Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Nel Vangelo di oggi c’è una domanda scandita per tre volte: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10.12.14). La rivolgono a Giovanni Battista tre categorie di persone: primo, la folla in genere; secondo, i pubblicani, ossia gli esattori delle tasse; e, terzo, alcuni soldati. Ognuno di questi gruppi interroga il profeta su quello che deve fare per attuare la conversione che egli sta predicando. La risposta di Giovanni alla domanda della folla è la condivisione dei beni di prima necessità. Cioè, al primo gruppo, la folla, dice di condividere i beni di prima necessità, e parla così: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (v. 11). Poi, al secondo gruppo, agli esattori delle tasse, dice di non esigere nulla di più della somma dovuta (cfr v. 13). Cosa vuol dire questo? Non fare “tangenti”, è chiaro il Battista. E al terzo gruppo, ai soldati, domanda di non estorcere niente a nessuno ma di accontentarsi delle loro paghe (cfr v. 14). Sono le tre risposte alle tre domande di questi gruppi. Tre risposte per un identico cammino di conversione, che si manifesta in impegni concreti di giustizia e di solidarietà. E’ la strada che Gesù indica in tutta la sua predicazione: la strada dell’amore fattivo per il prossimo.
Da questi ammonimenti di Giovanni Battista comprendiamo quali fossero le tendenze generali di chi in quell’epoca deteneva il potere, sotto forme diverse. Le cose non sono cambiate tanto. Tuttavia, nessuna categoria di persone è esclusa dal percorrere la strada della conversione per ottenere la salvezza, nemmeno i pubblicani considerati peccatori per definizione: neppure loro sono esclusi dalla salvezza. Dio non preclude a nessuno la possibilità di salvarsi. Egli è – per così dire – ansioso di usare misericordia, usarla verso tutti, e di accogliere ciascuno nel tenero abbraccio della riconciliazione e del perdono.
Questa domanda – che cosa dobbiamo fare? – la sentiamo anche nostra. La liturgia di oggi ci ripete, con le parole di Giovanni, che occorre convertirsi, bisogna cambiare direzione di marcia e intraprendere la strada della giustizia, della solidarietà, della sobrietà: sono i valori imprescindibili di una esistenza pienamente umana e autenticamente cristiana. Convertitevi! È la sintesi del messaggio del Battista. E la liturgia di questa terza domenica di Avvento ci aiuta a riscoprire una dimensione particolare della conversione: la gioia. Chi si converte e si avvicina al Signore, sente la gioia. Il profeta Sofonia ci dice oggi: «Rallegrati, figlia di Sion!», rivolto a Gerusalemme (Sof 3,14); e l’apostolo Paolo esorta così i cristiani di Filippi: «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4). Oggi ci vuole coraggio a parlare di gioia, ci vuole soprattutto fede! Il mondo è assillato da tanti problemi, il futuro gravato da incognite e timori. Eppure il cristiano è una persona gioiosa, e la sua gioia non è qualcosa di superficiale ed effimero, ma di profondo e stabile, perché è un dono del Signore che riempie la vita. La nostra gioia deriva dalla certezza che «il Signore è vicino» (Fil 4,5): è vicino con la sua tenerezza, con la sua misericordia, col suo perdono e il suo amore.
La Vergine Maria ci aiuti a rafforzare la nostra fede, perché sappiamo accogliere il Dio della gioia, il Dio della misericordia, che sempre vuole abitare in mezzo ai suoi figli. E la nostra Madre ci insegni a condividere le lacrime con chi piange, per poter condividere anche il sorriso.
[Papa Francesco, Angelus 13 dicembre 2015]
Traiettoria curva, e il modello che non è la “sfera”
(Mt 17,10-13)
Al tempo di Gesù, nell’area palestinese le difficoltà economiche e la dominazione romana avevano costretto le persone a ripiegare su un modello di vita individuale.
I problemi di sussistenza e assetto sociale avevano avuto come conseguenza uno sgretolamento della vita di relazione (e legami) sia di clan che nelle stesse famiglie.
Nuclei accorpanti, che avevano sempre assicurato assistenza, sostegno e difesa concreta ai membri più deboli e in difficoltà.
Tutti si attendevano che la venuta di Elia e del Messia potesse avere un esito positivo nella ricostruzione della vita fraterna, allora intaccata.
Come si diceva: «ricondurre il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» [Mal 3,22-24 annunciava proprio l’invio di Elia] per ricostruire la convivenza disintegrata.
Ovviamente il recupero del senso d'identità interno del popolo era malvisto dal sistema di dominazione. Figuriamoci la cifra gesuana della Chiamata per Nome, che avrebbe spalancato la vita pia popolare e di comunione a mille possibilità.
Giovanni aveva predicato con forza un ripensamento dell’idea di libertà conquistata (passaggio del Giordano), il riassetto delle idee religiose consolidate (conversione e perdono dei peccati nella vita reale, fuori del Tempio) e giustizia sociale.
Avendo un progetto evoluto di riforma nella solidarietà (Lc 3,7-14), in pratica era il Battezzatore stesso che aveva già svolto la missione dell’Elia atteso [Mt 17,10-12; Mc 9,11-13].
Per questo motivo era stato tolto di mezzo: poteva riassemblare tutto un popolo di estromessi - emarginati sia dal giro del potere che della religiosità verticista, accomodante, servile, e collaborazionista.
Una devozione a compartimenti stagni, che non consentiva assolutamente né il ‘ricordo’ di se stessi, né dell’antico assetto sociale comunitario, incline alla condivisione.
Insomma, il sistema di cose, interessi, gerarchie, forzava a radicarsi in quella configurazione insoddisfacente.
Ma ecco Gesù, che non si piega.
Egli viene presentato da Mt alle sue comunità come Colui che ha voluto continuare l’opera di edificazione del Regno, sia sotto il profilo della qualità vocazionale che per quanto concerne la ricostruzione della coesistenza.
Con una differenza fondamentale: rispetto al portato delle concezioni etnico-religiose, il Maestro non propone a tutti una sorta di ideologia di corpo che finisce per spersonalizzare i Doni eccentrici dei deboli - quelli imprevedibili per una mentalità consolidata, ma che tracciano futuro.
Il Signore propone una vita fraterna e assembleare di carattere, ma non ostinata né targata.
Cristo vuole una collaborazione più rigogliosa, che faccia utilizzare bene le risorse (interne e non) e le differenze.
Qui anche le crisi diventano importanti, anzi fondamentali per far evolvere la qualità dello ‘stare accanto’ - nella ricchezza del «poliedro» che «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» [Evangelii Gaudium n.236].
Tentando di manipolare caratteri e personalità per guidarle al “come devono essere”, non si sta bene con se stessi e neppure fianco a fianco. Non si trasmette ai ‘tanti diversi’ la percezione di stima e adeguatezza, né il senso di benevolenza - tantomeno gioia di vivere.
Le traiettorie ‘curve’ o a tentativo-ed-errore si confanno alla Prospettiva del Padre, e alla nostra crescita irripetibile.
Differenza tra religiosità e Fede.
[Sabato 2.a sett. Avvento, 14 dicembre 2024]
Traiettoria curva, e il modello che non è la “sfera”
(Mt 17,10-13)
All’esperienza de “il Monte” - cosiddetta Trasfigurazione - segue l’episodio di Elia e Giovanni [cf. Mt 17,10-13 e parallelo Mc 9,2-13].
Gesù ha introdotto i discepoli in vista ma più testardi degli altri alla percezione della Metamorfosi (Mt 17,2 testo greco) del Volto divino e ad un’idea capovolta del Messia atteso (vv.4-7).
Gli esperti delle sacre Scritture ritenevano che il ritorno di Elia dovesse anticipare e preparare l’avvento del Regno di Dio.
Poiché il Signore era presente, i primi discepoli si chiedevano quale fosse il valore di quell’insegnamento.
Anche nelle comunità di Mt e Mc, tra i molti provenienti dal giudaismo sorgeva il quesito circa il peso delle dottrine antiche, in relazione al Cristo.
Il brano di Vangelo è dotato di una potente specificità personale, cristologica [il fratello più prossimo, che riscatta: Go’El del sangue].
A ciò si aggiunge una precisa accezione comunitaria, perché Gesù identifica la figura del profeta Elia con il Battista.
Al tempo, nell’area palestinese le difficoltà economiche e la dominazione romana costringevano le persone a ripiegare su un modello di vita individuale.
I problemi di sussistenza e assetto sociale avevano avuto come conseguenza uno sgretolamento della vita di relazione (e legami) sia di clan che nelle stesse famiglie.
Nuclei accorpanti, che avevano sempre assicurato assistenza, sostegno e difesa concreta ai membri più deboli e in difficoltà.
Tutti si attendevano che la venuta di Elia e del Messia potesse avere un esito positivo nella ricostruzione della vita fraterna, allora intaccata.
Come si diceva: «ricondurre il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» [Mal 3,22-24 annunciava proprio l’invio di Elia] per ricostruire la convivenza disintegrata.
Ovviamente il recupero del senso d'identità interno del popolo era malvisto dal sistema di dominazione. Figuriamoci la cifra gesuana della Chiamata per Nome, che avrebbe spalancato la vita pia popolare a mille possibilità.
Giovanni aveva predicato con forza un ripensamento dell’idea di libertà conquistata (passaggio del Giordano), il riassetto delle idee religiose consolidate (conversione e perdono dei peccati nella vita reale, fuori del Tempio) e giustizia sociale.
Avendo un progetto evoluto di riforma nella solidarietà (Lc 3,7-14), in pratica era il Battezzatore stesso che aveva già svolto la missione dell’Elia atteso [Mt 17,10-12; Mc 9,11-13].
Per questo motivo era stato tolto di mezzo: poteva riassemblare tutto un popolo di estromessi - emarginati sia dal giro del potere che della religiosità verticista, accomodante, servile, e collaborazionista.
Una devozione a compartimenti stagni, che non consentiva assolutamente né il “ricordo” di se stessi, né dell’antico assetto sociale comunitario, incline alla condivisione.
Insomma, il sistema di cose, interessi, gerarchie, forzava a radicarsi in quella configurazione insoddisfacente. Ma ecco Gesù, che non si piega.
Chi ha il coraggio d’intraprendere un cammino di spiritualità biblica e di Esodo impara ad apprendere che ciascuno ha un modo differente di scendere in campo e stare nel mondo.
Allora, esiste un saggio equilibrio tra rispetto di sé, del contesto, e altrui?
Gesù viene presentato da Mt alle sue comunità come Colui che ha voluto continuare l’opera di edificazione del Regno, sia sotto il profilo della qualità vocazionale che per quanto concerne la ricostruzione della coesistenza.
Con una differenza fondamentale: rispetto al portato delle concezioni etnico-religiose, il Maestro non propone a tutti una sorta di ideologia di corpo, che finisce per spersonalizzare i Doni eccentrici dei deboli - quelli imprevedibili per una mentalità consolidata, ma che tracciano futuro.
In clima di clan rinsaldato, non di rado sono proprio i senza peso e coloro che conoscono solo abissi (e non vertici) a venire come spinti all’assenso di una conformazione rassicurante d’idee - invece che dinamica - e fucina di accoglienza più larga.
Quanti non conoscono vette ma solo povertà, proprio nei momenti di crisi sono i primi invitati dalle circostanze avverse ad oscurare il proprio sguardo sull’avvenire.
I miseri restano gl’impossibilitati a guardare in un’altra direzione e spostarsi, tracciando un diverso destino - proprio a causa di tare esterne a loro: culturali, di tradizione, di reddito, o “spirituali”.
Tutte caselle riconoscibili, forse talora non allarmanti, ma lontane dalla nostra natura.
E subito: con la condanna a portata di giudizio comune [per mancata omologazione].
Sentenza che vuole tarpare le ali, annientare l’atmosfera nascosta e segreta che appartiene davvero all'unicità personale, e condurci tutti - anche in modo esasperato.
Il Signore propone una vita assembleare di carattere, ma non ostinata né targata - non disattenta... come nella misura in cui viene costretta ad andare nella medesima rotta antica di sempre. O nella stessa direzione dei capitribù.
Cristo vuole una collaborazione più rigogliosa, che faccia utilizzare bene le risorse (interne e non) e le differenze.
Assetto per l’inedito: nel modo che ad es. le cadute o le inesorabili tensioni non vengano camuffate - anzi, diventino opportunità, sconosciute e impensabili ma assai feconde di vita.
Qui anche le crisi diventano importanti, anzi fondamentali per far evolvere la qualità dello stare accanto - nella ricchezza del «poliedro» che come scrive Papa Francesco «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» [Evangelii Gaudium n.236].
Senza rigenerarsi, solo ripetendo e ricalcando modalità collettive - da modello sfera (ibidem) - o altrui, ossia da nomenclatura, non personalmente rielaborate o valicate, non si cresce; non ci si dirige verso la propria irripetibile missione.
Non si colma il senso lacerante di vuoto.
Tentando di manipolare caratteri e personalità per guidarle al “come devono essere”, non si sta bene con se stessi e neppure fianco a fianco. Non si trasmette ai tanti diversi la percezione di stima e adeguatezza, né il senso di benevolenza - tantomeno gioia di vivere.
Le traiettorie curve o a tentativo ed errore si confanno alla Prospettiva del Padre, e alla nostra crescita irripetibile.
Differenza tra religiosità e Fede.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando nella tua vita è cresciuto in modo sincero e non costretto dalle circostanze il tuo senso di comunità?
Come contribuisci in modo convinto alla fraternità concreta - talora profetica e critica (come Giovanni e Gesù)? O sei rimasto allo zelo fondamentalista di Elia e a quello accorpante ma purista dei precursori del Signore Gesù?
Annunciando ai suoi discepoli che dovrà soffrire, essere messo a morte prima di risuscitare, Gesù vuol far loro comprendere chi Egli è in verità. Un Messia sofferente, un Messia servo, e non un liberatore politico onnipotente. E’ il Servo obbediente alla volontà del Padre suo fino a perdere la propria vita. E’ ciò che annunciava già il profeta Isaia nella prima lettura. Così Gesù va contro quanto molti si aspettavano da lui. La sua affermazione è shoccante e sconcertante. E si sente la contestazione di Pietro, che lo rimprovera, rifiutando per il suo Maestro la sofferenza e la morte! Gesù è severo verso di lui, e fa capire che chi vuol essere suo discepolo deve accettare di essere servo, come Lui si è fatto Servo.
Porsi alla sequela di Gesù significa prendere la propria croce per accompagnarlo nel suo cammino, un cammino scomodo che non è quello del potere o della gloria terrena, ma quello che conduce necessariamente a rinunciare a se stessi, a perdere la propria vita per Cristo e il Vangelo, al fine di salvarla. Poiché siamo certi che questa via conduce alla risurrezione, alla vita vera e definitiva con Dio. Decidere di accompagnare Gesù Cristo che si è fatto il Servo di tutti esige un’intimità sempre più grande con Lui, ponendosi all’ascolto attento della sua Parola per attingervi l’ispirazione del nostro agire.
[Papa Benedetto, omelia a Beirut 16 settembre 2012]
Questa è ancora un’altra direzione della strada, sulla quale ci incammina l’Avvento. L’uomo non soltanto cammina verso Dio attraverso ciò che è in lui: attraverso la sua incompiutezza, la sua minaccia, e insieme il carattere trascendentale della sua personalità, indirizzato verso la verità, il bene, il bello; attraverso la cultura e la scienza; attraverso il desiderio e la nostalgia per un mondo più umano, più degno dell’uomo.
L’uomo non soltanto cammina verso Dio (del resto spesso senza saperlo o addirittura negandolo) attraverso il suo proprio avvento: attraverso il grido della sua umanità. L’uomo va verso Dio, camminando, nella storia della salvezza, dinanzi a Dio: dinanzi al Signore, come sentiamo nel Vangelo nei confronti di Giovanni il Battista, il quale doveva camminare innanzi al Signore con lo spirito e la forza.
Questa nuova direzione della via dell’avvento dell’uomo è collegata in modo particolare con l’Avvento di Cristo. Tuttavia l’uomo cammina “innanzi al Signore” sin dall’inizio e camminerà dinanzi a Lui fino alla fine, perché egli è semplicemente immagine di Dio. Camminando quindi per le strade del mondo, egli dice al mondo e rende testimonianza a se stesso di Chi egli è immagine.
Cammina dinanzi al Signore soggiogando la terra, perché di fatto la stessa terra, così come tutto il creato, sono sottomessi al Signore e il Signore li ha dati in dominio all’uomo.
Egli cammina dinanzi al Signore, riempiendo la sua umanità e la sua storia terrestre col contenuto del suo lavoro, col contenuto della cultura e della scienza, col contenuto della ricerca incessante della verità, del bene, del bello, della giustizia, dell’amore, della pace. E cammina dinanzi al Signore, avvolgendosi spesso in tutto ciò che è negazione della verità, del bene e del bello, negazione della giustizia, dell’amore, della pace. A volte sente di essere avvolto molto in queste negazioni. Quasi per contrasto egli avverte, allora, tutto il peso dell’immagine sfigurata di Dio nella sua anima e nella sua storia.
L’avvento dell’uomo s’incontra con l’Avvento di Cristo.
“O Radix Iesse, qui stas in signum populorum,... quem gentes deprecabuntur, veni ad liberandum nos, iam noli tardare!”.
L’Avvento di Cristo è indispensabile, perché l’uomo ritrovi in esso la certezza che, camminando per il mondo, vivendo di giorno in giorno e di anno in anno, amando e soffrendo..., egli cammina dinanzi al Signore, di cui è immagine nel mondo; che egli rende testimonianza di Lui davanti a tutto il creato.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia agli universitari 19 dicembre 1980, n.4]
Prima di affidarci una missione il Signore ci prepara, mettendoci alla prova con un processo di purificazione e di discernimento. È la storia del profeta Elia ad aver suggerito al Papa, durante la messa celebrata venerdì mattina 13 giugno nella cappella della Casa Santa Marta, la riflessione su questa regola fondamentale della vita cristiana.
«Nella prima lettura — ha detto il Pontefice riferendosi al passo tratto dal primo libro dei Re (19, 9.11-16) — abbiamo sentito la storia di Elia: come il Signore prepara un profeta, come lavora nel suo cuore perché quest’uomo sia fedele alla sua parola e faccia quello che lui vuole».
Il profeta Elia «era una persona forte, di grande fede. Aveva rimproverato al popolo di adorare Dio e adorare gli idoli: ma se adorava gli idoli, adorava male Dio! E se adorava Dio, adorava male agli idoli!». Per questo Elia diceva che il popolo zoppicava «con i due piedi», non aveva stabilità e non era saldo nella fede. Nella sua missione «è stato coraggioso» e, alla fine, ha lanciato una sfida ai sacerdoti di Baal, sul monte Carmelo, e li ha vinti. «E per finire la storia li ha uccisi tutti», mettendo così termine all’idolatria «in quella parte del popolo di Israele». Dunque Elia «era contento perché la forza del Signore era con lui».
Però, ha proseguito il Papa, «il giorno dopo, la regina Gezabele — era la moglie del re ma era lei che governava — lo ha minacciato e gli ha detto che lo avrebbe ucciso». Davanti a questa minaccia Elia «ha avuto tanta paura che si è depresso: se n’è andato e voleva morire». Proprio quel profeta che il giorno precedente «era stato tanto coraggioso e aveva vinto» contro i sacerdoti di Baal, «oggi è giù, non vuole mangiare e vuole morire, tanta era la depressione che aveva». E tutto questo, ha spiegato il Pontefice, «per la minaccia di una donna». Perciò «i quattrocento sacerdoti dell’idolo Baal non lo avevano spaventato, ma questa donna sì!».
È una storia che «ci fa vedere come il Signore prepara» alla missione. Infatti Elia «con quella depressione è andato nel deserto per morire e si è coricato aspettando la morte. Ma il Signore lo chiama» e lo invita a mangiare un po’ di pane e a bere perché, gli dice, «tu devi ancora camminare tanto». E così Elia «mangia, beve, ma poi si corica un’altra volta per morire. E il Signore un’altra volta lo chiama: vai avanti, vai avanti!».
La questione è che Elia «non sapeva cosa fare, ma ha sentito che doveva salire sul monte per trovare Dio. È stato coraggioso ed è andato lì, con l’umiltà dell’obbedienza. Perché era obbediente». Pur in uno stato di sconforto e «con tanta paura», Elia «è salito sul monte per aspettare il messaggio di Dio, la rivelazione di Dio: pregava, perché era bravo, ma non sapeva cosa sarebbe successo. Non lo sapeva, era lì e aspettava il Signore».
Si legge nell’Antico testamento: «Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento». Elia, ha commentato il Papa, si «accorse che il Signore non era lì». Prosegue la Scrittura: «Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto». Dunque, ha continuato il Pontefice, Elia «ha saputo discernere che il Signore non era nel terremoto e non era nel vento». E ancora, racconta il primo Libro dei Re: «Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera». Ed ecco che «come l’udì, Elia si è accorto» che «era il Signore che passava, si coprì il volto con il mantello e adorò il Signore».
Infatti, ha affermato il vescovo di Roma, «il Signore non era nel vento, nel terremoto o nel fuoco, ma era in quel sussurro di una brezza leggera: nella pace». O «come dice proprio l’originale, un’espressione bellissima: il Signore era in un filo di silenzio sonoro».
Elia, dunque, «sa discernere dov’è il Signore e il Signore lo prepara con il dono del discernimento». Poi gli affida la sua missione: «Hai fatto la prova, ti sei messo alla prova della depressione», dello stare giù, «della fame; sei stato messo alla prova del discernimento» ma adesso — si legge nella Scrittura — «ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco, finché giunto là, ungerai Cazaèl come re su Aram. Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsì, come re su Israele e ungerai Elisèo».
Proprio questa è la missione che attende Elia, ha spiegato il Papa. E il Signore gli ha fatto fare quel lungo percorso per prepararlo alla missione. Forse, si potrebbe obiettare, sarebbe stato «molto più facile dire: tu sei stato tanto coraggioso da uccidere quei quattrocento, adesso vai e ungi questo!». Invece «il Signore prepara l’anima, prepara il cuore e lo prepara nella prova, lo prepara nell’obbedienza, lo prepara nella perseveranza».
E «così è la vita cristiana», ha puntualizzato il Pontefice. Infatti «quando il Signore vuole darci una missione, vuole darci un lavoro, ci prepara per farlo bene», proprio «come ha preparato Elia». Ciò che è importante «non è che lui abbia incontrato il Signore» ma «tutto il percorso per arrivare alla missione che il Signore affida». E proprio «questa è la differenza fra la missione apostolica che il Signore ci dà e un compito umano, onesto, buono». Dunque «quando il Signore dà una missione, fa sempre entrare noi in un processo di purificazione, un processo di discernimento, un processo di obbedienza, un processo di preghiera». Così, ha ribadito, «è la vita cristiana», cioè «la fedeltà a questo processo, a lasciarci condurre dal Signore».
Dalla vicenda di Elia scaturisce un grande insegnamento. Il profeta «ha avuto paura, e questo è tanto umano», perché Gezabele «era una regina cattiva che ammazzava i suoi nemici». Elia «ha paura, ma il Signore è più potente» e gli fa comprendere di aver «bisogno dell’aiuto del Signore nella preparazione alla missione». Così Elia «cammina, obbedisce, soffre, discerne, prega e trova il Signore». Papa Francesco ha concluso con una preghiera: «Il Signore ci dia la grazia di lasciarci preparare tutti i giorni nel cammino della nostra vita, perché possiamo testimoniare la salvezza di Gesù».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 14/06/2014]
Un solo “personaggio”, o il Figlio dell’uomo
(Mt 11,16-19)
I Vangeli si fanno largo, avanzano e liberano, facendo comprendere l’enorme differenza tra credo religioso comune, e Fede.
Ci emancipano ribaltando posizioni: chi si sentiva difeso e sicuro - o sulla cresta dell’onda [alla moda] - ora sembra non capire nulla dell’agire di Dio in noi.
Mentre in Cristo si fa strada la provvidenza dei nuovi assetti, coloro che sono legati a forme banali cercano cocciutamente di riaggrapparsi ad esse.
I bambini capricciosi reclamano sempre, quando non ottengono un posto di rilievo nei giochi, o quando altri non fanno quel che dicono loro.
Il Battista era un araldo eminente, chiamato alla realizzazione del piano di Dio [noto a motivo della sua figura particolare, forse più incline alla rinuncia].
Ma il preconcetto della mortificazione non andava bene: dunque, un rompiscatole da rigettare.
Il ‘Figlio dell’uomo’ era più simpatico, espressivo e accogliente; non si faceva problemi di purità [quindi pure lui era un esagerato]: da ingiuriare e condannare.
L’austero e penitente veniva giudicato al pari d’un indemoniato; il giovane Rabbi che invitava alla gioia, un lassista.
Giovanni sembrava troppo esigente, Gesù esageratamente largo d’idee e comportamenti.
I ragazzini viziati non si accordano neppure nel gioco, e stanno caparbiamente fermi sulle loro posizioni.
I bimbi incontentabili rifiutano ogni proposta: hanno sempre da ridire.
Ma la Rivelazione va al di là di ogni Attesa.
Certo, il modo austero del deserto sembrava irragionevole.
Il Signore invece viveva in mezzo alla gente, accettava inviti e non cercava di apparire diverso dagli altri - ma il suo stile affabile e semplice era considerato troppo ordinario e accessibile per un inviato da Dio.
«Eppure la Sapienza è stata riconosciuta giusta dalle sue opere» (v.19) ossia i piccoli leggono il segno dei tempi.
I figli riconoscono la divina Sapienza, vedono il suo disegno.
Colgono il progetto di Salvezza nella predicazione del Battista e del Cristo.
Non hanno troppo ‘controllo’ sulle cose; ne sono amici.
Sono coscienti dei limiti e dei punti di forza; apprendono perfino da posizioni subalterne e dai lati oscuri, imparano dagli stessi timori.
Vincono l’immobilismo spirituale dei grandi esperti, criticoni d’ogni brezza di cambiamento, o troppo astratti e sofisticati.
Entrambi i quali s’installano e signoreggiano - generando un’umanità radicalmente impoverita.
Costoro sono come figure puerili e incontentabili, ma che non si alzano né smuovono: «seduti» (v.16).
Essi calpestano, violano, inceppano tutto.
Ovunque, gli “eletti” rimangono indifferenti o indispettiti, perché sono, colgono e comprendono “una cosa sola”.
Mai chiudono il loro ‘personaggio’ per aprirne un altro, o per esplorare diversi lati di sé e del mondo.
Hanno l’anima inamidata.
Invece, chi non ha il cuore chiuso sta anticipando la Venuta d’un nuovo Regno, sta cogliendo il proprio ‘volto eterno’.
[Venerdì 2.a sett. Avvento, 13 dicembre 2024]
Un solo “personaggio”, o il Figlio dell’uomo
(Mt 11,16-19)
I Vangeli si fanno largo, avanzano e liberano, facendo comprendere l’enorme differenza tra credo qualsiasi e Fede.
Ci emancipano ribaltando posizioni: chi si sentiva difeso e sicuro ora sembra un bambolotto che non capisce nulla dell’agire di Dio in noi.
D’altro canto, i “grandi” riformatori senza storia e senza spina dorsale elaborano straordinarie proiezioni disincarnate, e si trastullano in esse.
Pur cercando la gioia di vivere, si mettono sempre a distanza di sicurezza da ogni crudo coinvolgimento - che (con Papa Francesco) potremmo definire «artigianale».
Mentre si fa strada la provvidenza dei nuovi assetti, coloro che sono legati a forme stagnanti o eccessivamente fantasiose cercano cocciutamente di riaggrapparsi ad esse.
Entrambe le posizioni sembrano fatte apposta per non dare frutti, né crescere insieme. Esse arginano le autenticità, che pur qua e là fioriscono e dilagano.
I dirigenti del popolo e i veterani si sentono smarriti, perché iniziano a misurare la vacuità della loro supponenza, la futilità del loro prestigio, l’infantile incoerenza dei loro patetici pretesti.
In epigrafe al commento sul Tao Tê Ching (i) il maestro Ho-shang Kung scrive: «L’eterno Nome vuol essere come l’infante che ancora non ha parlato, come il pulcino che ancora non s’è sgusciato».
I bambini capricciosi invece reclamano sempre, quando non ottengono un posto di rilievo nei giochi, o quando altri non fanno quel che dicono loro.
Il Battista era un araldo eminente, chiamato alla realizzazione del piano di Dio [noto a motivo della sua figura particolare, forse più incline alla rinuncia].
Ma il preconcetto della mortificazione non andava bene: dunque, un rompiscatole da rigettare.
Cristo era più simpatico, espressivo e accogliente; non si faceva problemi di purità [quindi pure lui doveva essere un esagerato]: da ingiuriare e condannare.
L’austero e penitente veniva giudicato al pari d’un indemoniato; il giovane Rabbi che invitava alla gioia, un lassista.
Per i beccamorti della città santa Giovanni era troppo esigente, Gesù sembrava esageratamente largo d’idee e comportamenti.
I ragazzini viziati non si accordano neppure nel gioco, e stanno caparbiamente fermi sulle loro posizioni.
I bimbi incontentabili rifiutano ogni proposta: hanno sempre da ridire.
Ma la stessa Rivelazione va al di là di ogni Attesa [cf. Tertio Millennio Adveniente, n.6].
Certo, il modo austero del deserto sembrava irragionevole.
Il Signore invece viveva in mezzo alla gente, accettava inviti e non cercava di apparire diverso dagli altri - ma il suo stile affabile e semplice era considerato troppo ordinario e accessibile per un inviato da Dio.
«Eppure la Sapienza è stata riconosciuta giusta dalle sue opere» (v.19 testo greco) ossia i piccoli leggono il segno dei tempi.
I figli riconoscono la divina Sapienza, vedono il suo disegno.
Colgono il progetto di Salvezza nella predicazione del Battista e del Cristo.
Non hanno troppo “controllo” sulle cose; ne sono amici.
Sono coscienti dei limiti e dei punti di forza; apprendono perfino da posizioni subalterne e dai lati oscuri, imparano dagli stessi timori.
Vincono l’immobilismo spirituale dei grandi esperti, criticoni d’ogni brezza di cambiamento, o troppo astratti e sofisticati.
Entrambi i quali s’installano e signoreggiano - generando un’umanità radicalmente impoverita.
Costoro sono come figure puerili e incontentabili, ma che non si alzano né smuovono: «seduti» (v.16).
Essi calpestano, violano, inceppano tutto.
Ovunque, gli “eletti” rimangono indifferenti o indispettiti, perché sono, colgono e comprendono “una cosa sola”.
Mai chiudono il loro “personaggio” per aprirne un altro, o per esplorare diversi lati di sé e del mondo.
In una omelia a s. Marta [sul rifiuto del profeta Giona] Papa Francesco ha suggerito di «guardare come agisce il Signore», contrario dei «malati di rigidità» che hanno «l’anima inamidata».
I testardi infantili conoscono bene solo come disturbare donne e uomini franchi, i quali spontaneamente si esprimono in poliedriche fattezze perché non hanno un «piccolo cuore chiuso», ma lo «sanno allargare».
Proprio gli audaci che sono se stessi completamente - non patinati e glamour - invece di ribadire luoghi comuni isterici e sentenziare, accarezzano i fratelli diversi e dilatano la vita.
In tal guisa, stanno cogliendo il proprio volto eterno.
Gli autentici donne e uomini di Fede anticipano la Venuta d’un nuovo Regno.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Chi ti ha aiutato e chi ti ha frenato a comprendere il tuo desiderio profondo? Semplici, o dotti ben introdotti?
Amici che si smuovono e hanno cura, o dirigenti qualificati e specialisti che neanche si mettono d’accordo nei loro “giochi” - gente testarda, che s’installa, signoreggia, frena, inceppa gli altri?
Figlio dell’uomo
«Figlio dell’uomo» (v.19) designa già dall’AT il carattere d’una santità che supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.
La massa permaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadroniva del potere, la folla minuta restava sottomessa e soffocata.
Identica norma vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte pulsione da orda e il contentino dei gregari.
Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo la sua proposta non collima con le ambizioni delle autorità religiose, e con le stesse aspettative degli Apostoli.
Anch’essi volevano “contare”. Ma appunto «Figlio dell’uomo» è la persona secondo un criterio di umanizzazione, non una belva che prevale perché più forte delle altre [cf. Dan 7].
Ciascun uomo col cuore di carne - non di bestia, né di pietra - è persona comprensiva, capace di ascolto, sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.
Allude alla dimensione larga della santità; trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire! Ma questo fa problema, in specie (sembra assurdo) negli ambienti devoti.
Nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma dagli habitué dei recinti sacri.
La crescita e umanizzazione del popolo non è contrastata da peccatori, bensì proprio da coloro che avrebbero il ministero di far conoscere a tutti il Volto di Dio!
In Mc 9,36-37 (cf. Mt 18,2-5; Lc 9,47-48) Gesù abbraccia un ragazzino di 8-12 anni che a quel tempo non contava nulla - appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega [«paidìon»].
È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci: quella con colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.
Dimensione di santità senza aureole distintive: condivisibile, perché legata all’empatia, alla spontanea amicizia verso tutti - donna e uomo di ogni tempo.
Ovvio: non si tratta d’una proposta compromessa con la religione dottrina-e-disciplina che ricaccia indietro le eccentricità: assai più simpatica e amabile.
Quella del Figlio dell’uomo è quel tipo di Santità che ci rende unici, non che sta sempre ad aborrire ed esorcizzare il pericolo dell’inconsueto.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. Siamo dunque come ragazzini capricciosi? È un punto di domanda non da poco.
Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente, d’un sentiero che sa concedersi d’incontrare nuovi stati dell’essere.
L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto, comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini, per prevalere.
Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Leggiamo nel Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».
Senza sforzi alienanti il personale sfocia nel plurale e globale, valicando e vincendo spontaneamente la frammentazione e dispersione:
«Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come “Figlio di Davide”, ma come “figlio dell’uomo”. Il titolo di “Figlio dell’uomo”, nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione»
[papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012].
Ancora sul Figlio dell’uomo (Papa Giovanni Paolo II):
1. Gesù Cristo, Figlio dell’uomo e di Dio: è il tema culminante delle nostre catechesi sull’identità del Messia. È la verità fondamentale della rivelazione cristiana e della fede: l’umanità e la divinità di Cristo sulla quale dovremo riflettere in seguito in modo più completo. Per ora ci preme completare l’analisi dei titoli messianici già in qualche modo presenti nell’Antico Testamento e vedere in quale senso Gesù li attribuisce a sè.
Quanto al titolo di “Figlio dell’uomo”, è significativo che Gesù ne abbia fatto un uso frequente parlando di se stesso, mentre sono gli altri che lo chiamano “Figlio di Dio”, come vedremo nella prossima catechesi. Invece egli si autodefinisce “Figlio dell’uomo”, mentre nessun altro lo chiamava così, se si eccettuano il diacono Stefano prima della lapidazione (At 7, 56) e l’autore dell’Apocalisse in due testi (At 1, 13; 14, 14).
2. Il titolo “Figlio dell’uomo” proviene dall’Antico Testamento dal Libro del profeta Daniele. Ecco il testo che descrive una visione notturna del profeta: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”(Dn 7, 13-14).
E quando il profeta chiede la spiegazione di questa visione, riceve la risposta seguente: “I santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli . . . allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo, saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo” (Dn 7, 18.27). Il testo di Daniele riguarda una persona singola e il popolo. Notiamo subito che ciò che si riferisce alla persona del Figlio dell’uomo si ritrova nelle parole dell’angelo nell’annunciazione a Maria: “regnerà per sempre . . . e il suo regno non avrà fine” (Lc 1, 33).
3. Quando Gesù chiama se stesso “Figlio dell’uomo” usa un’espressione proveniente dalla tradizione canonica dell’Antico Testamento e presente anche negli apocrifi giudaici. Occorre però notare che l’espressione “Figlio dell’uomo” (ben-adam) era diventata nell’aramaico dei tempi di Gesù un’espressione indicante semplicemente “uomo” (“bar-enas”). Gesù, perciò, chiamando se stesso “figlio dell’uomo”, riuscì quasi a nascondere dietro il velo del significato comune il significato messianico che la parola aveva nell’insegnamento profetico. Non a caso, tuttavia, se enunciazioni sul “Figlio dell’uomo” appaiono specialmente nel contesto della vita terrena e della passione di Cristo, non ne mancano anche in riferimento alla sua elevazione escatologica.
4. Nel contesto della vita terrena di Gesù di Nazaret troviamo testi quali: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8, 20); o anche: “È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11, 19). Altre volte la parola di Gesù assume un valore più fortemente indicativo del suo potere. Così quando dice: “Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc 2, 28). In occasione della guarigione del paralitico calato attraverso un’apertura praticata nel tetto egli afferma in tono quasi di sfida: “Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua” (Mc 2, 10-11). Altrove Gesù dichiara: “Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione” (Lc 11, 30). In altra occasione si tratta di una visione avvolta nel mistero: “Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete” (Lc 17, 22).
5. Alcuni teologi notano un parallelismo interessante tra la profezia di Ezechiele e le enunciazioni di Gesù. Scrive il profeta: “(Dio) Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti . . . che si sono rivoltati contro di me . . . Tu dirai loro: Dice il Signore Dio”” (Ez 2, 3-4). “Figlio dell’uomo, tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono . . .” (Ez 12, 2) “Tu, figlio dell’uomo . . . tieni fisso lo sguardo su di essa (Gerusalemme) che sarà assediata . . . e profeterai contro di essa” (Ez 4, 1-7). “Figlio dell’uomo, proponi un enigma che racconta una parabola agli Israeliti” (Ez 17, 2).
Facendo eco alle parole del profeta, Gesù insegna: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19, 10). “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45; cf. anche Mt 20, 28). Il “Figlio dell’uomo” . . . “quando verrà nella gloria del Padre”, si vergognerà di chi si vergognava di lui e delle sue parole davanti agli uomini (cf. Mc 8, 38).
6. L’identità del Figlio dell’uomo appare nel duplice aspetto di rappresentante di Dio, annunciatore del regno di Dio, profeta che richiama alla conversione. Dall’altra egli è “rappresentante” degli uomini, dei quali condivide la condizione terrena e le sofferenze per riscattarli e salvarli secondo il disegno del Padre. Come dice egli stesso nel colloquio con Nicodemo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14-15).
È un chiaro annuncio della passione, che Gesù ripete: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8, 31). Per ben tre volte proviamo a fare preannuncio nel Vangelo di Marco (cf. Mc 9, 31; 10, 33-34) e in ciascuna di esse Gesù parla di se stesso come “Figlio dell’uomo”.
7. Con lo stesso appellativo Gesù si autodefinisce dinanzi al tribunale di Caifa, quando alla domanda: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”, risponde: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Mc 14, 62). In queste poche parole risuona l’eco della profezia di Daniele sul “Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo” (Dn 7, 13) e del salmo 110 che vede il Signore assiso alla destra di Dio (cf. Sal 110, 1).
8. Ripetutamente Gesù parla della elevazione del “Figlio dell’uomo”, ma non nasconde ai suoi ascoltatori che essa include l’umiliazione della croce. Alle obiezioni e alla incredulità della gente e dei discepoli, che ben comprendevano la magicità delle sue allusioni e che pure gli chiedevano: “Come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?” (Gv 12, 34), Gesù asserisce: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che io sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre” (Gv 8, 28). Gesù afferma che la sua “elevazione” per mezzo della croce costituirà la sua glorificazione. Poco dopo aggiungerà: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (Gv 12, 23). È significativo che alla partenza di Giuda dal Cenacolo, Gesù dica “ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui”(Gv 13, 31).
9. Ciò costituisce il contenuto di vita, di passione, di morte e di gloria di cui il profeta Daniele aveva offerto un pallido abbozzo. Gesù non esita ad applicare a sé anche il carattere di regno eterno e intramontabile che Daniele aveva assegnato all’opera del Figlio dell’uomo, quando nel mondo proclama: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26; cf. Mt 24, 30). In questa prospettiva escatologica deve svolgersi l’opera di evangelizzazione della Chiesa. Egli avverte: “Non avrete finito di percorrere la città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt 10, 23). E si chiede: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8).
10. Se come “Figlio dell’uomo” Gesù ha realizzato con la sua vita, passione, morte e resurrezione, il piano messianico, delineato nell’Antico Testamento, nello stesso tempo egli assume con quello stesso nome il suo posto tra gli uomini come uomo vero, come figlio di una donna, Maria di Nazaret. Per mezzo di questa donna, sua Madre, lui, il “Figlio di Dio”, è contemporaneamente “Figlio dell’uomo”, uomo vero, come attesta la Lettera agli Ebrei: “Si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (Eb 4, 5; cf. Gaudium et Spes, 22).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 29 aprile 1987]
In tutti i Vangeli, sono coloro che hanno operato scelte sbagliate ad essere particolarmente amati da Gesù, perché, quando si sono resi conto del loro errore, si sono aperti più degli altri alla sua parola risanatrice. In verità, Gesù fu spesso criticato da sedicenti giusti, perché passava troppo tempo in compagnia di tali persone. “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”, chiedevano. Ed egli rispondeva: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati ... non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (cfr Mt 9, 11-13). Erano coloro che desideravano ricostruire la loro vita che si dimostravano i più disponibili a dare ascolto a Gesù e a diventare suoi discepoli. Voi potete seguire le loro orme; anche voi potete avvicinarvi particolarmente a Gesù proprio perché avete scelto di ritornare a lui. Potete essere certi che, proprio come il Padre del racconto del figliol prodigo, Gesù vi accoglie a braccia spalancate. Vi offre il suo amore incondizionato: ed è nella profonda amicizia con lui che si trova la pienezza della vita.
[Papa Benedetto, incontro con la comunità di recupero, Sydney 18 luglio 2008]
Le particolari circostanze della nascita di Giovanni ci sono state tramandate dall’evangelista Luca. Secondo un’antica tradizione, essa avvenne ad Ain-Karim, davanti alle porte di Gerusalemme. Le circostanze che accompagnarono questa nascita erano tanto inconsuete, che già a quell’epoca la gente si domandava: “Che sarà mai questo bambino?” (Lc 1, 66). Per i suoi genitori credenti, per i vicini e per i parenti era evidente, che la sua nascita fosse un segno di Dio. Essi vedevano chiaramente che la “mano del Signore” era su di lui. Lo dimostrava già l’annuncio della sua nascita al padre Zaccaria, mentre questi provvedeva al servizio sacerdotale nel tempio di Gerusalemme. La madre, Elisabetta, era già avanti negli anni e si riteneva fosse sterile. Anche il nome “Giovanni” che gli fu dato era inconsueto per il suo ambiente. Il padre stesso dovette dare ordine che fosse chiamato “Giovanni” e non, come tutti gli altri volevano,“Zaccaria” (cf. Lc 1, 59-63).
Il nome Giovanni significa, in lingua ebraica “Dio è misericordioso”. Così già nel nome si esprime il fatto che il neonato un giorno annuncerà il piano di salvezza di Dio.
Il futuro avrebbe pienamente confermato le predizioni e gli avvenimenti che circondarono la sua nascita: Giovanni, figlio di Zaccaria e di Elisabetta, divenne la “voce di uno che grida nel deserto” (Mt 3, 3), che sulle rive del Giordano chiamava la gente alla penitenza e preparava la via a Cristo.
Cristo stesso ha detto di Giovanni il Battista che “tra i nati di donna non è sorto uno più grande” (cf. Mt 11, 11). Per questo anche la Chiesa ha riservato a questo grande messaggero di Dio una venerazione particolare, fin dall’inizio. Espressione di questa venerazione è la festa odierna.
4. Cari fratelli e sorelle! Questa celebrazione, con i suoi testi liturgici, ci invita a riflettere sulla questione del divenire dell’uomo, delle sue origini e della sua destinazione. È vero, ci sembra di sapere già molto su questo argomento, sia per la lunga esperienza dell’umanità, sia per le sempre più approfondite ricerche biomediche. Ma è la parola di Dio che ristabilisce sempre di nuovo la dimensione essenziale della verità sull’uomo: l’uomo è creato da Dio e da Dio voluto a sua immagine e somiglianza. Nessuna scienza puramente umana può dimostrare questa verità. Al massimo essa può avvicinarsi a questa verità o supporre intuitivamente la verità su questo “essere sconosciuto” che è l’uomo fin dal momento del suo concepimento nel grembo materno.
Allo stesso tempo però ci troviamo ad essere testimoni di come, in nome di una presunta scienza, l’uomo venga “ridotto” in un drammatico processo e rappresentato in una triste semplificazione; e così accade che si adombrino anche quei diritti che si fondano sulla dignità della sua persona, che lo distingue da tutte le altre creature del mondo visibile. Quelle parole del libro della Genesi, che parlano dell’uomo come della creatura creata ad immagine e somiglianza di Dio, mettono in rilievo, in modo conciso e al tempo stesso profondo, la piena verità su di lui.
5. Questa verità sull’uomo possiamo apprenderla anche dalla liturgia odierna, in cui la Chiesa prega Dio, il creatore, con le parole del salmista:
“Signore, tu mi scruti e mi conosci . . .
Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre . . .
tu mi conosci fino in fondo.
Quando venivo formato nel segreto . . .
non ti erano nascoste le mie ossa . . .
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio” (Sal 139 [138], 1. 13-15).
L’uomo quindi è consapevole di ciò che è - di ciò che è fin dall’inizio, fin dal grembo materno. Egli sa di essere una creatura che Dio vuole incontrare e con la quale vuole dialogare. Di più: nell’uomo vorrebbe incontrare l’intero creato.
Per Dio, l’uomo è un “qualcuno”: unico ed irripetibile. Egli, come dice il Concilio Vaticano II, “in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” (cf. Gaudium et Spes, 24).
“Il Signore dal seno materno mi ha chiamato; fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome” (Is 49, 1); come il nome del bambino che è nato in Ain-Karim: “Giovanni”. L’uomo è quell’essere, che Dio chiama per nome. Per Iddio egli è il “tu” creato, Tra tutte le creature egli è quell’“io” personale, che può rivolgersi a Dio e chiamarlo per nome. Dio vuole nell’uomo quel partner che si rivolga a lui come al proprio creatore e Padre: “Tu, mio Signore e mio Dio”. Al “tu” divino.
7. Dio ha chiamato Giovanni il Battista già “nel grembo materno” perché divenisse “la voce di uno che grida nel deserto” e preparasse quindi la via a suo Figlio. In modo molto simile, Dio ha “posto la sua mano” anche su ciascuno di noi. Per ciascuno di noi ha una chiamata particolare, a ciascuno di noi viene affidato un compito pensato da lui per noi.
In ciascuna chiamata, che può giungerci nel modo più diverso, si avverte quella voce divina, che allora parlò attraverso Giovanni: “Preparate la via del Signore!” (Mt 3, 3).
Ogni uomo dovrebbe domandarsi in che modo può contribuire nell’ambito del proprio lavoro e della propria posizione, ad aprire a Dio la via in questo mondo. Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Eisenstaedt 24 giugno 1988]
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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