnata un tempo dall’inizio della penitenza pubblica che si svolgeva quest’oggi e dall’avvio dell’ultimo tratto della formazione dei catecumeni, che si preparavano a ricevere il battesimo nella Veglia Pasquale. A simboleggiare l’invito alla preghiera e alla conversione del cuore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, c’è il rito della cenere, segno di penitenza e di conversione. Si tratta di un “simbolo austero” con cui iniziamo il cammino spirituale della Quaresima riconoscendo che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale e per questo siamo invitati a rendere la nostra esistenza un sacrificio Dio in unione con la morte di Cristo Gesù. Ciò che illumina il mercoledì delle Ceneri e l’intera Quaresima è l’evento della Risurrezione di Gesù, che celebreremo con rinnovata speranza in quest’anno giubilare. il mercoledì delle ceneri è giorno di penitenza, di digiuno e di elemosina che va intesa come condivisione di ciò che siamo e di ciò che possediamo con i nostri fratellil a gloria di Dio. Questo richiede il coraggio di rinunciare a qualcosa che ci costa per vivere la Quaresima come tempo di vera purificazione interiore
*Prima Lettura dal Libero del profeta Gioele (Gl 2,12-18)
Ritornate al Signore con tutto il cuore! Ecco l’invito che oggi ci lancia il profeta Gioele. Il suo libro è molto breve (contiene in totale settantatré versetti suddivisi in quattro capitoli) ed è collocato intorno all’anno 600 a.C., cioè poco prima dell’esilio a Babilonia. Ci sono tre temi che si intrecciano costantemente: la prospettiva di terribili flagelli, appelli accorati al digiuno e alla conversione, e l’annuncio della salvezza di Dio. Oggi è il secondo tema che la liturgia ci propone all’inizio della Quaresima. Il solenne appello alla conversione spinge a prendere sul serio ciò che segue, cioè l’invito: “Ritornate a me”, e il popolo risponde e supplica: “Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti”. I profeti insegnano sempre a non accontentarsi di manifestazioni esteriori e anche Gioele non manca di sottolinearlo: “Laceratevi il cuore e non le vesti e ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso”. Questo afferma Isaia: “Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto: le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi. Allontanate dai miei occhi le vostre azioni malvagie cessate di fare il male. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia…” (Is 1,14-17). E il Salmo 50/51 commenta “Il sacrificio che piace a Dio è uno spirito contrito; un cuore affranto e umiliato, o Dio, tu non lo disprezzi”. Il profeta Ezechiele ci aiuta a comprendere cosa vuol dire il salmista: bisogna cioè spezzare i nostri cuori di pietra affinché possa emergere il cuore di carne e il profeta Gioele segue questa linea quando invita a lacerare i cuori e non le vesti per sfuggire a un castigo meritato. Scrive infatti: “chi sa che Dio non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?” E conclude annunciando che il perdono è già stato concesso. La traduzione liturgica dice: “Il Signore si mostra geloso per la sua terra” avendo avuto pietà del suo popol, ma la misericordia di Dio è destinata a tutti gli uomini, ed è proprio questo il messaggio che troviamo nel libro di Giona molto affine a quello di Gioele. Giona infatti narra la conversione di Ninive, la città pagana che aveva percorso un giorno di cammino proclamando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, e gli abitanti credettero subito in Dio. Proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, grandi e piccoli. Persino il re di Ninive depose il manto regale, si coprì di sacco e si sedette sulla cenere e quindi proclamò lo stato d’allerta e fece annunciare che tutti in Ninive si dovevano coprire di sacco e invocare Dio con forza. Dio vide la loro conversione e revocò il castigo che aveva minacciato di infliggere (Gn 3,4-10). Il segreto è che Dio trabocca di zelo e di amore, come ricorda Gioele, per tutti gli uomini, e san Paolo dirà: “Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).
*Salmo responsoriale (50 (51). Perdonaci, Signore: abbiamo peccato
Uniamoci anche noi al popolo d’Israele riunito nel Tempio di Gerusalemme per una grande celebrazione penitenziale. Sa di essere pieno di peccati, ma conosce per esperienza che la misericordia di Dio è inesauribile e allora chiede perdono con la certezza di essere esaudito. Fu proprio questa la scoperta del re Davide dopo aver peccato con Betsabea, sposa di un ufficiale, Uria, che in quel momento era in guerra. Betsabea fece sapere a Davide di essere incinta di lui e Davide organizzò la morte in battaglia del marito tradito, così da poter prendere definitivamente per sé la donna e il bambino che portava in grembo. Il profeta Natan non cercò subito di far ammettere a Davide il suo peccato, ma gli ricordò anzitutto i molti doni di Dio e gli annunciò il perdono prima ancora che Davide avesse il tempo di confessare la sua colpa (cf 2 Samuele 12). Oltre tutti i doni e privilegi che Dio gli aveva concesso, aggiunse pure che il Signore era pronto ad accordargli tutto ciò che desiderava. Nel corso della storia, Israele ha avuto occasione di registrare che Dio è davvero “il Signore misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e di lealtà”, come aveva rivelato a Mosè nel deserto (Es 34,6). Anche i profeti hanno ribadito questo messaggio, e i versetti del Salmo 50/51 ne sono pieni. Isaia, ad esempio, dice: “Io, io solo cancello le tue colpe per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25). L’annuncio del perdono gratuito di Dio ci sorprende sempre: ci sembra quasi troppo bello per essere vero. Per alcuni, addirittura, può sembrare ingiusto: se tutto è perdonabile, perché sforzarsi di vivere bene? Ma questo significa dimenticare che tutti, senza eccezione, abbiamo bisogno della misericordia di Dio e lui ci sorprende, poiché, come dice Isaia, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri. E proprio nel perdono Dio ci sorprende di più. Pensiamo alla parabola evangelica degli operai dell’ultima ora: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? O sei invidioso perché io sono buono?» (cf Mt 20,15), a quella del figliol prodigo (Lc 15): quando il figlio ingrato ritorna dal padre, animato da motivazioni tutt’altro che nobili, Gesù mette sulle sue labbra una frase del Salmo 50: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. E con questa sola frase, il legame spezzato viene riallacciato. Davanti all’annuncio sempre nuovo della misericordia di Dio, il popolo d’Israele, che nei Salmi parla a nome di tutti noi, si riconosce peccatore. Il suo pentimento non è dettagliato, non lo è mai nei Salmi penitenziali, ma esprime tutto in una semplice supplica: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”. E Dio, che è tutta misericordia, attratto dalla miseria dell’uomo, non aspetta altro che questa umile confessione della nostra povertà. Ed è utile ricordare che “pietà” ha la stessa radice di “elemosina” e questo ci ricorda che siamo mendicanti di amore e di perdono davanti a Dio. Cosa fare allora: ringraziare e perdonare. Ringraziare per il perdono che Dio ci offre continuamente. In ogni celebrazione penitenziale, la preghiera più importante è il riconoscimento dei doni e del perdono di Dio. Prima di tutto, dobbiamo contemplare Dio stesso, e solo dopo possiamo riconoscerci peccatori. Il rito della Riconciliazione afferma chiaramente che confessiamo l’amore di Dio insieme al nostro peccato e la lode scaturirà spontanea dalle nostre labbra: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode” (questa è la frase che apre la Liturgia delle Ore, ogni mattina ed è tratta proprio dal Salmo 50/51) in cui viene ricordato che la lode e la gratitudine nascono in noi solo se Dio apre il nostro cuore e le nostre labbra. E il secondo passo che Dio si aspetta da noi e costituisce il programma ascetico di tutta la vita è l’impegno a perdonare a nostra volta, senza indugi né condizioni.
*Seconda Lettura dalla Seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5,20-6,2)
“Lasciatevi riconciliare con Dio”! Paolo parla di riconciliazione ben consapevole della rottura dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’Antico Testamento il popolo sapeva che Dio non è in contrasto con gli uomini, come il Salmo 102/103 esprime chiaramente:”Il Signore non è sempre in lite, non conserva per sempre il suo sdegno; non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe… Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe… Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che siamo polvere”. Ugualmente leggiamo in Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore, che avrà misericordia di lui, al nostro Dio, che largamente perdona” (Is 55,7), nel Libro della Sapienza: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, e chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento… La tua sovranità su tutti ti rende indulgente verso tutti” (Sap 11,23; 12,16). Davide fece questa esperienza quando uccise Uria, marito di Betsabea e Dio gli inviò il profeta Natan che in sostanza questo gli comunicò: Tutto ciò che hai, te l’ho dato io; e se non fosse ancora abbastanza, sarei pronto a darti ancora tutto ciò che desideri. Dio non ignorava neppure che Salomone aveva ottenuto il trono eliminando i suoi rivali, eppure ascoltò la sua preghiera a Gabaon ed esaudì le sue richieste ben oltre ciò che il giovane re aveva osato domandare (1 Re 3). Ma c’è di più: il Nome stesso di Dio, “Misericordioso”, significa che ci ama tanto più quanto più siamo miseri. Dunque, Dio non è in lite con l’uomo. Eppure Paolo parla di riconciliazione, perché fin dall’inizio del mondo (Paolo dice «da Adamo», ma è la stessa cosa), è l’uomo che è in conflitto con Dio. Il racconto della Genesi (Gn 2-3) attribuisce al serpente l’origine di questa accusa contro Dio perché è geloso dell’uomo e non vuole il suo bene.: “Dio sa che quando ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,4) La Bibbia lascia intendere che questo sospetto non è naturale nell’uomo—è la voce del serpente, e dunque può essere curato. È proprio questo afferma san Paolo: “Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. E che cosa ha fatto Dio per rimuovere dal nostro cuore questa diffidenza? Continua l’apostolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2 Cor 5,21). Gesù non ha conosciuto il peccato anzi, come leggiamo nella lettera ai Filippesi, Gesù si fece obbediente (Fil 2,8), e rimase sempre fiducioso, anche nella sofferenza e nella morte. Per questo insegna agli uomini questa fiducia e rivela che Di è tutto amore e perdono: è Misericordia. Per un paradosso incredibile Gesù per questa rivelazione fu considerato un bestemmiatore, trattato da peccatore e giustiziato come un maledetto (cf Dt 21,23). L’odio e la cecità degli uomini si abbatterono su di lui e il Padre lasciò fare, perché questo era l’unico modo per farci toccare con mano fin dove “il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo” come afferma il profeta Gioele. Gesù ha affrontato il peccato degli uomini, la violenza, l’odio, il rifiuto di un Dio che è Amore e sulla croce appare fin dove arriva l’orrore del peccato umano e fin dove arrivano la dolcezza e il perdono di Dio. Ed è proprio da questa contemplazione che può nascere la nostra conversione, quella che Paolo chiama “giustificazione”. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, leggiamo nel libro del profeta Zaccaria (Zc 12,10), ripreso da Giovanni (Gv 19,37). In Gesù morente che perdona i suoi carnefici scopriamo il volto stesso di Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9) e, grazie a lui, siamo riconciliati da Dio. Compito dei battezzati è annunciare e testimoniare quest’amore, alla scuola di Paolo che grida: “Noi siamo ambasciatori di Cristo”, missione che coinvolge ognuno di noi. Chiude questo breve testo una citazione del profeta Isaia “Al momento favorevole ti ho esaudito
e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” che parlava agli esuli a Babilonia, annunciando loro che l’ora della salvezza era giunta. Mentre Israele doveva annunciare la liberazione, perché le false immagini di Dio imprigionano il cuore degli uomini, Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa la missione di annunciare al mondo la remissione dei peccati.
*Dal Vangelo secondo Matteo (6, 1-6. 16-18)
Il vangelo oggi riporta due brevi tratti del Discorso della Montagna, che occupa i capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo. Tutto il discorso ruota attorno a un nucleo centrale che è il Padre Nostro (Mt 6,9-13), la preghiera che dà senso a tutto il resto. Questo indica che le esortazioni, qui riportate, non sono semplici consigli morali, bensì conducono al cuore della fede e il messaggio è il seguente: tutte le nostre azioni devono radicarsi nella scoperta che Dio è Padre. Preghiera, elemosina e digiuno non sono quindi solo pratiche religiose, ma strade per avvicinarci al Dio-Padre: Digiunare significa imparare a spostare il centro da noi stessi e con la preghiera centriamo la nostra vita su Dio mentre l’elemosina apre il nostro cuore ai fratelli. Per tre volte Gesù usa espressioni che invitano a non essere come coloro che amano mettersi in mostra. Avevano certamente grande importanza le pratiche religiose nella società ebraica dell’epoca e il rischio era quello di dare troppo valore alle manifestazioni esteriori come taluni facevano. Matteo ricorda i rimproveri di Gesù a coloro che badavano più alla lunghezza delle loro frange che alla misericordia e alla fedeltà (Mt 23,5ss). Qui, Gesù invita i suoi discepoli a un’autentica purificazione interiore perché per essere veramente giusti bisogna evitate di agire davanti agli uomini per essere ammirati da loro. La giustizia era un tema fondamentale per i credenti e nelle Beatitudinine Gesù ne parla due volte: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.” (Mt 5,6) “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli.” (Mt 5,10) Ma nel linguaggio biblico, la vera giustizia non consiste nell’accumulare pratiche religiose, per quanto possano essere nobili. Vera giustizia è essere in armonia con il progetto di Dio come già leggiamo nella Genesi: “Abramo credette al Signore, e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15,6). Non quindi una giustizia che è moralismo, bensì una sintonia e un accordo profondo con Dio. Preghiera, digiuno, elemosina diventano tre vie per vivere la giustizia: Nella preghiera, lasciamo che Dio ci plasmi secondo il suo progetto:“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà.”E proprio per questo, Gesù raccomanda: “Quando pregate, non sprecate parole come fanno i pagani; il Padre vostro sa di cosa avete bisogno prima ancora che glielo chiediate.” (Mt 6,7-8) Il digiuno è sulla stessa linea: ci libera dall’illusione di ciò che crediamo essenziale per essere felici, ma che spesso finisce per imprigionarci. Gesù stesso, digiunando nel deserto, risponde a satana:“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.” (Mt 4,4) L’elemosina è il frutto del nostro cammino di giustizia, perché ci rende misericordiosi.Non a caso, il termine greco per elemosina deriva dalla stessa radice di eleison («abbi pietà») e fare elemosina significa aprire il cuore alla compassione. Poiché Dio ama tutti i suoi figli non ci può essere vera giustizia senza giustizia sociale. E questo lo vediamo chiaramente nel giudizio finale: “Venite, benedetti del Padre mio… Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…”E alla fine:“I giusti andranno alla vita eterna.” (Mt 25,31-46). In definitiva coloro che ostentano sono in contrasto con la vera giustizia perché mostrano una forma sottile di egoismo spirituale, un modo per rimanere centrati su sé stessi. E il vero dramma è che questo atteggiamento ci chiude il cuore all’azione santificatrice dello Spirito.
+Giovanni D’Ercole
The Church keeps watch. And the world keeps watch. The hour of Christ's victory over death is the greatest hour in history (John Paul II)
Veglia la Chiesa. E veglia il mondo. L’ora della vittoria di Cristo sulla morte è l’ora più grande della storia (Giovanni Paolo II)
Before the Cross of Jesus, we apprehend in a way that we can almost touch with our hands how much we are eternally loved; before the Cross we feel that we are “children” and not “things” or “objects” [Pope Francis, via Crucis at the Colosseum 2014]
Di fronte alla Croce di Gesù, vediamo quasi fino a toccare con le mani quanto siamo amati eternamente; di fronte alla Croce ci sentiamo “figli” e non “cose” o “oggetti” [Papa Francesco, via Crucis al Colosseo 2014]
The devotional and external purifications purify man ritually but leave him as he is replaced by a new bathing (Pope Benedict)
Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo (Papa Benedetto)
If, on the one hand, the liturgy of these days makes us offer a hymn of thanksgiving to the Lord, conqueror of death, at the same time it asks us to eliminate from our lives all that prevents us from conforming ourselves to him (John Paul II)
La liturgia di questi giorni, se da un lato ci fa elevare al Signore, vincitore della morte, un inno di ringraziamento, ci chiede, al tempo stesso, di eliminare dalla nostra vita tutto ciò che ci impedisce di conformarci a lui (Giovanni Paolo II)
The school of faith is not a triumphal march but a journey marked daily by suffering and love, trials and faithfulness. Peter, who promised absolute fidelity, knew the bitterness and humiliation of denial: the arrogant man learns the costly lesson of humility (Pope Benedict)
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà (Papa Benedetto)
We are here touching the heart of the problem. In Holy Scripture and according to the evangelical categories, "alms" means in the first place an interior gift. It means the attitude of opening "to the other" (John Paul II)
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro” (Giovanni Paolo II)
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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