Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Esaltazione della Santa Croce [Domenica 14 settembre 2025]
Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga! Contemplando il Mistero della Croce scopriamo la dolcezza di un amore che nasce laddove sembra spegnersi la vita. Mentre muore crocifisso, Gesù rivela per sempre la vittoria definitiva dell’Amore e della Misericordia.
*Prima Lettura dal libro dei Numeri (21, 4 – 9)
Il Libro dell’Esodo e quello dei Numeri raccontano episodi simili: quando il popolo, liberato dalla schiavitù dell’Egitto cammina verso la Terra Promessa, deve affrontare la quotidianità nel deserto, un luogo totalmente inospitale. Schiavi in Egitto erano sedentari, non certo abituati a lunghe marce a piedi, ma avevano un padrone che li nutriva per cui non morivano di fame come nel deserto deve invece presero a rimpiangere le famose cipolle d’Egitto. Vennero tentati da crisi di scoraggiamento per la fame, la sete e la paura per tutti gli inconvenienti del deserto, e sfiduciati si misero a mormorare contro Dio e contro Mosè perché li avevano condotti a morire nel deserto. Il Signore mandò allora contro il popolo serpenti velenosi e molti Israeliti morirono. A questo punto il popolo si pente, riconosce di aver peccato e prega il Signore di allontanare i serpenti. Dio ordina a Mosè di fabbricare un serpente (la tradizione dice di bronzo) perché, fissatolo sopra un’asta, potesse guarire chiunque lo guardava. Interessante considerare come Mosè reagisce: non discute se i serpenti vengano o no da Dio, ma il suo scopo è di condurre questo popolo diffidente a un atteggiamento di fiducia, qualunque siano le difficoltà perché non tanto i serpenti, bensì la mancanza di fiducia in Dio stava rallentando il loro cammino verso la libertà. Per educarli alla fede, utilizza una pratica già conosciuta: l’adorazione di un dio guaritore raffigurato da un serpente di bronzo su un’asta (probabile antenato del caduceo, simbolo oggi della medicina). Bastava guardare il feticcio per essere guariti. Mosè non distrugge la tradizione, ma la trasforma: Fate come sempre, ma sappiate che non è il serpente a guarirvi bensì il Signore e non confondetevi perché un solo Dio vi ha liberati dall’Egitto e guardando il serpente, in realtà adorate il Dio dell’Alleanza. Secoli dopo, il Libro della Sapienza commenterà così: “Chi si volgeva a guardarlo veniva salvato, non per l’oggetto guardato, ma da te, Salvatore di tutti» (Sp 16,7). La lotta contro idolatria, magia e divinazione percorre tutta la storia biblica e forse continua ancora. Quel serpente di bronzo, segno per condurre alla fede, tornò ad essere considerato oggetto magico e per questo il re Ezechia lo distrusse definitivamente come leggiamo nel libro dei Re (2 Re 18,4).
*Salmo responsoriale (77/78, 3-4, 34 – 39)
Nel salmo responsoriale, tratto dal salmo 77/78, abbiamo un riassunto della storia d’Israele che si snoda nella relazione fra Dio sempre fedele e quel popolo incostante perché smemorato, ma pur sempre consapevole dell’importanza del ricordo per cui ripete: “Abbiamo udito ciò che i nostri padri ci hanno raccontato, lo ripeteremo alla generazione che verrà”. La fede si trasmette quando, chi ha vissuto un’esperienza di salvezza, può dire “Dio mi ha salvato” e a sua volta condivide con altri la sua esperienza. Sarà poi la sua comunità a far memoria e a conservare tale testimonianza perché la fede è un’esperienza di salvezza condivisa nel tempo. Il popolo ebraico sa da sempre che la fede non è un bagaglio intellettuale, ma l’esperienza comune del dono e del perdono sempre rinnovato di Dio. Questo salmo esprime tutto ciò: ricorda in settantadue versetti l’esperienza di salvezza, che ha fondato la fede d’Israele, cioè la liberazione dall’Egitto e per questo il salmo presenta tante allusioni all’Esodo e al Sinai. Ascoltare nel senso biblico significa aderire con tutto il cuore alla Parola di Dio e, se una generazione trascura di proseguire a testimoniare la propria fedeltà a Dio, si spezza la catena della trasmissione della fede. Spesso nel corso dei secoli i padri hanno confessato ai propri figli di aver mormorato contro Dio nonostante le sue azioni di salvezza. Di questo parla il salmo e accusa il popolo di infedeltà, di incostanza: ”Lo lusingavano con la loro bocca ma gli mormoravano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza”(vv36-37). Ecco l’idolatria, verso bersaglio di tutti i profeti perché è causa della disgrazia dell’umanità. Ogni idolo ci fa retrocedere sul cammino della libertà e la definizione di un idolo e proprio ciò che ci impedisce di essere liberi. Marx diceva che la religione è l’oppio del popolo, rivelando in modo crudo quale potere, quale manipolazione una religione, qualunque essa sia, può esercitare sull’umanità. La superstizione, il feticismo, la stregoneria ci impediscono di essere liberi e di imparare ad assumere liberamente le nostre responsabilità, perché ci fanno vivere in un regime di paura. Ogni culto idolatrico. ci allontana dal Dio vivo e vero: solo la verità può fare di noi uomini liberi. Anche il culto eccessivo di una persona o di un’ideologia fa di noi degli schiavi: basta pensare a tutti gli integralismi e i fanatismi che ci deturpano e il denaro pure può benissimo diventare un idolo. In altri versetti che non fanno parte della liturgia di questa domenica, il salmo offre un’immagine molto eloquente, quella di un arco deformato: il cuore d’Israele dovrebbe essere come un arco teso verso il suo Dio, ma è storto. E proprio all’interno dell’ingratitudine che Israele ha fatto l’esperienza più bella: quella del perdono di Dio come dice il salmo chiaramente: “Il loro cuore non era costante verso di lui; non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa invece di distruggere”(v.38). Questa descrizione della tenera pietà di Dio dimostra che il salmo è stato scritto in un’epoca in cui la Rivelazione del Dio d’amore aveva già profondamente penetrato la fede di Israele.
NOTA La grande assemblea di Sichem organizzata da Giosuè aveva proprio questo scopo: ravvivare la memoria di questo popolo oggetto di tanta sollecitudine, ma così spesso incline a dimenticare (Gs 24: vedi la XX domenica del tempo ordinario B): dopo aver ricordato alle tribù radunate tutta l’opera di Dio a partire da Abramo, disse loro: «Scegliete oggi chi volete servire: o il Signore, o un idolo». E le tribù quel giorno fecero la scelta giusta, anche se poi l’avrebbero presto dimenticata. La trasmissione della fede è allora come una corsa a staffetta: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”, dice Paolo ai Corinzi (1 Cor 11,23) e la liturgia è il luogo privilegiato di questa testimonianza e di questo ravvivare la memoria nel senso di gratitudine che nasce dall’esperienza.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Filippesi (2, 6 – 1)
Questo passo paolino si legge ogni anno per la festa delle Palme e ora per la festa della Croce Gloriosa: il che significa che le due celebrazioni hanno un punto in comune, che è il legame stretto tra la sofferenza di Cristo e la sua gloria, tra l’abbassamento della croce e l’esaltazione della risurrezione. Paolo lo dice chiaramente: “Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce… Per questo Dio lo esaltò al di sopra di ogni nome”(vv8-9). L’espressione “per questo” indica un legame e un contrasto forte tra abbassamento ed esaltazione, ma non bisogna leggere queste frasi in termini di ricompensa, come se, essendosi Gesù comportato in modo ammirevole, ha ricevuto una ricompensa ammirevole. Questa potrebbe essere la “tendenza” o meglio “tentazione” ma Dio è amore e non conosce calcoli, scambi, il do ut des perché l’amore è gratuito. La meraviglia dell’amore di Dio è che non aspetta i nostri meriti per colmarci e nella Bibbia questo gli uomini l’hanno scoperto poco a poco perché la grazia, come il suo nome indica, è gratuita. Quindi, se, come dice Paolo, Gesù ha sofferto e poi è stato glorificato, non è perché con la sua sofferenza avesse accumulato abbastanza meriti da guadagnarsi il diritto ad essere ricompensato. E allora, per essere fedeli al testo, bisogna leggerlo in termini di gratuità. Per Paolo è evidente che il dono di Dio è gratuito e questo si percepisce in tutte le sue lettere, avendolo lui stesso sperimentato. Quando poi leggiamo: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v.6) è chiaro che Paolo allude ad Adamo ed Eva e qui probabilmente Paolo ci offre un commento al racconto del Paradiso terrestre: il tentatore aveva detto: “Sarete come Dio” e per diventarlo bastava disobbedire a Dio. Eva stese la mano verso il frutto proibito e lo ha preso (il greco labousa nella lettura teologica è “rivendicò l’essere come Dio” come se fosse un suo diritto). Paolo contrappone l’atteggiamento di Adamo/Eva (afferrare/vendicare) a quello di Cristo (accogliere gratuitamente, obbedire). Gesù Cristo è stato soltanto accoglienza (ciò che Paolo chiama «obbedienza»), e proprio perché è stato pura accoglienza del dono di Dio e non rivendicazione, ha potuto lasciarsi colmare dal Padre, completamente disponibile al suo dono. La scelta di Gesù è la “kénosis”, lo svuotamento totale di sé scandito con cinque verbi di umiliazione: svuotarsi, assumere una condizione di servo, diventare simile agli uomini, umiliarsi, farsi obbediente. La croce è il baratro dell’annientamento (vv.6-8), ma anche l’apice della seconda frase dell’inno (vv9-11). “Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v9). Gesù riceve il Nome che è al di sopra di ogni nome: il nome “Signore” è il nome di Dio! Dire che Gesù è Signore significa dire che è Dio: nell’Antico Testamento il titolo di Signore era riservato a Dio come pure la genuflessione. Quando Paolo dice: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”… allude a una frase del profeta Isaia: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua presterà giuramento” (Is 45,23). L’inno si conclude con “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre” (v.11): vedendo Cristo portare l’amore al suo culmine, accettando di morire per rivelare fino a dove arriva l’amore di Dio, possiamo dire come il centurione: «Davvero costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 13 – 17)
La prima sorpresa di questo testo è che Gesù parla della croce con un linguaggio positivo, potremmo dire «glorioso»: da una parte, usa il termine “innalzato” – “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo” (v.14) – e poi questa croce che ai nostri occhi è strumento di supplizio e di dolore, viene presentata come prova dell’amore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo” (v17). Come può lo strumento di tortura di un innocente essere glorioso? E qui sta la seconda sorpresa: il richiamo al serpente di bronzo. Gesù utilizza questa immagine perché era allora ben conosciuta. Nella prima Lettura si parla ampiamente di questo evento nel deserto del Sinai durante l’Esodo, al seguito di Mosè. Gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi e, non avendo la coscienza tranquilla perché avevano mormorato, sono convinti che ciò sia una punizione del Dio di Mosè. Supplicano Mosè di intercedere e Mosè riceve il comando di fissare un serpente ardente (cioè velenoso) sopra un’asta: chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita (Nm 21, 7-9). Se a prima vista, sembra pura magia, in realtà, è esattamente il contrario. Mosè trasforma quello che fino ad allora era un atto magico in un atto di fede. Gesù riprende questo episodio parlando di sé: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”(vv14-15). Se nel deserto, bastava guardare con fede verso il Dio dell’Alleanza per essere guariti fisicamente, ora occorre guardare con fede Cristo in croce per ottenere la guarigione interiore. Come spesso avviene nel vangelo di Giovanni, ritorna il tema della fede: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”(v.17). Quando Gesù mette in parallelo il serpente di bronzo innalzato nel deserto e la sua elevazione sulla croce, manifesta anche il salto straordinario che esiste tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù porta tutto a compimento, ma in lui tutto assume una dimensione nuova. Nel deserto era interessato solo il popolo dell’Alleanza; ora, in lui, è l’umanità intera a essere invitata a credere per avere la vita: ben due volte Gesù ripete che “chiunque crede in lui avrà la vita eterna”. Inoltre, non si tratta più solo di guarigione esteriore, ma della trasformazione profonda dell’uomo. Al momento della crocifissione, Giovanni scrive: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), citando il profeta Zaccaria che aveva scritto: “In quel giorno effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Questo “spirito di grazia e supplica” è l’opposto delle mormorazioni del deserto: l’uomo ora finalmente è convinto dell’amore di Dio per lui. Ci sono dunque due modi di guardare la croce di Cristo: come segno dell’odio e della crudeltà degli uomini, ma soprattutto come l’emblema della mitezza e del perdono di Cristo che accetta la croce per mostrarci fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’umanità. La croce è il luogo stesso della rivelazione dell’amore di Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre”(Gv14,9) aveva detto Gesù a Filippo. Cristo crocifisso mostra la tenerezza di Dio, malgrado l’odio degli uomini. Ecco perché possiamo dire che la croce è gloriosa: perché è il luogo in cui si manifesta l’amore perfetto, cioè Dio stesso, un Dio abbastanza grande da farsi piccolo per condividere la vita degli uomini malgrado incomprensioni e odio: non fugge davanti ai suoi carnefici e perdona dall’alto della Croce. Chi accetta di cadere in ginocchio davanti a tale grandezza viene trasformato per sempre: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12).
+ Giovanni D’Ercole
XXIII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [7 settembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questa domenica Gesù nel vangelo sviluppa il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questo prova che la Parola di Dio è sapienza divina che, come cogliamo nella prima lettura e nel salmo responsoriale, illumina ogni umana scelta e decisione. Saggezza che è sempre segreto di vera felicità.
*Prima Lettura dal libro della Sapienza (9, 13-18)
La Sapienza, nel senso biblico, è in qualche modo l’arte di vivere. Israele, come tutti i popoli vicini, sviluppò un’ampia riflessione su questo tema a partire dal regno di Salomone e il suo contributo in questo campo è del tutto originale. Si riassume in due punti: anzitutto per la Bibbia solo Dio conosce i segreti della felicità e se l’uomo pretende di scoprirli da solo percorre false piste, come è chiara la lezione del giardino dell’Eden. In secondo luogo Dio solo rivela al suo popolo e a tutta l’umanità il segreto della felicità: ecco il messaggio di questo testo che è anzitutto una lezione di umiltà. Già Isaia aveva affermato che i pensieri e le vie di Dio sono diversi dai nostri (cf. Is 55,8) e il libro della Sapienza, scritto molto tempo dopo con uno stile ben diverso, ripete: “Quale uomo può scoprire il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?” (v.13). Non riusciamo ad avere la minima idea di ciò che Dio pensa e conosciamo solo quanto Egli ha comunicato attraverso i suoi profeti. Giobbe aveva chiesto dove cercare la sapienza perché non esiste sulla terra dei viventi e Dio solo sa dove si trova (cf. Gb 28,12-13.23); poco dopo Dio ricorda a Giobbe i suoi limiti (cc. 38–41) e, alla fine della dimostrazione, Giobbe si inchina e ammette di aver parlato senza capire le meraviglie che “sono al di sopra di me e che non conoscevo” (Gb 42,3). Nel libro della Sapienza la discussione sulle conoscenze umane si sviluppa tra i più intellettuali che esistevano ad Alessandria, quando erano assai sviluppate le discipline scientifiche e filosofiche ed era celebre la Biblioteca di Alessandria. A tali sapienti l’autore ricorda i limiti del sapere umano: “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni” (v.14). E ancora: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? (v.16). L’autore non vuol dire che se riusciamo a scoprire la terra, potremo capire le cose celesti, ma afferma che non esiste soltanto una questione di livello di conoscenze, come se l’uomo potesse scoprire i misteri di Dio con il ragionamento e le ricerche, ma è questione di natura: noi siamo solo uomini, e tra Dio e noi vi è un abisso essendo Dio il Totalmente Altro e i suoi pensieri sono al di là della nostra portata. Sta qui la seconda lezione del testo: se riconosciamo la nostra impotenza Dio stesso ci rivela ciò che da soli non possiamo scoprire facendoci dono del suo Spirito (cf.1,9). Le altre letture di questa domenica indicano i comportamenti nuovi ispirati dallo Spirito che abita in noi. Ancora una osservazione: Al v. 14 “un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni” appare una concezione dell’uomo non abituale nella Bibbia, che solitamente insiste sull’unità dell’essere umano, mentre qui è descritto come un essere composto da uno spirito immateriale e un involucro materiale che lo contiene. Il libro della Sapienza, scritto in ambiente greco, utilizza questo vocabolario per non scandalizzare i suoi lettori greci, ma di certo non vuole descrivere un dualismo dell’essere umano: presenta piuttosto il combattimento interiore che si svolge in ciascuno di noi e che san Paolo descrive così: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). In definitiva, questo testo porta un contributo originale a una grande duplice scoperta biblica: Dio è insieme il Totalmente Altro e il Totalmente Vicino. Dio è il Totalmente Altro: “Qual uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”(v. 13). Allo stesso tempo, Egli si fa il Totalmente Vicino dando all’uomo la sapienza e il suo santo spirito (v.17). E così gli uomini furono istruiti in ciò che è a Dio gradito e furono salvati per mezzo della sapienza (cf.v.18).
*Salmo responsoriale (89/90,3-4,5-6,12-13,14.17)
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, trova un’eco in questo salmo che offre una magnifica definizione della sapienza: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (v.12). Questi versetti danno un’idea dell’atmosfera generale e suona del tutto insolita un’espressione: “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13). E’ come se si dicesse: ‘in questo momento siamo infelici, siamo puniti per le nostre colpe; perdonaci e togli la punizione”, quindi una formula tipica di una liturgia penitenziale nel contesto di una cerimonia penitenziale nel tempio di Gerusalemme. Perché Israele chiede perdono? I primi versetti suggeriscono la risposta: “Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: Ritornate, figli dell’uomo”( v.3). Il problema è che la nostra condizione di peccatori è legata ad Adamo e l’intero salmo medita sul racconto della colpa di Adamo nel libro della Genesi. All’inizio Dio e l’uomo si trovavano faccia a faccia: Dio, creatore e l’uomo sua creatura uscita dalla polvere. Il secondo versetto (qui assente) del salmo dice appunto: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”. Di fronte a Lui, noi siamo soltanto un pugno di polvere nelle sue mani. Eppure l’uomo ha osato sfidare Dio e non gli resta che meditare sulla sua vera condizione: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via” (v.10). E noi siamo veramente piccoli: “Mille anni ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4) come san Pietro commenterà: “Una cosa non sfugga mai a voi, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pt 3,8). Dopo la presa di coscienza viene la supplica: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi. Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (vv. 12-14). Vera sapienza è stare piccoli davanti a Dio e il salmo paragona la vita umana all’erba che “al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca” (v.6). Quante volte davanti a una morte improvvisa capita di dire che siamo proprio nulla! Non si tratta di umiliarsi, ma di essere realisti e restare sereni nelle mani di Dio. “Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni” (v.14): questa è l’esperienza del credente, consapevole della propria piccolezza e fiducioso tra le mani di Dio al quale possiamo chiedere che “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli. Sia su di noi la bontà del Signore nostro Dio” (vv. 16-17a). Ancora più audace l’ultimo versetto del salmo che ripete due volte “Rendi salda per noi l’opera delle nostre mani” (v.17). Forse il salmista si riferiva alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, in mezzo a ogni genere di opposizione. Più in generale, esprime però l’opera comune di Dio e dell’uomo nel compimento della creazione: l’uomo lavora nella creazione, ma è Do a dare all’opera umana stabilità ed efficacia.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo a Filemone ( 9b-10.12-17)
Nelle domeniche passate abbiamo letto brani della lettera di Paolo ai Colossesi; oggi invece Paolo, mentre si trova in prigione, scrive a Filemone, un cristiano di Colossi (in Turchia) ed è una lettera personale, piena di diplomazia, su un argomento molto delicato. Filemone aveva probabilmente diversi schiavi, anche se la storia non lo specifica, e uno si chiama Onesimo. Un bel giorno, Onesimo fuggì, cosa totalmente proibita e severamente punita dal diritto romano perché lo schiavo apparteneva al padrone come un oggetto e non era libero di disporre di sé. Durante la sua fuga Onesimo incontra Paolo, si converte e si mette al servizio dell’apostolo. Situazione complicata: se Paolo tratteneva Onesimo si rendeva complice dell’abbandono di posto e ciò non piaceva a Filemone. Se invece Paolo lo rimandava, lo schiavo avrebbe corso seri rischi dato che Paolo riconosce più avanti nella lettera che Onesimo era debitore verso il suo padrone. Decide comunque di rimandare Onesimo con una richiesta di perdono in cui dispiega tutte le sue risorse persuasive per convincere Filemone: “Io, Paolo, così come sono, vecchio e, ora anche prigioniero a causa di Cristo Gesù ti prego per Onesimo, figlio mio” (vv.9-10). Precisa che lo vorrebbe trattenere ma sa che la decisione finale spetta a Filemone (vv12-14) e allora non intende forzare la mano a Filemone, sa però bene cosa vuole ottenere e lo rivela gradualmente. Chiede anzitutto di perdonare Onesimo per la fuga e, più che il semplice perdono, Paolo suggerisce una vera conversione: Onesimo è battezzato e quindi è ora un fratello per Filemone cristiano, suo ex padrone: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre, non più però come schiavo, ma, molto più che schiavo, come fratello carissimo”(vv.15-16). Paolo si spinge oltre: “Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”(v.17).
*Dal Vangelo secondo Luca (14,25-33)
La fine illumina tutto il discorso: sottolineando la totalità (la rinuncia a tuti i suoi averi v.33) Luca ripropone la sua teologia della povertà come radicale sequela di Cristo. Cominciamo dalla frase che riguarda i legami familiari (v.26): Gesù non dice di considerarli come nulla perché sarebbe contrario a tutto il suo insegnamento sull’amore e al comandamento “Onora tuo padre e tua madre”. Vuol dire, piuttosto, che questi legami sono buoni, però non devono diventare ostacoli che impediscono di seguire Cristo perché il legame che ci unisce a Cristo mediante il Battesimo è più forte di qualsiasi altro legame terreno. La difficoltà di questo Vangelo è altrove: a prima vista non si vede bene il nesso tra le diverse parti. Gesù dice: “Se uno viene a me e non mi ama (nel linguaggio semitico orientale “odiare” vale anche per amare meno) più di suo padre, sua madre… non può essere mio discepolo” (v.26), frase che ritroviamo in eco (in inclusione) nell’ultima: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Tra queste due affermazioni ci sono due brevi parabole: quella dell’uomo che vuole costruire una torre e quella del re che parte in guerra. La loro lezione è simile: chi vuole costruire una torre deve prima calcolare la spesa per non imbarcarsi in un’impresa insensata; allo stesso modo, il re che pensa di affrontare una guerra occorre che valuti in anticipo le proprie forze. La saggezza consiste nell’adeguare le proprie ambizioni alle proprie possibilità: verità valida in ogni ambito. Quanti progetti falliscono perché iniziati troppo in fretta senza riflettere, prevedere e calcolare i rischi: questa è la saggezza elementare, il segreto del successo. Governare infatti è prevedere e forse si diventa adulti proprio il giorno in cui si impara finalmente a calcolare le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo non sembra in contraddizione con il messaggio delle frasi che aprono e chiudono il discorso di Gesù? Queste sembrano parlare un linguaggio tutt’altro che prudente e misurato: anzitutto per essere discepolo di Cristo bisogna preferirlo a chiunque altro e seguirlo con tutto se stesso, eppure, la saggezza e persino la giustizia chiedono di rispettare i legami naturali con la famiglia e l’ambiente. La seconda esigenza è portare con decisione la propria croce, accettando il rischio della persecuzione e terza condizione: rinunciare a tutti i propri beni. In sintesi, lasciare per Cristo ogni sicurezza affettiva e materiale. Ma tutto questo è prudente? Non sembra lontano dai calcoli aritmetici delle due brevi parabole? Eppure è chiaro che Gesù non si diverte a coltivare il paradosso e non si contraddice. Sta quindi a noi comprendere il suo messaggio e come le due brevi parabole illuminino le scelte che dobbiamo fare per seguirlo. A ben vedere Gesù dice sempre la stessa cosa: Prima di lanciarsi in un’impresa: si tratti di seguirlo, o di costruire una torre, oppure di partire in guerra, invita a fare bene i conti e a non sbagliare. Chi costruisce una torre calcola il costo; chi parte in guerra valuta il numero di uomini e di armi e chi segue Cristo deve fare anch’egli i suoi conti, che però sono di altro genere: deve rinunciare a ciò che può ostacolarlo e così mettere al servizio del Regno tutte le sue ricchezze, anche affettive e materiali. E soprattutto, deve contare sulla potenza dello Spirito che “continua la sua opera nel mondo e porta a compimento ogni santificazione”, come dice la quarta preghiera eucaristica. Anche qui si tratta di un rischio calcolato: per seguire Gesù, egli ci indica i rischi — saper lasciare tutto, accettare l’incomprensione e talvolta la persecuzione, rinunciare alla resa immediata. Per essere cristiani, il vero calcolo, la vera saggezza, è non contare su nessuna delle nostre sicurezze terrene; è come se ci dicesse: Accetta di non avere sicurezze: ti basta la mia grazia!. Già la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, lo affermava chiaramente: la sapienza di Dio non è quella degli uomini; ciò che agli occhi degli uomini appare follia è la sola vera sapienza davanti a Dio. Con lui, si è sempre nella logica del chicco di grano: accetta di morire sotto terra ma solo così può germogliare e dare frutto. Beati coloro che sanno liberarsi dalle false precauzioni per prepararsi a passare per la porta stretta di cui parlava il vangelo alla ventunesima domenica (Lc 13,24).
NOTA Gesù sviluppa qui il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Nelle due parabole è evidente: bisogna sedersi per calcolare rischi e spese, adottando misure preventive - anche in assenza di prove scientifiche complete. Nel caso del discepolo i dati del calcolo sono completamente diversi: Gesù vuole che valutiamo bene che l’unica nostra ricchezza è in lui e l’unica nostra forza è la sua grazia. E persino la valutazione di rischi e obiettivi ci sfugge: come dice il libro della Sapienza, nella prima lettura: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni».
+ Giovanni D’Ercole
Fede e religione. Turnover nella Chiesa
(Lc 6,20-26)
Gesù giudica la configurazione del mondo in cui la sua Chiesa nello Spirito si trova a vivere: ricchi e indigenti [malfermi in molti sensi], personaggi di spicco e invisibili.
Situazione che non ricalca condizioni di pienezza di vita; piuttosto - anche oggi - rende il sangue amaro a molti.
Una realtà falsata e non definitiva, esasperante, che assolutamente denuncia di non gradire fra i suoi: quella di dominatori lodati (malgrado l’abuso egoistico dei beni e delle posizioni) e insignificanti sottoposti.
Privo di titoli altisonanti, il giovane Rabbi si rivolge dal basso in alto (v.20) a coloro che hanno liberamente scelto la sua proposta di esistenza fraterna e condivisione delle proprietà [in Mt «poveri “per” lo Spirito (d’amore)»].
Egli si compiace [«Beati»] della scelta dei suoi, che fa godere l’esperienza della sintonia col Maestro. Una diversa Visione, e la reciprocità, ossia la medesima qualità di vita intima di Dio.
Già qui sulla terra i profeti critici testimoniano la possibilità di una differente percezione delle cose, nonché il Sogno d’una società fondata sulla convivenza - nello scambio dei benefici.
Un germoglio di mondo ospitale - che Lc vuole incoraggiare - dove non c’è il sopra e il sotto o il davanti e dietro: solo rivolgimenti umanizzanti (come appunto l’inversione dei ruoli) che rinsaldano il tessuto concorde.
Anche nella sua Casa dovrà esserci rotazione e capovolgimento di figure e mansioni di spicco. Il ricambio è cifra del Regno che Viene; in grado di acuire le sensibilità alla Comunione.
Nei documenti dell’antica letteratura si parla poco di miseri, senza voce e affamati. L’attenzione si concentrava sui ricchi, sugli eroi, i sovrani e i generali. Il rovesciamento di sorte era inimmaginabile.
I nuovi potenti del Regno di Dio sono viceversa coloro che sentono il Figlio presente, che pulsa in cuore, Risorto in loro.
Essi non trattengono per sé, ma trasformano beni, traguardi, titoli e ministeri in Vita e Relazione.
Ciò che risulta decisivo e conclusivo è la costruzione di questo tipo di Chiesa [Regno] inusuale.
Germe che si discosta dall’unilateralità dei rapporti. Con arricchimento e avvicendamento dove tutti si sentano adeguati, non più additati.
Nell’avventura di Fede-Amore vige sempre un riconoscimento reciproco.
Si alternano incessantemente gli uffici, gli incarichi.
Infatti, i rapporti di soggezione eccessivamente centrati annientano i Doni viventi di Dio; producono ferite profonde, paralizzanti.
Riducono al silenzio [e all’opacità] Creatore e creatura: una paradossale autocondanna.
Ma Cristo distingue bene ciò che rende Beati - completi, non unilaterali - e quanto non appartiene e non assomiglia all’opera piena del Padre.
Lo fa non semplicemente ammonendo, bensì per riunire, e dilatare il nostro Nucleo; per lubrificare le intime, migliori essenze di tutti.
Proclamando le Beatitudini, Gesù Risorto vuole comunicare [in specie nelle sue Chiese, che gli sembra ne abbiano tanto bisogno] un’energia meno accentrata e parziale, più permeabile e confluente; un ritmo inclusivo.
E a tutti il permesso pieno di vivere.
[Mercoledì 23.a sett. T.O. 10 settembre 2025]
Fede e religione. Turnover nella Chiesa
(Lc 6,20-26)
In Mt le Beatitudini tracciano un programma per le fraternità di origine giudaica.
In Lc il sermone sembra di carattere più radicale ed è indirizzato alle comunità ellenistiche, con forte accento sociale.
Gesù giudica la configurazione del mondo in cui la sua Chiesa nello Spirito si trova a vivere: ricchi e indigenti [malfermi in molti sensi], personaggi di spicco e invisibili.
Situazione che non ricalca condizioni di pienezza di vita; piuttosto - anche oggi - rende il sangue amaro a molti.
Una realtà falsata e non definitiva, esasperante, che assolutamente denuncia di non gradire fra i suoi: quella di dominatori lodati (malgrado l’abuso egoistico dei beni e delle posizioni) e insignificanti sottoposti.
Privo di titoli altisonanti, il giovane Rabbi si rivolge dal basso in alto (v.20) a coloro che hanno liberamente scelto la sua proposta di esistenza fraterna e condivisione delle proprietà [in Mt «poveri “per” lo Spirito (d’amore)»].
Il Maestro si compiace in modo esplicito [«Beati»] della scelta dei suoi, estranea all’egoismo.
Egli loda quell’esperienza di sintonia: nella medesima qualità di vita intima di Dio, uniti e promossi a una diversa Visione e reciprocità.
Già qui sulla terra gl’intimi testimoniano infatti una possibilità di percezione differente delle cose: con lo sguardo dal basso.
In aggiunta, il Sogno d’una società alternativa, fondata sulla convivenza armonica, senza discriminazioni. Una cosa da capogiro - nello scambio dei benefici.
Un germoglio di mondo ospitale - che Lc vuole incoraggiare - dove non c’è il sopra e il sotto o il davanti e dietro: solo rivolgimenti umanizzanti (come appunto l’inversione dei ruoli) che rinsaldano il tessuto concorde.
Anche nella sua Casa dovrà esserci rotazione e capovolgimento di figure e mansioni di spicco - segni del Regno che Viene.
Il ricambio è cifra del Regno che Viene; in grado di acuire le sensibilità alla Comunione.
Non installazione (addirittura, a vita) e fissità.
Nei documenti dell’antica letteratura si parla poco di miseri, senza voce e affamati. L’attenzione si concentrava sui ricchi, sugli eroi, i sovrani e i generali.
Il rovesciamento di sorte era inimmaginabile, sebbene qua e là [in specie nel mondo delle donne, del tutto soffocato] lo si percepisse quale desiderio profondo e ben più autentico.
I potenti del nuovo mondo umanizzante sono appunto il viceversa di quanto previsto: coloro che sentono il Figlio presente, che pulsa in cuore, Risorto in loro.
Essi non trattengono per sé, ma trasformano beni, traguardi, titoli e ministeri in Vita e Relazione.
Dinamismo che a nessuno farà più mancare la terra sotto i piedi.
Né per difendersi ci sarà bisogno di toni alti.
Se ancora non si riesce a distinguersi e riconoscersi, nella reciprocità si potrà diventare meno rumorosi.
Poi, quanto ora si sperimenta - e soffre per amore - è transitorio, non definitivo.
Ciò che viceversa risulta decisivo e conclusivo è la costruzione di questo tipo di Chiesa [Regno] inusuale.
Germe che si discosta dall’unilateralità dei rapporti.
Seme e Nido - con arricchimento e avvicendamento - dove tutti si sentano adeguati, non più additati.
In ogni caso, indipendenti dall’opinione conformista o piramidale, interessate a perpetuarsi.
In tal guisa le persecuzioni che poi recano patimento devono essere messe in conto - non come rantolo di morte, bensì lieta notizia: dolore di parto, emblema e fonte di Speranza larga.
Il mondo competitivo antico tira le cuoia e si difende con ogni mezzo, ma il futuro annunciato sta giungendo.
Le fraternità che operano scelte risolutive vanno per il cammino giusto, sensato, vitale, che non solo attutisce ma insegna a vivere le disavventure come occasione di Novità e diversa Armonia.
Coloro cui tutto fila liscio e sono incensati - e si permettono di ritagliarsi posizioni di rilievo fisse, nelle assemblee di Fede ridotte a regno dell’uomo - non fanno che ribadire le divergenze che già marcavano la struttura dell’Impero.
Nulla hanno in comune col disegno del Padre.
Pertanto Gesù non si compiace della loro presenza, piuttosto se ne lamenta.
Non ritiene che la sperequazione sociale sia frutto di fatalità, bensì d’ingiustizia - insopportabile per coloro che si dicono discepoli e fratelli.
In un clima di reale condivisione di risorse e convivialità delle differenze ci si aiuta anche a comprendere il rapporto di Amicizia in senso forte - fra noi membri di Chiesa, e con Dio.
In clima di vita beata il nucleo interiore viene finalmente ascoltato, e smuove situazioni cristallizzate. Fa vedere la vita da altri punti di vista. Quindi non si esagera nei controlli; non si attuano forzature.
Tra credenti, qualsivoglia esigenza trova spazio - senza più copione - e tutto si discosta dalla parzialità dei rapporti esterni.
In una relazione Padre-figlio religiosa e verticista (già concatenata, volontarista) priva di Fede, è sempre l’Onnipotente che sovrasta, e la creatura obbedisce.
Dio è in primo piano e sentenzia; l’uomo lo segue, vive in funzione del “padrone” e dei suoi “rappresentanti” - addirittura in posizioni vitalizie - come se tutti gli altri avessero un’identità insipida e decentrata.
Invece nella comunità che riflette il divino non c’è mai qualcuno che sta sempre in secondo piano e i soliti che prevalgono e decidono - mentre altri seguono e fanno da spettatori.
Altrimenti qualcuno finirà per covare l’abbandono o rivalse, e reagire [unica strada] per non annientarsi.
Nessuno può vivere senza esprimere la propria personalità e irripetibile Vocazione: nelle micro e macro relazioni comunitarie, nella Chiesa attiva nell’apostolato laicale - se infaticabile.
Ciò vale anche con Dio.
Lo stesso ideale di armonizzazione s’impone con le Tradizioni o i cosiddetti Carismi - i quali non dovrebbero sovraccaricare le anime.
Basta con visioni del mondo cesellate secondo un’altra taglia: altrui, o già datata, che non ci appartiene più. Sebbene possa in vari casi proporre un mondo di saperi in cui ci si può e deve riconoscere…
Se viceversa il rapporto si riempie di strapotere - come nelle devozioni o nelle ideologie, nelle cordate d’affari ovvero nelle sette - l’inclinazione non potrà generare unità [se non di facciata] bensì ogni sorta di tradimento e abbandono.
Ma qui la defezione si rende paradossalmente necessaria, per ritrovarsi.
Resta un momento di tensione e forse su due piedi una fuga, ma da una situazione opprimente - come quella del figlio prodigo (al cap.15) che scappa di casa perché vessato dall’atteggiamento del “figlio maggiore”.
Nell’avventura di Fede-Amore vige sempre un riconoscimento reciproco. Dunque si alternano incessantemente gli uffici.
Si rovesciano incessantemente i ruoli fra soggetto e “oggetto” (reso a sua volta protagonista) dello scambio di risorse e del sovvenire in omaggio.
I rapporti di soggezione eccessivamente centrati annientano i Doni viventi di Dio; producono ferite profonde, paralizzanti.
Riducono al silenzio Creatore e creatura: una paradossale autocondanna.
Nel Regno delle “santità” poliedriche persiste al contrario l’inversione tra colui che propone, chi accoglie e coloro che dilatano.
In ogni situazione valutando se il fratello è nella letizia. [In tal senso si fa davvero opportuno il cammino sinodale].
Poi nel tempo si cresce e si cambia anche parere - ad es. circa persone o vicende che consideravamo lontane, inconcludenti.
E invece ci parlavano di missione, o del nostro ritmo segreto verso un altro traguardo e destino.
Il Cristo presente in ogni fedele e nel suo corpo mistico che vive le Beatitudini, supera ogni opinione normalizzata.
Dio non è monocromatico: sorvola disparità di comportamenti, divisione di ceto, malumori - e questo non è un discorso lontano da noi.
Ad es. sino a poco fa nel Battesimo sbrigavamo una formalità.
Non ci si rendeva conto di quanto accadeva fra Dio e la creatura introdotta nella Chiesa - né della differenza tra pia cerimonia e orientamento della vita.
Ma sostare con noi stessi e il nostro Senso, insieme, avrebbe qualificato il modo di comprenderci; capire gli altri, stare in campo.
Spontaneamente avremmo abbandonato il nostro “personaggio”, ruolo e primato (che accentrano, ma fanno da palla al piede alle migliori energie).
Insomma, con l’aiuto di una Casa comune qualitativamente ricca, viva e impegnata nello spirito di gratuità, saremmo già qui nella condizione divina.
Avremmo riattivato noi stessi e le nostre capacità a tutto tondo - senza prima aggiustare posizioni su modelli omologati e senza vigore, che ci sottomettono a relazioni rancorose, soffocanti, parziali, equivoche.
Nelle contrapposizioni ai vv.24-26 il Signore distingue bene ciò che rende Beati - completi, non unilaterali - e quanto non appartiene né assomiglia all’opera del Padre.
Ma lo fa non semplicemente ammonendo, bensì per riunire, e dilatare il nostro Nucleo; per lubrificare le intime, migliori essenze di tutti.
Proclamando lo spirito di Beatitudini - dentro ciascuno di noi - anche nel tempo della pandemia e della crisi globale non intende farci rodere il fegato e sentire dei traditori, incoerenti e fuori strada.
Tale Parola vuole comunicare [in specie alle stesse assemblee, che al Risorto sembra ne abbiano tanto bisogno] un’energia meno accentrata e parziale, più permeabile e confluente; un ritmo inclusivo.
E a tutti il permesso pieno di vivere.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Qual è il tuo ideale di felicità?
Conosci nella Chiesa uomini Beati, o soprattutto uomini di terra e che accentrano le relazioni, le mansioni, la gestione dei programmi pastorali e altro (...) pur propagandando “unità”?
Qual è il tuo grido di rabbia che non lasci uscire, per paura di essere escluso? Non credi che ti stia parlando profondamente delle scelte umane discriminanti, della Vocazione personale ed ecclesiale?
Credi che le Beatitudini siano un freno alla realizzazione personale e sociale, o viceversa una possibilità di affermarsi, e con determinazione?
Paradossi per una condivisione
Fra’ Egidio, compagno di San Francesco, riassume l’insegnamento del suo Fondatore così:
«Vuoi sentire bene? Diventa sordo. Vuoi parlare bene? Sta’ zitto. Vuoi camminare bene? Tagliati le gambe. Vuoi lavorare bene? Tagliati le mani. Vuoi amare davvero? Odiati. Vuoi vivere bene? Mortificati. Vuoi guadagnare? Impara a perdere. Vuoi arricchirti? Sii povero. Vuoi esser consolato? Piangi. Vuoi vivere nella sicurezza? Abbi sempre timore. Vuoi salire in alto? Umiliati. Vuoi essere stimato? Disprezza te stesso e stima quelli che ti disprezzano. Vuoi avere il bene? Sopporta il male. Vuoi essere in pace? Fatica. Vuoi che ti benedicano? Spera che ti maledicano».
Nella Lettera a Diogneto (metà II sec.) leggiamo:
«I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono a una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati e onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio».
«A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo (...). Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare».
Il Cristianesimo non è una religione, bensì una Persona e la sua proposta: un Cammino eccezionale di Amicizia e paradosso.
Citando Emmanuel Carrère: «(Gesù) è sempre quello che i suoi seguaci hanno voluto vedere, sentire, toccare, ma non come si aspettavano di vederlo, sentirlo, toccarlo (...). È il primo che passa, è l’ultimo dei mendicanti».
Le estrose scelte di Dio passano per gli indecisi, gli sconfitti, stupidi deboli ignobili derisi.
Non per un vezzo alternativo, ma perché sono queste le persone che - mentre si adoperano per rallegrare la vita altrui - rischiando in proprio fanno esperienza di un Padre che provvede alla loro, nell’unicità.
Hanno fatto passare la Luce
Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede
Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra “sentire religioso” comune, e “vivere di Fede”.
Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».
Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.
Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale, moralistica o sentimentale.
Nella lingua latina perfìcere significa condurre a termine, andare sino in fondo.
In tale accezione completa e integrale, “perfetto” diventa un valore incarnato autentico: attributo possibile - d’ogni persona consapevole della propria condizione di vulnerabilità, e non la disprezza.
La donna e l’uomo di Fede valorizzano ogni occasione o emozione che mettono a nudo la condizione di nudità [non colpa] per aprire nuove strade e rinnovarsi.
In ottica di vita nello Spirito il santo [in ebraico Qadosh, attributo divino] è sì l’uomo «distacccato», ma non in senso parziale o fisico, bensì ideale.
Non è la persona che a un certo punto della vita prende le distanze dalla famiglia umana per intraprendere un sentiero di purificazione che la innalzerebbe. Illudendosi di migliorare.
Come sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti: «Un essere umano [...] non si realizza, non sviluppa, non può trovare la propria pienezza [... e] non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (n.87).
Il testimone autentico non è animato dal disprezzo del caos esistenziale - né desideroso di appaltare le difficoltà di gestione della propria libertà consegnandola a un’agenzia alienante, dalla mentalità appartata (che risolva il dramma delle scelte personali).
In Cristo l’uomo è un «disgiunto» dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.
E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.
A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.
Tutto per la Comunione globale, e in Verità anche con il proprio intimo seme caratteriale - evitando proselitismi e il farsi notare nelle passerelle.
Il vero credente conosce il suo limite redento, vede le possibilità dell’imperfezione... Così sostituisce i presupposti del trattenere per sé, del salire sugli altri e del dominarli, con un fondamentale trittico umanizzante: elargire, libertà di “scendere”, collaborare.
Questo l’autentico Distacco, che non fugge le proprie e altrui inclinazioni, né disprezza il tratto complesso della condizione umana.
In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di “abbassarsi” per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.
In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.
Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici “forti”, e “migliori” degli altri.
Solo quest’orizzonte di Focolare ci spinge a partire.
Di conseguenza, contrario di Santo non è «peccatore», bensì irrealizzato o incompiuto.
Vediamone ancora il motivo (vocazionale e per strade personali).
Gesù era amico di pubblicani e pubblici peccatori non perché migliori dei buoni, ma perché in religione i «giusti» risultano non di rado poco spontanei; rendendosi impermeabili, chiusi, refrattari all’azione dello Spirito.
Con sorpresa, il Signore stesso ha fatto ripetuta esperienza che proprio le persone devotamente carenti erano volte a interrogarsi, accorgersi, rielaborare, deviare dall’assuefazione - per l’edificazione di nuovi sentieri, anche procedendo a tastoni.
Non potendo godere del mantello perbenista di paraventi sociali, dopo una presa di coscienza della propria situazione (e nel tempo) - rispetto a coloro che si ritenevano “arrivati” e amici di Dio - da “lontani” diventavano persone più degli “impeccabili” disposte ad amare.
Il mettersi in discussione è fondamentale in ottica biblica.
Ad ogni pie’ sospinto la Scrittura ci propone una spiritualità dell’Esodo, ossia una strada di liberazione da pastoie e percorsa come a piedi, passo dopo passo. Quindi che valorizza sentieri di ricerca, esplorazione, scoperta di sé e della Novità di un Dio che non ripete, ma crea.
L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].
Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente “natura”, quindi il loro essere nel mondo è condizionato [ricordo che il mio professore di antropologia teologica Ignazio Sanna diceva addirittura «de-centrato»], persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).
Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.
Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.
Per giungere a essere immagine e somiglianza del Signore, dobbiamo sviluppare capacità di risposta a una Vocazione che ci rende non dei fenomeni, né “perfetti” eccezionali, bensì Testimoni particolari.
Scelti per Nome, così come siamo; che abbracciano il loro essere profondo - anche inespresso - fino a riconoscerlo nel Tu, e dispiegarlo nel Noi.
La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.
Per una Nuova Alleanza.
Nell’Antico Testamento il credente entrava in contatto con la purità divina frequentando luoghi sacri, adempiendo prescrizioni, recitando preghiere, rispettando tempi e spazi, scansando situazioni imbarazzanti; così via.
La nostra esperienza e coscienza attestano infallibilmente che l’osservanza rigorosa è troppo rara, o di maniera: dentro, spesso non ci corrisponde - né umanizza.
Essa diventa presto o tardi un castello di carte, malfermo tanto più punta “in alto”. Basta disporne una sola in modo maldestro, e la costruzione artificiosa crolla.
Ci rendiamo conto della nostra naturale impossibilità a soddisfare sterilizzazioni, mappe (altrui) e standard così elevati.
Con Gesù la Perfezione non riguarda il “pensiero”, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.
In antichi contesti il cammino dei figli è stato ammantato d’una proposta misticheggiante o rinunciataria fatta di astinenze, digiuni, ritiri, vita appartata, adempimenti cultuali ossessivi... che in molte situazioni hanno costituito la trama portante della spiritualità pre-Conciliare.
Ma nella Scrittura i Santi non hanno l’aureola e neppure le ali.
Non sono tali per aver compiuto miracoli di guarigione incomparabili e stupefacenti: bensì donne e uomini inseriti nel mondo comune e negli aspetti più ordinari.
Essi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana; la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.
E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.
Nel Primo Testamento «Qadosh» designava esclusivamente un attributo dell’Eterno [unica Persona non intermittente] - e la sua separatezza dall’intreccio delle spesso confuse ambizioni terrene.
Malgrado i difetti, però, in Cristo diventiamo capaci di ascolto, di percezione; quindi abilitati a cogliere ogni opportunità per rendere testimonianza della Gratuità innata, vitale, dell’iniziativa divina e reale.
Incessantemente la vita provvidente si propone e viene incontro per aprire varchi impensabili, che fanno breccia.
I suoi inediti tragitti di crescita rinnovano l’esistere tutto concatenato e conforme.
Ciò anche facendoci stupire delle risorse intime, prima inconsapevoli o inconfessate e sottaciute, ovvero imprevedibilmente nascoste dietro lati oscuri.
Quel ch’è Insigne non viene più spostato dietro nuvolette e collocato in recinti muniti.
Pertanto, avversario di Dio non sarà la trasgressione: diventa viceversa la mancanza di spirito di Comunione, nelle differenze.
Nemico della storia di Salvezza non è l’incompletezza religiosa, ma il divario dalle Beatitudini - e dallo spirito in fieri del «viandante» per il quale “peregrinare” è sinonimo [non paradossale] anche di “errare”.
Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].
“Peccato” è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non parziali. Ciò armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.
Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.
Infatti Gesù non raccomanda dottrine, né di parcellizzare la propria vicenda con etilismi puntuali. Neppure prospetta alcuna religiosa scalata [in termini di progressività] condita di sforzi.
A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.
Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi.
Il Santo è il piccolo, non l’eroe tutto d’un pezzo, uniforme, pronosticabile, scontato.
Santo è colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto, ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).
Cari fratelli e sorelle,
l’anno liturgico è un grande cammino di fede, che la Chiesa compie sempre preceduta dalla Vergine Madre Maria. Nelle domeniche del Tempo Ordinario, tale itinerario è scandito quest’anno dalla lettura del Vangelo di Luca, che oggi ci accompagna “in un luogo pianeggiante” (Lc 6,17), dove Gesù sosta con i Dodici e dove si raduna una folla di altri discepoli e di gente venuta da ogni parte per ascoltarLo. In tale cornice si colloca l’annuncio delle “beatitudini” (Lc 6,20-26; cfr Mt 5,1-12). Gesù, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, dice: “Beati voi, poveri… beati voi, che ora avete fame… beati voi, che ora piangete… beati voi, quando gli uomini… disprezzeranno il vostro nome” per causa mia. Perché li proclama beati? Perché la giustizia di Dio farà sì che costoro siano saziati, rallegrati, risarciti di ogni falsa accusa, in una parola, perché li accoglie fin d’ora nel suo regno. Le beatitudini si basano sul fatto che esiste una giustizia divina, che rialza chi è stato a torto umiliato e abbassa chi si è esaltato (cfr Lc 14,11). Infatti, l’evangelista Luca, dopo i quattro “beati voi”, aggiunge quattro ammonimenti: “guai a voi, ricchi… guai a voi, che ora siete sazi,… guai a voi, che ora ridete” e “guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi”, perché, come afferma Gesù, le cose si ribalteranno, gli ultimi diventeranno primi, e i primi ultimi (cfr Lc 13,30).
Questa giustizia e questa beatitudine si realizzano nel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio”, che avrà il suo compimento alla fine dei tempi ma che è già presente nella storia. Dove i poveri sono consolati e ammessi al banchetto della vita, lì si manifesta già ora la giustizia di Dio. E’ questo il compito che i discepoli del Signore sono chiamati a svolgere anche nella società attuale. Penso alla realtà dell’Ostello della Caritas Romana alla Stazione Termini, che stamani ho visitato: di cuore incoraggio quanti operano in tale benemerita istituzione e quanti, in ogni parte del mondo, si impegnano gratuitamente in simili opere di giustizia e di amore.
Al tema della giustizia ho dedicato quest’anno il Messaggio per la Quaresima, che inizierà il prossimo mercoledì, detto delle Ceneri. Oggi desidero, pertanto, consegnarlo idealmente a tutti, invitando a leggerlo e a meditarlo. Il Vangelo di Cristo risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, ma in modo inatteso e sorprendente. Egli non propone una rivoluzione di tipo sociale e politico, ma quella dell’amore, che ha già realizzato con la sua Croce e la sua Risurrezione. Su di esse si fondano le beatitudini, che propongono il nuovo orizzonte di giustizia, inaugurato dalla Pasqua, grazie al quale possiamo diventare giusti e costruire un mondo migliore.
Cari amici, rivolgiamoci ora alla Vergine Maria. Tutte le generazioni la proclamano “beata”, perché ha creduto nella buona notizia che il Signore le ha annunciato (cfr Lc 1,45.48). Lasciamoci guidare da Lei nel cammino della Quaresima, per essere liberati dall’illusione dell’autosufficienza, riconoscere che abbiamo bisogno di Dio, della sua misericordia, ed entrare così nel suo Regno di giustizia, di amore e di pace.
[Papa Benedetto, Angelus 14 febbraio 2010]
3. “Beati voi”, dice “Beati i poveri in spirito, i miti e i misericordiosi, gli afflitti, coloro che hanno fame e sete della giustizia, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati! Beati voi!”. Le parole di Gesù possono sembrare strane. È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore” (Mt 11, 29), queste parole lanciano una sfida che richiede una metanoia profonda e costante dello spirito, una grande trasformazione del cuore.
Voi giovani comprenderete il motivo per cui è necessario questo cambiamento del cuore! Siete infatti consapevoli di un'altra voce dentro di voi e intorno a voi, una voce contraddittoria. È una voce che dice: “Beati i superbi e i violenti, coloro che prosperano a qualunque costo, che non hanno scrupoli, che sono senza pietà, disonesti, che fanno la guerra invece della pace e perseguitano quanti sono di ostacolo sul loro cammino”. Questa voce sembra avere senso in un mondo in cui i violenti spesso trionfano e pare che i disonesti abbiano successo. “Sì” dice la voce del male “sono questi a vincere. Beati loro!”
4. Gesù offre un messaggio molto diverso. Non lontano da qui egli chiamò i suoi primi discepoli, così come chiama voi ora. La sua chiamata ha sempre imposto una scelta fra le due voci in competizione per conquistare il vostro cuore, anche ora, qui sulla collina, la scelta fra il bene e il male, fra la vita e la morte. Quale voce sceglieranno di seguire i giovani del XXI secolo? Riporre la vostra fiducia in Gesù significa scegliere di credere in ciò che dice, indipendentemente da quanto ciò possa sembrare strano, e scegliere di non cedere alle lusinghe del male, per quanto attraenti possano sembrare.
Dopo tutto, Gesù non solo proclama le Beatitudini. Egli vive le Beatitudini. Egli è le Beatitudini. Guardandolo, vedrete cosa significa essere poveri in spirito, miti e misericordiosi, afflitti, avere fame e sete della giustizia, essere puri di cuore, operatori di pace, perseguitati. Per questo motivo ha il diritto di affermare “Venite, seguitemi!”. Non dice semplicemente, “Fate ciò che dico”. Egli dice “Venite, seguitemi!”.
Voi ascoltate la sua voce su questa collina e credete a ciò che dice. Tuttavia, come i primi discepoli sul mare di Galilea, dovete abbandonare le vostre barche e le vostre reti e questo non è mai facile, in particolare quando dovete affrontare un futuro incerto e siete tentati di perdere la fiducia nella vostra eredità cristiana. Essere buoni Cristiani può sembrare un'impresa superiore alle vostre forze nel mondo di oggi. Tuttavia Gesù non resta a guardare e non vi lascia soli ad affrontare tale sfida. È sempre con voi per trasformare la vostra debolezza in forza. CredeteGli quando vi dice: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12, 9)!
5. I discepoli trascorsero del tempo con il Signore. Giunsero a conoscerlo e ad amarlo profondamente. Scoprirono il significato di quanto l'Apostolo Pietro disse una volta a Gesù: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68). Scoprirono che le parole di vita eterna sono le parole del Sinai e le parole delle Beatitudini. Questo è il messaggio che diffusero ovunque.
Al momento della sua Ascensione, Gesù affidò ai suoi discepoli una missione e questa rassicurazione: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 18-20). Da duemila anni i seguaci di Cristo svolgono questa missione. Ora, all'alba del terzo millennio, tocca a voi. Tocca a voi andare nel mondo e annunciare il messaggio dei Dieci Comandamenti e delle Beatitudini. Quando Dio parla, parla di cose che hanno la più grande importanza per ogni persona, per le persone del XXI secolo non meno che per quelle del primo secolo. I Dieci Comandamenti e le Beatitudini parlano di verità e di bontà, di grazia e di libertà, di quanto è necessario per entrare nel Regno di Cristo. Ora tocca a voi essere coraggiosi apostoli di quel Regno!
Giovani della Terra Santa, giovani del mondo, rispondete al Signore con un cuore aperto e volenteroso! Volenteroso e aperto come il cuore della figlia più grande di Galilea, Maria, la Madre di Gesù. Come rispose? Disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38).
O Signore Gesù Cristo, in questo luogo che hai conosciuto e che hai tanto amato, ascolta questi giovani cuori generosi! Continua a insegnare a questi giovani la verità dei Comandamenti e delle Beatitudini! Rendili gioiosi testimoni della tua verità e apostoli convinti del tuo Regno! Sii con loro sempre, in particolare quando seguire te e il Vangelo diviene difficile e arduo! Sarai tu la loro forza, sarai tu la loro vittoria!
O Signore Gesù, hai fatto di questi giovani degli amici tuoi: tienili per sempre vicino a te!
Amen!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia ai giovani, Monte delle Beatitudini 24 marzo 2000]
Il Vangelo di oggi […] ci presenta le Beatitudini nella versione di San Luca. Il testo si articola in quattro beatitudini e quattro ammonimenti formulati con l’espressione “guai a voi”. Con queste parole, forti e incisive, Gesù ci apre gli occhi, ci fa vedere con il suo sguardo, al di là delle apparenze, oltre la superficie, e ci insegna a discernere le situazioni con fede.
Gesù dichiara beati i poveri, gli affamati, gli afflitti, i perseguitati; e ammonisce coloro che sono ricchi, sazi, ridenti e acclamati dalla gente. La ragione di questa paradossale beatitudine sta nel fatto che Dio è vicino a coloro che soffrono e interviene per liberarli dalle loro schiavitù; Gesù vede questo, vede già la beatitudine al di là della realtà negativa. E ugualmente il “guai a voi”, rivolto a quanti oggi se la passano bene, serve a “svegliarli” dal pericoloso inganno dell’egoismo e aprirli alla logica dell’amore, finché sono in tempo per farlo.
La pagina del Vangelo odierno ci invita dunque a riflettere sul senso profondo dell’avere fede, che consiste nel fidarci totalmente del Signore. Si tratta di abbattere gli idoli mondani per aprire il cuore al Dio vivo e vero; Egli solo può dare alla nostra esistenza quella pienezza tanto desiderata eppure difficile da raggiungere. Fratelli e sorelle, sono molti, infatti, anche ai nostri giorni, quelli che si propongono come dispensatori di felicità: vengono e promettono successo in tempi brevi, grandi guadagni a portata di mano, soluzioni magiche ad ogni problema, e così via. E qui è facile scivolare senza accorgersi nel peccato contro il primo comandamento: cioè l’idolatria, sostituire Dio con un idolo. Idolatria e idoli sembrano cose di altri tempi, ma in realtà sono di tutti i tempi! Anche di oggi. Descrivono alcuni atteggiamenti contemporanei meglio di molte analisi sociologiche.
Per questo Gesù ci apre gli occhi sulla realtà. Siamo chiamati alla felicità, ad essere beati, e lo diventiamo fin da ora nella misura in cui ci mettiamo dalla parte di Dio, del suo Regno, dalla parte di ciò che non è effimero ma dura per la vita eterna. Siamo felici se ci riconosciamo bisognosi davanti a Dio - e questo è molto importante: “Signore ho bisogno di te” - e se, come Lui e con Lui, stiamo vicino ai poveri, agli afflitti e agli affamati. Anche noi lo siamo davanti a Dio: siamo poveri, afflitti, siamo affamati davanti a Dio. Diventiamo capaci di gioia ogni volta che, possedendo dei beni di questo mondo, non ne facciamo degli idoli a cui svendere la nostra anima, ma siamo capaci di condividerli con i nostri fratelli. Su questo oggi la liturgia ci invita ancora una volta ad interrogarci e a fare verità nel nostro cuore.
Le Beatitudini di Gesù sono un messaggio decisivo, che ci sprona a non riporre la nostra fiducia nelle cose materiali e passeggere, a non cercare la felicità seguendo i venditori di fumo – che tante volte sono venditori di morte – i professionisti dell’illusione. Non bisogna seguire costoro, perché sono incapaci di darci speranza. Il Signore ci aiuta ad aprire gli occhi, ad acquisire uno sguardo più penetrante sulla realtà, a guarire dalla miopia cronica che lo spirito mondano ci contagia. Con la sua Parola paradossale ci scuote e ci fa riconoscere ciò che davvero ci arricchisce, ci sazia, ci dà gioia e dignità. Insomma, quello che veramente dà senso e pienezza alla nostra vita. La Vergine Maria ci aiuti ad ascoltare questo Vangelo con mente e cuore aperti, perché porti frutto nella nostra vita e diventiamo testimoni della felicità che non delude, quella di Dio che non delude mai.
[Papa Francesco, Angelus 17 febbraio 2019]
Chiamò a Sé: emergenza per Nome, prima che dattorno
(Lc 6,12-19)
Lc riflette il doppio indirizzo del culto nelle comunità primitive: la Preghiera come significativa apertura al Padre e celebrazione interna fra discepoli (vv.13-17) - e il pubblico Annuncio con opere, al popolo.
La comunità è vicina: Dio è nella nostra storia. L’idea di un Regno distante produce separazioni, piramidi pastoralmente inconsistenti, e dispersiva coltivazione d’interessi.
Insomma, è fondamentale prima maturare, ovunque viviamo.
Chi coltiva molte brame, le proietta; procura i suoi stessi influssi torbidi. Per questo è necessaria l’orazione e la riflessone, che - dall’Ascolto - ci trasmettono il senso del nostro stare al mondo e una retta disposizione.
Sembra un paradosso, ma l’interesse verso i bisogni delle moltitudini è un problema squisitamente radicato nell’intimo.
È da se stessi e a partire dalla comunità che si guarda con empatia il mondo stesso, sapendone recuperare i lati opposti.
È la Via dell’Interno che compenetra e attiva la via dell’esterno.
In tal guisa c’immergiamo nella Fonte dell’essere: per spostare lo sguardo precipitoso. Chi non è libero non può liberare.
Unico modo saggio di scrutare lontano è attenersi alla ragione delle cose, principio che si conosce attivamente, se non fuorviati da superficialità e riduzioni.
Intesa la natura delle creature e conformandovisi in modo crescente, tutti vengono ispirati a trasmutare e completarsi, arricchendo anche la sclerosi culturale senza forzature alienanti.
Tutto ciò, esercitando una pratica di bontà anche con se stessi.
Non per distinguere il momento della Vocazione da quello dell’Invio ministeriale: la via del Cielo è intrecciata alla strada della Persona.
È insomma per avvicinarsi al senso dell’unicità missionale di ciascun Apostolo che Gesù trascorre un’intera notte in preghiera (v.12).
Gran parte dei primi seguaci ha nomi tipici del giudaismo, addirittura del tempo dei Patriarchi - il che indica un’estrazione mentale e spirituale radicata più nella religione antica che nella nuova Fede: realtà non facile da gestire.
Ma anche per loro il Signore sprigiona la sua forza di Vita piena, malgrado in sé fossero individui comuni, pieni di limiti.
Tuttavia il Regno è «locale e universale» [Fratelli Tutti, nn.142-153], Vicino e per Nome - come si evince dal passo del Vangelo di Lc.
Questa la forza molteplice, graffiante, impareggiabile, prossima e appunto personale, la quale vince ogni possibilità di sabotaggio ideale [a motivo di circostanze avverse].
Potenza attinta sia dalla preghiera diretta al Padre in Cristo - nel suo Ascolto notturno (v.12) - nonché dalle opere d’amore (vv.17-19).
Potenze in simbiosi personale, sensibile, condivisa.
Missione non per soli eccellenti, né unilaterale, bensì per un contagio inquieto.
Annuncio di nuova Luce accolta in Dono: dove appunto non appare una sola forma o un solo colore.
E l’Asse è stare talora nascosti con Lui.
«È quanto la tradizione ha poi formulato con la nota espressione: “Contemplata aliis tradere” (cfr San Tommaso, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 188, art. 6)» [Papa Benedetto].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua esperienza, quale catena ha unito il Cielo e la terra?
[Martedì 23.a sett. T.O. 9 settembre 2025]
Il doppio indirizzo del culto, ma l’Asse è stare con Lui
(Lc 6,12-19)
«Uscì verso il Monte per pregare e passò la notte nella preghiera a Dio» (v.12).
«E tutta la folla cercava di toccarlo poiché una Forza usciva da Lui e guariva tutti» (v.19).
Lc riflette il doppio indirizzo del culto nelle comunità primitive.
Anzitutto, la Preghiera come significativa apertura al Padre e celebrazione interna fra discepoli (vv.13-17). Quindi il pubblico Annuncio (con opere) al popolo.
La comunità è vicina: Dio è nella nostra storia.
L’idea di un Regno distante produce separazioni, gerarchie piramidali (pastoralmente) inconsistenti. Talora, dispersiva coltivazione d’interessi interni spacciati per grande sensibilità e altruismo.
Insomma, per camminare sul serio accanto a se stessi e agli altri è fondamentale prima maturare, ovunque viviamo.
Ciò vale per assumere differenti iniziative; anche eventualmente per ribellarsi al panorama stagnante che ama tornare alle sicurezze antiche.
In tal guisa, ci possono essere motivi poco nobili per voler giungere subito ovunque, correre dappertutto a fare proseliti, e farlo per contrapposizione, senza un «sogno di amicizia» [cf. enciclica Fratelli Tutti, passim].
Infatti chi coltiva molte brame, le proietta; procura i suoi stessi influssi torbidi.
Per questo è necessaria l’orazione, e la riflessone - indispensabili anche a Gesù (v.12) - che ci porgono il senso del nostro stare al mondo, la Visione del Padre, e una retta disposizione.
Meditazioni profonde e preghiere spontanee annientano le infedeltà che non propongono vita genuina, né motivazioni autentiche, o valori dello spirito.
Le orazioni intaccano e demoliscono le disumanizzazioni, le emozioni che ci alienano e allontanano dai fratelli, i tranelli che tendono a edificare altri templi e santuari.
La stessa carica di universalità e il “senso di urgenza” sono contenuti nel radicamento ai valori trasmesso dal dialogo con Dio. E il suo Mistero (per noi), nelle relazioni, nella conoscenza intima di sé.
Infatti... stimoli, princìpi virtuosi, lacune e lati nascosti sono aspetti energetici complementari.
Sembra un paradosso, ma l’interesse verso i bisogni delle moltitudini è un problema squisitamente radicato nell’intimo, per nulla esteriore.
È da se stessi e a partire dalla comunità che si guarda con empatia il mondo, sapendone recuperare gli opposti.
È la Via dell’Interno che compenetra e attiva la via dell’esterno.
Così volentieri preghiamo: per immergerci nella Fonte vibrante dell’essere, e spostare lo sguardo precipitoso.
Per contrasto e impedimento, la parzialità abitudinaria che “si mette in mezzo” non coglie il valore del poliedro sociale e culturale.
D’altro canto, purtroppo, solo amando la forza si preferisce partire dal troppo distante.
Bisogna anzitutto guarire ciò ch’è intimo e prossimo. Chi non è libero non può emancipare nessuno.
Così, unico modo di scrutare lontano è attenersi alla ragione delle cose - principio che si conosce attivamente, se non fuorviati da superficialità e riduzioni [individualiste o monovalenti, unilaterali e di club].
Intesa la natura delle creature e conformandovisi in modo crescente, tutti vengono ispirati a trasmutare e completarsi.
Processo non alienante, che arricchisce anche la possibile sclerosi culturale, senza forzature isteriche o esterne.
Tutto ciò, esercitando una pratica di bontà anche con se stessi.
Dice il Tao (XLVII): «Senza uscir dalla porta, conosci il mondo; senza guardar dalla finestra, scorgi la Via del Cielo. Più lungi te ne vai, meno conosci. Per questo il santo non va dattorno eppur conosce, non vede eppur discerne, non agisce eppur completa».
Solo dalla Fonte dell’essere - casa comune - scaturisce una vita non dissociata, da salvati a tutto tondo, che efficacemente permane e può dilatarsi.
Siamo segno di dedizione e persone protese? Non lo faremo per “merito” o al fine di cattivarsi le simpatie.
Senza fare la setta, dopo una buona formazione - la quale ci trasmette anche una sapiente tolleranza, a partire dal mondo di dentro.
Nessuno scopo estrinseco, che perderebbe l’anima e non recherebbe svolta alcuna.
Non per distinguere il momento della Vocazione da quello dell’Invio ministeriale.
La via del Cielo è intrecciata alla strada della Persona e a quella della Natura [«come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia»: Laudato Si’, n.1] o saremo operatori da strapazzo.
Nessuno degli Apostoli - personaggi ordinari - era degno della Chiamata (vv.13-15).
Per capire questo, e avvicinarsi al senso della loro unicità missionale, Gesù deve trascorrere una intera notte in preghiera (v.12).
Gran parte dei primi seguaci ha nomi tipici del giudaismo, addirittura del tempo dei Patriarchi - il che indica un’estrazione mentale e spirituale radicata più nella religione antica che nella nuova Fede; bagaglio non facile da gestire.
Ma anche per gli indecisi il Signore sprigiona la sua forza di Vita piena, proprio perché in sé persone assolutamente comuni e piene di limiti; non di rado perplessi, perfino aperti oppositori.
Pietro smaniava per farsi avanti, pur retrocedendo spesso - marcia indietro - sino a diventare per Gesù un «satàn» [(Mt 16,23; Mc 8,33): nella cultura dell’oriente antico, un funzionario del gran sovrano, inviato a fare il controllore e delatore - praticamente un accusatore].
Giacomo di Zebedeo e Giovanni erano fratelli, accesi fondamentalisti, e in modo iroso volevano il Maestro solo per loro, nonché i primi posti.
Filippo [condizionato forse da un’estrazione ellenista, come indica il suo nome] a prima vista non sembrava un tipo molto pratico, né svelto a cogliere le cose di Dio.
Andrea pare invece se la cavasse bene: persona inclusiva.
Stando a note identificazioni tradizionali, Bartolomeo era forse aperto ma perplesso, perché il Messia non gli corrispondeva granché.
Tommaso sempre un poco dentro e un po’ fuori.
Matteo… un collaborazionista, avido complice del sistema oppressivo, e che volentieri estorceva denaro alla sua gente [il popolo lo condannava in modo spietato].
Simone - lo zelota, il cananeo - una testa calda.
Giuda Iscariota un tormentato, che si autodistrugge per essersi fidato di vecchie guide spirituali - impregnate d’ideologia nazionalista, interesse privato, opportunismo e potere.
Altri due (Giacomo il minore figlio di Alfeo, e Giuda Taddeo) semplici discepoli forse di non grande rilievo o capacità d’iniziativa.
Ma il Regno è «locale e universale» [Fratelli Tutti, nn.142-153], Vicino e per Nome - come si evince dal passo del Vangelo di Lc.
Questa la forza molteplice, graffiante, impareggiabile, prossima e appunto personale, la quale vince ogni possibilità di sabotaggio ideale (a motivo di circostanze avverse).
Potenza attinta sia dalla preghiera diretta al Padre in Cristo - nel suo Ascolto notturno (v.12) - nonché dalle opere d’amore (vv.17-19).
Potenze in simbiosi personale, sensibile, condivisa.
Non per soli eccellenti… o anche nel tempo dell’emergenza globale non vi sarà opera sanante (v.19) bensì solo esterna, accusatoria e finalizzata alla propaganda, al proselitismo.
Annuncio e Missione di nuova Luce accolta in Dono: dove appunto non appare una sola forma o un solo colore.
E l’Asse è «stare» con Lui.
«È quanto la tradizione ha poi formulato con la nota espressione: “Contemplata aliis tradere” (cfr San Tommaso, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 188, art. 6)» [Papa Benedetto].
Per un contagio non allarmistico né unilaterale, monocromatico, bensì florido, poliedrico, talora “nascosto”, e inquieto.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua esperienza, quale catena ha unito il Cielo e la terra?
L’elenco (accusatorio) e lo sforzo delle trasgressioni da correggere in modo nevrotico?
O una Chiamata personale, inclusiva dei tuoi molti volti nell’anima - Vocazione sostenuta da una Chiesa fattasi eco e Fonte gratuita di comprensione a tutto tondo?
But the words of Jesus may seem strange. It is strange that Jesus exalts those whom the world generally regards as weak. He says to them, “Blessed are you who seem to be losers, because you are the true winners: the kingdom of heaven is yours!” Spoken by him who is “gentle and humble in heart”, these words present a challenge (Pope John Paul II)
È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore”, queste parole lanciano una sfida (Papa Giovanni Paolo II)
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)
Il primo elemento costitutivo del gruppo dei Dodici è dunque un attaccamento assoluto a Cristo: si tratta di persone chiamate a “essere con lui”, cioè a seguirlo lasciando tutto. Il secondo elemento è quello missionario, espresso sul modello della missione stessa di Gesù (Papa Giovanni Paolo II)
Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
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