don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Quando, di qualcuno, si dice che è una persona dalla doppia vita, non è per farle un complimento. Anzi. Sono quelle persone che irritano, fanno indignare, o che spesso anche causano disgusto con comportamenti che contraddicono le cose che, invece, sostengono a parole. Che si tratti di un politico o di un vicino di casa fa poca differenza: scoprire, per così dire, una “doppia vita”, è un qualcosa che fa sempre male. E non parliamo della disillusione che può generare, soprattutto nei giovani.

Ma se il predicare bene e il razzolare male è sempre una cosa irritante, quando a farlo è un prete la cosa è ancora più intollerabile. Perché c'è in ballo qualche cosa di più. Papa Francesco l'ha detto molto chiaramente, e come sempre con uno stile molto diretto ed efficace, qualche giorno fa. Quando, nella omelia della Messa mattutina a Santa Marta, ha sottolineato come «è brutto vedere pastori di doppia vita», anzi è una vera e propria «ferita nella Chiesa». Per il Papa sono «pastori ammalati, che hanno perso l'autorità e vanno avanti in questa doppia vita»; e, ha aggiunto, «ci sono tanti modi di portare avanti la doppia vita: ma è doppia ... E Gesù è molto forte con loro. Non solo dice alla gente di non ascoltarli ma di non fare quello che fanno, ma a loro cosa dice? “Voi siete sepolcri imbiancati”: bellissimi nella dottrina, da fuori. Ma dentro, putredine. Questa è la fine del pastore che non ha vicinanza con Dio nella preghiera e con la gente nella compassione».

Perché è questo appunto che fa la differenza. Francesco lo ribadisce con fermezza: «Quello che a un pastore dà autorità o risveglia l'autorità che è data dal Padre, è la vicinanza: vicinanza a Dio nella preghiera e la vicinanza alla gente. Il pastore staccato dalla gente non arriva alla gente con il messaggio. Vicinanza, questa doppia vicinanza. Questa è l'unzione del pastore che si commuove davanti al dono di Dio nella preghiera, e si può commuovere davanti ai peccati, al problema, alle malattie della gente: lascia commuovere il pastore. Gli scribi... avevano perso la “capacità” di commuoversi proprio perché “non erano vicini né alla gente né a Dio”". E senza questa vicinanza, o quando per qualsivoglia motivo la si perde, «il pastore finisce nell'incoerenza di vita».

Sembra di rileggere le parole che Giovanni Paolo II, nella lettera del giovedì santo indirizzata ai sacerdoti di tutto il mondo nel 1986, dedicò al Santo curato d'Ars tornando a indicarlo, nel secondo centenario della nascita, come esempio per tutti i preti. «Non si tratta certo di dimenticare – ha scritto a sua volta Benedetto XVI, sempre a proposito di San Giovanni Maria Vianney, nella lettera di indizione dell'Anno sacerdotale del 2009 – che l'efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall'incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d'Ars iniziò subito quest'umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell'aurora e non ne usciva che dopo l'Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia». Coerenza, dunque. Non doppiezza. Perché di tutto il popolo di Dio ha bisogno, tranne che di sepolcri imbiancati.

[Papa Francesco, s. Marta; Salvatore Mazza in Avvenire 13 gennaio 2018]

XX Domenica del tempo ordinario  B  (18 agosto 2024)

1. Come domenica scorsa, anche quest’oggi san Paolo, nella seconda lettura, rivolge agli Efesini alcune raccomandazioni, che possiamo riassumere in quattro punti: “non vivete come dei pazzi, ma siate saggi”; “fate buon uso del tempo perché i giorni nostri sono cattivi”; “non ubriacatevi di vino che fa perdere il controllo di sé, ma siate ricolmi dello Spirito”; “rendete continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel nome di nostro Signore Gesù Cristo”. Vivere come pazzi o come saggi è la sfida per ogni essere umano. Lo sforzo di chi vuole seguire Gesù è nutrirsi della sua sapienza che si presenta come un cammino, un modo di concepire la vita e di comportarsi non alla maniera di questo mondo bensì secondo la vocazione dei figli della luce, immersi nell’amore divino. Stiamo attraversando, osserva san Paolo, tempi non facili fra gente che facilmente diventa egoista, nemica del bene e amante dei piaceri piuttosto che dedicarsi alla ricerca della gioia di Dio (Cf. 2 Tm 3, 1-7). La vera sapienza consiste nell’accogliere ogni giorno la volontà di Dio, riempirsi non di vino che ubriaca, cioè di ciò che stordisce la coscienza e indebolisce la volontà, ma di Spirito Santo che rende capaci di vivere nella lode, nell’adorazione e nel ringraziamento. Grazie all’azione dello Spirito Santo tutta l’umana esistenza si converte in una vera liturgia perché è lui a introdurci nella sapienza di Cristo, Colui che dona la vita perché il mondo abbia la vita.

2. Il riferimento di san Paolo alla sapienza divina, e di questa sapienza parla anche la prima lettura tratta dal libro dei Proverbi, ci prepara alla meditazione dell’odierna pagina del vangelo di Giovanni che prosegue il racconto della catechesi sull’Eucarestia che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Quest’oggi riprende con quest’affermazione: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (v.51). Gesù non sta parlando di un cannibale, di antropofagia; e non si meravigliano i suoi ascoltatori perché minimamente sospettano che si tratti di un linguaggio assurdo. Nel mondo ebraico si era abituati ad utilizzare la metafora del mangiare e del bere e si sapeva che esistono fame e sete più urgenti ed esigenti di quelle dello stomaco. Ci sono uomini che possono riempirsi lo stomaco a volontà, ma soffrono di mancanza di amore, allo stesso modo il cuore umano lontano da Dio finisce per morire di inedia spirituale. La sapienza per il popolo d’Israele è sempre una scelta: tra la vita o la morte, tra il bene o il male, tra la gioia o la tristezza mortale, tra Dio o l’uomo.  Dio solo però, conoscendola può donare all’uomo la vera sapienza che non delude.  Nel libro della Genesi il racconto dell’albero della conoscenza del bene e del male e del peccato di Adamo ed Eva costituisce una metafora per dire che la conoscenza di ciò che rende l’uomo veramente libero e felice o schiavo e infelice è accessibile solo a Dio e l’uomo con la sola sua intelligenza/volontà non può mai costruirsela (Gn 2, 8 - 3, 24). All’uomo allora non resta che mettersi in ascolto obbediente di Dio, il quale ha voluto dare in dono la sapienza al suo popolo e Israele è fiero di essere il depositario della sapienza divina dinanzi al mondo intero. Sempre nella prima lettura dal libro dei Proverbi, si dice che la divina sapienza ha posto la sua tenda sulla montagna santa a Gerusalemme e “si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne”. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola e ha mandato le sue ancelle a proclamare a chi è inesperto e a chi è privo di senno: “venite a mangiare pane e bere vino che vi ho preparato”. Non si fa fatica a capire il nesso tra il dono della Sapienza e il dono dell’Eucarestia, tutto e sempre nella logica del dono.

3. Gli ascoltatori a Cafarnao conoscevano questi testi dell’Antico Testamento e per questo rimangono basiti quando Gesù parla di sé come del pane della vita e si chiedono: ma per chi si prende quest’uomo che conosciamo bene? Capivano che Gesù si stava presentando come il Messia che loro aspettavano e questo era per loro inaccettabile. Nel suo discorso Gesù più volte ha insistito sul fatto di essere l’Inviato di Dio per dare la vita al mondo affrontando l’incomprensione, il mormorio critico e spesso il deciso rifiuto degli ascoltatori. Rifiuto della sua identità che san Giovanni afferma già nel prologo del suo vangelo, quando scrive che il Verbo “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1, 11).  In effetti pochi riescono a entrare gradualmente nel mistero di Dio e sono coloro che umilmente ascoltano Gesù fino in fondo invece di cominciare subito a discutere. Questo vale anche per noi: solo avvolti dalla sapienza divina che è follia per gli uomini possiamo accostarci al mistero. Gesù di Nazaret, ebreo tra gli ebrei, parlava con il linguaggio del tempo, utilizzava le stesse immagini e i medesimi simboli. Chi lo ascoltava poteva capirlo almeno per il fatto che stava usando lo stesso vocabolario e condivideva la stessa maniera di ragionare. Invece la maggioranza decide di non seguirlo e questo avviene in tanti momenti della sua vita.  Non essendoci nel quarto vangelo, come invece nei sinottici, il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia il Giovedì Santo dopo l’ultima cena, questo discorso costituisce una prima grande catechesi sul mistero eucaristico. Quando Giovanni scrive il vangelo, le prime comunità cristiane erano già abituate da diversi anni a nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo ogni domenica e cercavano di capire questo mistero. Ma più che cercare di capire – dice Gesù - occorre con umiltà lasciarsi contagiare dal mistero.  Nel cuore della preghiera eucaristica anche il celebrante lo proclama: questo è “Mistero della fede”. Entrare nel mistero dell’Eucarestia va oltre la nostra capacità ed allora è necessario lasciarsi illuminare e condurre da Dio. E Gesù spiega ancora: “Come il Padre che la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Vivere la stessa sua vita: è questo il dono di Dio agli uomini nell’Eucaristia. Gesù aveva proclamato che la sua parola è nutrimento per il mondo, ma qui va ben oltre, parla di carne da mangiare che diventa cibo da assimilare non solo per noi stessi ma per il bene dell’umanità: ”Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo”. Si riferisce alla sua passione e alla sua morte e risurrezione dato che tutto il Nuovo Testamento ci fa comprendere che il mondo ha ritrovato la vita grazie proprio al dono della croce gloriosa di Cristo, cioè vittoriosa della morte. Non meravigliamoci se facciamo fatica a capire con la nostra intelligenza perché l’unica strada percorribile non è cercare di capire, ma lasciarci attrarre da Dio. A coloro che mormoravano tra loro quando Gesù aveva detto di essere il pane disceso dal cielo, Gesù aveva replicato: “Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio”. Dunque per l’uomo tutto è difficile se Dio stesso non viene ad istruirci. Quando ascoltiamo gli insegnamenti del Padre incontriamo Gesù perché “nessuno viene a me – insiste - se il Padre mio non l’attira”. Nell’Eucarestia siamo attratti: è la Trinità Santissima che ci attrae divinamente a sé. Sì, nella celebrazione eucaristica, entriamo nel mistero della Santissima Trinità. Prima, durante e dopo restiamo in adorazione lasciandoci istruire e trasformare da Dio Trinità Santissima e Misericordia infinita. Questo è l’esempio dei santi, che traggono dall’immersione nel mistero della Santissima Trinità la forza per amare tutti nella verità. E questo è un dono offerto a tutti. Durante la sua breve vita, Carlo Acutis, un adolescente già beato e presto proclamato santo viveva dell’Eucarestia. Diceva: "L'Eucaristia è la mia autostrada per il Paradiso", e "se stiamo davanti al sole, diventiamo marroni, ma quando stiamo davanti a Gesù nell'Eucaristia, diventiamo santi".

+Giovanni D'Ercole

(Mt 23,23-26)

 

Quando i capi di una religiosità equivoca vogliono accreditarsi, insistono sulle idee astratte o sui dettagli, e fanno finta di non vedere l’abnorme.

Anticamente, la doppiezza fra ciò che mostravano e ciò che coltivavano era proverbiale.

Per coprire il loro ignobile spirito di rapina (v.25), eccoli far spuntare ogni sorta di sottigliezze legalistiche, e mettere in ombra le esigenze sostanziali.

Anche in Israele, mai erano sulla linea dei Profeti: calcolavano di far soffrire Gesù che li smascherava, per scoraggiarlo con oltraggi beffardi e accuse - allo scopo di minarne l’audacia.

Eppure il nuovo Rabbi continuava nella sferzante condanna del formalismo religioso, che creava barriere ad ogni ricerca profonda delle motivazioni dell’agire. 

Tuttavia la sua vicenda ci fa comprendere che anche le condizioni aspre  e gli atteggiamenti ambigui degli stessi leaders possono essere un’occasione e uno spunto.

Forse un dono, per agire. L’uomo interiore vivifica anche rompendo una maschera, un ruolo, una mansione formale, un personaggio; un’icona consolidata del voler apparire e non essere.

Si tratta comunque anche per noi oggi, di correre il massimo rischio con Cristo, in favore d’una lunga avventura interiore.

Qui si toccano quegli spazi ove l’Appello per Nome non assomiglia a nessun altro.

Lì dove incontriamo noi stessi, la nostra identità vocazionale profonda, i  talenti inespressi, e la firma d’Autore divina, nell’Unicità.

Se non lo tacitiamo, ecco allora affiorare in noi il Seme vocazionale che non mente, e guida; il Risorto presente, che si svela comprensivo, delicato, attento, assolutamente personale, ma nitido.

 

La cura di dettagli e minuzie è buona e propulsiva (v.23) solo se si unisce a quest’intima scoperta della propria singolare Missione.

Qui il richiamo ai valori sostanziali non comporta noncuranza o disprezzo per ciò che sembra secondario: tale appello può celare un carattere irripetibile.

Privo di sollecitazioni estreme, il movente delle nostre azioni resterebbe forse il tornaconto e la preoccupazione della propria fama, e così via.

Ciò che pervaderebbe l’anima dal non fare o dal non dirsi nulla, rendendo arido e screditato il vissuto di Fede.

In tal guisa, anche una contraddizione interna o esterna può contribuire a partorire il nostro lato più profondo.

Perfino la rabbia per un disordine può attivare lo sviluppo, affinché corrispondiamo al nostro Nome.

Così… farci affondare le radici, e rinsaldare il tronco; stimolare intima giovinezza. Avendo di mira il Seme nascosto, prima d’innalzare rami.

 

Il Maestro propone una risalita all’essenzialità - anche affinché possiamo seguire la «via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi» [Gaudete et Exsultate n.11].

Tutto in una grande voglia di nascere ancora, nel piccolo e nel grande, per partorire il nostro lato più profondo.

 

 

[Martedì 21.a sett. T.O.  27 agosto 2024]

Nella Liturgia della Parola […] emerge il tema della Legge di Dio, del suo comandamento: un elemento essenziale della religione ebraica e anche di quella cristiana, dove trova il suo pieno compimento nell’amore (cfr Rm 13,10). La Legge di Dio è la sua Parola che guida l’uomo nel cammino della vita, lo fa uscire dalla schiavitù dell’egoismo e lo introduce nella «terra» della vera libertà e della vita. Per questo nella Bibbia la Legge non è vista come un peso, una limitazione opprimente, ma come il dono più prezioso del Signore, la testimonianza del suo amore paterno, della sua volontà di stare vicino al suo popolo, di essere il suo Alleato e scrivere con esso una storia di amore. Così prega il pio israelita: «Nei tuoi decreti è la mia delizia, / non dimenticherò la tua parola. (…) Guidami sul sentiero dei tuoi comandi, / perché in essi è la mia felicità» (Sal 119,16.35). Nell’Antico Testamento, colui che a nome di Dio trasmette la Legge al popolo è Mosè. Egli, dopo il lungo cammino nel deserto, sulla soglia della terra promessa, così proclama: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi» (Dt 4,1).

Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo. E così la religione smarrisce il suo senso autentico che è vivere in ascolto di Dio per fare la sua volontà - che è la verità del nostro essere - e così vivere bene, nella vera libertà, e si riduce a pratica di usanze secondarie, che soddisfano piuttosto il bisogno umano di sentirsi a posto con Dio. Ed è questo un grave rischio di ogni religione, che Gesù ha riscontrato nel suo tempo, ma che si può verificare, purtroppo, anche nella cristianità. Perciò le parole di Gesù nel Vangelo di oggi contro gli scribi e i farisei devono far pensare anche noi. Gesù fa proprie le parole del profeta Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,6-7; cfr Is 29,13). E poi conclude: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,8).

Anche l’apostolo Giacomo, nella sua Lettera, mette in guardia dal pericolo di una falsa religiosità. Egli scrive ai cristiani: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Vergine Maria, alla quale ora ci rivolgiamo in preghiera, ci aiuti ad ascoltare con cuore aperto e sincero la Parola di Dio, perché orienti i nostri pensieri, le nostre scelte e le nostre azioni, ogni giorno. 

[Papa Benedetto, Angelus 2 settembre 2012]

Ago 17, 2024

Convertitevi

Pubblicato in Angolo dell'ottimista

1. “Signore, mostraci il Padre” (Gv 14, 8). Nell’ora culminante e conclusiva dell’attività messianica di Gesù di Nazaret, alla vigilia della sua passione e morte in croce, gli Apostoli riuniti nel cenacolo, e in particolare Filippo, domandano al Maestro: “Signore, mostraci il Padre”. Gesù risponde loro: “Chi ha visto me ha visto il Padre... Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14, 9. 11). L’ultimo colloquio dei discepoli con il loro Maestro è denso di profondi contenuti; in esso convergono, e in qualche modo vengono racchiusi, gli elementi più profondi della buona Novella. Durante la sua missione terrena Gesù aveva continuamente parlato del Padre, era vissuto sempre unito a Lui, in tutto si era riferito a Lui. Egli, che è totalmente da Lui e per Lui, aveva comandato ai discepoli di pregarlo chiamandolo: “Padre nostro”. Al momento dell’ultima Cena, rispondendo alla domanda di Filippo, dice: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere... credetelo per le opere stesse” (Gv 14, 10-11).

2. Chi è Dio? La risposta a questo interrogativo è senz’altro prioritaria e fondamentale per la vita dell’uomo. Le risposte alle domande: “Esiste Dio?” e “Chi è Dio?” si possono trovare in sovrabbondanza nella Buona Novella enunciata da Cristo. “Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Egli ci ha rivelato Dio nella sua gloria infinita. Pur rimanendo per noi esseri umani sempre un mistero, questo Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo – ci permette di chiamarlo per nome. Già nell’Antica Alleanza fu rivelato il suo Nome agli uomini: Jahvè, “Colui che è”. Nella rivelazione evangelica questo Nome di Dio, senza perdere l’identità primordiale, è stato in certo senso ulteriormente aperto all’intelligenza dell’uomo: “Colui che è”, è Padre, Figlio e Spirito Santo. Ai credenti è stato dato così di conoscere mediante la fede l’unità imperscrutabile della Trinità.

3. Al tempo stesso, questo Dio infinito e misterioso nel suo Unigenito Figlio si è avvicinato all’uomo in modo ineffabile: in Lui, Verbo fatto carne, Dio è diventato uomo. Per questo ora l’uomo può vedere Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Ma Dio ha fatto ancora di più: Cristo, il Figlio di Dio, è venuto in mezzo agli uomini come Via al Padre. Egli stesso, che proviene dal Padre e ritorna al Padre mediante la sua croce e la sua risurrezione, diventa per tutti noi la Via. Attraverso di Lui, anche noi “andiamo” al Padre: per Cristo nello Spirito Santo. Mediante Lui possiamo partecipare alla pienezza della Verità e della Vita propria di Dio: Jahvè, cioè “Colui che è” è appunto questa assoluta Pienezza divina, che in Cristo ci viene partecipata. “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14, 6), dice Gesù. In Lui la vita umana ritrova il suo fine ultimo in Dio, che si manifesta quale “dimora” eterna per l’uomo, la cui esistenza sulla terra è come un pellegrinaggio in cerca dell’Assoluto. “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti” (Gv 14, 2): dunque sono molti coloro che vi abiteranno. Agli interrogativi e alle difficoltà dell’umana intelligenza, che davanti a questa affermazione si domanda come ciò sarà possibile, Gesù risponde: “Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto...” (Gv 14, 2). Siamo così condotti al vertice della nostra fede e della nostra speranza: l’attività messianica di Cristo, che annuncia il Vangelo del Regno e realizza il mistero pasquale, costituisce un’unica preparazione alla definitiva comunione con Dio. Mediante tale missione salvifica, il Figlio ci prepara un posto nella casa del Padre. Siamo dunque tutti dei “chiamati”, siamo cioè invitati ad abitare nelle dimore eterne, a partecipare e godere di quella pienezza della Verità e della Vita che è Dio stesso.

4. L’invito ad abitare nelle dimore eterne è rivolto a tutti noi, carissimi Fratelli e Sorelle, raccolti in questa incantevole Valle, testimone dell’antica e gloriosa Chiesa di san Libertino. Ci troviamo dinanzi al più grande complesso di templi antichi ancor oggi esistente. Esso ci parla del profondo bisogno di Dio presente nel cuore dell’umanità in ogni epoca e in ogni cultura. E sono lieto di poter leggere ed interpretare con voi questo Vangelo giovanneo dell’odierna domenica. Sono lieto che queste colonne antiche dei templi greci possano ascoltare la viva voce del Vangelo, della Rivelazione cristiana, dopo tanti millenni. Stiamo vivendo, questa sera, al chiudersi della mia visita alla vostra Diocesi, una speciale esperienza di fede e di comunione. Provenienti dalle varie regioni dell’Isola, carissimi fedeli, vi siete raccolti insieme col Successore di Pietro, per rinnovare la vostra adesione a Cristo, “pietra angolare” che struttura l’intero edificio di Dio. Voi siete i testimoni di Gesù, Via, Verità e Vita dell’uomo in questa terra siciliana. La vostra esistenza è chiamata a divenire sempre più segno evangelico della riconciliazione e della risurrezione.

5. Quando l’uomo si apre alla fede, sperimenta che l’egoismo è sostituito dall’altruismo, l’odio dall’amore, la vendetta dal perdono, la cupidigia dal servizio amorevole, l’egoismo e l’individualismo dalla solidarietà, la divisione dalla concordia – così come è chiamato questo antico tempio vicino ad Agrigento –, la violenza dalla misericordia. Ciò avviene quando l’uomo si apre alla fede. Quando, invece, si rifiuta il Vangelo e il suo messaggio di salvezza, s’avvia un processo di logoramento dei valori morali, che facilmente ha contraccolpi negativi sulla stessa vita sociale. Non è forse da ravvisare in questo la ragione ultima del fallimento di una cultura impostata sul tornaconto personale, che non considera i reali bisogni delle persone, specialmente delle più povere, condannate a rimanere vittime delle ingiustizie di una società sempre più competitiva e sempre meno solidale? La vera forza in grado di vincere queste tendenze distruttive sgorga dalla fede. Questa, però, esige non solo un’intima adesione personale, ma anche una coraggiosa testimonianza esteriore, che si esprime in una convinta condanna del male. Essa esige qui, nella vostra terra, una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile.

6. Le gravi situazioni di povertà, che tanta sofferenza hanno provocato nella vostra gente, costringendo un gran numero di uomini e donne a separarsi dagli affetti più cari per emigrare in paesi lontani, hanno favorito l’insorgere e l’espandersi di vere e proprie malattie del tessuto sociale, come il latifondismo e i fenomeni mafiosi. Al tempo stesso, però, molte persone, proprio in simili condizioni di difficoltà, hanno imparato a soffrire con dignità, a lavorare con tenacia, a non perdere mai la speranza in Dio e nell’uomo. Come in anni trascorsi il popolo siciliano ha saputo superare prove lunghe e dolorose, così anche oggi esso dispone delle risorse necessarie, insieme con il sostegno solidale della Nazione italiana, per rimarginare le attuali ferite, molte delle quali sono il frutto di ataviche condizioni sociali. La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera Isola.

7. Vi sostenga, carissimi, in questo sforzo fraterno e concorde, la grazia divina. “Volgiti a noi, Signore; in te speriamo” (Salmo responsoriale): la liturgia ci ha fatto ripetere poc’anzi questa fiduciosa invocazione. Noi speriamo nel Signore: questa è la salda certezza che sorregge i passi di coloro che operano per la giustizia e la pace. Sia questo anche il conforto di tutti voi, pietre vive dell’antico edificio della Chiesa di Dio pellegrinante in Sicilia. Con tali sentimenti sono lieto di abbracciare nel Signore i carissimi Vescovi della Regione, qui presenti insieme col Cardinale Salvatore Pappalardo, Arcivescovo di Palermo. Saluto in particolare Monsignor Carmelo Ferraro, Pastore della Diocesi di Agrigento, che ospita questa solenne celebrazione. Lo ringrazio cordialmente per le cortesi espressioni, che ha voluto rivolgermi a vostro nome. Il mio pensiero si dirige poi al Clero secolare e regolare, ai sacerdoti, alle Religiose e ai Religiosi, ai Membri degli Istituti secolari e delle Società di vita apostolica, come pure ai Laici generosamente impegnati nella vita cristiana nei diversi campi, nelle diverse vocazioni, nei diversi impegni. Rivolgo infine uno speciale, affettuoso pensiero agli ammalati, quelli che sono qui presenti e tanti altri che voglio accomunare nella mia preghiera e nelle mie intenzioni. Rimangono poi i giovani. Hanno vegliato tutta la notte. Dovrebbero essere stanchi ed affaticati, ma non si vede. Si vede la forza. Da dove è venuta questa forza? Penso che sia venuta dallo Spirito che il Signore non nega a quanti lo pregano. E questi giovani hanno pregato tutta la notte. Vi auguro, carissimi, questa forza, la forza del bene, la forza per superare i disagi, le malattie morali della vostra terra. La forza per un futuro migliore della Sicilia. In questo contesto suonano bene le parole di Pietro Apostolo: “Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose” (1 Pt 2, 9) del Signore. Siate tutti apostoli di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce. Questa è la consegna che vi lascio. Specialmente a voi, giovani, e a tutti voi membri di questa splendida comunità cristiana di Agrigento.

8. “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6): come parlò un tempo agli apostoli, così Gesù parla a noi questa sera. Egli aggiunge ancora: “Vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Gv 14, 3-4), poiché: “Io vado al Padre”. Noi tutti, seguendo Cristo, la sua preghiera, il suo Vangelo, ripetiamo stasera “Padre nostro”. È la preghiera della nostra vita. Non solo ci sforziamo di far nostre le invocazioni di questa preghiera, ma vogliamo amare con tutto il cuore e con tutta la vita Cristo, unica Via al Padre.

Signore Gesù, “mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14, 8).

Amen!

 

Al termine della Santa Messa, dopo la Benedizione finale, Giovanni Paolo II pronunciò queste parole a braccio (la trascrizione che segue è letterale, quindi con qualche imperfezione grammaticale):

Carissimi,

vi auguro, come ha detto il diacono, di andare in pace: di andare in pace di trovare la pace nella vostra terra.

Carissimi,

non si dimentica facilmente una tale celebrazione, in questa Valle, sullo sfondo dei templi: templi provenienti dal periodo greco che esprimono questa grande cultura e questa grande arte ed anche questa religiosità, i templi che sono testimoni oggi della nostra celebrazione eucaristica. E uno ha avuto nome di “Concordia”: ecco, sia questo nome emblematico, sia profetico. Che sia concordia in questa vostra terra! Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime! Che sia concordia! Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia! Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!

Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!

Carissimi,

vi ringrazio per la vostra partecipazione per questa preghiera così suggestiva, profonda, partecipata. Vi lascio con questo saluto: Sia lodato Gesù Cristo, via verità e vita! Amen.

 

[Papa Giovanni Paolo II, omelia nella Valle dei Templi, Agrigento 9 maggio 1993]

11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.

[Gaudete et Exsultate]

 

Inoltre, i pastori e i laici che accompagnano i loro fratelli e sorelle nella fede o in un percorso di apertura a Dio devono sempre ricordare quello che dice chiaramente il Catechismo della Chiesa Cattolica: ‘L’imputabilità e la responsabilità per un’azione possono essere diminuite o addirittura annullate dall’ignoranza, inconsapevolezza, coercizione, paura, abitudine, attaccamento eccessivo e altri fattori psicologici o sociali’. Di conseguenza, senza allontanarsi dall’ideale evangelico, devono accompagnare con pazienza e misericordia attraverso i vari stadi di crescita personale, quando questi si verificano. Voglio ricordare ai preti che il confessionale non deve essere una camera di tortura, ma piuttosto un luogo di incontro con la misericordia di Dio che ci sprona a fare del nostro meglio. Un piccolo passo, nel mezzo delle nostre umane limitazioni, può fare più piacere a Dio di una vita che apparentemente è perfetta, ma procede senza mai incontrare grandi difficoltà.

[Papa Francesco, in:

https://www.spaziosacro.com/node/186126]

(Mt 23,13-22)

 

«Ahimé per voi, scribi e farisei teatranti, poiché chiudete il regno dei cieli davanti alla gente» (Mt 23,13).

Senza troppi complimenti, Gesù smaschera gli intoccabili veterani e capi religiosi, tutti d’accordo [per la prima volta nella loro vita] e coalizzati per motivi d’interesse.

Ipocrita è chi mette un velo alla realtà, affinché appaia diversa: il brutto deve sembrare bello, il male (o la fatica) un bene.

‘Radicalità del credere’ non è attaccamento alle sottigliezze di ragionamenti e discipline, bensì la Fede come corrente di vita - “dovere” sì, ma di amore.

Il tono durissimo e attualissimo fa comprendere che il Signore si duole profondamente [vv.13-16.23: «Ahimé per voi...»; «Ahi a voi...»].

Il giovane Rabbi non si sta confrontando con le doppiezze ben mascherate di scribi e farisei di due millenni or sono.

Egli parla da padrone perché si rivolge ai primi della classe nelle sue comunità. Vanitosi che fanno teatro di sé, usando il Signore a paravento, sequestrandolo; prendendolo in ostaggio.

Proprio gli esperti chiudono il Regno - ossia l’ambito in cui il Padre “regna”.

Essi presentano un Dio legislatore e giudice, in ultima analisi uguale a quello delle religioni o del Primo Testamento.

In tal guisa, proprio i leaders falsificano l’immagine della Chiesa.

Così facendo, sono proprio appunto i presunti eletti, gli integri ed esperti di ritorno nelle assemblee cristiane, che mortificano il Volto amabile dell’Eterno.

Lo rendevano una caricatura insopportabile, che allontanava i cuori.

Insomma, già nelle prime assemblee i responsabili che non sapevano mettersi da parte manipolavano Figlio e Padre.

Reintroducevano antiche trafile, forme di rispetto [e di dazio] nei loro confronti; nonché l’idea di un Dio moralizzatore, che imbarazzava di tormenti coloro che si affacciavano alla soglia delle assemblee.

Idiozie di superbi che ritenevano di non aver bisogno di compassione… esercitate sui segni (così ritenuti) del peccato altrui.

Tutto ciò chiudeva l'anima dei malfermi. Insomma, nulla aveva a che fare con il Progetto di salvezza del Padre.

 

«Verità» è ciò che si dona, non quel che si crede di possedere.

Nelle sue fraternità Gesù pretende guide illuminate, non di grido; non «recitanti» che si appiccicano a ruoli [sorpassati o à la page].

Ricominciavano invece a fare capolino discipline dell’arcano, tabelle di marcia, pretese, false forme di sudditanza e manipolazione.

Artifici utili solo ai marpioni che sapevano come trasformare la devozione spontanea delle persone in mercato, foro, e passerella - dove tutto si compra e si vende a prezzo (anche di realizzo).

Situazione che blocca la vita, perché lo zelo delle figure ufficiali non sempre è buono - in specie se di maniera.

Nei lontani e insignificanti - viceversa - Gesù incontrava persone forse eticamente più negative e compromesse delle guide conformiste, ma senza maschera.

Donne e uomini dal volto genuino, non «teatranti» con qualcosa di fasullo da salvare [vv.13-15 testo greco].

Gli ultimi e inesperti non erano doppi, né corrotti dentro. Non perdevano il senso della vicinanza.

Sempre i ‘piccoli’, gli ‘infanti’ conoscono il Padre che cammina col suo popolo. E non diventano sleali: possono dunque ricevere la gioia di una vita ritrovata.

 

 

[Lunedì 21.a sett. T.O.  26 agosto 2024]

(Mt 23,13-22)

 

«Ahimé per voi, scribi e farisei teatranti, poiché chiudete il regno dei cieli davanti alla gente» (Mt 23,13).

Senza troppi complimenti, Gesù smaschera gli intoccabili veterani e capi religiosi, tutti d’accordo [per la prima volta nella loro vita] e coalizzati per motivi d’interesse.

Ipocrita è chi mette un velo alla realtà, affinché appaia diversa: il brutto deve sembrare bello, il male (o la fatica) un bene.

‘Radicalità del credere’ non è attaccamento alle sottigliezze di ragionamenti e discipline, bensì la Fede come corrente di vita - “dovere” sì, ma di amore.

Il tono durissimo e attualissimo fa comprendere che il Signore si duole profondamente [vv.13-16.23: «Ahimé per voi...»; «Ahi a voi...»].

Il giovane Rabbi non si sta confrontando con le doppiezze ben mascherate di scribi e farisei di due millenni or sono.

Egli parla da padrone perché si rivolge ai primi della classe nelle sue comunità. Vanitosi che fanno teatro di sé, usando il Signore a paravento, sequestrandolo; prendendolo in ostaggio.

Proprio gli esperti chiudono il Regno - ossia l’ambito in cui il Padre “regna”.

Essi presentano un Dio legislatore e giudice, in ultima analisi uguale a quello delle religioni o del Primo Testamento.

In tal guisa, proprio i leaders falsificano l’immagine della Chiesa.

Così facendo, sono proprio appunto i presunti eletti, gli integri ed esperti di ritorno nelle assemblee cristiane, che mortificano il Volto amabile dell’Eterno.

Lo rendevano una caricatura insopportabile, che allontanava i cuori.

Insomma, già nelle prime assemblee i responsabili che non sapevano mettersi da parte manipolavano Figlio e Padre.

Reintroducevano antiche trafile, forme di rispetto [e di dazio] nei loro confronti; nonché l’idea di un Dio moralizzatore, che imbarazzava di tormenti coloro che si affacciavano alla soglia delle assemblee.

Idiozie di superbi che ritenevano di non aver bisogno di compassione… esercitate sui segni (così ritenuti) del peccato altrui.

Tutto ciò chiudeva l'anima dei malfermi. Insomma, nulla aveva a che fare con il Progetto di salvezza del Padre.

 

«Verità» è ciò che si dona, non quel che si crede di possedere.

Nelle sue fraternità Gesù pretende guide illuminate, non di grido; non «recitanti» che si appiccicano a ruoli [sorpassati o à la page].

Ricominciavano invece a fare capolino discipline dell’arcano, tabelle di marcia, pretese, false forme di sudditanza e manipolazione.

Artifici utili solo ai marpioni che sapevano come trasformare la devozione spontanea delle persone in mercato, foro, e passerella - dove tutto si compra e si vende a prezzo (anche di realizzo).

Situazione che blocca la vita, perché lo zelo delle figure ufficiali non sempre è buono - in specie se di maniera.

Nei lontani e insignificanti - viceversa - Gesù incontrava persone forse eticamente più negative e compromesse delle guide conformiste, ma senza maschera.

Donne e uomini dal volto genuino, non «teatranti» con qualcosa di fasullo da salvare [vv.13-15 testo greco].

Gli ultimi e inesperti non erano doppi, né corrotti dentro. Non perdevano il senso della vicinanza.

Sempre i ‘piccoli’, gli ‘infanti’ conoscono il Padre che cammina col suo popolo. E non diventano sleali: possono dunque ricevere la gioia di una vita ritrovata.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

La tua comunità ha cura della tua rara eccezionalità? Che Volto divino trasmette? Aiuta a ritrovarti o ti vincola in partenza ai suoi schemi?

 

 

 

Dives in Misericordia: teocentrismo e antropocentrismo 

 

«Dio ricco di misericordia» (Ef 2,4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l'ha manifestato e fatto conoscere.

Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull'uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell'ultimo Concilio.

[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia n.1]

 

 

Hanno perso la chiave dell’intelligenza

 

Ecco che, ha affermato il Papa, costoro «arrivano a un mucchio di prescrizioni e per loro questa è la salvezza: hanno perso la chiave dell’intelligenza che, in questo caso, è la gratuità della salvezza». In realtà «la legge è una risposta all’amore gratuito di Dio: è Lui che ha preso l’iniziativa di salvarci e perché tu mi hai amato tanto, io cerco di andare per la tua strada, quella che tu mi hai indicato», in una parola «io compio la legge». Ma «è una risposta» perché «la legge, sempre, è una risposta e quando si dimentica la gratuità della salvezza si cade, si perde la chiave dell’intelligenza della storia della salvezza».

E, ancora, ha rilanciato il Pontefice, quelle persone «hanno perso la chiave dell’intelligenza perché hanno perso il senso della vicinanza di Dio: per loro Dio è quello che ha fatto la legge» ma «questo non è il Dio della rivelazione». In realtà «il Dio della rivelazione è Dio che ha incominciato a camminare con noi da Abramo fino a Gesù Cristo: Dio che cammina con il suo popolo». Perciò «quando si perde questo rapporto vicino con il Signore, si cade in questa mentalità ottusa che crede nell’autosufficienza della salvezza con il compimento della legge».

Proprio «il passo evangelico di oggi ne segnala due», è stata la risposta. «Prima di tutto la chiusura: “Voi non siete entrati e a quelli che volevano entrare, voi l’avete impedito”». Sì, «questa gente chiudeva la porta ai fedeli e i fedeli non capivano: loro, tutta la loro teologia morale, facevano del manierismo intellettuale, ma non arrivava alla gente e, con questo, allontanavano la gente. No, questa non è la religione che io volevo: questa non è la verità della salvezza in Gesù Cristo». E, ha precisato il Pontefice, «io qui penso alla responsabilità che abbiamo noi pastori: quando noi pastori perdiamo o portiamo via la chiave dell’intelligenza, chiudiamo la porta a noi e agli altri».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 20/10/2017]

 

 

Memoria della Gratuità

 

Il Signore ci dia memoria della “gratuità” della salvezza e della vicinanza di Dio e della concretezza delle opere di misericordia che vuole da noi, siano esse “materiali o spirituali”: così diventeremo persone che aiutano ad “aprire la porta” a noi stessi e agli altri. È la preghiera del Papa nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Prendendo spunto dall’odierno brano evangelico di Luca, in cui scribi e farisei si reputavano giusti e Gesù fa loro toccar con mano che Dio solo è giusto, Francesco spiega perché i dottori della legge avessero “portato via la conoscenza”, con la “conseguenza” di “non entrare nel Regno e neppure lasciare entrare gli altri”.

“Questo portare via la capacità di capire la rivelazione di Dio, di capire il cuore di Dio, di capire la salvezza di Dio - la chiave della conoscenza -, possiamo dire che è una grave dimenticanza. Si dimentica la gratuità della salvezza; si dimentica la vicinanza di Dio e si dimentica la misericordia di Dio. E quelli che dimenticano la gratuità della salvezza, la vicinanza di Dio e la misericordia di Dio, hanno portato via la chiave della conoscenza”.

Si è dunque “dimenticato” la gratuità. E’ “l’iniziativa di Dio a salvarci e invece si schierano dalla parte della legge”: la salvezza - dice il Papa - “è lì, per loro”, arrivando in tal modo “ad un mucchio di prescrizioni” che di fatto diventano la salvezza. Così però “non ricevono la forza della giustizia di Dio”. La legge è invece sempre “una risposta all’amore gratuito di Dio”, che ha preso “l’iniziativa” di salvarci. E, aggiunge Francesco, “quando si dimentica la gratuità della salvezza si cade, si perde la chiave dell’intelligenza della storia della salvezza”, perdendo “il senso della vicinanza di Dio”.

“Per loro Dio è quello che ha fatto la legge. E questo non è il Dio della rivelazione. Il Dio della rivelazione è Dio che ha incominciato a camminare con noi da Abramo fino a Gesù Cristo, Dio che cammina con il suo popolo. E quando si perde questo rapporto vicino con il Signore, si cade in questa mentalità ottusa che crede nell’autosufficienza della salvezza con il compimento della legge. La vicinanza di Dio”.

Quando infatti manca la vicinanza di Dio, quando manca la preghiera, evidenzia il Papa, “non si può insegnare la dottrina” e neppure “fare teologia”, tanto meno “teologia morale”: Francesco ribadisce che la teologia “si fa in ginocchio, sempre vicino a Dio”. E la vicinanza del Signore arriva “al punto più alto di Gesù Cristo crocifisso”, essendo noi stati “giustificati” per il sangue di Cristo, come dice San Paolo. Per questo, spiega il Pontefice, le opere di misericordia “sono la pietra di paragone del compimento della legge”, perché si va a toccare la carne di Cristo, “toccare Cristo che soffre in una persona, sia corporalmente sia spiritualmente”. E inoltre mette in guardia dal fatto che, quando si perde la chiave della conoscenza, si arriva pure “alla corruzione”. Il Papa pensa infine alla “responsabilità” dei pastori, oggi nella Chiesa: quando perdono o portano via “la chiave dell’intelligenza”, chiudendo “la porta a noi e agli altri”.

“Nel mio Paese ho sentito parecchie volte di parroci che non battezzavano i figli delle ragazze madri, perché non erano nati nel matrimonio canonico. Chiudevano la porta, scandalizzavano il popolo di Dio, perché? Perché il cuore di questi parroci aveva perso la chiave della conoscenza. Senza andare tanto lontano nel tempo e nello spazio, tre mesi fa, in un paese, in una città, una mamma voleva battezzare il figlio appena nato, ma lei era sposata civilmente con un divorziato. Il parroco ha detto: “Sì, sì. Battezzo il bambino. Ma tuo marito è divorziato. Rimanga fuori, non può essere presente alla cerimonia”. Questo succede oggi. I farisei, i dottori della legge non sono cose di quei tempi, anche oggi ce ne sono tante. Per questo è necessario pregare per noi pastori. Pregare, perché non perdiamo la chiave della conoscenza e non chiudiamo la porta a noi e alla gente che vuole entrare”.

 

[Giada Aquilino, in:

https://www.vaticannews.va/it/papa-francesco/messa-santa-marta/2017-10/papa-a-santa-marta--gratuita-della-salvezza-di-dio-apre-porta-ag.html]

Certo, in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto anche un altro uso della parola «fede adulta». Si parla di «fede adulta», cioè emancipata dal Magistero della Chiesa. Fino a quando sono sotto la madre, sono fanciullo, devo emanciparmi; emancipato dal Magistero, sono finalmente adulto. Ma il risultato non è una fede adulta, il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione, dall’opinione che tutti pensano e vogliono. Non è vera emancipazione, l’emancipazione dalla comunione del Corpo di Cristo! Al contrario, è cadere sotto la dittatura delle onde, del vento del mondo. La vera emancipazione è proprio liberarsi da questa dittatura, nella libertà dei figli di Dio che credono insieme nel Corpo di Cristo, con il Cristo Risorto, e vedono così la realtà, e sono capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo.

Mi sembra che dobbiamo pregare molto il Signore, perché ci aiuti ad essere emancipati in questo senso, liberi in questo senso, con una fede realmente adulta, che vede, fa vedere e può aiutare anche gli altri ad arrivare alla vera perfezione, alla vera età adulta, in comunione con Cristo.

In questo contesto c’è la bella espressione dell’aletheuein en te agape, essere veri nella carità, vivere la verità, essere verità nella carità: i due concetti vanno insieme. Oggi il concetto di verità è un po’ sotto sospetto perché si combina verità con violenza. Purtroppo nella storia ci sono stati anche episodi dove si cercava di difendere la verità con la violenza. Ma le due sono contrarie. La verità non si impone con altri mezzi, se non da se stessa! La verità può arrivare solo tramite se stessa, la propria luce. Ma abbiamo bisogno della verità; senza verità non conosciamo i veri valori e come potremo ordinare il kosmos dei valori? Senza verità siamo ciechi nel mondo, non abbiamo strada. Il grande dono di Cristo è proprio che vediamo il Volto di Dio e, anche se in modo enigmatico, molto insufficiente, conosciamo il fondo, l’essenziale della verità in Cristo, nel suo Corpo. E conoscendo questa verità, cresciamo anche nella carità che è la legittimazione della verità e ci mostra che è verità. Direi proprio che la carità è il frutto della verità - l’albero si conosce dai frutti – e se non c’è carità, anche la verità non è propriamente appropriata, vissuta; e dove è la verità, nasce la carità. Grazie a Dio, lo vediamo in tutti i secoli: nonostante i fatti negativi, il frutto della carità è sempre stato presente nella cristianità e lo è oggi! Lo vediamo nei martiri, lo vediamo in tante suore, frati e sacerdoti che servono umilmente i poveri, i malati, che sono presenza della carità di Cristo. E così sono il grande segno che qui è la verità.

Preghiamo il Signore perché ci aiuti a portare il frutto della carità ed essere così testimoni della sua verità. Grazie.

[Papa Benedetto, Incontro con i parroci di Roma 23 febbraio 2012]

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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