Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
In questo Vangelo appaiono tre persone: il padre e i due figli. Ma dietro alle persone appaiono due progetti di vita abbastanza diversi. Ambedue i figli vivono in pace, sono agricoltori assai benestanti, hanno quindi di che vivere, vendono bene i loro prodotti, la vita sembra essere buona.
E tuttavia il figlio più giovane trova man mano questa vita noiosa, insoddisfacente: non può essere questa – egli pensa - tutta la vita: ogni giorno alzarsi, che so io, forse alle 6, poi secondo le tradizioni di Israele una preghiera, una lettura della Sacra Bibbia, poi si va a lavorare e alla fine ancora una preghiera. Così, giorno dopo giorno, lui pensa: Ma no, la vita è di più, devo trovare un’altra vita in cui io sia realmente libero, possa fare quanto mi piace; una vita libera da questa disciplina e da queste norme dei comandamenti di Dio, degli ordini del padre; vorrei essere solo io e avere la vita tutta totalmente per me, con tutte le sue bellezze. Adesso, invece, è soltanto lavoro...
E così decide di prendere tutto il suo patrimonio e di andarsene. Il padre è molto rispettoso e generoso e rispetta la libertà del figlio: è lui che deve trovare il suo progetto di vita. E lui va, come dice il Vangelo, in un paese molto lontano. Lontano probabilmente geograficamente, perché vuole un cambiamento, ma anche interiormente perché vuole una vita totalmente diversa. Adesso la sua idea è: libertà, fare quanto voglio fare, non conoscere queste norme di un Dio che è lontano, non essere nel carcere di questa disciplina della casa, fare quanto è bello, quanto mi piace, avere la vita con tutta la sua bellezza e la sua pienezza.
E in un primo momento - potremmo pensare forse per alcuni mesi – tutto va liscio: egli trova bello avere raggiunto finalmente la vita, si sente felice. Ma poi, man mano, sente anche qui la noia, anche qui è sempre lo stesso. E alla fine rimane un vuoto sempre più inquietante; sempre più vivo si fa il sentimento che questo non è ancora la vita, anzi, andando avanti con tutte queste cose, la vita si allontana sempre di più. Tutto diventa vuoto: anche ora si ripropone la schiavitù del fare le stesse cose. E alla fine anche i soldi si esauriscono e il giovane trova che il suo livello di vita è al di sotto di quello dei porci.
Allora comincia a riflettere e si chiede se era quella realmente la strada della vita: una libertà interpretata come fare quanto voglio io, vivere, avere la vita solo per me o se invece non sarebbe forse più vita vivere per gli altri, contribuire alla costruzione del mondo, alla crescita della comunità umana... Comincia così il nuovo cammino, un cammino interiore. Il ragazzo riflette e considera tutti questi nuovi aspetti del problema e comincia a vedere che era molto più libero a casa, essendo proprietario anche lui, contribuendo alla costruzione della casa e della società in comunione con il Creatore, conoscendo lo scopo della sua vita, indovinando il progetto che Dio aveva per lui. In questo cammino interiore, in questa maturazione di un nuovo progetto di vita, vivendo poi anche il cammino esteriore, il figlio più giovane si mette in moto per ritornare, per ricominciare con la sua vita, perché ha ormai capito che quello preso era il binario sbagliato. Devo ripartire con un altro concetto, egli si dice, devo ricominciare.
E arriva alla casa del padre che gli ha lasciato la sua libertà per dargli la possibilità di capire interiormente che cosa è vivere, che cosa è non vivere. Il padre con tutto il suo amore lo abbraccia, gli offre una festa e la vita può cominciare di nuovo partendo da questa festa. Il figlio capisce che proprio il lavoro, l’umiltà, la disciplina di ogni giorno crea la vera festa e la vera libertà. Così ritorna a casa interiormente maturato e purificato: Ha capito che cosa è vivere. Certamente anche in futuro la sua vita non sarà facile, le tentazioni ritorneranno, ma egli è ormai pienamente consapevole che una vita senza Dio non funziona: manca l’essenziale, manca la luce, manca il perché, manca il grande senso dell’essere uomo. Ha capito che Dio possiamo conoscerlo solo sulla base delle sua Parola. Noi cristiani possiamo aggiungere che sappiamo chi è Dio da Gesù, nel quale ci si è mostrato realmente il volto di Dio). Il giovane capisce che i Comandamenti di Dio non sono ostacoli per la libertà e per una vita bella, ma sono gli indicatori della strada su cui camminare per trovare la vita. Capisce che anche il lavoro, la disciplina l’impegnarsi non per sé, ma per gli altri allarga la vita. E proprio questa fatica di impegnarsi nel lavoro dà profondità alla vita, perché si sperimenta la soddisfazione di aver alla fine contribuito a fare crescere questo mondo che diventa più libero e più bello.
Non vorrei adesso parlare dell’altro figlio che è rimasto a casa, ma nella sua reazione di invidia vediamo che interiormente anche lui sognava che sarebbe forse molto meglio prendersi tutte le libertà. Anche lui nel suo intimo deve “ritornare a casa” e capire di nuovo che cosa è la vita, capire che si vive veramente solo con Dio, con la sua Parola, nella comunione della propria famiglia, del lavoro; nella comunione della grande Famiglia di Dio. Non vorrei adesso entrare in questi dettagli: lasciamo che ognuno di noi abbia il suo modo di applicare questo Vangelo a sé. Le situazioni nostre sono diverse e ognuno ha il suo mondo. Questo non toglie che siamo tutti toccati e tutti possiamo entrare con il nostro cammino interiore nella profondità del Vangelo.
Solo alcune piccole osservazioni, ancora. Il Vangelo ci aiuta a capire chi è veramente Dio: Egli è il Padre misericordioso che in Gesù ci ama oltre ogni misura. Gli errori che commettiamo, anche se grandi, non intaccano la fedeltà del suo amore. Nel sacramento della confessione possiamo sempre di nuovo ripartire con la vita: Egli ci accoglie, ci restituisce la dignità di figli suoi. Riscopriamo quindi questo sacramento del perdono che fa sgorgare la gioia in un cuore rinato alla vita vera.
Inoltre questa parabola ci aiuta a capire chi è l’uomo: non è una “monade”, un’entità isolata che vive solo per se stessa e deve avere la vita solo per se stessa. Al contrario, noi viviamo con gli altri, siamo creati insieme con gli altri e solo nello stare con gli altri, nel donarci agli altri troviamo la vita. L’uomo è una creatura in cui Dio ha impresso la sua immagine, una creatura che è attratta nell’orizzonte della sua Grazia, ma è anche una creatura fragile, esposta al male; capace però anche di bene. E finalmente l’uomo è una persona libera. Dobbiamo capire che cosa è la libertà e cosa è solo l’apparenza della libertà. La libertà, potremmo dire, è un trampolino di lancio per tuffarsi nel mare infinito della bontà divina, ma può diventare anche un piano inclinato sul quale scivolare verso l’abisso del peccato e del male e perdere così anche la libertà e la nostra dignità.
Cari amici, siamo nel tempo della Quaresima, dei quaranta giorni prima della Pasqua. In questo tempo di Quaresima la Chiesa ci aiuta a fare questo cammino interiore e ci invita alla conversione che, prima di essere uno sforzo sempre importante per cambiare i nostri comportamenti, è un’opportunità per decidere di alzarci e ripartire, abbandonare cioè il peccato e scegliere di tornare a Dio. Facciamo - questo è l’imperativo della Quaresima - facciamo insieme questo cammino di liberazione interiore. Ogni volta che, come oggi, partecipiamo all’Eucaristia, fonte e scuola dell’amore, diventiamo capaci di vivere questo amore, di annunziarlo e di testimoniarlo con la nostra vita. Occorre però che decidiamo di andare verso Gesù, come ha fatto il figlio prodigo, ritornando interiormente ed esteriormente dal padre. Al tempo stesso dobbiamo abbandonare l’atteggiamento egoista del figlio maggiore sicuro di sé, che condanna facilmente gli altri, chiude il cuore alla comprensione, all’accoglienza e al perdono dei fratelli e dimentica che anche lui ha bisogno del perdono. Ci ottengano questo dono Maria Vergine e san Giuseppe, il mio patrono, la cui festa sarà domani, e che ora invoco in modo particolare per ciascuno di voi e per le persone a voi care.
[Papa Benedetto, omelia Istituto penale per Minori Roma 18 marzo 2007]
3. Nel Nuovo Testamento, il perdono di Dio si manifesta attraverso le parole ed i gesti di Gesù. Rimettendo i peccati Gesù mostra il volto di Dio Padre misericordioso. Prendendo posizione contro alcune tendenze religiose caratterizzate da ipocrita severità nei confronti dei peccatori, egli illustra in diverse occasioni quanto grande e profonda sia la misericordia del Padre verso tutti i suoi figli (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1443).
Vertice di questa rivelazione può essere considerata la parabola sublime che si suol chiamare “del figliol prodigo”, ma che dovrebbe essere denominata del “padre misericordioso” (Lc 15, 11-32). Qui l’atteggiamento di Dio è presentato in termini davvero sconvolgenti rispetto ai criteri e alle attese dell’uomo. Il comportamento del padre nella parabola è compreso in tutta la sua originalità se teniamo presente che, nel contesto sociale del tempo di Gesù, era normale che i figli lavorassero nella casa paterna, come i due figli del padrone della vigna, di cui Egli ci parla in un’altra parabola (cfr Mt 21, 28-31). Questo regime doveva durare fino alla morte del padre, e solo allora i figli si dividevano i beni che spettavano loro in eredità. Nel nostro caso, invece, il padre accondiscende al figlio minore, che gli chiede la sua parte di patrimonio, e divide le sue sostanze tra lui e il figlio maggiore (cfr Lc 15, 12).
4. La decisione del figlio minore di emanciparsi, sperperando le sostanze ricevute dal padre e vivendo dissolutamente (cfr Ivi, 15,13), è una sfacciata rinuncia alla comunione familiare. L’allontanamento dalla casa paterna ben esprime il senso del peccato, con il suo carattere di ingrata ribellione e i suoi esiti anche umanamente penosi. Di fronte alla scelta di questo figlio, l’umana ragionevolezza, espressa in qualche modo nella protesta del fratello maggiore, avrebbe consigliato la severità di un’adeguata punizione, prima di una piena reintegrazione nella famiglia.
Ed invece il padre, vistolo tornare da lontano, gli corre incontro pieno di commozione (o meglio, “agitandosi nelle sue viscere”, come dice letteralmente il testo greco: Lc 15, 20), lo stringe in un abbraccio d’amore e vuole che tutti gli facciano festa.
La misericordia paterna risalta ancora di più quando questo padre, rimproverando teneramente il fratello maggiore che rivendica i propri diritti (cfr Ivi 15, 29s.), lo invita al comune banchetto di gioia. La pura legalità viene superata dal generoso e gratuito amore paterno, che supera la giustizia umana e convoca ambedue i fratelli a sedersi ancora una volta alla mensa del padre.
Il perdono non consiste solo nel ricevere nuovamente sotto il tetto paterno il figlio che se ne è allontanato, ma anche nell’accoglierlo nella gioia di una comunione ricomposta, trasferendolo dalla morte alla vita. Per questo “bisognava far festa e rallegrarsi” (Ivi 15, 32).
Il Padre misericordioso che abbraccia il figlio perduto è l’icona definitiva del Dio rivelato da Cristo. Egli è anzitutto e soprattutto Padre. È il Dio Padre che stende le sue braccia benedicenti e misericordiose, attendendo sempre, non forzando mai nessuno dei suoi figli. Le sue mani sorreggono, stringono, danno vigore e nello stesso tempo confortano, consolano, accarezzano. Sono mani di padre e di madre nello stesso tempo.
Il padre misericordioso della parabola contiene in sé, trascendendoli, tutti i tratti della paternità e della maternità. Gettandosi al collo del figlio mostra le sembianze di una madre che accarezza il figlio e lo circonda del suo calore. Si comprende, alla luce di questa rivelazione del volto e del cuore di Dio Padre, la parola di Gesù, che sconcerta la logica umana: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Ivi 15, 7). Così pure: “C’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte” (Ivi 15, 10).
5. Il mistero del ‘ritorno-a-casa’ esprime mirabilmente l’incontro tra il Padre e l’umanità, tra la misericordia e la miseria, in un circolo d’amore che non riguarda solo il figlio perduto, ma si estende a tutti.
L’invito al banchetto, che il padre rivolge al figlio maggiore, implica l’esortazione del Padre celeste a tutti i membri della famiglia umana perché anch’essi siano misericordiosi.
L’esperienza della paternità di Dio implica l’accettazione della ‘fraternità’, proprio perché Dio è Padre di tutti, anche del fratello che sbaglia.
Narrando la parabola, Gesù non parla solo del Padre, ma lascia intravedere anche i suoi stessi sentimenti. Di fronte ai farisei e agli scribi che lo accusano di ricevere i peccatori e di mangiare con loro (cfr Ivi 15, 2), egli mostra di preferire i peccatori e i pubblicani che si avvicinano a lui con fiducia (cfr Ivi 15, 1) e rivela così di essere inviato a manifestare la misericordia del Padre. È la misericordia che rifulge soprattutto sul Golgota, nel sacrificio offerto da Cristo in remissione dei peccati (cfr Mt 26, 28).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 8 settembre 1999]
«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
Così il Vangelo ci immette nel cuore della parabola che manifesta l’atteggiamento del padre nel vedere ritornare suo figlio: scosso nelle viscere non aspetta che arrivi a casa ma lo sorprende correndogli incontro. Un figlio atteso e desiderato. Un padre commosso nel vederlo tornare.
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore.
Nella sua incapacità di partecipare alla festa, non solo non riconosce suo fratello, ma neppure riconosce suo padre. Preferisce l’essere orfano alla fraternità, l’isolamento all’incontro, l’amarezza alla festa. Non solo stenta a comprendere e perdonare suo fratello, nemmeno riesce ad accettare di avere un padre capace di perdonare, disposto ad attendere e vegliare perché nessuno rimanga escluso, insomma, un padre capace di sentire compassione.
Sulla soglia di quella casa sembra manifestarsi il mistero della nostra umanità: da una parte c’era la festa per il figlio ritrovato e, dall’altra, un certo sentimento di tradimento e indignazione per il fatto che si festeggiava il suo ritorno. Da un lato l’ospitalità per colui che aveva sperimentato la miseria e il dolore, che era giunto persino a puzzare e a desiderare di cibarsi di quello che mangiavano i maiali; dall’altro lato l’irritazione e la collera per il fatto di fare spazio a chi non era degno né meritava un tale abbraccio.
Così, ancora una volta emerge la tensione che si vive tra la nostra gente e nelle nostre comunità, e persino all’interno di noi stessi. Una tensione che, a partire da Caino e Abele, ci abita e che siamo chiamati a guardare in faccia. Chi ha il diritto di rimanere tra di noi, di avere un posto alla nostra tavola e nelle nostre assemblee, nelle nostre preoccupazioni e occupazioni, nelle nostre piazze e città? Sembra che continui a risuonare quella domanda fratricida: sono forse il custode di mio fratello? (cfr Gen 4,9).
Sulla soglia di quella casa appaiono le divisioni e gli scontri, l’aggressività e i conflitti che percuoteranno sempre le porte dei nostri grandi desideri, delle nostre lotte per la fraternità e perché ogni persona possa sperimentare già da ora la sua condizione e dignità di figlio.
Ma a sua volta, sulla soglia di quella casa brillerà con tutta chiarezza, senza elucubrazioni né scuse che gli tolgano forza, il desiderio del Padre: che tutti i suoi figli prendano parte alla sua gioia; che nessuno viva in condizioni non umane come il suo figlio minore, né nell’orfanezza, nell’isolamento e nell’amarezza come il figlio maggiore. Il suo cuore vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4).
Sicuramente sono tante le circostanze che possono alimentare la divisione e il conflitto; sono innegabili le situazioni che possono condurci a scontrarci e a dividerci. Non possiamo negarlo. Ci minaccia sempre la tentazione di credere nell’odio e nella vendetta come forme legittime per ottenere giustizia in modo rapido ed efficace. Però l’esperienza ci dice che l’odio, la divisione e la vendetta non fanno che uccidere l’anima della nostra gente, avvelenare la speranza dei nostri figli, distruggere e portare via tutto quello che amiamo.
Perciò Gesù ci invita a guardare e contemplare il cuore del Padre. Solo da qui potremo riscoprirci ogni giorno come fratelli. Solo a partire da questo orizzonte ampio, capace di aiutarci a superare le nostre miopi logiche di divisione, saremo capaci di raggiungere uno sguardo che non pretenda di oscurare o smentire le nostre differenze cercando forse un’unità forzata o l’emarginazione silenziosa. Solo se siamo capaci ogni giorno di alzare gli occhi al cielo e dire “Padre nostro” potremo entrare in una dinamica che ci permetta di guardare e di osare vivere non come nemici, ma come fratelli.
«Tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31), dice il padre al figlio maggiore. E non si riferisce solo ai beni materiali ma al partecipare del suo stesso amore e della sua stessa compassione. Questa è la più grande eredità e ricchezza del cristiano. Perché, invece di misurarci o classificarci in base ad una condizione morale, sociale, etnica o religiosa, possiamo riconoscere che esiste un’altra condizione che nessuno potrà cancellare né annientare dal momento che è puro dono: la condizione di figli amati, attesi e festeggiati dal Padre.
«Tutto ciò che è mio è tuo», anche la mia capacità di compassione, ci dice il Padre. Non cadiamo nella tentazione di ridurre la nostra appartenenza di figli a una questione di leggi e proibizioni, di doveri e di adempimenti. La nostra appartenenza e la nostra missione non nasceranno da volontarismi, legalismi, relativismi o integrismi, ma da persone credenti che imploreranno ogni giorno con umiltà e costanza: “venga il tuo Regno”.
La parabola evangelica presenta un finale aperto. Vediamo il padre pregare il figlio maggiore di entrare a partecipare alla festa della misericordia. L’Evangelista non dice nulla su quale sia stata la decisione che egli prese. Si sarà aggiunto alla festa? Possiamo pensare che questo finale aperto abbia lo scopo che ogni comunità, ciascuno di noi, possa scriverlo con la sua vita, col suo sguardo e il suo atteggiamento verso gli altri. Il cristiano sa che nella casa del Padre ci sono molte dimore, e rimangono fuori solo quelli che non vogliono partecipare alla sua gioia.
Cari fratelli, care sorelle, voglio ringraziarvi per il modo in cui date testimonianza del vangelo della misericordia in queste terre. Grazie per gli sforzi compiuti affinché le vostre comunità siano oasi di misericordia. Vi incoraggio e vi incito a continuare a far crescere la cultura della misericordia, una cultura in cui nessuno guardi l’altro con indifferenza né giri lo sguardo quando vede la sua sofferenza (cfr Lett. ap. Misericordia et misera, 20). Continuate a stare vicino ai piccoli e ai poveri, a quelli che sono rifiutati, abbandonati e ignorati, continuate ad essere segno dell’abbraccio e del cuore del Padre.
E che il Misericordioso e il Clemente – come tanto spesso lo invocano i nostri fratelli e sorelle musulmani – vi rafforzi e renda feconde le opere del suo amore.
[Papa Francesco, omelia Rabat 31 marzo 2019]
(Lc 18,9-14)
Il meccanismo della retribuzione nega l’esperienza essenziale della vita di Fede: ‘lasciarsi salvare, vivendo di Mistero’ - invece del cerchio concluso d’anguste “giustizie” che non sanno dove andare.
Per introdursi nella novità di Cristo basta aver incontrato se stessi ed essere sinceri: strana santità, accessibile a tutti.
Essa giunge alla realtà, anche più intima: non siamo onnipotenti nel bene; non riusciamo a fare granché di buono a partire dalle sofisticazioni, dalle idee, dai muscoli.
Lasciando spazio all’intervento del Padre, impariamo a confidare in ciò che si riceve, assai più che poggiare sulle aspettative anche altrui, o su quel che ci si propone e impone.
La nostra storia concreta può riflettersi in forma di Preghiera. Ma se il dialogo con Dio non affiora da una percezione penetrante e s’accontenta dei traguardi esterni, l’Ascolto diventa vuoto.
Lo spirito di grandezza anche morale e spirituale, sprofonda inesorabile - e nella miseria vera: quella epidermica.
Non vede l’eccezionalità del Padre: Colui che trasmette vita.
Chi vive di paragoni e ha una sprezzante valutazione dei considerati inferiori, non gode di aperture.
Resta senza spazio né tempo per l’azione dell’essere poliedrico, nella varietà di situazioni.
Sbaglia posto davanti a Dio e al prossimo - negandosi la gioia del Gratis e della Novità.
In tal guisa, mai confida in ciò che è più affidabile di una visione del mondo, o delle proprie iniziative dirigiste.
Non coglie nulla che già non sa, perché non legge dentro.
È in costante monologo: con se stesso [mai giungendo sino in fondo di sé] e quelli della propria cerchia.
Così non contagia felicità - che deriva dallo stupore.
Ultimamente, trova solo teatro, un rimbombo d’eco di voci altrui e a contorno.
Non l'intimità di persona eccezionale e amata così com’è.
Il soggetto della vita religiosa arcaica è infatti il “nostro” - l’io.
Se Gesù avesse chiesto chi dei due potesse tornare a casa giustificato, tutti avrebbero immaginato il fariseo, il ritagliato a parte.
Nella vita di Fede il Soggetto è invece il Mistero, l’Eterno, il Vivente.
È Lui che opera, creando: e anche qui agisce solo Lui.
Giustifica, ossia pone giustizia dov’essa non c’è. L’autosufficiente non ha bisogno.
Questo il reale e regale Principio, motore della nostra realizzazione e della preghiera-ascolto autentica, spoglia di meriti e vanto ma capace di recuperare i ‘lati opposti’.
Dio teme le liturgie e le orazioni individuali inappuntabili, in cui non avviene nulla e da cui si esce senza aver sperimentato la sua «Azione Creatrice» e il suo perdono.
Opera non nostra. Energia e pungolo che anche nell’intimo ci porta Alleanza di ‘volti’, convivialità delle differenze.
Nella vita spirituale e sociale del “poliedro” e del sommario, siamo abilitati a tradurre l’esigenza del ‘con-sentimento’, che il Padre comunica in modo largo e dandoci tempo.
Ben più che una lotta fra opposte visioni del mondo: la Giustizia divina è inedita e crescente - non la si compera con le opere di maniera.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando mi colgo fariseo e quando pubblicano?
Come posso incontrare me stesso contemplando Dio? E incontrando gli altri?
[Sabato 3.a sett. Quaresima, 29 marzo 2025]
Fariseo-pubblicano: le due anime, e il Mistero essenziale
(Lc 18,9-14)
Dice il Tao Tê Ching (x): «Preserva l’Uno dimorando nelle due anime: sei capace di non farle separare?».
Le tante raffigurazioni e interpretazioni convenzionali dell’episodio ci portano fuori strada.
L’unica parabola ambientata nel Tempio è un vulcano di portata paradossale, straordinaria, che non t’aspetti.
Gli Ebrei pregano in piedi, segno della disponibilità a porre immediatamente in atto ciò che il Signore chiede.
Per noi stare in piedi vuol dire che celebriamo come figli risorti.
Ma qui il fenomeno della religiosità e della morale «stando in piedi, pregava così verso se stesso» (v.11): non dialoga con Dio, né si accorge di nulla!
Forse è convinto di pregare, ma sta facendo tutt’altro: non ascolta, non presta attenzione, non percepisce il messaggio e il senso delle presenze, solo ne prende distanza.
Ricordo nel grande salone della Penitenzieria Apostolica l’epigrafe «Pax omnium rerum tranquillitas ordinis».
Mentalità che se mediata da moralismi approssimativi, non sta con noi; non ci porta, né infonde profondità e relazioni.
Su tale base, se in confessione si fossero presentati i due protagonisti del brano, avrei sentenziato: al fariseo manca l’umiltà, l’altro ripaghi i danni.
Persino la testata de L’Osservatore Romano ribadisce il motto-epigrafe «Unicuique Suum» - principio fondamentale del diritto di proprietà nel mondo latino.
Non basta la Giustizia? [Servirebbe Gesù?].
Il punto è: Conoscere l’Amore, realtà ricca: non scambio di favori con Dio. E assumere la posizione che non inquini né corrompa la vita. Questa tutta la partita.
«Io rinuncio, io lascio tutto, io parto, io penso, io dico, io progetto, io sarò impeccabile e fedele facendomi vedere dagli altri sempre “a modo” [ossia come non sono]»: è la filastrocca ideale che ribalta l’avventura di Fede.
Il soggetto dell’uomo religioso è se stesso e ciò che lui fa per Dio - nonché come si atteggia (in modo artificioso); così via.
Ridicolo - non solo profondamente riduttivo. Ma da quest’idea scaturisce la considerazione dell’altro e del diverso come un irrecuperabile.
Invece la vita di ciascuno è zeppa d’interiori antinomie e controfigure.
Proviamo a ribaltare la parabola da un livello moralistico a quello teologico, perché Lc - attenzione - mette in scena il meglio della spiritualità e il peggio della morale del tempo.
Ecco il suo boomerang: vuole avviare una riflessione su noi stessi.
«Ladri»: Gesù definisce tali proprio i leaders religiosi e i “farisei” [di ritorno], dentro pieni di rapina, sebbene al di fuori sembrino chissà cosa.
«Ingiusti»: [tanto per capirci in breve] s. Teresina diceva che Dio è giusto perché tiene conto delle nostre difficoltà.
«Adulteri»: ma l’adulterio teologico è proprio accodarsi a un idolo (qui l’io-padreterno che contempla il sé esterno).
Nel concetto biblico «adulterio» indica propriamente un rapporto devoto scorretto, come con un nume inautentico.
In tal guisa, anche una relazione formale impeccabile - e viceversa lo schierarsi dalla parte del feticcio.
Insomma, il “santo” non si rivolge al Padre, ma al Dio-forma che ha in mente lui - sebbene voglia persino stupirlo di esagerazioni (v.12).
Però non è d’accordo col pensiero dell’Eterno.
Non percepisce il progetto dell’Altissimo: edificare Famiglia umana. Soccorrerci, e arricchire insieme, l’un l’altro.
Quindi non si lascerà mai cambiare - addirittura convinto di riprodurre esattamente il suo genio tutelare.
Per i professionisti del sacro maniaci di falsa perfezione, la Salvezza è premio finale d’una scalata individuale.
Non l’Opera ri-creatrice e gratuita d’un Genitore che traghetta le nostre vicende complesse, lasciando spazio e modo affinché evolvano in vita da salvati.
Così l'esperienza sia personale che comunitaria incattivisce, perché la “religione” standard inculca e trattiene un’immagine deforme del proprio carattere, e dell’Ideale.
L’Onnipotente nell’Amore assume nell’inconscio le sembianze del Padrone del Cielo, della terra, e del sottoterra - distributore di premi e castighi.
Qui, devozione prima o poi farà rima con “separazione”.
Invece, Giustificazione allude a un più acuto, rispettoso, sapiente assetto.
Posizione verso Dio [che non è un notaio] e verso l’umanità ch’è tutta nostra; sarebbe puerile averne disprezzo.
Genuinità e Spirito vanno in sinergia.
A nessuno Cristo raccomanda di “farsi santo” ossia “separato”, come raccomandato dalla Legge antica (Lv 19,2) e da tutta una spiritualità inappuntabile arcaica.
Il nuovo criterio è comprensivo: la convivialità delle differenze e il recupero fecondo degli opposti. Appunto, l’Amore che fiorisce nella naturalezza.
Se proprio vogliamo, il senso del cammino nello Spirito potrebbe essere identificato nel passaggio critico dal Primo al Nuovo Testamento.
Ma sarebbe ancora troppo banale immaginare che nell’Antico Dio è Giudice forense e nel Nuovo “giudice del cuore”.
La Giustificazione che il Padre opera concerne la forma intima di ciò che “muove”, e il senso di quale motivazione e pungolo ci cambia.
Gl’inopportuni scienziati della vita pia hanno sempre tratteggiato la Salvezza quale premio finale di un’arrampicata estenuante.
Mi diceva una povera anima ben motivata, eppur plagiata, vessata e mal guidata: ‘chi più si pista di più s’acquista’.
Invece, quando Dio opera, crea, collocandoci nella giusta attitudine e traghettandoci verso una feconda direzione - non è detto in salita.
Tutto al fine di realizzarci e completarci, non per sfiancare e annientare le linee portanti della nostra personalità, irripetibile, impareggiabile.
Configurazione di equilibri che sappiamo bene essere non ordinaria, non meccanica, non prevedibile.
Il Padre non è un allenatore che si compiace solo del più forte dei suoi attaccanti.
Non è attratto dalle virtù di pochi, ma dalle molte necessità di tutti.
Nell’attesa di soluzioni irrisolte, non guarda i meriti delle persone, ma il loro bisogno di essere completate.
Pertanto chi fa il bene non merita assolutamente nulla: deve solo ringraziare la Provvidenza, che lo ha condotto anzitempo sulla strada di un’esperienza di pienezza di essere, sulla Via della Gioia.
Rimanendo appiccicato al suo tronetto, l'arrogante veterano del sacro e della disciplina (e dei modi perbene o da reduce) rimane lì.
Impantanato nell’io che si compiace del “suo” - ripiegato sull’ombelico delle opere di legge con cui voleva comprarsi il beneplacito di Dio - mostrandosi artificiosamente suo amico.
E torna a Casa, ossia in comunità (v.14), uguale a prima: unilaterale, come una sfinge.
Sono i sepolcri imbiancati davanti ai quali dobbiamo inchinarci per baciare le sacre pantofole, altrimenti non si passa.
Sono i separati dal resto della folla, perché per loro la gente può solo essere: utile, o seccante.
Non c’è nulla da fare. Certe persone compiaciute e autosufficienti, che non hanno mai fatto l’esperienza dell’humus e del gratis, Dio non riesce a farle giuste.
Non sono abituate a guardare la realtà, neppure la propria - ma a sottolineare ogni separazione che disdegna. E unicamente ciò ch’è prescritto; da cui non si esce.
Sembrano uomini tutti d’un pezzo e che posseggono un elevato senso della esclusività divina.
Tuttavia in loro non esistono energie spirituali profonde - quelle che sanno vedere oltre, sino a cogliere le fragranze più variegate.
Primi a non sapersi affidare al Mistero, continuano ad appestare l’aria, certissimi del loro rango spirituale e dei riconoscimenti - pretendendo (ovviamente) dazi ovunque si concedano.
Neppure il Padre riesce a giustificarli, ossia a collocarli nel punto giusto di fronte a Lui e ai fratelli.
Il senso di santità da cui si sentono ammantati li porta al disdegno altrui, e non c’è verso.
Come discernere anche in noi le tracce della presunzione religiosa? È il tema rilevante della parabola (v.9).
Dalla stessa Preghiera si capisce che il nostro stesso volto possiede un’immagine martellante e diabolica dell’Eterno.
Come fosse uno che fa il contabile, ossia che paga secondo i meriti e castiga secondo colpe.
Mentre il Dio biblico dona in pura perdita. Perché?
Nello Spirito cogliamo in noi un’energia che deve realizzare la sua opera nell’attimo [così frequentemente senza eguali], o nel ritmo anche sconnesso degli accadimenti molteplici e delle relazioni.
Qui intuiamo la deità parziale e paradossale dei ‘compagni di viaggio’ - come l’irreprensibile e il peccatore, che ci ricordano la Missione.
Personaggi compresenti nell’anima: deviazioni uniche, che integrano e perfezionano, diventando la nostra irripetibile Originalità.
La vita di Fede e la Preghiera portano sì a guarigione, ma talora paiono scomparire, come se ci avvicinassimo al trasgressore del Vangelo.
Danno risposte, ma a volte esse sembrano anche fortuite.
Hanno il medesimo passo disorganico e interrotto (il reale cambiamento arriva inaspettato) ma stessa composizione simbiotica, struttura, figura complessa, di un arbusto e dell’amore.
Una pianta bella rigogliosa ha le sue stagioni; neppure si sogna di possedere una connotazione senza sfumature e lati opposti.
Può sconcertare, ma le realtà di natura non fanno a meno delle radici per il fatto che queste parti basse si mescolano con il letame, la melma, il buio e i vermi - parassiti striscianti; come il pubblicano, immerso nel peccato fino al collo.
Se una rosa volesse tagliare le basi nascoste e infestate da cui sorge, tutta la pianta collasserebbe, perdendo anche la sua spettacolare individualità.
È la confusione - anche fetida e nauseante - che crea una terra feconda accogliente tutti i ruoli, e lo spazio di maturazione non monocromatico aperto a ogni filone di vita.
Ci sono fasi e presenze in apparenza oscuranti, di cui prendere atto, sulle quali siamo come seduti.
Quasi in un ribaltamento di piani, è l’incontro con le nostre ombre che ci fa svettare e affermare.
Merito del fariseo, e bisogno del pubblicano, sono aspetti in simbiosi.
Per antica educazione al credere ai codici, siamo quasi frastornati dalle novità.
Ma possiamo piantare il seme della crescita solo abbracciando la vita senza presuntuose aspettative.
Da certezze discriminanti, propositi maniacali indotti, ovvietà di luoghi comuni, non deriva sviluppo, realizzazione, fioritura con risultato esponenziale - in tutti i nostri lati.
Anche nell’amore ad es. non vogliamo fissarci su un’idea finta, fatta di pregiudizi, schemi ideologici, e divise.
Allora - ma proprio per salvarci - affiorano le fragilità.
Esse ci possono sì portare a dipendere, ma anche a cercare nuova comunicazione, per una migliore completezza.
Se il passato resta un totem primordiale, artificioso al pari delle ideologie sofisticate, disincarnate - tutto diventa fantasia, rimpianto, confusione, disastro.
Nel cammino spirituale, guai a rivolgersi ai grandi amori artefatti, col loro fascino avvolgente e straripante, ma asettico.
Frenesia che invade e occupa la vita, blocca e ripudia ogni progetto; non libera l’anima dai distinguo.
Non consente di notare nuovi destini. Fa abdicare. Ci assesta in superficie e non rovescia le sorti (cf. v.14).
Così il nostro organismo naturale, emotivo e sovrannaturale: convinto solo di qualcosa e incapace di rompere quei compartimenti.
Esso morirebbe - se perdesse la completezza delle polarità, la spontaneità più ovvia, e fosse sterilizzato. Trasmettendo la sua stessa morte, attorno.
Come nelle realtà create, anche nella vicenda spirituale sono i versanti contraddittori a comporre la ricchezza di facoltà, inclinazioni, destini, volti, e capacità.
A volte saranno proprio le crisi particolari da affrontare appunto con qualità speciali e risorse specifiche non in linea con le inclinazioni consuete o imperative - a riportarci sul nostro vero percorso.
È nell’incessante Incontro con la folla di personaggi a noi intima, e nel voltarsi attorno per accorgersi e percepire, che si decanta il caduco limitante, e si unifica l’uomo.
Tutto ciò affinché diventi solido e aperto, affidabile e creativo, capace di stare sia dentro che fuori casa.
E il Padre ci concede tempo per una formazione variegata, per attendere che nelle ambivalenze del processo incontriamo ogni sfaccettatura.
I troppi filtri, le censure, i molti freni, non preparerebbero la metamorfosi evolutiva che ci appartiene: quella in grado di superare i momenti difficili non con un faticoso pertugio o un sudato varco, bensì col sogno, e con la carezza d’un vero colpo di scena.
Nell’orazione-monologo, il narcisista che talora siamo noi, non fa che informare il Principio immobile delle sue conquiste, perché non vede altro che se stesso.
Ma non regge né regola quanto è umano o divino.
Neppure si chiede a quale Dio si stia rivolgendo, e in che posa si collochi.
Non ha pregato, non ha sintonizzato i propri pensieri su quelli del Padre. Ha solo stancato le anime, spento e rovinato i rapporti.
È in una posizione di cinismo e incapacità a cogliere la distanza fra l’uomo vero e il Creatore.
Ciò gl’impedisce di abbandonarsi a Lui, e il non cedere fa impallidire la capacità di recepire una nuova Vocazione all’interno della Vocazione [che non è mai “a posto” e soddisfacente].
Crede la perfezione come un porto sicuro; immagina di riflettere Dio sulla terra, di avere la medesima mentalità e le Sue stesse relazioni…
Del resto, gli amici poco benevoli, risoluti e a circolo chiuso che frequenta sarebbero gli stessi del suo Totem, ben foggiato ma senza valore.
Come lui, anch’essi restano nella sfera statica, priva di desiderio - però con una montagna di scrupoli. O senza un principio di realtà.
Un ambiente di gretti e ridicoli: uomini a misura, infantili come il loro oggetto (soggetto) di culto, ossia il sé - che non vede oltre lo stagno di acque morte a portata di mano.
Il “fariseo” da salotto o devoto è nemmeno sfiorato dal dubbio.
Posizione pericolosa, che mai consentirà di riflettere sui paradossi più intimi che avviano e riavviano l’Esodo, attivando nuove passioni.
Temendo ciò che finisce, mai proverà la Gioia ineffabile del Dono adesso, che accende la storia e cambia la vita.
Nulla in termini di stupore s’inaugura, sulla base di un'identità di caratteristiche o di vedute.
Ciò soprattutto se le linee distintive restano imprigionate nel passato (o futuro). Se permangono, nel modo di vivere e capire “di prima” (o “di poi”) che torna a dirigerci.
E non si fida dell’Amore che prepara il frutto dello Spirito: sta per arrivare; così com’è.
Chi non ha certezze lapidarie, non si fa guidare in modo artificioso.
Piuttosto, si lascia prendere come da una corrente d’insicurezza, che tuttavia lo porterà a conoscere la Felicità profonda, le grandi fioriture.
La rottura delle acque d’un parto ulteriore: la vita a tutto tondo.
Insomma, una volta messe sullo sfondo le abitudini, le idee astratte, le identificazioni, le opinioni comuni, le mode anche glamour, l’Eros fondante della nostra Chiamata personale potrà ancora scendere in campo.
Ottenendo migrazioni, manifestando tutto il suo Fuoco.
Nella vita siamo stati vittime, talora anche carnefici.
Dio lo sa e permette che la nostra libertà possa emergere: viceversa, in ogni recinto, in qualsivoglia scelta cadenzata, le possibilità del mondo interiore restano chiuse.
Allora - per rimetterci in discussione - dona i momenti no, le presenze e le preferenze contrapposte, nonché le voci dell’interno più inattese.
Altri profili, che pure ci appartengono; tutt’altro, rispetto ai modi di essere che già conosciamo [non si sono ancora espressi, ma prima o poi vorranno trovare spazio].
Semplicemente, è bene assumerne i tratti - e in noi ospitarli in modo assolutamente onesto.
Affinché non diventino disturbi laceranti, o da integrare con perversioni, affarismo, esercizio del potere, atteggiamenti settari: pessime abitudini, appena coperte da stilemi affabili.
I lati sepolti e forse ancora sconosciuti non vogliono disturbare l’opzione fondamentale al bene, ma l’esistenza inutile, tutta pronosticabile.
Essi sono altrettante Chiamate, sorprendenti, ma che per forza innata sanno dove condurci.
Esistono percorsi che ci appartengono e che non sono ancora emersi, o di cui abbiamo perso memoria.
Così, proprio in forza di tanta congerie interiore - fase dopo fase - il personaggio che è pertinente alla persona… traccia spontaneamente e provvidenzialmente la sua rotta.
Solo se saremo impregnati di ciò che è infinito e al contempo di quant’è sdraiato alla base dell’anima, il nostro io fariseo non si distaccherà dall’io pubblicano.
Energie plasmabili, volti che ci corrispondono profondamente e di fatto; maestri di pratica e di concetto; non di maniere.
Sono in varia miscela e secondo le età della vita, le reali sfaccettature della nostra variegata essenza spirituale.
Binari che corrono sottotraccia o paralleli, ma che talora s’intersecano e surclassano a vicenda, creando un magma che attende istante per istante di venire performato.
Per realizzare la Destinazione che è tutta nostra ci sono già state molte porte da aprire.
E abbiamo di frequente verificato che il Fiore cercato si nascondeva proprio fra i nostri disturbi.
Altro che già ritenersi vicini al Paradiso!
Bene: Dio c’introduce in un altro genere di coesistenza, dentro e fuori: equilibrio, serenità, Comunione.
Perché in ciò che davvero spinge all’eterno, tutto si recupera. Nella Pienezza, nulla si separa da nulla.
È l’autentica svolta, che dona dignità a ciò che accade. E apre la porta al Completamento.
Ribadisce il Tao (xxvii):
«Per questo il santo sempre ben soccorre gli uomini e perciò non vi son uomini respinti, sempre ben soccorre le creature e perciò non vi son creature respinte; ciò si chiama trasfondere l’illuminazione. Così l’uomo che è buono è maestro dell’uomo non buono, l’uomo che non è buono è profitto all’uomo buono. Chi non apprezza un tal maestro, chi non ha caro un tal profitto, anche se è sapiente cade in grave inganno: questo si chiama il mistero essenziale».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando mi colgo fariseo e quando pubblicano?
Come posso incontrare me stesso contemplando Dio? E incontrando gli altri?
Quando Dio ti viene vicino, ti abbandoni o temi ciò che finisce?
Quali sono state le esperienze di amore immeritato che ti hanno cambiato la vita?
Hai trovato maggiore comprensione dentro o fuori la Chiesa? Da parte di amici e conoscenti o di supertitolati del sacro? Come mai?
L’elemosina, la preghiera e il digiuno caratterizzano l’ebreo osservante della legge. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità. Gesù mette in evidenza in queste tre opere di pietà una tentazione comune. Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi. Nel riproporre queste prescrizioni, il Signore Gesù non chiede un rispetto formale ad una legge estranea all'uomo, imposta da un legislatore severo come fardello pesante, ma invita a riscoprire queste tre opere di pietà vivendole in modo più profondo, non per amore proprio, ma per amore di Dio, come mezzi nel cammino di conversione a Lui. Elemosina, preghiera e digiuno: è il tracciato della pedagogia divina che ci accompagna, non solo in Quaresima, verso l’incontro con il Signore Risorto; un tracciato da percorrere senza ostentazione, nella certezza che il Padre celeste sa leggere e vedere anche nel segreto del nostro cuore.
[Papa Benedetto, omelia s. Sabina 9 marzo 2011]
6. “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano” (Lc 18, 10). Tuttavia soltanto uno tornò a casa giustificato. E fu proprio il pubblicano (cf. Lc 18, 14). Questo vuol dire che soltanto lui raggiunse il mistero interiore del tempio, il mistero unito alla sua consacrazione. Soltanto lui, benché tutti e due vi si fossero recati a pregare.
Così dunque risulta che lo stesso spazio sacro, il tempio, la cattedrale, deve essere ulteriormente riempito con un altro spazio totalmente interiore e spirituale: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo spirito di Dio abita in voi?” - scrive san Paolo (1 Cor 3, 16).
Di fatto la vostra cattedrale, come tante altre nel mondo, si riempie con un numero quasi infinito di quei templi interiori, che sono i “cuori” umani. A chi rassomigliano maggiormente questi “cuori” umani? Al fariseo oppure al pubblicano? Il tempio è segno della riconciliazione dell’uomo con Dio in Gesù Cristo. Tuttavia la realtà di tale riconciliazione - che è indicata dal segno esterno del tempio - in definitiva passa attraverso il cuore umano, attraverso questo santuario della giustificazione e della santità.
7. Il fariseo tornò “non giustificato” perché era “pieno di se stesso”. Nello “spazio” del suo cuore non c’era posto per Dio. Il fariseo era presente nel tempio materiale; ma Dio non era presente nel tempio del suo cuore. Perché invece, è tornato “giustificato” il pubblicano? Per il fatto che - a differenza del fariseo - egli riconosce umilmente di aver bisogno di essere giustificato. Egli non giudica gli altri. Giudica se stesso.
Il pubblicano “se ne sta a distanza”, eppure - e forse non se ne rende esattamente conto - è più che mai vicino al Signore, perché “il Signore, come dice il Salmo (33, 19), è vicino a chi ha il cuore ferito”. Dio non è affatto lontano dal peccatore, se questo peccatore ha il “cuore ferito”, cioè pentito, e confida, come il pubblicano, nella misericordia divina: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Il pubblicano, dunque, non si gloria in se stesso, ma nel Signore. Non si esalta. Non si mette al primo posto, ma riconosce a Dio la sua maestà, la sua trascendenza. Egli sa che Dio è grande e misericordioso, e che si piega al grido del povero e dell’umile.
Il pubblicano “sta a distanza”, ma nello stesso tempo confida. Ecco l’atteggiamento giusto verso Dio. Sentirsi indegni di lui, a causa dei propri peccati; ma confidare nella sua misericordia, proprio perché egli ama il peccatore pentito.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Perugia 26 ottobre 1986]
Gesù vuole insegnarci qual è l’atteggiamento giusto per pregare e invocare la misericordia del Padre; come si deve pregare; l’atteggiamento giusto per pregare. E’ la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14).
Entrambi i protagonisti salgono al tempio per pregare, ma agiscono in modi molto differenti, ottenendo risultati opposti. Il fariseo prega «stando in piedi» (v. 11), e usa molte parole. La sua è, sì, una preghiera di ringraziamento rivolta a Dio, ma in realtà è uno sfoggio dei propri meriti, con senso di superiorità verso gli «altri uomini», qualificati come «ladri, ingiusti, adulteri», come, ad esempio, - e segnala quell’altro che era lì – «questo pubblicano» (v. 11). Ma proprio qui è il problema: quel fariseo prega Dio, ma in verità guarda a sé stesso. Prega se stesso! Invece di avere davanti agli occhi il Signore, ha uno specchio. Pur trovandosi nel tempio, non sente la necessità di prostrarsi dinanzi alla maestà di Dio; sta in piedi, si sente sicuro, quasi fosse lui il padrone del tempio! Egli elenca le buone opere compiute: è irreprensibile, osservante della Legge oltre il dovuto, digiuna «due volte alla settimana» e paga le “decime” di tutto quello che possiede. Insomma, più che pregare, il fariseo si compiace della propria osservanza dei precetti. Eppure il suo atteggiamento e le sue parole sono lontani dal modo di agire e di parlare di Dio, il quale ama tutti gli uomini e non disprezza i peccatori. Al contrario, quel fariseo disprezza i peccatori, anche quando segnala l’altro che è lì. Insomma, il fariseo, che si ritiene giusto, trascura il comandamento più importante: l’amore per Dio e per il prossimo.
Non basta dunque domandarci quanto preghiamo, dobbiamo anche chiederci come preghiamo, o meglio, com’è il nostro cuore: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia. Ma, io domando: si può pregare con arroganza? No. Si può pregare con ipocrisia? No. Soltanto, dobbiamo pregare ponendoci davanti a Dio così come siamo. Non come il fariseo che pregava con arroganza e ipocrisia. Siamo tutti presi dalla frenesia del ritmo quotidiano, spesso in balìa di sensazioni, frastornati, confusi. È necessario imparare a ritrovare il cammino verso il nostro cuore, recuperare il valore dell’intimità e del silenzio, perché è lì che Dio ci incontra e ci parla. Soltanto a partire da lì possiamo a nostra volta incontrare gli altri e parlare con loro. Il fariseo si è incamminato verso il tempio, è sicuro di sé, ma non si accorge di aver smarrito la strada del suo cuore.
Il pubblicano invece – l’altro – si presenta nel tempio con animo umile e pentito: «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto» (v. 13). La sua preghiera è brevissima, non è così lunga come quella del fariseo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Niente di più. Bella preghiera! Infatti, gli esattori delle tasse – detti appunto, “pubblicani” – erano considerati persone impure, sottomesse ai dominatori stranieri, erano malvisti dalla gente e in genere associati ai “peccatori”. La parabola insegna che si è giusti o peccatori non per la propria appartenenza sociale, ma per il modo di rapportarsi con Dio e per il modo di rapportarsi con i fratelli. I gesti di penitenza e le poche e semplici parole del pubblicano testimoniano la sua consapevolezza circa la sua misera condizione. La sua preghiera è essenziale. Agisce da umile, sicuro solo di essere un peccatore bisognoso di pietà. Se il fariseo non chiedeva nulla perché aveva già tutto, il pubblicano può solo mendicare la misericordia di Dio. E questo è bello: mendicare la misericordia di Dio! Presentandosi “a mani vuote”, con il cuore nudo e riconoscendosi peccatore, il pubblicano mostra a tutti noi la condizione necessaria per ricevere il perdono del Signore. Alla fine proprio lui, così disprezzato, diventa un’icona del vero credente.
Gesù conclude la parabola con una sentenza: «Io vi dico: questi – cioè il pubblicano –, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (v. 14). Di questi due, chi è il corrotto? Il fariseo. Il fariseo è proprio l’icona del corrotto che fa finta di pregare, ma riesce soltanto a pavoneggiarsi davanti a uno specchio. E’ un corrotto e fa finta di pregare. Così, nella vita chi si crede giusto e giudica gli altri e li disprezza, è un corrotto e un ipocrita. La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati da Lui, così da sperimentare la misericordia che viene a colmare i nostri vuoti. Se la preghiera del superbo non raggiunge il cuore di Dio, l’umiltà del misero lo spalanca. Dio ha una debolezza: la debolezza per gli umili. Davanti a un cuore umile, Dio apre totalmente il suo cuore. E’ questa umiltà che la Vergine Maria esprime nel cantico del Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva. […] di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono» (Lc 1,48.50). Ci aiuti lei, la nostra Madre, a pregare con cuore umile. E noi, ripetiamo per tre volte, quella bella preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
[Papa Francesco, Udienza Generale 1 giugno 2016]
Nessuna arrendevolezza forzata
(Mc 12,28b-34)
Quella del ‘comandamento grande’ era la norma di catechismo più conosciuta, persino dagli infanti.
Gesù viene interrogato solo per ribattergli: e tu perché non osservi l’unico comandamento che anche Dio adempie - il riposo del sabato?
La sola disposizione in cui il Padre si riconosce è l’Amore, non un qualche precetto particolare - perché solo la Qualità profonda obbliga.
La proposta spirituale del Maestro fa propria la narrativa del popolo di Dio e la pratica dei Profeti: tutta cuore, piedi, mani - e intelligenza.
L’Amore completo verso Dio avvolge la creatura in ogni decisione [cuore], ogni istante e aspetto della sua “vita” concreta, tutte le proprie risorse [forze].
Mt 22,37 non cita esplicitamente quest’ultimo aspetto, forse per sottolineare che il Padre non assorbe energie in nessun modo, bensì le trasmette.
Ma Gesù aggiunge alle sfumature dell’intesa autentica con Dio enumerate nel Primo Testamento un versante inatteso per chi pensa l’amore come sentimento delicato solo emotivo.
Il Signore suggerisce lo studio, il discernimento e la comprensione delle nostre percezioni (v.30) - l’aspetto mentale e d’intelligenza profonda che integra Dt 6.
A prima vista sembra una sfaccettatura secondaria o addirittura un orpello per il balzo qualitativo da un comune senso religioso all’esistenza di Fede saggiamente e personalmente configurata.
È vero l’esatto contrario: siamo figli di un Padre che non ci soppianta, né assorbe le nostre energie o potenzialità, spersonalizzando; neppure sotto il profilo mentale.
La sola praticità rende fragili, poco consapevoli; e quando non siamo convinti neppure saremo affidabili, sempre in balia di mutevoli situazioni e dell’opinione conformista, alla moda, altrui.
Gesù non parla di amore verso Dio in termini d’intimismo e sentimento, ma di un’affinità totalmente coinvolgente, resa meno oscillante proprio dallo sviluppo della nostra misura sapienziale in merito alle questioni.
Qui c’è un Appuntamento decisivo dell’Amore a tutto tondo.
Innaturale sarebbe riconoscere un Padrone del Cielo che non Viene incontro e viceversa ci sovrasta con un suo obbiettivo, a noi estrinseco e che rende marginali.
Amare «Come [e Perché] te stesso»: è una nuova Genesi nello spirito di Dono.
Il paradosso suggerito da Gesù è che amiamo per il fatto che abbiamo cura d’incontrarci - e amiamo noi stessi - dilatando l’io nel Tu.
Il «comando grande» di Dio investe la vita reale e riguarda non solo la qualità di relazione col mondo e il prossimo ma il globale riflessivo con sé.
Non bisogna aver paura di altre dottrine e discipline, trascurando le sfide anche intellettuali che rimettono in discussione le credenze, le opere, la propria visione del mondo, il linguaggio, lo stile, e il pensiero stesso.
Valore aggiunto.
Inutile poi lamentarsi, se le realtà ecclesiali che non si aggiornano o approfondiscono, e permangono nei luoghi comuni ereditati [o nelle voghe] lentamente decadono, quindi scompaiono.
Per questo alle note antiche del vero amore il Figlio di Dio aggiunge la ‘qualità della mente’: non siamo dei creduloni, sprovveduti, unilaterali.
Le nostre mani tese sono frutto di scelta libera e consapevole. Nessuna arrendevolezza forzata.
«Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» [Giovanni Paolo II].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cos’è Grande per te? Ti documenti e aggiorni per poter corrispondere meglio alla Chiamata di Dio?
[Venerdì 3.a sett. Quaresima, 28 marzo 2025]
Il comandamento grande: Amore
(Mc 12,28b-34)
«Qual è primo comandamento di tutti? Rispose Gesù […] Primo è: Ascolta Israele. Il Signore nostro Dio è unico Signore, e amerai il Signore Dio tuo da tutto tuo cuore e da tutta tua vita e da tutta tua mente e da tutto tuo molto» (vv.28-30; Dt 6,4-5).
Gesù trasforma in questione cruciale quella che era la più banale delle domande di catechismo: qual è il «grande» comandamento?
Malgrado le diverse scuole teologiche, la risposta era ben nota a tutti: il riposo del sabato, unica prescrizione osservata (persino) da Dio.
La questione posta al Maestro dall’esperto della Legge non era così innocente, ma «per metterlo alla prova» (Mt 22,35; Lc 10,25) - ossia per ribattergli: e allora come mai tu non adempi il precetto del sabato?
Cristo semplifica il groviglio delle dispute, circa l’allargamento o la riduzione delle casistiche teoriche, e va al punto.
Sempre allergico ai bisticci sulle dottrine, Egli fa una proposta di vita come momento unitivo delle esigenze dell’Alleanza.
Tutte le norme hanno un’essenza, altrimenti restano un coacervo dispersivo. Trovano fondamento spontaneo e significato naturale nel dono di sé - però motivato.
Ma qual è il punto solido e il contesto di un simile invito? Un sentimento vago, un’emozione fra le tante, un moto passeggero? Filantropia? O un’esperienza?
Siamo assetati d’affetto e concediamo amicizia a corrente alternata, tanto da far diventare l’amore una fonte di equivoci, radicati nel bisogno di completarsi.
Ecco perché il secondo comandamento appare come una spiegazione del primo, non una sua riduzione [Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27].
Nel mondo antico non aveva senso parlare di amore verso Dio, Mistero ineffabile.
Era l’Altissimo che prediligeva qualcuno donandogli fortuna materiale, e costui gli riconosceva un dovere di culto, e sacrifici.
Idem per gli sfortunati, almeno per evitare ritorsioni (e tenerselo buono).
Con Gesù si parla apertamente di gratuità - non semplice gratitudine - come nucleo unificante, sia della persona che della storia della salvezza.
Finisce l’idea dello scambio di favori.
Il Padre non ha bisogno di nulla; non gode di vederci sottomessi e sentirsi riconosciuto [schema della religiosità pagana] come farebbe un sovrano nei confronti dei sudditi.
La Relazione con l’Eterno rimane concreta, ma l’onore verso l’Altissimo si manifesta facendo proprio il suo progetto di bene e di crescita nei confronti dell’uomo, e riconoscendosi in esso.
Il piano di Dio si dispiega... con una esigenza viva. Ma c’è una Partenza, un Centro e un Arrivo. In realtà, una nuova Genesi.
In ogni caso, solo l’iniziativa di Dio estrae da noi il meglio: più talento, più desiderio, più interessi, più capacità inespresse, più inedito - invece di tormenti che fanno male all’anima.
È la differenza tra religiosità che affievolisce la personalità, e Fede.
Per via di Fede scatta una Relazione creativa speciale: quella di colui che accoglie la Chiamata per Nome, nonché le proposte della stessa Fonte dell’essere - onda su onda.
Esse anticipano le nostre iniziative e ci guidano infallibilmente alla perfetta fioritura del personale e altrui Seme.
Soprattutto in Mt (22,38-39) e Mc (12,29-31) è chiaro che l’amore al prossimo deriva dall’esperienza e dalla consapevolezza di essere amati prima e senza condizioni previe da Dio - guardati, accettati, valorizzati, promossi, rallegrati, completati.
Si ama non per sforzo [la forza è una leva dirigista: produce episodi che fanno peggiorare la vita] ma sulla base di quanto ci sentiamo amati - e con immediatezza, ripetutamente, senza condizioni.
Si ama sull’argomento del “a perdere” già sperimentato a proprio favore dalla Provvidenza, che dà senso e valore agli atti umani.
Non per infatuazione di aspettative esterne, indotte, comunque altrui.
Anche in campo spirituale, non pochi comportamenti ritenuti in grado di risolvere problemi, spesso li cronicizzano.
In tal guisa, essi fanno leva su un’idea di permanenza - non sulla dinamica di gratuità vocazionale, sul Dono inimmaginabile, da accogliere.
Dunque il punto è regolarsi secondo risorse che vengono, o la distorsione dei modelli, tipica della mentalità moralista.
Infatti lo schema d’onnipotenza nel bene, paradossalmente, ripiega l’io e le sue forze, e ne distorce lo sguardo.
Ma al di là di tutte le sfumature, siamo rallegrati che primo e secondo comandamento riguardino l’Amore: ciò che più desideriamo fare e ricevere. È un’urgenza della vita.
Eppure bisogna essere sapienti, affinché lo schema dei paradigmi o gli stimoli dell’affetto naturale e delle precipitazioni non travolgano e trascinino via - capovolgendo - ogni buona intenzione.
L’Amore non sopporta l’eccesso di aspettative, perché scaturisce da una esperienza di Perfezione che giunge; offerta, inattesa, imprevedibile. Non già allestita secondo propositi concatenati e normali.
Se autentica, nel tempo sperimenteremo la fioritura; non nell’attesa di un ritorno, ma anzitutto in un Dono fuori del tempo. Perché esso ci ha già saziati e convinti - con stupore contemplativo - e fatti trasalire di gioia.
Così l’Eros vocazionale e fondante continuerà a plasmarci, con la sua virtù perennemente esplorativa e capace di attivare nuove Nascite.
Energia personale - senza i soliti bagagli di tormento, riserve, esteriorità... e (di nuovo) corrucci.
Comandamento Grande: solo la Qualità profonda obbliga
La sola disposizione in cui il Padre si riconosce è l’Amore, a tutto spiano e a tutto tondo; non un qualche precetto particolare.
Per Gesù non vi sono classifiche nelle cose di Dio e dell’uomo - infatti Egli mostrava una spiccata tendenza a riassumere le molte disposizioni - perché solo la Qualità profonda obbliga.
La proposta spirituale del Maestro faceva propria la narrativa del popolo di Dio e la pratica dei Profeti: tutta cuore, piedi, mani - e intelligenza.
L’Amore completo verso Dio deve avvolgere la creatura in ogni decisione [cuore].
Parimenti, in ogni istante e aspetto della sua “vita” concreta, nonché coinvolgere tutte le proprie risorse [forze: cf. Mc 12,30; Lc 10,27].
Dt 6,5 (testo ebraico) recita infatti: «con tutto il tuo “molto”», intendendo una partecipazione concreta sia alla vita cultuale che alla fraternità materiale - provvedendo e aiutando coi propri beni.
Mt non cita esplicitamente quest’ultimo aspetto, forse per sottolineare che il Padre non assorbe energie in nessun modo, bensì le trasmette.
Ma Gesù aggiunge alle sfumature dell’intesa autentica con Dio enumerate nel Primo Testamento un versante inatteso per chi pensa l’amore come sentimento delicato solo emotivo.
Il Signore suggerisce lo studio, il discernimento e la comprensione delle nostre percezioni [Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27] accompagnate dall’aspetto mentale e d’intelligenza profonda (escluso in Dt 6).
A prima vista sembra una sfaccettatura secondaria o addirittura un orpello per il balzo qualitativo da un comune senso religioso all’esistenza di Fede saggiamente e personalmente configurata.
È vero l’esatto contrario: siamo figli di un Padre che non ci soppianta, né assorbe le potenzialità o energie, spersonalizzando; neppure sotto il profilo mentale.
È un risvolto capitale della nostra dignità e promozione - anche umana - e discrimine specifico nel discernimento della Fede in Cristo, rispetto a tutte le soluzioni devote alla ricerca dell’Assoluto (qualunque).
La sola praticità rende fragili, poco consapevoli; e quando non siamo convinti neppure saremo affidabili, sempre in balia di mutevoli situazioni e dell’opinione conformista, alla moda, altrui.
Non di rado si fugge il confronto a tutto campo che arricchirebbe ciascuno - proprio per incompetenza.
Ma non siamo dei creduloni unilaterali. Essere attenti e aggiornati, avere capacità di pensiero anche critico è dilatazione richiesta in ordine allo sviluppo della propria vocazione umana, morale, culturale e spirituale.
Banalità, identificazioni, scopiazzature impersonali e ripetizioni assembleari poco vigili intralciano la marea della vita, questa cascata divina di energia perenne che pulsa e non si spegne.
Anzi, essa viene con appelli che smuovono: chiama a spalancarci verso nuove attrattive di relazione e altri interessi, anche intellettuali; perfino denominazionali.
Gesù non parla di amore verso Dio in termini d’intimismo e sentimento, ma di un’affinità totalmente coinvolgente, resa meno incerta proprio dallo sviluppo della nostra misura sapienziale, in merito alle questioni.
La devozione ingoia tutto. Invece, la Fede non si lascia plagiare dalla civiltà locale o dell’esterno: suppone una capacità di entrare in modo competente nelle valutazioni personali o inerenti il dibattito comunitario e d’insieme - storico e aggiornato.
La testimonianza della nostra Speranza non disdegna di lasciarsi fecondare dal dialogo con chi ha maggiore perizia psicologica o biblica, pastorale specialistica e sociale, nonché archeologica, bioetica, economica, scientifica e così via.
Un impegno che dimostra vero interesse al Sacro [certo, tutti aspetti da sottoporre a valutazione non come si trattasse di opzioni scolastiche].
Ma bisogna ammettere che una delle più organiche espressioni della grande teologia cattolica è quella che un tempo si denominava “dottrina” dei sette Doni dello Spirito Santo.
Nell’esistenza d’Amore si riconosceva il primato (anche relazionale) del Dono dello Spirito, che completava le possibilità di espressione “naturale” delle virtù cardinali e teologali, conducendole a pienezza.
Ben quattro dei sette Doni venivano correlati ad un carattere di profondo sapere: Sapienza, Intelletto, Consiglio e Scienza.
Insomma: qui c’è ancora un Appuntamento decisivo per l’Amore a tutto tondo.
Lasciarsi andare a qualche battuta sulla falsariga credente è dominio di tutti [individualista o di cerchia] ma la capacità di entrare in merito è solo di quanti hanno voluto vagliare e vivere le tematiche - perché più interessati a comprendere il Volto di Dio e il suo Disegno sull’umanità che a ribadire finte sicurezze narrative.
Innaturale sarebbe riconoscere un Padrone del Cielo che non Viene incontro; come se ci sovrastasse con un “suo” obbiettivo (a noi estrinseco) e così rendesse tutti marginali.
[Nelle sètte - perfino quelle dall’aspetto bonario - è fatto divieto l’approfondire, per capire: la posizione c’è già, il candidato deve “solo” adeguarsi].
«Come (e perché) te stesso» [senso del testo greco: Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27]: è una nuova Nascita di vita, nuova Genesi nello spirito di Dono.
Il paradosso suggerito da Gesù supera la norma antica di Lv 19,18.
Amiamo non solo i figli del nostro popolo, «per il fatto che» abbiamo cura d’incontrarci e vogliamo arricchire noi stessi insieme, dilatando l’io nel Tu.
Il «Comando grande» di Dio investe la vita reale e riguarda non solo la qualità di relazione col mondo e il prossimo, ma il globale riflessivo con sé.
Non bisogna aver paura di altre dottrine e discipline, trascurando sfide analitiche oltre quelle “organiche” - quelle di lungo periodo.
Tutte rimettono in discussione credenze, opere, la propria visione del mondo; linguaggio, stile, e pensiero stesso.
Abbiamo ancora un gran bisogno di allargare la mente e diventare vasti come un panorama. E riarmonizzare gli opposti che ci trasciniamo dentro.
Lati e Perle nascoste cui ancora non abbiamo dato respiro, o visibilità - e forse mai considerato Alleati.
Resta unica la sorte travagliata che accomuna i profeti, ma non sono le certezze (antiche, o sofisticate, alla moda, à la page) il valore aggiunto dell’avventura di Fede nell’Amore - bensì il rischio del mettersi in bilico e la rielaborazione a tutto campo.
Inutile poi lamentarsi, se le realtà ecclesiali che non si aggiornano, e permangono nei luoghi comuni ereditati, lentamente decadono, quindi scompaiono.
A dispetto del loro patrimonio eclatante e dei fiabeschi eventi.
In tal guisa, il «dottore della legge» è forse già vicino [Mc 12,34; Lc 10,28] ma deve ancora tenere d’occhio Gesù, per comprendere in Lui il senso più dilatato del dono totale, nello specifico personalizzante, che non è ingenuo.
Il Signore riporta il senso delle norme alla loro funzione profonda e originaria: farsi viatico di ogni Incontro che solleva accadimenti, persone di qualsiasi estrazione, e il creato.
In conclusione, esperienza e rito hanno il loro fulcro nella reciprocità dell’amore.
La vita in tutte le sue sfaccettature diventa Liturgia più significativa del gesto di culto accreditato; il suo Pane davvero spezzato si fa appello convincente alla Comunione e Missione.
Anche se non fa notizia, termometro autentico del nostro cammino non sarà il volume o il mucchio di cose importanti che facciamo, bensì un pulsare di cuore e mente rigenerati.
Per questo alle note antiche del vero Amore il Figlio di Dio aggiunge la qualità del pensiero: non siamo dei creduloni, sprovveduti, unilaterali.
Le nostre mani tese sono frutto di scelta libera e consapevole. Nessuna arrendevolezza forzata.
«Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» [Giovanni Paolo II].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cos’è Grande per te? Titoli? Avere, potere, apparire?
Qual è nella tua esperienza dell’Amore il punto di Partenza, il Centro e l’Arrivo?
Ti documenti e aggiorni per poter corrispondere meglio alla Chiamata di Dio?
Relazione profonda
Cari fratelli e sorelle!
Il Vangelo […] ci ripropone l’insegnamento di Gesù sul più grande comandamento: il comandamento dell’amore, che è duplice: amare Dio e amare il prossimo. I Santi, che abbiamo da poco celebrato tutti insieme in un’unica festa solenne, sono proprio coloro che, confidando nella grazia di Dio, cercano di vivere secondo questa legge fondamentale. In effetti, il comandamento dell’amore lo può mettere in pratica pienamente chi vive in una relazione profonda con Dio, proprio come il bambino diventa capace di amare a partire da una buona relazione con la madre e il padre. San Giovanni d’Avila, che ho da poco proclamato Dottore della Chiesa, così scrive all’inizio del suo Trattato dell’amore di Dio: «La causa - dice - che maggiormente spinge il nostro cuore all’amore di Dio è considerare profondamente l’amore che Egli ha avuto per noi… Questo, più dei benefici, spinge il cuore ad amare; perché colui che rende ad un altro un beneficio, gli dà qualcosa che possiede; ma colui che ama, dà se stesso con tutto ciò che ha, senza che gli resti altro da dare» (n. 1). Prima di essere un comando - l’amore non è un comando - è un dono, una realtà che Dio ci fa conoscere e sperimentare, così che, come un seme, possa germogliare anche dentro di noi e svilupparsi nella nostra vita.
Se l’amore di Dio ha messo radici profonde in una persona, questa è in grado di amare anche chi non lo merita, come appunto fa Dio verso di noi. Il padre e la madre non amano i figli solo quando lo meritano: li amano sempre, anche se naturalmente fanno loro capire quando sbagliano. Da Dio noi impariamo a volere sempre e solo il bene e mai il male. Impariamo a guardare l’altro non solamente con i nostri occhi, ma con lo sguardo di Dio, che è lo sguardo di Gesù Cristo. Uno sguardo che parte dal cuore e non si ferma alla superficie, va al di là delle apparenze e riesce a cogliere le attese profonde dell’altro: attese di essere ascoltato, di un’attenzione gratuita; in una parola: di amore. Ma si verifica anche il percorso inverso: che aprendomi all’altro così com’è, andandogli incontro, rendendomi disponibile, io mi apro anche a conoscere Dio, a sentire che Egli c’è ed è buono. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili e stanno in rapporto reciproco. Gesù non ha inventato né l’uno né l’altro, ma ha rivelato che essi sono, in fondo, un unico comandamento, e lo ha fatto non solo con la parola, ma soprattutto con la sua testimonianza: la Persona stessa di Gesù e tutto il suo mistero incarnano l’unità dell’amore di Dio e del prossimo, come i due bracci della Croce, verticale e orizzontale. Nell’Eucaristia Egli ci dona questo duplice amore, donandoci Se stesso, perché, nutriti di questo Pane, ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amato.
Cari amici, per intercessione della Vergine Maria, preghiamo affinché ogni cristiano sappia mostrare la sua fede nell’unico vero Dio con una limpida testimonianza di amore verso il prossimo.
(Papa Benedetto, Angelus 4 novembre 2012)
The Church keeps watch. And the world keeps watch. The hour of Christ's victory over death is the greatest hour in history (John Paul II)
Veglia la Chiesa. E veglia il mondo. L’ora della vittoria di Cristo sulla morte è l’ora più grande della storia (Giovanni Paolo II)
Before the Cross of Jesus, we apprehend in a way that we can almost touch with our hands how much we are eternally loved; before the Cross we feel that we are “children” and not “things” or “objects” [Pope Francis, via Crucis at the Colosseum 2014]
Di fronte alla Croce di Gesù, vediamo quasi fino a toccare con le mani quanto siamo amati eternamente; di fronte alla Croce ci sentiamo “figli” e non “cose” o “oggetti” [Papa Francesco, via Crucis al Colosseo 2014]
The devotional and external purifications purify man ritually but leave him as he is replaced by a new bathing (Pope Benedict)
Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo (Papa Benedetto)
If, on the one hand, the liturgy of these days makes us offer a hymn of thanksgiving to the Lord, conqueror of death, at the same time it asks us to eliminate from our lives all that prevents us from conforming ourselves to him (John Paul II)
La liturgia di questi giorni, se da un lato ci fa elevare al Signore, vincitore della morte, un inno di ringraziamento, ci chiede, al tempo stesso, di eliminare dalla nostra vita tutto ciò che ci impedisce di conformarci a lui (Giovanni Paolo II)
The school of faith is not a triumphal march but a journey marked daily by suffering and love, trials and faithfulness. Peter, who promised absolute fidelity, knew the bitterness and humiliation of denial: the arrogant man learns the costly lesson of humility (Pope Benedict)
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà (Papa Benedetto)
We are here touching the heart of the problem. In Holy Scripture and according to the evangelical categories, "alms" means in the first place an interior gift. It means the attitude of opening "to the other" (John Paul II)
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro” (Giovanni Paolo II)
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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