Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XVIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [3 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Nel cuore delle vacanze la Parola di Dio ci provoca a dare senso vero alla vita.
*Prima Lettura dal libro di Qoèlet (1,2; 2,21-23)
Quando si legge il libro del Qoelet (Qoelet indica colui che convoca o il maestro che parla davanti all’assemblea) detto anche l’Ecclesiaste, c’è il rischio di pensare che l’autore sia un filosofo; invece è un predicatore e si cela qui una delle personalità più affascinati e scomode della sapienza biblica. È vero che il suo libro è classificato tra i “libri sapienziali”, ma i libri biblici detti di sapienza non sono saggi filosofici alla maniera dei pagani o degli agnostici. Sono prima di tutto libri scritti da credenti per dei credenti, in un certo senso sono dei catechismi. “Vanità delle vanità, tutto è vanità”: ecco le prime parole del libro del Qoelet, e forse anche ciò che lo riassume meglio. “Vanità” tradotto letteralmente sarebbe: “soffio di soffi”, qualcosa di evanescente e chi può vantarsi di trattenere un soffio tra le dita? Un’altra espressione simile, molto cara all’autore, è “corsa dietro al vento”(1,14). In altri termini tutto ciò a cui dedichiamo pensieri, sogni, forze, attività, tempo, tutto è effimero, provvisorio, passeggero. Tutto, tranne una sola cosa. Quale? L’autore mantiene il mistero e solo alla fine del libro dirà che l’unica cosa importante al mondo è la ricerca di Dio. Si comprende alla fine che non si tratta di una meditazione filosofica disillusa, ma di una predicazione vigorosa in modo velato. Nel frattempo, descrive in mille modi le tante attività umane come sforzi inutili, un correre dietro al vento per afferrare un soffio tra le dita. Per meglio argomentare fa parlare il re Salomone in persona, come uomo di desideri, di potere, coronato di gloria, ma di una gloria che non ha avuto futuro. In effetti diverse fasi segnano la sua vita: prima di diventare re, non sappiamo nulla di lui se non la sua sete di potere e come re, all’inizio fu ammirevole per saggezza e umiltà, alla fine cadde nell’idolatria e fu schiavo dell’amore per la ricchezza. Qoelet fa parlare Salomone come se stesse facendo il bilancio del suo regno: regno di potere e ricchezza (Gesù dirà di lui: «Salomone in tutta la sua gloria»). Ebbe sapienza e ricercò le grandi opere che affascinano i potenti e i saggi del tempo; tutti i piaceri della vita, e alla fine il fallimento del suo regno. Con Roboamo, suo figlio, incapace di una politica saggia, il regno si divise, e, peggio ancora, l’idolatria riprese il sopravvento e in qualche anno la gloria di Salomone svanì. Quel che leggiamo oggi si riferisce a lui: “chi ha lavorato con sapienza, con scienza dovrà lasciare a un altro che per nulla vi ha faticato” (2,21). Roboamo, suo figlio e successore al trono di Gerusalemme, mancò gravemente di saggezza e da lì nacque lo scisma che divise per sempre il regno di Davide. Alla luce di questa esperienza Qoelet afferma: “Tutto è vanità”. Leggiamo la stessa cosa nel salmo 103: “L’uomo: i suoi giorni sono come l’erba, fiorisce come il fiore dei campi: basta un soffio di vento, e non esiste più (15-16). In Qoelet c’è un vero linguaggio di fede: Dio solo conosce tutti i misteri e ogni ricerca della felicità fuori di Lui è vana perché solo Lui possiede le chiavi della vera sapienza, e in definitiva, anche se non comprendiamo tutti i misteri dell’esistenza, sappiamo che tutto è dono di Dio. Mai sarà deluso chi confida in Dio e la sapienza consiste nell’abbandono in Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti è l’unica via verso la felicità: “Chi osserva il comandamento non conoscerà nulla di male.” (Qo 8,5). Alla fine, la vera sapienza è l’umiltà della vita vissuta come dono di Dio: “Ogni uomo che mangia, beve e gode del benessere in tutto il suo lavoro: è un dono di Dio. (Qo 3,13).
*Salmo responsoriale 89 /90 (3-4.5-6.12-13.14-17)
Il salmo ci conduce nel contesto di una cerimonia di richiesta di perdono al Tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese: la preghiera “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13) è tipica di una liturgia penitenziale. Questo salmo è dunque una preghiera per chiedere la conversione: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” v.12). La conversione consiste nel vivere secondo la sapienza di Dio per conoscere la vera misura dei nostri giorni. Non è un caso che questo salmo ci venga offerto in eco alla prima lettura, dal libro del Qoèlet, una meditazione sulla vera sapienza mentre il salmo propone una splendida definizione della sapienza che è la vera misura dei nostri giorni, una sana lucidità sulla nostra condizione di uomini. Nati senza sapere perché e destinati a morire senza poter nemmeno prevedere quando: ecco il nostro destino, e questo è il senso dei primi versetti che abbiamo letto: Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: “Ritornate, figli dell’uomo!”(v.3), cioè ritornate alla terra da cui vi ho tratto. Ciò non crea tristezza ma serenità perché la nostra miseria poggia sulla grandezza e la stabilità di Dio: “mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4). Dio ci da sicurezza perché Egli vuole solo il nostro bene. I guai però nascono quando perdiamo la lucidità sulla sulla nostra miseria, come ben illustrano i capitoli 2 e 3 della Genesi, che raccontano l’errore di Adamo, personaggio simbolico, il cui comportamento è considerato modello di ciò che non si deve fare. “Adamo ha fatto questo o quello” non descrive un ipotetico primo uomo, ma un tipo di comportamentoe ed in tale luce questo salmo è in sintonia con la prima lettura dove Qoèlet fa parlare Salomone re saggio all’inizio, ma sedotto poi dal lusso, dal potere, dalle donne che l’hanno reso idolatra. Nella seconda parte del regno, si è comportato come Adamo che si allontana dalla sapienza di Dio. Questo salmo invita a ritrovare la sapienza e l’umiltà del giovane Salomone perché vera sapienza è la coscienza della piccolezza dell’uomo mai umiliante: una piccolezza fiduciosa, filiale. Splendida la conclusione: “l’opera delle nostre mani rendi salda” (v.17) che mostra la cooperazione tra Dio e l’uomo: l’uomo lavora, Dio dà solidità e senso all’opera umana.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (3,1-5.9-11)
Paolo fa anzitutto una distinzione tra “le cose di lassù” e “quelle della terra”, due modi diversi di vivere: i comportamenti ispirati dallo Spirito Santo e quelli che non lo sono. “Le cose di lassù” sono la benevolenza, l’umiltà, la dolcezza, la pazienza, il perdono reciproco, vivendo secondo lo Spirito ed è il comportamento dei battezzati. “Quelle della terra” sono dissolutezza, impurità, passione sfrenata, avidità, cupidigia, comportamenti non ispirati dallo Spirito. Paolo tabilisce il legame tra il battesimo e il modo di vivere: “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù” (v.1). Dice “siete risorti”, però poi afferma “voi infatti siete morti” (v.2) e le parole per lui non hanno lo stesso significato che per noi. Per Paolo, dalla risurrezione di Cristo in poi, niente è più come prima. Essere dei risorti significa precisamente essere morti al mondo e nati a una vita secondo lo Spirito, ciò che lui chiama le realtà di lassù. Il cristiano, è un “trasformato, che vive alla maniera di Cristo” e Paolo lo chiama “l’uomo nuovo”. Non disprezza “le cose della terra”; al contrario, dirà poco dopo: “Qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù rendendo per mezzo di lui grazie a Dio (3,17). Non si tratta quindi di vivere un’altra vita rispetto a quella ordinaria, ma di viverla diversamente: non rifiutare questo mondo, ma viverlo già come seme del Regno, dove tutti gli uomini sono fratelli come spiega nella lettera ai Galati (3,26-28) e ripete alla fine del brano della lettera ai Colossesi di questa domenica: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti.” La comunità di Colosse probabilmente aveva gli stessi problemi dei Galati e in particolare, la grande questione che agitava le prime comunità cristiane e cioè se i non-ebrei diventati cristiani dovevano assumere le pratiche giudaiche: norme alimentari, abluzioni rituali, e soprattutto la circoncisione. C’erano cristiani circoncisi e altri non circoncisi e taluni ebrei imponevano la circoncisione. Identica risposta ai Galati e ai Colossesi: il battesimo fa di tutti dei fratelli e ogni forma di esclusione è superata: conta solo essere discepoli di Cristo.
NOTA. Alcuni esegeti pensano che questa lettera attribuita a Paolo non sia stata effettivamente scritta da lui; Paolo, infatti, non è mai stato a Colosse: è stato Epafra, un suo discepolo, a fondare quella comunità. Secondo una prassi molto comune nel I secolo (chiamata pseudepigrafia), si ipotizza (ma è solo un’ipotesi) che un discepolo molto vicino al pensiero di Paolo si sia rivolto ai Colossesi sotto l’autorità del nome dell’apostolo, perché il momento era grave. Se questa ipotesi è corretta, non ci si stupisce di trovare in questo scritto frasi letteralmente prese da Paolo e altre che mostrano come la riflessione teologica continuasse a svilupparsi nelle comunità cristiane. Gesù aveva detto: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera.” E nelle domeniche precedenti abbiamo già avuto modo di vedere sviluppi teologici che non si trovano ancora negli scritti di Paolo stesso.
*Dal Vangelo secondo Luca (12, 13 – 21)
Sembra brusca la risposta di Gesù: “O uomo chi mi ha costituito vostro giudice o mediatore di sopra di voi?” Tuttavia, buon pedagogo, Gesù coglie l’occasione per trarre una lezione che spiega bene con questa parabola. Un uomo arricchitosi con gli affari studia come meglio godersi la sua ricchezza; pensa a demolire i magazzini, costruirne di più grandi per ammassarvi tutto il grano e i suoi beni per poi dire a sé stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni: ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (v.19). Purtroppo ha dimenticato che la sua vita non dipende da lui e infatti la notte stessa muore. Si crede ricco, ma la vera ricchezza non è quella che lui immagina. Per meglio capire l’insegnamento di Gesù occorre ricordare quel che ha detto prima: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede” (v.13) e, anche se non c’è nella lettura liturgica di questa domenica, egli alla fine tira le conclusioni: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, di cosa vi vestirete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito.” (Lc 12,22-23). Insegnamento di Gesù non nuovo che riprende temi già noti nell’Antico Testamento. Ben Sira diceva che chi diventa ricco non sa quanto tempo gli resta da vivere, poi lascerà i suoi beni ad altri e morirà (cf. Sir 11,18-19); e nella prima lettura di questa domenica, il Qoelet ha proposto riflessioni simili: “Quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?” (Qo 2,22) ritornando più volte sullo stesso tema (cf.Qo 5,9…15). Molto incisivo il profeta Isaia che accusa il popolo di Gerusalemme di stordirsi nei piaceri, invece di ascoltare l’appello di Dio alla conversione (cf Is 22,13) e il libro di Giobbe ripete: ”Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò” (Gb 1,21), frase ancor oggi recitata in Israele durante ogni funerale. Tutte queste frasi suonano come richiami alla realtà della vita. Gesù denuncia la condotta insensata: Stolto! Questa notte stessa ti sarà richiesta la vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (v.20) e la parabola si chiude: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio”. Il che implica due cose: Non dimenticare mai che le ricchezze vengono da Dio e al lui appartengono perché ce le affida per metterle a servizio del Regno di Dio. La vita è breve, ma proprio per questo, affrettiamoci a metterla a frutto! Gesù risponde bruscamente al richiedente l’eredità: quell’uomo sbaglia priorità perché l’eredità più preziosa è la fede ricevuta dai nostri padri. E ogni volta che Gesù risponde in modo brusco (a sua madre a Cana (Gv 2,4) a Pietro a Cesarea (Mt 16,23), è perché in gioco c’è la sua missione.
+ Giovanni D’Ercole
(Mt 13,47-53)
«Tesoro» è il Vangelo, la Parola di Dio: un vero affare (v.44). «Perla» d’uomo è Gesù (vv.45-46).
«Regno» è il dono dell’assemblea viva - popolo senza meriti, dall’esito inatteso; sbocco dell’impegno per la ricerca del meglio.
La parabola della Rete sottolinea il Risultato del Regno di Dio, ossia il frutto educativo-operativo della comunità, ambito in cui Dio ‘regna’.
La Chiesa sognata dal Cristo è come una Rete che ci tira su alla luce, al respiro, all’esistere in pienezza.
Convivialità delle differenze che fa rinascere ciascuno e tutti, senza però trattenere il marcio e putrefatto [«guasto»: v.48 testo greco], ossia quello che non ha vita, né più la offre.
Non si tratta d’un banale giudizio moralistico o forense, fra buono e cattivo!
È la distinzione tra ciò che resta pieno e «bello» (in senso orientale) e ciò che - putrido - corrompe e degrada, lasciando fradiciume irreparabile.
Insomma: è nelle realtà fraterne che Dio ha un piede sulla terra.
Nella Comunione il Signore si fa Nido e Presenza reale. Alleato che anche nei momenti difficili ci lascia contattare energie rigenerative.
Amicizia e Sé eminente, Approdo e Istinto vocazionale che sebbene nascosto riempie il cammino, trasformandolo in Relazione; anche nei momenti fugaci e sommari.
Eccolo Vivente in noi, mentre fa sgorgare Gioia di vivere, perché colma la mentalità d’ognuno, e permette il dialogo e lo scambio dei doni che fanno trasalire di gioia.
In tal guisa, siamo noi l’intervento divino nell’esistenza ordinaria della gente, quando corrispondiamo e collaboriamo alla Sua azione creatrice-promotrice di essere abbondante e totale.
Nessuna esclusione o condanna: solo allegria, nel senso di pienezza d’onda vitale.
Su ogni figlio il Padre torna con cura. La sua opera non scarta a priori il “pezzo” malriuscito, ma solo ciò che non serve per la vita completa.
Ora il mondo è frammisto, e non ci si deve estraniare dal nostro tempo, eppure ciò non toglie che è bene si badi a quant’è eternamente umano.
Accogliamo le cose del nostro mondo, ma cerchiamo di andare oltre il contingente - per l’intensità, per l’amore: tutto il bello che c’è.
I credenti sono i responsabili della trasmissione della Fede (v.52). In tal guisa, essi fanno capire la saggezza del Regno, la differenza fra usanze e Chiamata personale.
Gli intimi del Signore invitano tutti a pazientare, affinché ciascuno possa avere il tempo della crescita, e le scelte siano ‘utili’. E belle (v.48).
Tutto quello che già abbiamo assimilato per educazione famigliare acquista così una dimensione amabile, profonda, intima, coinvolgente, creativa.
E insieme una finalità più ampia, però illuminata dal di dentro.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
L’esperienza di comunità ti è entrata dentro e ha arricchito l’idea di Dio?
[Giovedì 17.a sett. T.O. 31 luglio 2025]
Il Signore ci ha donato anche, per la nostra consolazione, queste parabole delle rete con pesci buoni e non buoni, del campo dove cresce il grano ma anche la zizzania. Egli ci fa sapere di essere venuto proprio per aiutarci nella nostra debolezza, di non essere venuto, come Egli dice, per chiamare i giusti, quelli che pretendono di essere già completamente giusti, di non aver bisogno della grazia, quelli che pregano lodando se stessi, ma di essere venuto a chiamare quelli che sanno di essere manchevoli, a provocare quelli che sanno di aver bisogno ogni giorno del perdono del Signore, della sua grazia per andare avanti.
Questo mi sembra molto importante: riconoscere che abbiamo bisogno di una conversione permanente, non siamo mai semplicemente arrivati. Sant’Agostino, nel momento della conversione, pensava di essere arrivato sulle alture ormai della vita con Dio, della bellezza del sole che è la sua Parola. Poi ha dovuto capire che anche il cammino dopo la conversione rimane un cammino di conversione, che rimane un cammino dove non mancano le grandi prospettive, le gioie, le luci del Signore, ma dove anche non mancano valli oscure, dove dobbiamo andare avanti con fiducia appoggiandoci alla bontà del Signore.
[Papa Benedetto, in visita al Seminario Romano Maggiore 17 febbraio 2007]
Permettetemi, reverendo Vescovo dell’antica, veneranda Chiesa di Colonia, reverendi confratelli Cardinali e Vescovi, permettetemi tutti, amati fratelli e sorelle, che io cerchi di chiarire in questa celebrazione eucaristica l’importanza del nostro incontro straordinario di oggi con l’aiuto di questa parabola, con l’aiuto della parola di Cristo, che ha ripetutamente spiegato il regno di Dio a mezzo di parabole. Servendosi di esse, egli ha annunciato la presenza di questo regno al mondo.
Anche noi dobbiamo incontrarci in questa dimensione. Questa è, in certo qual modo, la premessa essenziale della visita odierna del successore dell’apostolo Pietro nella sede episcopale di Roma alla vostra Chiesa in Germania, a voi qui a Colonia, che rappresentate la Chiesa di Dio quale si è formata nel corso di molti secoli attorno alla romana “Colonia Agrippina”. Il simbolo eminente di questa Chiesa è stato fino ad oggi il vostro splendido duomo, la cui importanza spirituale si è rinnovata in voi grazie al giubileo di quest’anno: con forza esso vi parla del regno di Dio fra noi.
Noi, che formiamo adesso la Chiesa di Cristo sulla terra, su questa parte del territorio tedesco dobbiamo incontrarci nella dimensione dell’unità del regno di Dio: Cristo è venuto per annunziare questo regno e diffonderlo su questa terra, in ogni luogo della terra, negli uomini e tra gli uomini.
Questo regno di Dio è in mezzo a noi (cf. Lc 17,21), così come è stato in tutte le generazioni dei vostri padri ed antenati. Come loro, noi però preghiamo ancora nel “Padre nostro” ogni giorno: “Venga il tuo regno”. Queste parole testimoniano che il regno di Dio sta ancora davanti a noi, che gli andiamo incontro e ad esso andiamo avanzando per sentieri confusi, e anzi qualche volta perfino falsi, della nostra esistenza terrena. Noi testimoniamo con queste parole, che il regno di Dio si realizza in continuazione e si avvicina, anche se noi spesso lo perdiamo d’occhio e non percepiamo più il suo profilo determinato dal Vangelo. Sembra spesso che l’unica ed esclusiva dimensione della nostra esistenza sia “questo mondo”: il “regno di questo mondo” con il suo profilo visibile, il suo affascinante progresso nella scienza e nella tecnica, nella cultura e nella economia... affascinante e spesso anche preoccupante! Se noi però ogni giorno, o almeno di quando in quando, ci inginocchiamo per pregare, pronunciamo tra le circostanze della vita sempre le stesse parole: “Venga il tuo regno”.
Cari fratelli e sorelle! Queste ore, nelle quali noi ci incontriamo qui, il tempo, che grazie al vostro invito ed alla vostra ospitalità posso trascorrere tra voi, è il tempo del regno di Dio: del regno “che è già qui”, e di quello che ancora “viene”. Per questo dobbiamo interpretare tutto l’essenziale, che si riferisce a questa visita, con l’aiuto della parabola, che ascoltiamo nel Vangelo di oggi: “Il regno dei cieli è simile...”.
2. A che cosa è simile?
Secondo le parole di Gesù come ce le hanno tramandate i quattro evangelisti, questo regno viene spiegato con diverse parabole e paragoni. Il paragone di oggi è uno dei tanti. Ci sembra collegato molto strettamente con quel lavoro, che facevano gli apostoli di Cristo, tra cui anche Pietro, come molti dei suoi ascoltatori sulla spiaggia del lago di Genezaret. Cristo dice: il regno dei cieli è simile “a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci” (Mt 13,47). Queste semplici parole mutano completamente la fisionomia del mondo: la fisionomia del nostro mondo umano, come noi ce la facciamo con l’esperienza e la scienza. Esperienza e scienza non possono valicare quei confini del “mondo” e della esistenza umana in esso, che sono necessariamente congiunti con il “mare del tempo”: i confini di un mondo, nel quale l’uomo nasce e muore, in corrispondenza con le parole della Genesi: “Tu sei polvere ed in polvere ritornerai” (Gen 3,19). Il paragone di Cristo, al contrario, parla della trasposizione dell’uomo in un altro “mondo”, in un’altra dimensione della sua esistenza. Il regno dei cieli è propriamente questa nuova dimensione, che si apre sopra il “mare del tempo” ed è allo stesso tempo la “rete”, che lavora in questo mare per il destino dell’uomo e di tutti gli uomini in Dio.
La parabola odierna ci invita a riconoscere il regno dei cieli come l’adempimento definitivo di quella giustizia, desiderata dall’uomo con nostalgia insopprimibile, che il Signore gli ha posto nel cuore, di quella giustizia che Gesù stesso realizzò ed annunciò, di quella giustizia, infine, che Cristo ha suggellato con il suo proprio sangue sulla croce.
Nel regno dei cieli, nel regno “della giustizia, dell’amore e della pace” (prefatio in festo Christi Regis) anche l’uomo si troverà perfetto. Poiché l’uomo è l’essere, che scaturisce dalla profondità di Dio e nasconde in se stesso una tale profondità, che soltanto Dio la può riempire. Egli, l’uomo, è in tutto il suo essere una copia di Dio ed è simile a lui.
3. Gesù ha fondato la sua Chiesa su dodici apostoli, di cui parecchi erano pescatori. Così l’immagine della rete era immediata. Gesù li volle fare pescatori di uomini. Anche la Chiesa è una rete, unita allo Spirito Santo, collegata dalla missione apostolica, efficiente per la unità in fede, vita ed amore.
Penso in questo momento alla rete ampiamente distesa della Chiesa universale.
Contemporaneamente mi sta davanti agli occhi ogni singola Chiesa nella vostra terra, specialmente la grande Chiesa di Colonia e le diocesi vicine. E finalmente mi sta davanti agli occhi la più piccola di queste chiese, la “ecclesiola”, la chiesa domestica, che il recentissimo Sinodo dei Vescovi in Roma ha ricordato con tanto grande attenzione nel tema sopra “i compiti della famiglia cristiana”.
La famiglia: chiesa domestica, inconfondibile ed insostituibile comunità di persone, di cui parla san Paolo nella seconda lettura di oggi. In questa egli ha davanti agli occhi naturalmente la famiglia cristiana del suo tempo, ma ciò che dice dobbiamo ugualmente applicarlo ai problemi delle famiglie del nostro tempo: ciò che dice ai mariti, ciò che dice alle mogli, ai figli ed ai genitori. Ed infine ciò che egli dice a noi tutti: “Rivestitevi dunque di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente... Al di sopra di tutto poi vi sia la carità che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!” (Col 3,12-15).
Che grande lezione di spiritualità matrimoniale e familiare!
4. Noi però non possiamo chiudere gli occhi neppure dinanzi all’altra faccia; i padri sinodali in Roma si sono occupati molto seriamente anche di essa: intendo le difficoltà, cui oggi è esposto l’alto ideale della intelligenza cristiana della famiglia e della vita di famiglia. La società industriale moderna ha fondamentalmente mutato le condizioni di vita per il matrimonio e la famiglia.
Matrimonio e famiglia prima non erano soltanto comunità di vita, ma erano anche comunità di produzione e di economia. Esse furono respinte da molte funzioni pubbliche. Il clima pubblico non è sempre favorevole nei confronti del matrimonio e della famiglia. E tuttavia, nella nostra civilizzazione di massa, si dimostrano come luogo di rifugio nella ricerca di protezione e felicità. Matrimonio e famiglia sono più importanti che mai: cellule viventi per il rinnovamento della società, sorgenti di forza, per le quali la vita vien fatta più umana. Posso afferrare l’immagine: rete, che dà sostegno ed unità e solleva dalle correnti del profondo.
Non permettiamo che questa rete si spezzi. Stato e società avviano il proprio decadimento, se non sostengono il matrimonio e la famiglia più efficacemente e non li proteggono più e li mettono alla pari con altre comunità di vita non matrimoniali. Tutti gli uomini di buona volontà, particolarmente noi cristiani siamo chiamati a riscoprire la dignità ed il valore del matrimonio e della famiglia e di viverli davanti agli uomini in maniera convincente. La Chiesa, con la luce della fede, offre il suo consiglio ed il suo servizio spirituale.
5. Matrimonio e famiglia sono assai profondamente congiunti con la dignità personale dell’uomo. Essi non derivano soltanto dall’istinto e dalla passione, neppure soltanto dal sentimento; essi derivano prima di tutto da una decisione della libera volontà, da un amore personale, per il quale gli sposi diventano non soltanto una carne, ma anche un cuore ed un’anima. La comunione fisica e sessuale è qualche cosa di grande e di bello. Ma è soltanto degna dell’uomo, se è integrata in una unione personale, riconosciuta dalla comunità civile ed ecclesiastica. La piena comunione sessuale tra l’uomo e la donna ha perciò il luogo legittimo soltanto nell’ambito dell’esclusivo e definitivo personale vincolo di fedeltà nel matrimonio. La indissolubilità della fedeltà coniugale, che oggi a molti non riesce più comprensibile, è ugualmente una espressione della incondizionata dignità dell’uomo. Non si può vivere solo per prova, non si può morire solo per prova. Non si può amare solo per prova, accettare un uomo solo per prova ed a tempo.
6. Così il matrimonio è orientato alla durata, all’avvenire. Esso guarda oltre i suoi confini. Il matrimonio è l’unico luogo idoneo alla generazione e all’educazione dei bambini. Quindi l’amore matrimoniale è orientato per la sua essenza anche alla fecondità. In questo compito di tramandare la vita, i coniugi sono collaboratori con l’amore di Dio creatore. So che anche qui nella società di oggi le difficoltà sono grandi. Gravano specialmente la donna. Abitazioni ristrette, problemi economici e sanitari, spesso perfino un dichiarato atteggiamento non favorevole alle famiglie prolifiche costituiscono un ostacolo ad una maggiore fertilità. Faccio appello a tutti i responsabili, a tutte le forze della società: fate di tutto per portare aiuto. Faccio appello prima di tutto alla vostra coscienza ed alla vostra responsabilità personale, cari fratelli e sorelle. Nella vostra coscienza voi dovete, alla presenza di Dio, prendere la decisione sul numero dei vostri figli.
Come coniugi siete chiamati ad una paternità responsabile. Ciò però significa una tale pianificazione della famiglia, che rispetti le norme ed i criteri etici, come è stato sottolineato anche dal recentissimo Sinodo dei Vescovi. Con grande premura desidero oggi richiamarvi alla memoria su tale motivo solo questa cosa: l’uccisione della vita non nata non è un legittimo mezzo della pianificazione della famiglia. Ripeto ciò che ho detto il 31 maggio di questo anno ai lavoratori nella periferia parigina di Saint-Denis: “Il primo diritto dell’uomo è il diritto alla vita. Noi dobbiamo difendere questo diritto e questo valore. Altrimenti verrebbe scossa tutta la logica della fede nell’uomo, tutto il programma di un progresso veramente umano e cadrebbe tutto a terra”. In realtà si tratta di questo: servire la vita.
7. Cari fratelli e sorelle! Sulla indispensabile piattaforma e sul presupposto di quanto detto vogliamo rivolgerci al più profondo mistero del matrimonio e della famiglia. Il matrimonio dal punto di vista della nostra fede è un Sacramento di Gesù Cristo. L’amore e la fedeltà coniugale sono compresi e trasmessi dall’amore e dalla fedeltà di Dio in Gesù Cristo. La forza della sua croce e della sua resurrezione porta e santifica i coniugi cristiani.
Come ha rilevato il recente Sinodo dei Vescovi nel suo messaggio alle famiglie cristiane del mondo di oggi, la famiglia cristiana è chiamata in modo particolare a collaborare al piano salvifico di Dio, in quanto essa aiuta i suoi membri “a diventare protagonisti della storia della salvezza e insieme segni viventi del progetto che Dio ha sul mondo” (Synodi Episcoporum Nuntius ad Christianas Familias, 8).
Come “Chiesa in piccolo”, sacramentalmente fondata, ovvero Chiesa domestica, matrimonio e famiglia debbono essere una scuola di fede e luogo di preghiera comune. Io attribuisco proprio alla preghiera nella famiglia grande significato. Essa dà forza per il superamento di tanti problemi e difficoltà. Nel matrimonio e nella famiglia debbono crescere e maturarsi gli atteggiamenti fondamentali umani e cristiani, senza i quali la Chiesa e la società non possono sussistere. Qui sta il primo luogo per l’apostolato cristiano dei laici e del sacerdozio comune a tutti i battezzati. Tali matrimoni e famiglie impregnati di spirito cristiano, sono anche i veri seminari, vale a dire i vivai per vocazioni spirituali per lo stato sacerdotale e religioso.
Cari coniugi e genitori, care famiglie! Che cosa vi potrei augurare in occasione dell’odierno incontro eucaristico con più cordialità di questo: che voi tutti ed ogni singola famiglia siate una tale “chiesa domestica”, una Chiesa in piccolo! Che si realizzi in voi la parabola del regno di Dio! Che sperimentiate la presenza del regno di Dio, in quanto siete voi stessi la “rete” viva, che unisce e porta e dà rifugio - per voi stessi e per molti intorno a voi.
Questo è il mio desiderio di benedizione, che vi esprimo come vostro ospite e pellegrino e come servo della vostra salvezza.
8. Ed ora permettetemi che alla fine di questa fondamentale riflessione sul regno di Dio e sulla famiglia cristiana mi rivolga anche a sant’Alberto Magno, la cui festa del settimo centenario mi ha condotto nella vostra città. Infatti è qui la tomba di questo celebre figlio della vostra terra, che nacque in Lauingen e nella sua lunga vita fu allo stesso tempo un grande scienziato, un figlio spirituale di san Domenico ed il maestro di san Tommaso d’Aquino. Egli fu uno dei più grandi uomini di intelligenza nel XIII secolo. Egli come nessun altro ha congiunto la “rete” che unisce insieme fede e ragione, sapienza di Dio e scienza del mondo. Almeno in spirito visito anche la sua città dove nacque, Lauingen, mentre oggi, a Colonia, presso la sua tomba, mi fermo a meditare insieme a voi le parole con le quali la odierna liturgia lo celebra: “Se questa è la volontà del Signore grande / egli sarà ricolmato di spirito di intelligenza. / Come pioggia effonderà parole di sapienza, / nella preghiera renderà lode al Signore. / Egli dirigerà il suo consiglio e la sua scienza, mediterà sui misteri di Dio. / Farà brillare la dottrina del suo insegnamento, / si vanterà della legge dell’alleanza del Signore. / Molti loderanno la sua intelligenza, / egli non sarà mai dimenticato, / non scomparirà il suo ricordo, / il suo nome vivrà di generazione in generazione. / I popoli parleranno della sua sapienza, / l’assemblea proclamerà le sue lodi” (Sir 39,6-10).
A queste parole del saggio Gesù Sirach non c’è da aggiungere niente. Però non si deve neppure lasciarne alcuna. Esse infatti descrivono perfettamente la figura di quell’uomo, la cui patria, la vostra città con ragione si onora e che è di gioia per l’intera Chiesa. Alberto Magno, dottore universale - Alberto Magno, dalla dottrina molto ampia: un vero “discepolo del regno di Dio”! Se noi oggi abbiamo riflettuto insieme sulla vocazione della famiglia cristiana alla costruzione del regno di Dio sulla terra, le parole della parabola di Cristo ci devono dare anche il più profondo significato di questo santo, che oggi noi ricordiamo solennemente. Cristo infatti dice: “Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile ad un padrone di casa, che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).
A tale padrone di casa è simile anche sant’Alberto! Il suo esempio e la sua intercessione mi accompagnino, mentre nel mio pellegrinaggio attraverso il vostro paese tento, come pescatore di uomini, di annodare più strettamente la rete e di gettarla ancora, affinché venga il regno di Dio.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Colonia 15 novembre 1980]
Il Vangelo di questa domenica (cfr Mt 13,44-52) corrisponde agli ultimi versetti del capitolo che Matteo dedica alle parabole del Regno dei cieli. Il brano comprende tre parabole appena abbozzate e brevissime: quella del tesoro nascosto, quella della perla preziosa e quella della rete gettata in mare.
Mi soffermo sulle prime due nelle quali il Regno dei cieli viene assimilato a due diverse realtà «preziose», ossia il tesoro nascosto nel campo e la perla di grande valore. La reazione di colui che trova la perla o il tesoro è praticamente uguale: l’uomo e il mercante vendono tutto per acquistare ciò che ormai sta loro più a cuore. Con queste due similitudini, Gesù si propone di coinvolgerci nella costruzione del Regno dei cieli, presentando una caratteristica essenziale della vita cristiana, della vita del Regno dei cieli: aderiscono pienamente al Regno coloro che sono disposti a giocarsi tutto, che sono coraggiosi. Infatti, sia l’uomo sia il mercante delle due parabole vendono tutto quello che hanno, abbandonando così le loro sicurezze materiali. Da ciò si capisce che la costruzione del Regno esige non solo la grazia di Dio, ma anche la disponibilità attiva dell’uomo. Tutto fa la grazia, tutto! Da parte nostra soltanto la disponibilità a riceverla, non la resistenza alla grazia: la grazia fa tutto ma ci vuole la “mia” responsabilità, la “mia” disponibilità.
I gesti di quell’uomo e del mercante che vanno in cerca, privandosi dei propri beni, per comprare realtà più preziose, sono gesti decisi, sono gesti radicali, direi soltanto di andata, non di andata e ritorno: sono gesti di andata. E, per di più, compiuti con gioia perché entrambi hanno trovato il tesoro. Siamo chiamati ad assumere l’atteggiamento di questi due personaggi evangelici, diventando anche noi cercatori sanamente inquieti del Regno dei cieli. Si tratta di abbandonare il fardello pesante delle nostre sicurezze mondane che ci impediscono la ricerca e la costruzione del Regno: la bramosia di possedere, la sete di guadagno e di potere, il pensare solo a noi stessi.
Ai nostri giorni, tutti lo sappiamo, la vita di alcuni può risultare mediocre e spenta perché probabilmente non sono andati alla ricerca di un vero tesoro: si sono accontentati di cose attraenti ma effimere, di bagliori luccicanti ma illusori perché lasciano poi al buio. Invece la luce del Regno non è un fuoco di artificio, è luce: il fuoco di artificio dura soltanto un istante, la luce del Regno ci accompagna per tutta la vita.
Il Regno dei cieli è il contrario delle cose superflue che offre il mondo, è il contrario di una vita banale: esso è un tesoro che rinnova la vita tutti i giorni e la dilata verso orizzonti più vasti. Infatti, chi ha trovato questo tesoro ha un cuore creativo e cercatore, che non ripete ma inventa, tracciando e percorrendo strade nuove, che ci portano ad amare Dio, ad amare gli altri, ad amare veramente noi stessi. Il segno di coloro che camminano su questa strada del Regno è la creatività, sempre cercando di più. E la creatività è quella che prende la vita e dà la vita, e dà, e dà, e dà... Sempre cerca tanti modi diversi di dare la vita.
Gesù, lui che è il tesoro nascosto e la perla di grande valore, non può che suscitare la gioia, tutta la gioia del mondo: la gioia di scoprire un senso per la propria vita, la gioia di sentirla impegnata nell’avventura della santità.
La Vergine Santa ci aiuti a ricercare ogni giorno il tesoro del Regno dei cieli, affinché nelle nostre parole e nei nostri gesti si manifesti l’amore che Dio ci ha donato mediante Gesù.
[Papa Francesco, Angelus 26 luglio 2020]
«Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52)
Con questa significativa immagine Gesù include — secondo l’ordine del capitolo 13 di san Matteo — un’importante serie di parabole sul regno dei Cieli. L’intento del Maestro di Galilea è di precisare che non è venuto per “fare tabula rasa” della religione, delle ere, della cultura, delle tradizioni e della memoria della fede ebraica. Certo, il suo annuncio kerigmatico inaugurava una nuova era per la fede e per tutta l’umanità. Non si trattava però di una decostruzione distruttiva astorica; al contrario significava una costruzione inclusiva di tutti i tempi e gli spazi sociali, antropologici e religiosi.
In modo analogo, Papa Francesco ci avverte dei pericoli ai giorni nostri di questa tendenza: «Per questo stesso motivo si favorisce anche una perdita del senso della storia che provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti» (Fratelli tutti, n. 13).
È molto significativa l’immagine del “padre o capofamiglia” che Gesù delinea nel suo insegnamento. L’immagine di pater familias che sa interpretare con saggezza il kairos storico che sta vivendo è molto accogliente da tanti punti di vista, anche da quello generazionale. Attingendo allo scrigno dei tesori, sia nuovi sia antichi, mostra all’immaginario dei suoi ascoltatori l’impronta del regno dei Cieli, dove non ci sono né esclusi né scartati. Sono tutti tesori per il Dio di questo nuovo regno!
In più occasioni Gesù si preoccupò d’insegnare, con la sua pedagogia della semplicità e della profondità della scena quotidiana, che gli estremi generazionali, invece di essere disistimati, andavano visti visti quali esempi di cui fare tesoro.
Questa visione ci avvicina nuovamente ad alcuni concetti fondamentali espressi da Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti, come, ad esempio: «La mancanza di figli, che provoca un invecchiamento della popolazione, insieme all’abbandono delle persone anziane a una dolorosa solitudine, afferma implicitamente che tutto finisce con noi, che contano solo i nostri interessi individuali» (n. 19).
Gesù offre pubblicamente una visione dei bambini, e dei figli nel concetto di famiglia umana, con un contenuto inclusivo molto forte per i suoi discepoli e tutti i presenti. Nella scala sociale di quei tempi, i bambini occupavano un posto dimenticato e marginale, soprattutto se si trattava di figli di famiglie povere o di stranieri: «Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li sgridavano. Gesù però disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli”. E dopo avere imposto loro le mani, se ne partì» (Mt 19, 13-15). I discepoli agiscono in linea con quei mandati culturali e sociali di scarto. Gesù indica loro un cammino nuovo non solo d’inclusione fraterna ma anche di referenzialità dei bambini, con i loro tesori di purezza nell’economia sociale del suo regno. I tesori nuovi necessari per la fraternità umana!
Lo stesso avviene con gli anziani. Gesù si sofferma di fronte al luogo delle offerte, spesso utilizzato come scenario pubblico per dimostrare il potere economico, la supremazia delle caste e delle élite sociali, il tutto mascherato da religione. Nel racconto evangelico si legge: «E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”» (Mc 12, 41-44). Ancora una volta il tesoro inclusivo e referenziale della donna povera e anziana dimostrava che, nella sua controcultura del regno, era necessario adottare altri parametri come la fraternità umana. Gesù, nel mettere in risalto il fatto che la donna anziana stava dando tutto quello che aveva e non il superfluo, offre un chiaro insegnamento, esemplificatore di una saggezza che i presenti hanno bisogno di assimilare. In essa è riflessa la riserva indispensabile dell’anzianità umana, che ci esorta a insegnare che il vero tesoro consiste nel dare, nell’offrire, nell’essere e non nell’accumulare, nel trattenere o nell’apparire. I tesori antichi imprescindibili per la fraternità umana!
La cecità che c’impedisce oggi come famiglia umana di percepire l’importanza dell’esemplarità e della saggezza degli anziani è chiaramente segnalata nell’enciclica: «Non ci rendiamo conto che isolare le persone anziane e abbandonarle a carico di altri senza un adeguato e premuroso accompagnamento della famiglia, mutila e impoverisce la famiglia stessa. Inoltre, finisce per privare i giovani del necessario contatto con le loro radici e con una saggezza che la gioventù da sola non può raggiungere» (Fratelli tutti, n. 19).
Il padre saggio della pedagogia di Gesù c’invita a sforzarci di avvicinare gli estremi della società umana per poter fare tesoro del buono che è in loro, unire ciò che è diviso e ricomporre il nostro senso di appartenenza sociale, religiosa, umana e fraterna. «L’impegno arduo per superare ciò che ci divide senza perdere l’identità di ciascuno presuppone che in tutti rimanga vivo un fondamentale senso di appartenenza. Infatti, la nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso» (Fratelli tutti, n. 230).
[Marcelo Figueroa, in L’Osservatore Romano;
https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-11/quo-259/con-tesori-nuovi-e-antichi.html]
XVII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [27 Luglio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa volta mi sono dilungato un poco nel presentare nelle NOTE alcuni dettagli importanti delle letture, utili per la meditazione personale e per la lectio divina in questo tempo di vacanza.
*Prima Lettura dal libro della Genesi (18, 20-32)
Questo testo segna un passo avanti nell’idea che gli uomini si fanno del loro rapporto con Dio: è la prima volta che si osa immaginare che un uomo possa intervenire nei progetti di Dio. Purtroppo, la lettura liturgica non ci fa ascoltare i versetti precedenti nei quali leggiamo che subito dopo l’incontro alle Querce di Mamre, Abramo si congeda accompagnando i tre misteriosi uomini a contemplare dall’alto Sodoma. Il Signore, parlando tra sé, dice: ”Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?” (vv.17-19). Dio prende molto sul serio l’alleanza appena fatta ed è qui che inizia quella che potremmo chiamare “la più bella trattativa della storia”: Abramo, armato di tutto coraggio, intercede per cercare di salvare Sodoma e Gomorra da un castigo certamente meritato. In sostanza chiede se Dio vuole veramente sterminare queste città anche se incontra almeno cinquanta giusti, o solo quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci. Che audacia! Eppure, a quanto pare, Dio accetta che l’uomo si ponga come interlocutore: in nessun momento il Signore sembra spazientirsi ed anzi risponde ogni volta esattamente come Abramo sperava. Forse Dio apprezza che Abramo abbia una così alta idea della sua giustizia. A questo proposito, si può notare che questo testo è stato redatto in un’epoca in cui si comincia ad avere coscienza della responsabilità individuale: infatti Abramo si scandalizzerebbe all’idea che dei giusti possano essere puniti insieme ai peccatori e per loro colpa. Siamo lontani dal tempo in cui un’intera famiglia veniva eliminata per la colpa di uno solo. La grande scoperta della responsabilità individuale risale al profeta Ezechiele e al periodo dell’esilio a Babilonia, cioè al VI secolo a.C. Possiamo quindi formulare un’ipotesi sulla composizione del capitolo letto oggi e domenica scorsa: si tratta di un testo redatto in epoca piuttosto tarda, pur derivando da racconti forse molto più antichi, la cui forma orale o scritta non era ancora definitiva. Dio ama che l’uomo si faccia intercessore per i suoi fratelli come possiamo vedere con Mosè: quando il popolo si fabbricò un “vitello d’oro” da adorare subito dopo aver giurato di non seguire mai più gli idoli. Mosè intervenne per supplicare Dio di perdonare e Dio, che non aspettava altro, si affrettò a perdonare(Es 32). Mosè intercedeva per il popolo di cui era responsabile; Abramo, invece, intercede per dei pagani e questo è logico, in fondo, visto che egli è portatore di una benedizione per tutte le famiglie della terra. Questo testo è un grande passo avanti nella scoperta del volto di Dio, ma è solo una tappa collocandosi ancora in una logica di contabilità: quanti giusti serviranno per ottenere il perdono dei peccatori? L’ultimo passo teologico sarà scoprire che con Dio non si tratta mai di pagamento. La sua giustizia non ha nulla a che vedere con una bilancia, i cui due piatti devono essere perfettamente in equilibrio ed è ciò che san Paolo cercherà di farci capire nel passo della lettera ai Colossesi di questa domenica. Questo testo della genesi è anche una bella lezione sulla preghiera, che ci viene proposta nel giorno in cui il vangelo di Luca riporta l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, a cominciare dal Padre Nostro, la preghiera plurale per eccellenza che ci invita pregando ad allargare il cuore alla dimensione dell’intera umanità.
NOTA: Sviluppo della nozione di giustizia di Dio nella Bibbia: All’inizio si trovava normale che tutto il gruppo pagasse per la colpa di uno: vedi il caso di Akân ai tempi di Giosuè (Gs 7,16-25). In una seconda fase si immagina che ognuno paghi per sé. Qui, c’è un nuovo passo avanti: se si trovano dieci giusti, essi possono salvare tutta una città. Geremia oserà andare oltre: un solo giusto può ottenere il perdono per tutti: «Percorrete le strade di Gerusalemme, cercate: se trovate un solo uomo che pratichi il diritto… io perdonerò alla città» (Ger 5,1). Anche Ezechiele ragiona in questi termini: «Ho cercato tra loro un uomo che si ponesse sulla breccia davanti a me… ma non l’ho trovato» (Ez 22,30). È con il libro di Giobbe, fra gli altri, che si compie l’ultimo passo: quando si comprenderà finalmente che la giustizia di Dio è sinonimo di salvezza, non di punizione. Geremia arriva persino a invocare un perdono senza condizioni, fondato sulla sola grandezza di Dio: «Se i nostri peccati testimoniano contro di noi, agisci, Signore, per l’onore del tuo nome!» (Ger 14,7-9). Davanti a Dio, proprio come Geremia, Abramo ha capito che i peccatori non hanno altro argomento che Dio stesso! Infine, si noti l’ottimismo di Abramo, che gli vale pienamente il titolo di “padre nella fede”: egli continua a credere che non tutto è perduto, che non tutti sono perduti. Persino in una città orrenda come Sodoma, egli è convinto che ci siano almeno dieci uomini buoni!
Salmo responsoriale (137/138), 1-2a, 2bc-3, 6-7ab, 7c-8)
Questo salmo è tutto un canto di ringraziamento per l’Alleanza che Dio propone all’umanità: l’Alleanza conclusa, in primo luogo, con Israele, ma anche l’Alleanza aperta a tutte le nazioni e la vocazione di Israele è proprio introdurre in essa le altre nazioni. Torna tre volte
il ringraziamento: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”, “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”, e – nel versetto 4 che non ascoltiamo questa domenica – “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. Qui si nota una progressione: dapprima è Israele che parla a nome proprio: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”; poi viene precisato il motivo: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”; infine, è l’intera umanità che entra nell’Alleanza e rende grazie: “Ti rendano grazie tutti i re della terra”.
Poiché si parla dell’Alleanza, è normale che vi siano allusioni all’esperienza del Sinai e si colgono echi della grande scoperta del roveto ardente quando Dio disse a Mosè di aver visto la miseria del suo popolo e di essere sceso a liberarlo (Es 2,23-24). In eco, il salmo canta: “Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto”(v.3) Un altro richiamo alla rivelazione di Dio al Sinai è l’espressione “Il tuo amore e la tua fedeltà”(v.2): sono le stesse parole con cui Dio si è definito davanti a Mosè (Es 34,6). La frase “La tua destra mi salva” (v.7) è, per gli ebrei, un’allusione all’uscita dall’Egitto. La “destra” è, naturalmente, la mano destra e, sin dal cantico di Mosè dopo il passaggio miracoloso del Mar Rosso (Es 15), si è presa l’abitudine di parlare della vittoria che Dio ha ottenuto con mano forte e braccio potente (Es 15,6.12). Anche l’espressione “Signore, il tuo amore è per sempre” (v.8) evoca tutta l’opera di Dio, in particolare l’Esodo come il salmo 135/136, il cui ritornello è: “Perché il suo amore è per sempre”. Un un altro legame tra questo salmo e il cantico di Mosè è il nesso tra tutta l’epopea dell’Esodo, l’Alleanza del Sinai e il Tempio di Gerusalemme. Mosè cantava:
“Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. È il mio Dio, lo voglio lodare, è il Dio di mio padre, lo voglio esaltare” (Es 15,1-2.13), e il salmo riprende in eco:
“Non agli dei, ma a Te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo” (vv.1-2) perché il
Tempio è il luogo in cui si fa memoria di tutta l’opera di Dio a favore del suo popolo. La presenza di Dio non si limita però a un tempio di pietra, ma quel tempio, o ciò che ne resta, è un segno permanente di quella presenza. E ancora oggi, dovunque si trovi nel mondo, ogni ebreo prega rivolto verso Gerusalemme, verso il monte del tempio santo perché è il luogo scelto da Dio, ai tempi del re Davide, per offrire al suo popolo un segno della sua presenza. Infine, la grandezza di Dio non schiaccia l’uomo; almeno non colui che sa riconoscere la propria piccolezza: “Eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano”(v.6). Anche questo è un grande tema biblico: la sua grandezza si manifesta proprio nella sua bontà verso la piccolezza dell’uomo (cf.Sap 12,18) e il salmo 113/112: “Dalla polvere rialza il debole, dall’immondizia solleva il povero” e nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Il credente lo sa e ne resta meravigliato: Il Dio è grande non ci schiaccia, ma al contrario, ci fa crescere.
Questi parallelismi cioè l’influenza del cantico di Mosè, l’esperienza del Sinai dal roveto ardente fino all’uscita dall’Egitto e all’Alleanza, si ritrovano in molti altri salmi e testi biblici.
Ciò dimostra quanto questa esperienza sia stata – e resti – il fondamento della fede di Israele.
Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Colossesi (2,12-14)
Dio ha annullato il documento scritto contro di noi (Col 2,14). Paolo qui fa riferimento a una pratica molto diffusa quando si prendeva in prestito del denaro: era consuetudine che il debitore consegnasse al creditore un “documento di riconoscimento del debito”. Anche Gesù ha utilizzato questa immagine nella parabola dell’amministratore disonesto. Il giorno in cui il padrone lo minaccia di licenziamento, egli pensa a procurarsi degli amici; a questo scopo convoca i debitori del suo padrone e a ciascuno dice: «Ecco il tuo documento di debito, cambia la somma. Dovevi cento sacchi di grano? Scrivi ottanta.» (Lc 16,7). Come fa spesso, Paolo utilizza il linguaggio della vita quotidiana per esprimere un pensiero teologico. Questo il suo ragionamento: a causa della gravità dei nostri peccati, possiamo considerarci debitori nei confronti di Dio. Del resto, nel giudaismo, i peccati erano spesso chiamati “debiti”; e una preghiera ebraica del tempo di Gesù diceva: “Per la tua grande misericordia, cancella tutti i documenti che ci accusano.” Ebbene, chiunque alzi lo sguardo verso la croce di Cristo scopre fino a che punto arriva la misericordia di Dio per i suoi figli: con Lui non si tratta di tenere una contabilità: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” è la preghiera del Figlio; ma è Lui stesso ad aver detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Il corpo di Cristo inchiodato alla croce mostra che Dio è così: dimentica ogni nostro torto, ogni nostra colpa verso di Lui. Il suo perdono è esposto davanti ai nostri occhi: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, diceva il profeta Zaccaria (Zc 12,10; Gv 19,37). È come se il documento del nostro debito fosse stato inchiodato alla croce di Cristo. Si resta comunque sorpresi perché tutto questo passaggio è scritto al passato: “con Cristo sepolti nel battesimo, con Lui siete anche risorti… con lui Dio ha dato vita anche a voi… perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi … lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”.
NOTA Paolo vuole affermare che la salvezza del mondo è già compiuta: questo “già-realizzato” della salvezza è uno dei grandi temi della Lettera ai Colossesi. La comunità cristiana è già salvata attraverso il battesimo; partecipa già alla realtà celeste. Anche qui si nota una evoluzione rispetto ad alcune lettere precedenti di Paolo, come “Siamo stati salvati, ma nella speranza” (Rm 8,24); “Se siamo stati totalmente uniti a Lui nella morte, lo saremo anche nella risurrezione.” (Rm 6,5). Mentre la Lettera ai Romani pone la risurrezione nel futuro, le Lettere ai Colossesi e agli Efesini parlano al passato, sia della sepoltura con Cristo sia della risurrezione come realtà già attuale. “Quando eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo – per grazia siete salvati –; con Lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù.” (Ef 2,5-6). “Siete stati sepolti con Cristo, con Lui siete anche risorti… Eravate morti… ma Dio vi ha dato la vita con Cristo.” Il battesimo per Paolo è come una seconda nascita e l’insistenza sul fatto che la salvezza è già avvenuta, mediante la nascita a una vita totalmente nuova, è probabilmente legata anche al contesto storico: dietro molte espressioni della Lettera si intravede un clima di tensione e di conflitto. La comunità di Colosse sembra subire influenze pericolose, contro cui Paolo vuole metterla in guardia: “Nessuno vi inganni con discorsi seducenti” (Col 2,4)… “Nessuno vi intrappoli con una filosofia vuota e ingannevole” (Col 2,8)… “Nessuno vi giudichi per questioni di cibo, di bevande, di feste o di sabati” (Col 2,16). Riappare così, in filigrana, un problema ricorrente: come si entra nella salvezza? Bisogna continuare a osservare rigorosamente tutta la legge ebraica? Paolo risponde: per mezzo della fede. Questo tema è presente in molte lettere, e lo ritroviamo chiaramente anche qui (v.12): sepolti nel battesimo con Cristo… risorti… per mezzo della fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La Lettera agli Efesini lo ripete ancora più chiaramente: “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. Non viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene.” (Ef 2,8-9) La vita con Cristo nella gloria del Padre non è solo una speranza futura, ma un’esperienza attuale dei credenti: un’esperienza di vita nuova, di vita divina. D’ora in poi, se lo vogliamo, Cristo vive in noi; e siamo resi capaci di vivere nella vita quotidiana la vita divina del Cristo risorto! Questo significa che nessuna delle nostre vecchie condotte è più una condanna inevitabile. L’amore, la pace, la giustizia, la condivisione sono possibili. E se non lo riteniamo possibile, allora diciamo che Cristo non ci ha salvati! Attenzione! Finora abbiamo sempre parlato della Lettera ai Colossesi come se Paolo ne fosse l’autore; in realtà, molti esegeti ritengono che sia stata scritta da un discepolo molto vicino a Paolo, ispirato dal suo pensiero, ma di una generazione successiva,
Dal Vangelo secondo Luca (11,1-13)
Può forse sorprendere ma Gesù non ha inventato le parole del Padre Nostro: esse provengono direttamente dalla liturgia ebraica e, più in profondità, dalle Scritture. A partire dal vocabolario, che è molto biblico: Padre, nome, santo, regno, pane, peccati, tentazioni…. Cominciamo dalle prime due domande: con grande pedagogia, esse si rivolgono innanzitutto verso Dio e ci insegnano a dire “il tuo nome”, “il tuo Regno”. Educano il nostro desiderio e ci impegnano a collaborare alla crescita del suo Regno. Il Padre Nostro, probabilmente insegnato da Gesù in aramaico “Abun d’bashmaya…nethqadash shimukin che richiama l’ebraico liturgico, è una scuola di preghiera, o se si preferisce, un metodo per imparare a pregare: non dimentichiamo la richiesta del discepolo che direttamente precede: “Signore, insegnaci a pregare” (v.1). Ebbene, se seguiamo il metodo di Gesù, grazie al Padre Nostro, finiremo per sapere parlare la lingua di Dio il cui primo termine è Padre. L’invocazione “Padre nostro” ci pone subito in relazione filiale con Dio ed era già presente nell’Antico Testamento: “Tu, Signore, sei nostro Padre, nostro Redentore da sempre.” (Is 63,16). Le prime due domande riguardano il nome e il regno. “Sia santificato il tuo nome”: nella Bibbia, il nome rappresenta la persona stessa; dire che Dio è santo (kadosh / shmokh in aramaico - separato) significa affermare che Egli è “al di là di tutto e questa richiesta significa: “Fa’ che tu sia riconosciuto come Dio”. “Venga il tuo regno”: ripetuta ogni giorno, questa domanda ci trasformerà in operai del Regno. La volontà di Dio – lo sappiamo – è che l’umanità, radunata nel suo amore, diventi regina della creazione: “Riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,27) e i credenti aspettano il giorno in cui Dio sarà riconosciuto re su tutta la terra, come annunciava il profeta Zaccaria: “Il Signore sarà re su tutta la terra” (Zc 14,9). La nostra preghiera, questo nostro metodo per imparare la lingua di Dio, ci farà diventare persone che desiderano sopra ogni cosa che Dio sia riconosciuto, adorato, amato, che tutti lo riconoscano come Padre, appassionati dell’evangelizzazione e del Regno di Dio. Le tre domande successive riguardano la vita quotidiana: “Dacci”, “Perdonaci”, “Non abbandonarci alla tentazione”. Dio non smette mai di compiere tutto questo e noi ci poniamo in un atteggiamento di accoglienza dei suoi doni. “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano ”τὸν ἐπιούσιον”: la manna che cadeva ogni mattina nel deserto educava il popolo a confidare giorno per giorno e questa richiesta ci invita a non preoccuparci del domani e a ricevere ogni giorno il cibo come dono di Dio: qui il pane riveste vari significati, compreso il pane eucaristico come spiegherò nella Nota e il plurale “nostro pane” c’invita a condividere la preoccupazione del Padre di sfamare tutti i suoi figli. “Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”: il perdono di Dio non è condizionato dal nostro comportamento e il perdono fraterno non compra il perdono di Dio, ma è l’unica via per entrare nel perdono divino che è già donato: chi ha il cuore chiuso non può accogliere i doni di Dio. “Non abbandonarci alla tentazione” qui c’è un problema di traduzione, perché – ancora una volta – la grammatica ebraica è diversa dalla nostra: il verbo usato nella preghiera ebraica significa «fa’ che non entriamo nella tentazione» Si tratta di ogni tentazione, certamente, ma soprattutto della più grave, la tentazione di dubitare dell’amore di Dio. Nella preghiera del Padre nostro tutta la vita del mondo è coinvolta: parlare la lingua di Dio significa sapere chiedere e la preghiera di domanda non solo è permessa, ma è raccomandata perché è esercizio di umiltà e fiducia, e non sono richieste qualsiasi: pane, perdono, forza contro le tentazioni. Tutte le domande sono al plurale e ognuno di noi le formula a nome dell’intera umanità. In fondo c’è un legame stretto tra le prime domande del Padre Nostro e le successive: chiediamo a Dio ciò che serve per compiere la nostra missione battesimale: Dacci tutto ciò che ci serve – pane e amore – e proteggici, affinché abbiamo la forza di annunciare il tuo Regno. Nel vangelo segue immediatamente la parabola dell’amico importuno che invita a non smettere mai di pregare, certi che il Padre celeste dà sempre lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (v.13) per cui anche se i problemi non saranno risolti con un colpo di bacchetta magica, non li vivremo però più da soli ma insieme a Lui.
NOTA
1 – A proposito del “pane”, nel versetto 3: lo stesso aggettivo è presente in una preghiera del libro dei Proverbi: «Non darmi né povertà né ricchezza; concedimi solo il cibo necessario.» (Pr 30,8).
2 Il termine pane τὸν ἐπιούσιον, aggettivo molto raro è un hapax legomenon, cioè appare solo qui (e in Mt 6,11), e non si trova altrove nella letteratura greca classica o nei LXX (Settanta). Molteplici le interpretazioni, ma ἐπιούσιος resta enigmatico e porta con sé una ricchezza di significati: il pane materiale necessario per vivere ogni giorno; il pane spirituale, cioè la Parola di Dio e l’Eucaristia, il segno di una fiducia giorno per giorno nella Provvidenza del Padre. Alcuni esegeti lo leggono come “il pane per il giorno che sta per venire”, quindi un’invocazione fiduciosa per il futuro immediato.
3. Gesù prende il Padre nostro direttamente dalla liturgia ebraica ed ecco alcune preghiere ebraiche che ne sono all’origine: Padre nostro che sei nei cieli» (Mishnah Yoma, invocazione comune); Sia santificato il tuo nome eccelso nel mondo che hai creato secondo la tua volontà (Qaddish, Qedushah e Shemoné Esré); Venga presto e sia riconosciuto nel mondo intero il tuo Regno… Sia fatta la tua volontà in cielo e sulla terra… Dacci il pane quotidiano…
Rimetti i nostri peccati come noi li rimettiamo… Non ci indurre in tentazione… A te appartengono grandezza, potenza, gloria… (1 Cr 29,11)
4. La dossologia finale del Padre Nostro: Molti gruppi cristiani, ben prima del Concilio Vaticano II, recitavano alla fine del Padre Nostro: Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Questa “dossologia” (parola di lode) si trova in alcuni manoscritti di Matteo, ed è probabilmente derivata da un uso liturgico molto antico, già nel I secolo, ma risale ancora più indietro, fino alla preghiera di Davide (cf Cronache 29,11).
5. Sull’importanza delle preghiere di domanda, eco un’interessante immagine proposta da Denys l’Areopagita: immagina una barca sul mare; sulla riva, c’è una roccia, su di essa un anello e un altro anello sulla barca, legati da una corda L’uomo che prega è come chi, dalla barca, tira la corda: non attira la roccia verso di sé, ma avvicina sé stesso – e la barca – alla roccia.
+ Giovanni D’Ercole
Tesoro e Perla - forme dell’interiorità
(Mt 13,44-46)
Gesù non vuole renderci poveri poveri, bensì Alleati. La sua Presenza ci completa e realizza per Nome; non in senso negativo, bensì a pieno titolo.
La scelta o “rinuncia” che chiede, non riguarda opzioni sommarie. Egli non fa sporgere ciò che non vale. Per questo non ci sminuisce.
Ed è la Parola totale il vero affare.
Un Tesoro nascosto che prima si deve di nuovo nascondere (v.44)!
Ci rendiamo conto che abbiamo visto solo in parte; c’è ancora molto più da scoprire.
Non è cosa verificabile immediatamente e completamente.
Attenzione: si deve di nuovo nascondere!
Qui è tutta la partita, perché tale Splendore non appartiene ai rituali del folklore, o ai doveri di contorno, che ci renderebbero prigionieri.
Appunto, la molla per uscire dal cliché, dal protocollo, dai modi di branco, diventa opportunità per scoprire qualcosa di nuovo.
Il Regno autentico non sarà invadente: non pretende l’adesione - pena esclusioni. Consegna altri messaggi, trasmutativi da dentro.
Lo si coglie nella nostra radice, perché corrisponde al progetto di vita completa che ci abita e misteriosamente intuiamo nostro.
Capiamo: fa trasferire lo sguardo, fa star bene. Fa scoprire altri mondi, e il nostro stesso Nucleo; al di là dei problemi che attanagliano.
Qui si opera l’inspiegabile.
L’insicuro diventa deciso, il perdente si tramuta per grazia in sapiente.
Capiamo che accogliere il Logos sorgivo e corrispondere alla propria Vocazione personale non sarà terrificante, ma rigenerante.
Chi sposterà i suoi pensieri, punterà tutto, e farà venir fuori la propria essenza.
In antico le «Perle» erano le cose più pregiate e splendide: insomma, l’uomo è alla Ricerca del Bello come senso della vita e della propria personalità.
Ma Chi è l’uomo davvero affascinante e che vive in modo completo, non epidermico?
Matteo prima di lasciarsi fare apostolo supponeva che suo inestimabile Diamante fosse l’accaparrare. E deve ricredersi.
Saulo immaginava che la Gemma sconfinata - l’autenticità dell’uomo - fosse l’inappuntabilità delle sue pratiche e idee.
Il Dono gratuito di Dio ha sollecitato entrambi nella Ricerca della Perla preziosa: ciò che è delizioso, fraterno, donativo, amabile e da non perdere.
La preziosità del Vangelo, l’Unicità pregevole della Fede in Cristo, il suo Regno autentico, sono il vero Capitale che rende felici.
L’imprevisto più bello della Chiesa genuina: che nulla ha da spartire con la fiction delle identificazioni - disattenta all’umanizzazione - né con l’appariscenza inculcata delle molte cose esterne.
In tal guisa, il popolo dei figli generati a vita nuova troverà ricchezza già nell’essere delle cose, nei solchi della storia; dall’anima, e nelle prove.
Dal nascondimento, dal silenzio paziente, dalla realtà improvvisa, nascono intese, empatie, corrispondenze spontanee.
Voci che possono venire a trovarci, per cambiare la vita e renderla imprevedibile.
Gli Incontri eccezionali dicono all’anima: noi non siamo soltanto i disagi che ci affliggono.
Ma quegli eventi, bisogna saperli attendere.
[Mercoledì 17.a sett. T.O. 30 luglio 2025]
(o peso anonimo, fatica, e privazione, di rituali collettivi)
(Mt 13,44-46)
Gesù non vuole renderci poveri poveri, bensì Alleati - non perché intende arricchirci di “beni superiori” in modo generico.
L’Incontro e la sua Azione non solo liberano dall’attaccamento alle cose (come un tempo si diceva, quale caposaldo del discernimento negativo).
La sua Presenza ci completa e realizza per Nome, a pieno titolo.
Vuole ch’emancipiamo rapidamente e radicalmente: nella capacità di acquisto e pienezza, non di svuotamento e spersonalizzazione.
La scelta o “rinuncia” che chiede, non riguarda opzioni piccine.
Egli non fa sporgere ciò che non vale. Per questo non ci sminuisce.
La religione antica enfatizzava le maniere e i rituali collettivi, così paradossalmente accentuava l’attenzione proprio sul transitorio per tutti - quel che proprio non meritava di essere sopravvalutato.
Il Signore sa che esiste un “più e meglio” degli atti spiccioli di mortificazione, e delle scelte anonime comuni.
Infatti non parla di sacrifici per il Regno, ma di Gioia, di pienezza di essere.
Come recita il Messaggio per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù, tutta l’esperienza di Fede è per la Gioia - misura e Fonte del cuore: Felicità persino nella Conversione e nelle prove (nn.5-6).
Insomma, la condizione divina Viene, si offre gratis: non è un premio per meriti sommari precedenti.
Però mette in gioco tutto, affinché sfociamo in una ricerca completa - non dei pesi, di fatiche, e privazioni. Tantomeno d’approvazioni.
È la Parola totale il vero affare.
Un Tesoro nascosto che prima si deve di nuovo nascondere (v.44)!
Ci rendiamo conto che abbiamo visto solo in parte; c’è ancora molto più da scoprire.
Non è cosa verificabile immediatamente e completamente.
Attenzione: si deve di nuovo nascondere! I codici della guarigione non assumono posture da configurazioni esterne.
Qui è tutta la partita, perché tale Splendore non appartiene ai rituali del folklore, o ai doveri di contorno, che ci renderebbero prigionieri.
Appunto, la molla per uscire dal cliché, dal protocollo, dai modi di branco conforme, diventa opportunità per scoprire qualcosa di nuovo.
Il Regno autentico non sarà invadente: non pretende l’adesione - pena esclusioni. Consegna altri messaggi, trasmutativi da dentro.
Lo si coglie nella nostra radice, perché corrisponde al progetto di vita completa che ci abita e misteriosamente intuiamo nostro.
Capiamo: fa trasferire lo sguardo, fa star bene. Fa scoprire altri mondi, e il nostro stesso nucleo; al di là dei problemi che attanagliano.
Fuori dall’ingranaggio dei pensieri e del “così fan tutti” - il territorio della mente può produrre percezioni diverse, eccentriche; non tanto idee, piuttosto immagini, forse apparentemente assurde.
Ma attinge a esperienze importanti di altre energie, cosmiche e acutamente personali; quindi di sé, degli altri, delle opinioni fuori dal comune, e di Dio.
Profili poliedrici e convergenti, misteriosamente alleati: che non ci costringono a vivere da estranei a noi stessi, eppure tracciano un altro futuro.
Qui si opera l’inspiegabile.
L’insicuro diventa deciso, il perdente si tramuta per grazia in sapiente - persino cogliendo a fondo i disagi (non sono intoppi da eliminare).
Capiamo che accogliere il Logos sorgivo e corrispondere alla propria Vocazione personale non sarà terrificante, ma rigenerante.
Chi sposterà i suoi pensieri, punterà tutto, e farà venir fuori la propria essenza.
Sarà una Persona raggiungibile, non manipolabile.
L’Amicizia poliedrica col proprio Sé eminente e profondo, supererà ogni valore posticcio.
Nello Spirito e nella vita reale - anche prima valutata inferiore - ciascuno scoprirà il Magnifico che altri nemmeno lontanamente immaginano possa intimamente eccellere.
Anche la Comunione - convivialità delle differenze - impareremo dall’interno.
In antico le Perle erano le cose più pregiate e splendide: insomma, l’uomo è alla Ricerca del Bello come senso della vita e della propria personalità.
Ma Chi è l’uomo Bello, davvero affascinante e che vive in modo completo, non epidermico?
Matteo prima di lasciarsi fare apostolo supponeva che suo inestimabile Diamante fosse l’accaparrare. E deve ricredersi.
Saulo immaginava che la Gemma sconfinata - l’autenticità dell’uomo - fosse l’inappuntabilità del devoto e praticante. L’inflessibilità di colui che osservava tutte le tradizioni (anche orali) del popolo, e apparteneva al gruppo più coerente e severo del fariseismo.
D’improvviso entrambi percepiscono la differenza fra l’Amore di chi incontra Cristo sul serio e la spazzatura e il brutto delle puerili credenze - che li facevano sentire sempre sbagliati.
Questi “credo” imparaticci esterni alla donna e all’uomo producevano infatti persone poi inavvicinabili, doppie, inaffidabili, sleali; scroccone, pericolose, astute, violente, sempre pronte all’imbroglio.
Il Dono gratuito di Dio sollecita la Ricerca della Perla preziosa: ciò che è delizioso, fraterno, donativo, amabile e da non perdere.
È la vita di credenti trasformati in uomini di Fede che imparano la necessità della trasformazione, per la vita.
Adulti dotati di spirito d’infanzia: che non sentono più incombere sentenze altrui su di sé, secondo aspettative assurde, e pure nella comune selezione tra “dentro” e “fuori”.
Ciò, magari solo per la discrepanza fra mitologia dei “modelli” devoti straordinari proposti in alcuni ambienti di élite, e il proprio vissuto (inculcato come insufficiente).
I testimoni critici scelgono allora di non lasciarsi più turbare da impegni provvisori e di circostanza normalmente propagandati - né da ogni forma di spiritualità vuota.
In tal guisa, non ci sgrideranno più gli obblighi del ruolo, le date, gli orari fissi o altrui… i quali non si accorgono delle speranze della Persona.
E l’anima non verrà più ridotta a un’asservita dipendente che deve continuamente fare comparazione, e imporsi rapporti fatui, forzati, insidiosi (per paura di restare isolata).
La preziosità del Vangelo, l’Unicità pregevole della Fede in Cristo, il suo Regno autentico, sono il vero Capitale che rende felici.
L’imprevisto più bello della Chiesa genuina: che nulla ha da spartire con la fiction delle identificazioni - disattenta all’umanizzazione - né con l’appariscenza inculcata delle molte cose esterne.
Il popolo dei figli generati a vita nuova troverà ricchezza già nell’essere delle cose, nei solchi della storia; dall’anima, e nelle prove.
Dal nascondimento, dal silenzio paziente, dalla realtà improvvisa, nascono intese, empatie, corrispondenze spontanee.
Voci che possono venire a trovarci, per cambiarci la vita e renderla imprevedibile.
Gli Incontri eccezionali dicono all’anima: non siamo soltanto i disagi che ci affliggono.
Ma quegli eventi, bisogna saperli attendere.
Cari giovani,
sono lieto di rivolgermi nuovamente a voi, in occasione della XXVII Giornata Mondiale della Gioventù. Il ricordo dell’incontro di Madrid, lo scorso agosto, resta ben presente nel mio cuore. E’ stato uno straordinario momento di grazia, nel corso del quale il Signore ha benedetto i giovani presenti, venuti dal mondo intero. Rendo grazie a Dio per i tanti frutti che ha fatto nascere in quelle giornate e che in futuro non mancheranno di moltiplicarsi per i giovani e per le comunità a cui appartengono. Adesso siamo già orientati verso il prossimo appuntamento a Rio de Janeiro nel 2013, che avrà come tema «Andate e fate discepoli tutti i popoli!» (cfr Mt 28,19).
Quest’anno, il tema della Giornata Mondiale della Gioventù ci è dato da un’esortazione della Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore!» (4,4). La gioia, in effetti, è un elemento centrale dell’esperienza cristiana. Anche durante ogni Giornata Mondiale della Gioventù facciamo esperienza di una gioia intensa, la gioia della comunione, la gioia di essere cristiani, la gioia della fede. È una delle caratteristiche di questi incontri. E vediamo la grande forza attrattiva che essa ha: in un mondo spesso segnato da tristezza e inquietudini, è una testimonianza importante della bellezza e dell’affidabilità della fede cristiana.
La Chiesa ha la vocazione di portare al mondo la gioia, una gioia autentica e duratura, quella che gli angeli hanno annunciato ai pastori di Betlemme nella notte della nascita di Gesù (cfr Lc 2,10): Dio non ha solo parlato, non ha solo compiuto segni prodigiosi nella storia dell’umanità, Dio si è fatto così vicino da farsi uno di noi e percorrere le tappe dell’intera vita dell’uomo. Nel difficile contesto attuale, tanti giovani intorno a voi hanno un immenso bisogno di sentire che il messaggio cristiano è un messaggio di gioia e di speranza! Vorrei riflettere con voi allora su questa gioia, sulle strade per trovarla, affinché possiate viverla sempre più in profondità ed esserne messaggeri tra coloro che vi circondano.
1. II nostro cuore è fatto per la gioia
L’aspirazione alla gioia è impressa nell’intimo dell’essere umano. Al di là delle soddisfazioni immediate e passeggere, il nostro cuore cerca la gioia profonda, piena e duratura, che possa dare «sapore» all’esistenza. E ciò vale soprattutto per voi, perché la giovinezza è un periodo di continua scoperta della vita, del mondo, degli altri e di se stessi. È un tempo di apertura verso il futuro, in cui si manifestano i grandi desideri di felicità, di amicizia, di condivisione e di verità, in cui si è mossi da ideali e si concepiscono progetti.
E ogni giorno sono tante le gioie semplici che il Signore ci offre: la gioia di vivere, la gioia di fronte alla bellezza della natura, la gioia di un lavoro ben fatto, la gioia del servizio, la gioia dell’amore sincero e puro. E se guardiamo con attenzione, esistono tanti altri motivi di gioia: i bei momenti della vita familiare, l’amicizia condivisa, la scoperta delle proprie capacità personali e il raggiungimento di buoni risultati, l’apprezzamento da parte degli altri, la possibilità di esprimersi e di sentirsi capiti, la sensazione di essere utili al prossimo. E poi l’acquisizione di nuove conoscenze mediante gli studi, la scoperta di nuove dimensioni attraverso viaggi e incontri, la possibilità di fare progetti per il futuro. Ma anche l’esperienza di leggere un’opera letteraria, di ammirare un capolavoro dell’arte, di ascoltare e suonare musica o di vedere un film possono produrre in noi delle vere e proprie gioie.
Ogni giorno, però, ci scontriamo anche con tante difficoltà e nel cuore vi sono preoccupazioni per il futuro, al punto che ci possiamo chiedere se la gioia piena e duratura alla quale aspiriamo non sia forse un’illusione e una fuga dalla realtà. Sono molti i giovani che si interrogano: è veramente possibile la gioia piena al giorno d’oggi? E questa ricerca percorre varie strade, alcune delle quali si rivelano sbagliate, o perlomeno pericolose. Ma come distinguere le gioie veramente durature dai piaceri immediati e ingannevoli? Come trovare la vera gioia nella vita, quella che dura e non ci abbandona anche nei momenti difficili?
2. Dio è la fonte della vera gioia
In realtà le gioie autentiche, quelle piccole del quotidiano o quelle grandi della vita, trovano tutte origine in Dio, anche se non appare a prima vista, perché Dio è comunione di amore eterno, è gioia infinita che non rimane chiusa in se stessa, ma si espande in quelli che Egli ama e che lo amano. Dio ci ha creati a sua immagine per amore e per riversare su noi questo suo amore, per colmarci della sua presenza e della sua grazia. Dio vuole renderci partecipi della sua gioia, divina ed eterna, facendoci scoprire che il valore e il senso profondo della nostra vita sta nell’essere accettato, accolto e amato da Lui, e non con un’accoglienza fragile come può essere quella umana, ma con un’accoglienza incondizionata come è quella divina: io sono voluto, ho un posto nel mondo e nella storia, sono amato personalmente da Dio. E se Dio mi accetta, mi ama e io ne divento sicuro, so in modo chiaro e certo che è bene che io ci sia, che esista.
Questo amore infinito di Dio per ciascuno di noi si manifesta in modo pieno in Gesù Cristo. In Lui si trova la gioia che cerchiamo. Nel Vangelo vediamo come gli eventi che segnano gli inizi della vita di Gesù siano caratterizzati dalla gioia. Quando l’arcangelo Gabriele annuncia alla Vergine Maria che sarà madre del Salvatore, inizia con questa parola: «Rallegrati!» (Lc 1,28). Alla nascita di Gesù, l’Angelo del Signore dice ai pastori: «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). E i Magi che cercavano il bambino, «al vedere la stella, provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10). Il motivo di questa gioia è dunque la vicinanza di Dio, che si è fatto uno di noi. Ed è questo che intendeva san Paolo quando scriveva ai cristiani di Filippi: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). La prima causa della nostra gioia è la vicinanza del Signore, che mi accoglie e mi ama.
E infatti dall’incontro con Gesù nasce sempre una grande gioia interiore. Nei Vangeli lo possiamo vedere in molti episodi. Ricordiamo la visita di Gesù a Zaccheo, un esattore delle tasse disonesto, un peccatore pubblico, al quale Gesù dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua». E Zaccheo, riferisce san Luca, «lo accolse pieno di gioia» (Lc 19,5-6). E’ la gioia dell’incontro con il Signore; è il sentire l’amore di Dio che può trasformare l’intera esistenza e portare salvezza. E Zaccheo decide di cambiare vita e di dare la metà dei suoi beni ai poveri.
Nell’ora della passione di Gesù, questo amore si manifesta in tutta la sua forza. Negli ultimi momenti della sua vita terrena, a cena con i suoi amici, Egli dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore... Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9.11). Gesù vuole introdurre i suoi discepoli e ciascuno di noi nella gioia piena, quella che Egli condivide con il Padre, perché l’amore con cui il Padre lo ama sia in noi (cfr. Gv 17,26). La gioia cristiana è aprirsi a questo amore di Dio e appartenere a Lui.
Narrano i Vangeli che Maria di Magdala e altre donne andarono a visitare la tomba dove Gesù era stato posto dopo la sua morte e ricevettero da un Angelo un annuncio sconvolgente, quello della sua risurrezione. Allora abbandonarono in fretta il sepolcro, annota l’Evangelista, «con timore e gioia grande» e corsero a dare la lieta notizia ai discepoli. E Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!» (Mt 28,8-9). E’ la gioia della salvezza che viene loro offerta: Cristo è il vivente, è Colui che ha vinto il male, il peccato e la morte. Egli è presente in mezzo a noi come il Risorto, fino alla fine del mondo (cfr Mt 28,20). Il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita, ma la fede in Cristo Salvatore ci dice che l’amore di Dio vince.
Questa gioia profonda è frutto dello Spirito Santo che ci rende figli di Dio, capaci di vivere e di gustare la sua bontà, di rivolgerci a Lui con il termine «Abbà», Padre (cfr Rm 8,15). La gioia è segno della sua presenza e della sua azione in noi.
3. Conservare nel cuore la gioia cristiana
A questo punto ci domandiamo: come ricevere e conservare questo dono della gioia profonda, della gioia spirituale?
Un Salmo ci dice: «Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore» (Sal 37,4). E Gesù spiega che «il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44). Trovare e conservare la gioia spirituale nasce dall’incontro con il Signore, che chiede di seguirlo, di fare la scelta decisa di puntare tutto su di Lui. Cari giovani, non abbiate paura di mettere in gioco la vostra vita facendo spazio a Gesù Cristo e al suo Vangelo; è la strada per avere la pace e la vera felicità nell’intimo di noi stessi, è la strada per la vera realizzazione della nostra esistenza di figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza.
Cercare la gioia nel Signore: la gioia è frutto della fede, è riconoscere ogni giorno la sua presenza, la sua amicizia: «Il Signore è vicino!» (Fil 4,5); è riporre la nostra fiducia in Lui, è crescere nella conoscenza e nell’amore di Lui. L’«Anno della fede», che tra pochi mesi inizieremo, ci sarà di aiuto e di stimolo. Cari amici, imparate a vedere come Dio agisce nelle vostre vite, scopritelo nascosto nel cuore degli avvenimenti del vostro quotidiano. Credete che Egli è sempre fedele all’alleanza che ha stretto con voi nel giorno del vostro Battesimo. Sappiate che non vi abbandonerà mai. Rivolgete spesso il vostro sguardo verso di Lui. Sulla croce, ha donato la sua vita perché vi ama. La contemplazione di un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui.
Cercare il Signore, incontrarlo nella vita significa anche accogliere la sua Parola, che è gioia per il cuore. Il profeta Geremia scrive: «Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (Ger 15,16). Imparate a leggere e meditare la Sacra Scrittura, vi troverete una risposta alle domande più profonde di verità che albergano nel vostro cuore e nella vostra mente. La Parola di Dio fa scoprire le meraviglie che Dio ha operato nella storia dell’uomo e, pieni di gioia, apre alla lode e all’adorazione: «Venite, cantiamo al Signore... adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti» (Sal 95,1.6).
In modo particolare, poi, la Liturgia è il luogo per eccellenza in cui si esprime la gioia che la Chiesa attinge dal Signore e trasmette al mondo. Ogni domenica, nell’Eucaristia, le comunità cristiane celebrano il Mistero centrale della salvezza: la morte e risurrezione di Cristo. E’ questo un momento fondamentale per il cammino di ogni discepolo del Signore, in cui si rende presente il suo Sacrificio di amore; è il giorno in cui incontriamo il Cristo Risorto, ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo Corpo e del suo Sangue. Un Salmo afferma: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!» (Sal 118,24). E nella notte di Pasqua, la Chiesa canta l’Exultet, espressione di gioia per la vittoria di Gesù Cristo sul peccato e sulla morte: «Esulti il coro degli angeli... Gioisca la terra inondata da così grande splendore... e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa!». La gioia cristiana nasce dal sapere di essere amati da un Dio che si è fatto uomo, ha dato la sua vita per noi e ha sconfitto il male e la morte; ed è vivere di amore per lui. Santa Teresa di Gesù Bambino, giovane carmelitana, scriveva: «Gesù, è amarti la mia gioia!» (P 45, 21 gennaio 1897, Op. Compl., pag. 708).
4. La gioia dell’amore
Cari amici, la gioia è intimamente legata all’amore: sono due frutti inseparabili dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23). L’amore produce gioia, e la gioia è una forma d’amore. La beata Madre Teresa di Calcutta, facendo eco alle parole di Gesù: «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35), diceva: «La gioia è una rete d’amore per catturare le anime. Dio ama chi dona con gioia. E chi dona con gioia dona di più». E il Servo di Dio Paolo VI scriveva: «In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono» (Esort. ap. Gaudete in Domino, 9 maggio 1975)
Pensando ai vari ambiti della vostra vita, vorrei dirvi che amare significa costanza, fedeltà, tener fede agli impegni. E questo, in primo luogo, nelle amicizie: i nostri amici si aspettano che siamo sinceri, leali, fedeli, perché il vero amore è perseverante anche e soprattutto nelle difficoltà. E lo stesso vale per il lavoro, gli studi e i servizi che svolgete. La fedeltà e la perseveranza nel bene conducono alla gioia, anche se non sempre questa è immediata.
Per entrare nella gioia dell’amore, siamo chiamati anche ad essere generosi, a non accontentarci di dare il minimo, ma ad impegnarci a fondo nella vita, con un’attenzione particolare per i più bisognosi. Il mondo ha necessità di uomini e donne competenti e generosi, che si mettano al servizio del bene comune. Impegnatevi a studiare con serietà; coltivate i vostri talenti e metteteli fin d’ora al servizio del prossimo. Cercate il modo di contribuire a rendere la società più giusta e umana, là dove vi trovate. Che tutta la vostra vita sia guidata dallo spirito di servizio, e non dalla ricerca del potere, del successo materiale e del denaro.
A proposito di generosità, non posso non menzionare una gioia speciale: quella che si prova rispondendo alla vocazione di donare tutta la propria vita al Signore. Cari giovani, non abbiate paura della chiamata di Cristo alla vita religiosa, monastica, missionaria o al sacerdozio. Siate certi che Egli colma di gioia coloro che, dedicandogli la vita in questa prospettiva, rispondono al suo invito a lasciare tutto per rimanere con Lui e dedicarsi con cuore indiviso al servizio degli altri. Allo stesso modo, grande è la gioia che Egli riserva all’uomo e alla donna che si donano totalmente l’uno all’altro nel matrimonio per costituire una famiglia e diventare segno dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.
Vorrei richiamare un terzo elemento per entrare nella gioia dell’amore: far crescere nella vostra vita e nella vita delle vostre comunità la comunione fraterna. C’è uno stretto legame tra la comunione e la gioia. Non è un caso che san Paolo scriva la sua esortazione al plurale: non si rivolge a ciascuno singolarmente, ma afferma: «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4). Soltanto insieme, vivendo la comunione fraterna, possiamo sperimentare questa gioia. Il libro degli Atti degli Apostoli descrive così la prima comunità cristiana: «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Impegnatevi anche voi affinché le comunità cristiane possano essere luoghi privilegiati di condivisione, di attenzione e di cura l’uno dell’altro.
5. La gioia della conversione
Cari amici, per vivere la vera gioia occorre anche identificare le tentazioni che la allontanano. La cultura attuale induce spesso a cercare traguardi, realizzazioni e piaceri immediati, favorendo più l’incostanza che la perseveranza nella fatica e la fedeltà agli impegni. I messaggi che ricevete spingono ad entrare nella logica del consumo, prospettando felicità artificiali. L’esperienza insegna che l’avere non coincide con la gioia: vi sono tante persone che, pur avendo beni materiali in abbondanza, sono spesso afflitte dalla disperazione, dalla tristezza e sentono un vuoto nella vita. Per rimanere nella gioia, siamo chiamati a vivere nell’amore e nella verità, a vivere in Dio.
E la volontà di Dio è che noi siamo felici. Per questo ci ha dato delle indicazioni concrete per il nostro cammino: i Comandamenti. Osservandoli, noi troviamo la strada della vita e della felicità. Anche se a prima vista possono sembrare un insieme di divieti, quasi un ostacolo alla libertà, se li meditiamo più attentamente, alla luce del Messaggio di Cristo, essi sono un insieme di essenziali e preziose regole di vita che conducono a un’esistenza felice, realizzata secondo il progetto di Dio. Quante volte, invece, costatiamo che costruire ignorando Dio e la sua volontà porta delusione, tristezza, senso di sconfitta. L’esperienza del peccato come rifiuto di seguirlo, come offesa alla sua amicizia, porta ombra nel nostro cuore.
Ma se a volte il cammino cristiano non è facile e l’impegno di fedeltà all’amore del Signore incontra ostacoli o registra cadute, Dio, nella sua misericordia, non ci abbandona, ma ci offre sempre la possibilità di ritornare a Lui, di riconciliarci con Lui, di sperimentare la gioia del suo amore che perdona e riaccoglie.
Cari giovani, ricorrete spesso al Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione! Esso è il Sacramento della gioia ritrovata. Domandate allo Spirito Santo la luce per saper riconoscere il vostro peccato e la capacità di chiedere perdono a Dio accostandovi a questo Sacramento con costanza, serenità e fiducia. Il Signore vi aprirà sempre le sue braccia, vi purificherà e vi farà entrare nella sua gioia: vi sarà gioia nel cielo anche per un solo peccatore che si converte (cfr Lc 15,7).
6. La gioia nelle prove
Alla fine, però, potrebbe rimanere nel nostro cuore la domanda se veramente è possibile vivere nella gioia anche in mezzo alle tante prove della vita, specialmente le più dolorose e misteriose, se veramente seguire il Signore, fidarci di Lui dona sempre felicità.
La risposta ci può venire da alcune esperienze di giovani come voi che hanno trovato proprio in Cristo la luce capace di dare forza e speranza, anche in mezzo alle situazioni più difficili. Il beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925) ha sperimentato tante prove nella sua pur breve esistenza, tra cui una, riguardante la sua vita sentimentale, che lo aveva ferito in modo profondo. Proprio in questa situazione, scriveva alla sorella: «Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la Fede mi darà forza sempre allegro! Ogni cattolico non può non essere allegro... Lo scopo per cui noi siamo stati creati ci addita la via seminata sia pure di molte spine, ma non una triste via: essa è allegria anche attraverso i dolori» (Lettera alla sorella Luciana, Torino, 14 febbraio 1925). E il beato Giovanni Paolo II, presentandolo come modello, diceva di lui: «era un giovane di una gioia trascinante, una gioia che superava tante difficoltà della sua vita» (Discorso ai giovani, Torino, 13 aprile 1980).
Più vicina a noi, la giovane Chiara Badano (1971-1990), recentemente beatificata, ha sperimentato come il dolore possa essere trasfigurato dall’amore ed essere misteriosamente abitato dalla gioia. All’età di 18 anni, in un momento in cui il cancro la faceva particolarmente soffrire, Chiara aveva pregato lo Spirito Santo, intercedendo per i giovani del suo Movimento. Oltre alla propria guarigione, aveva chiesto a Dio di illuminare con il suo Spirito tutti quei giovani, di dar loro la sapienza e la luce: «È stato proprio un momento di Dio: soffrivo molto fisicamente, ma l’anima cantava» (Lettera a Chiara Lubich, Sassello, 20 dicembre 1989). La chiave della sua pace e della sua gioia era la completa fiducia nel Signore e l’accettazione anche della malattia come misteriosa espressione della sua volontà per il bene suo e di tutti. Ripeteva spesso: «Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io».
Sono due semplici testimonianze tra molte altre che mostrano come il cristiano autentico non è mai disperato e triste, anche davanti alle prove più dure, e mostrano che la gioia cristiana non è una fuga dalla realtà, ma una forza soprannaturale per affrontare e vivere le difficoltà quotidiane. Sappiamo che Cristo crocifisso e risorto è con noi, è l’amico sempre fedele. Quando partecipiamo alle sue sofferenze, partecipiamo anche alla sua gloria. Con Lui e in Lui, la sofferenza è trasformata in amore. E là si trova la gioia (cfr Col 1,24).
7. Testimoni della gioia
Cari amici, per concludere vorrei esortarvi ad essere missionari della gioia. Non si può essere felici se gli altri non lo sono: la gioia quindi deve essere condivisa. Andate a raccontare agli altri giovani la vostra gioia di aver trovato quel tesoro prezioso che è Gesù stesso. Non possiamo tenere per noi la gioia della fede: perché essa possa restare in noi, dobbiamo trasmetterla. San Giovanni afferma: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi... Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,3-4).
A volte viene dipinta un’immagine del Cristianesimo come di una proposta di vita che opprime la nostra libertà, che va contro il nostro desiderio di felicità e di gioia. Ma questo non risponde a verità! I cristiani sono uomini e donne veramente felici perché sanno di non essere mai soli, ma di essere sorretti sempre dalle mani di Dio! Spetta soprattutto a voi, giovani discepoli di Cristo, mostrare al mondo che la fede porta una felicità e una gioia vera, piena e duratura. E se il modo di vivere dei cristiani sembra a volte stanco ed annoiato, testimoniate voi per primi il volto gioioso e felice della fede. Il Vangelo è la «buona novella» che Dio ci ama e che ognuno di noi è importante per Lui. Mostrate al mondo che è proprio così!
Siate dunque missionari entusiasti della nuova evangelizzazione! Portate a coloro che soffrono, a coloro che sono in ricerca, la gioia che Gesù vuole donare. Portatela nelle vostre famiglie, nelle vostre scuole e università, nei vostri luoghi di lavoro e nei vostri gruppi di amici, là dove vivete. Vedrete che essa è contagiosa. E riceverete il centuplo: la gioia della salvezza per voi stessi, la gioia di vedere la Misericordia di Dio all’opera nei cuori. Il giorno del vostro incontro definitivo con il Signore, Egli potrà dirvi: «Servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo padrone!» (Mt 25,21).
La Vergine Maria vi accompagni in questo cammino. Ella ha accolto il Signore dentro di sé e l’ha annunciato con un canto di lode e di gioia, il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1,46-47). Maria ha risposto pienamente all’amore di Dio dedicando la sua vita a Lui in un servizio umile e totale. E’ chiamata «causa della nostra letizia» perché ci ha dato Gesù. Che Ella vi introduca in quella gioia che nessuno potrà togliervi!
Dal Vaticano, 15 marzo 2012
[Papa Benedetto, Messaggio per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù, 2012]
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato [Papa Benedetto]
This belonging to each other and to him is not some ideal, imaginary, symbolic relationship, but – I would almost want to say – a biological, life-transmitting state of belonging to Jesus Christ (Pope Benedict)
Questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale (Papa Benedetto)
She is finally called by her name: “Mary!” (v. 16). How nice it is to think that the first apparition of the Risen One — according to the Gospels — took place in such a personal way! [Pope Francis]
Viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16). Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i Vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! [Papa Francesco]
don Giuseppe Nespeca
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