Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XXI Domenica Tempo Ordinario (anno C) [24 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Utile in questi tempi rileggere questi testi biblici alla luce di quanto sta succedendo nel Medio Oriente.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66,18-21)
I profeti parlano in nome di Dio e gli ascoltatori lo sanno bene, ma quando vogliono sottolineare l’importanza delle loro affermazioni, ricordano che si tratta proprio della parola del Signore, quindi di qualcosa di molto importante, e in questo brano ci sono almeno due grandi annunci: la dimensione universale del progetto di Dio “ Io verrò a radunare”, e il ruolo del piccolo resto dei credenti, “i superstiti”, gli scampati che fra lo scoraggiamento generale conservano la fede. Mentre il primo Isaia o Michea (VIII secolo a.C.) annunciavano soltanto la salvezza del “piccolo Resto d’Israele”, durante e dopo l’esilio (VI secolo) Israele scopre la dimensione universale del progetto di Dio e impara a considerare la propria elezione non come un privilegio esclusivo, ma come una vocazione. Questo è un discorso nuovo perché pone in luce il ruolo missionario che Dio affidata a Israele al servizio dell’intera umanità, la dimensione universale del progetto di Dio: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue” e più sorprendente ancora: “essi verranno e vedranno la mia gloria” (v.18). Il termine gloria indica il fulgore della presenza di Dio (letteralmente in ebraico «peso»). Dio non ha bisogno che noi lo gloriamo; siamo invece noi a diventare felici quando viviamo nell’alleanza d’amore con Lui. “Vedranno la mia gloria” significa riconoscerlo come unico Dio liberando l’umanità da ogni forma di idolatria. E il testo continua: “Manderò i loro superstiti alle popolazioni più lontane… questi messaggeri annunceranno la mia gloria alle genti .. ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti, come offerta al Signore…al mio santo santo di Gerusalemme”(v.20). Ecco realizzata la vocazione del popolo eletto: essere luce delle nazioni, perché la salvezza giunga fino all’estremità della terra (cf Is 49,6). Questa è anche la vocazione della Chiesa, popolo di Dio chiamato a testimoniare la verità di Dio nel mondo, anche se non sostituisce Israele: annunciare la gloria di Dio a tutti i popoli, testimoniare il vangelo che illumina la vita: “Io porrò in essi un segno” (v.19) e in questa luce comprendiamo quel che Gesù dirà: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,32). L’ultima frase è un terzo annuncio importante: non solo i popoli si avvicineranno al Signore, ma “anche tra loro prenderò sacerdoti e leviti” (v.21), il che significa che non saranno più richieste le condizioni abituali per il sacerdozio e ogni essere umano può avvicinarsi al Dio vivente. Si capisce perché qualche versetto prima della lettura di questa domenica, Isaia invitava a rallegrarsi Gerusalemme tutti quelli che l’amano perché il Signore farà “scorrere verso di essa, come un fiume, la pace, e come un torrente in piena la gloria delle nazioni” (Is 66,10…12).
Alcune Note *Scrive sant’Agostino: «Chi sarebbe tanto folle da credere che Dio abbia bisogno dei sacrifici che gli si offrono? Il culto reso a Dio giova all’uomo e non a Dio. Non è alla sorgente che giova se vi si beve, né alla luce se la si vede» (La città di Dio, X, 5-6).
*Nel Terzo Isaia (profeta del dopo l’silio) si ritrova la teologia del “resto salvatore”, di cui leggiamo una traccia nel Salmo 39/40: “Molti vedranno, avranno timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4) da accostare all’annuncio che troviamo qui in Isaia (vv20-21)
*Nella Bibbia, non sempre si parla delle nazioni in modo positivo e il termine è carico di significati talvolta decisamente negativi: Il libro del Deuteronomio, ad esempio, parla delle “abominazioni delle nazioni” (18,9-12) a causa delle loro pratiche religiose in generale e i sacrifici umani in particolare. Nella pedagogia biblica, il popolo eletto viene guidato a restare fedele a Dio, a scoprire il volto del Dio unico, evitando ogni contatto con le nazioni a rischio di contagio idolatrico. Questa visione positiva è già con Abramo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3). Con fede più salda, Israele scoprirà l’universalismo del progetto di Dio comprendendo progressivamente di essere il fratello maggiore, non il figlio unico con il ruolo di aprire a tutta l’umanità la via verso il suo Dio: se Dio è l’unico vero Dio, è il Dio di tutti.
Salmo responsoriale 116/117
Questo salmo è più breve del salterio che potrebbe riassumersi in una sola parola: Alleluia, ultima parola del salmo, ma anche la prima, poiché, Lodate il Signore (v. 1) equivale a Alleluia: “Allelu” è imperativo: Lodate e “Ia” è la prima sillaba del nome di Dio. L’obiettivo dell’intero salterio, che significa “Lodi” (in ebraico Tehillim), deriva dalla stessa radice di Alleluia. Ecco il commento che i rabbini fanno dell’Alleluia: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre allo splendore, dalla schiavitù alla redenzione. Per questo, cantiamo davanti a lui l’Alleluia». “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà”: è ciò che Dio ha fatto per il suo popolo, ma è anche il progetto di Dio per tutta l’umanità. La salvezza del suo popolo è l’inizio e promessa di ciò che Dio farà per tutta l’umanità quando annunciò ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). E già Salomone lo aveva sognato: «Tutti i popoli della terra, come il tuo popolo Israele, riconosceranno il tuo Nome e ti adoreranno» (1Re 8,41-43; cfr. la prima lettura). Da qui la struttura di questo salmo, molto semplice ma suggestiva: “Lodate Dio”(v.1); “Poiché ha dimostrato il suo amore (v.2)”. Guardando più da vicino, leggiamo: “Lodate Dio, voi tutte le nazioni”(v.1); Per la sua opera a favore del suo popolo: “Poiché ha dimostrato il suo amore per noi”. Qui il «poiché» è molto importante: quando le nazioni vedranno ciò che Dio ha fatto per noi, crederanno. In altre parole: poiché Dio ha dato prova di sé salvando il suo popolo, le altre nazioni potranno credere in lui. Lo stesso ragionamento si trova nel Salmo 39/40 (XX domenica dell’anno C) dove il salmista dice: “Dio mi ha tratto dalla fossa della morte… vedendo questo, molti saranno presi da timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4). Allo stesso modo, il Salmo 125/126 canta, a proposito dell’esilio a Babilonia: «Allora si diceva fra le nazioni: Grandi cose ha fatto il Signore per loro!» (Sal 125/126,2). Questa idea si incontra più volte nei profeti: quando il popolo è nella disgrazia, le altre nazioni possono dubitare della potenza di Dio. È in questo senso che Ezechiele osa dire che l’esilio a Babilonia è una vergogna per Dio e arriva perfino ad affermare che l’esilio del popolo di Dio “profanava” il nome di Dio, mentre la liberazione, al contrario, sarà davanti a tutti la prova della sua potenza liberatrice. Questo lo porta a proclamare, in pieno esilio babilonese: “Mostrerò la santità del mio grande nome, profanato fra le nazioni, che voi avete profanato in mezzo a loro; allora le nazioni sapranno che io sono il Signore…quando avrò mostrato la mia santità in voi sotto i loro occhi” (Ez 36,23; 36,36). Riconoscere il Nome di Dio nel linguaggio biblico significa scoprire il Dio di tenerezza e fedeltà rivelato a Mosè (Es 34,6): tenerezza e fedeltà che Israele ha sperimentato lungo tutta la sua storia. Questo è il senso del secondo versetto del salmo: ” forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”. Ultima osservazione: questo salmo fa parte dell’Hallel (dal salmo 112/113 a 117/118) e occupa un posto particolare nella liturgia di Israele perché la sua recitazione segue il pasto pasquale. Gesù stesso lo ha cantato la sera del Giovedì Santo e i vangeli di Matteo e Marco ne fanno eco (cf. Mt 26,30; Mc 14,26). Possiamo ripetere anche noi: “Ha dimostrato il suo amore per noi” ascoltando Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13) e “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12, 5-7.11-13)
I destinatari della Lettera agli Ebrei, cristiani che attraversano un periodo di forte persecuzione, hanno già molto sofferto per la loro fede, come appare chiaramente nel capitolo 10,32-34. L’autore per consolarli e infondere coraggio, dice loro di non dimenticare l’esortazione a loro rivolta e si immerge nell’Antico Testamento riprendendo ciò che il profeta Isaia diceva ai suoi compatrioti esiliati in Babilonia: “Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche” (v12). Parla loro come se anche essi vivessero un esilio e affronta il problema della sofferenza non per giustificarla o spiegarla, ma per darle un senso. Invita alla perseveranza, virtù indispensabile nei tempi della prova quando Dio come un Padre mostra il suo amore anche con modi apparentemente assurdi. L’immagine dominante è dunque quella paterno pedagogica di Dio presente nella letteratura sapienziale della Bibbia, dove la sofferenza può diventare un cammino, una prova per la fede del credente, il quale sa che, qualunque cosa accada, Dio tace, ma non è né sordo né indifferente. Al contrario, come un padre, ci accompagna su questo difficile sentiero e da ogni male ci aiuta a uscire rafforzati. Quello che sopportate è dunque una “correzione” con richiami al libro dei Proverbi:”Non disprezzare, figlio mio, la correzione del Signore, e non stancarti delle sue riprensioni. Perché il Signore corregge colui che ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11-12). Per i primi cristiani, questo tema era familiare, poiché conoscevano bene il libro del Deuteronomio, che paragonava Dio a un pedagogo che accompagna la crescita di coloro che educa (cf Dt 8,2-5). Vissuta nella fiducia in Dio, la sofferenza può diventare un’occasione di testimonianza della speranza e della pace interiore che dona lo Spirito. La sofferenza può dunque diventare una scuola, in cui impariamo a vivere nello Spirito tutto ciò che accade perché, come scrive san Paolo, la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata, la virtù provata la speranza che non delude grazie all’amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfRm 5,3-4). La sofferenza dunque fa parte della condizione umana: anche in una tale situazione Dio ci affida l’onore e la responsabilità di testimoniare la fede e, se la persecuzione fa parte del cammino della vita, non è perché Dio la voglia, ma per cause legate a comportamenti umani. Quando Gesù diceva che è necessario che il Figlio dell’uomo soffra, non parlava di una richiesta di Dio, ma della triste realtà dell’opposizione umana e san Paolo, rivolgendosi alle prime comunità dell’Asia Minore, anch’esse perseguitate ricordava che dobbiamo entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni (cf. At 14,22).
Dal vangelo secondo Luca (13,22-30)
Gesù è in cammino verso Gerusalemme e, visibilmente, non perde occasione di insegnare, ma ciò che dice non è sempre quello che ci si aspetta. Qui, per esempio, qualcuno fa una domanda concernente la salvezza e lui non risponde direttamente: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (v.23). La risposta non riguarda chi si salva, come se ci fossero in anticipo degli eletti e degli esclusi, ma quale è la condizione per entrare nel regno: passare per porta! “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non ci riusciranno” (v.24). L’immagine della porta stretta è suggestiva ed eloquente: un tale eccessivamente obeso o chi si carica di pacchi ingombranti non riesce a passare per una porta stretta, a meno che non compia una forte cura dimagrante o decida di abbandonare ogni ingombro. Il testo che segue permette di capire quale sia l’obesità spirituale e quali i bagagli con cui non si riesce a transitare. Bussando alla porta questi diranno: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (vv25-26). Qui Gesù denuncia la sicurezza dei suoi interlocutori, convinti che, per il solo fatto di essere nati nel popolo eletto, abbiano diritto alla salvezza e che per loro la porta si aprirà. Gesù però precisa che la porta è la stessa per tutti e allora perché non riusciranno a passarla? Anzi il padrone preciserà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia” (v.27). È vero che Gesù è uno di loro, che ha mangiato e bevuto con loro e ha insegnato in mezzo a loro; è vero che i loro antenati Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti sono nel Regno di Dio, ma tutto ciò non dà loro diritti. L’obesità spirituale e i pesi ingombranti sono le loro certezze: non accolgono il regno di Dio come un dono, convinti di avere dei diritti. Allora appare chiara l’ultima frase: “vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” (v30). I primi nel disegno di Dio, come afferma san Paolo, sono i figli d’Israele, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, le alleanze, la Legge, il culto, le promesse, i patriarchi, ed è da loro che è nato il Cristo. (cf.Rm 9,4-5). Il popolo ebraico è il popolo dell’Alleanza per scelta sovrana di Dio come leggiamo nel Deuteronomio: «Solo ai tuoi padri il Signore si è attaccato per amarli; e dopo di loro, è la loro discendenza, cioè voi, che ha scelto fra tutti i popoli.» (Dt 10,15). E con giusto motivo, il popolo d’Israele era felice e fiero di essere scelto da Dio come è detto nel salmo 32/33: “Beata la nazione che ha il Signore per Dio. Beato il popolo che si è scelto come patrimonio… Noi aspettiamo il Signore. Egli è il nostro aiuto e il nostro scudo. La gioia del nostro cuore viene da lui e la nostra fiducia è nel suo santo nome.» (Sal 32/33,12.20-21). Ma, come ogni vocazione, la scelta di Dio è una missione: i primi invitati al regno avevano il compito di farvi entrare tutta l’umanità come Isaia ricordava più volte (cf Is 42,6; 49,5-6) perché la salvezza la raggiungesse tutta. Quando Gesù parla, loro rifiutano il suo insegnamento perché disturba le loro certezze e il loro compiacimento di sé e quando Gesù dice loro di allontanarsi perché compiono il male non intende azioni malvagie, ma si riferisce a questa chiusura del cuore. Poco prima egli aveva guarito una donna inferma in una sinagoga di sabato e invece di gioire per la guarigione, avevano criticato il luogo e il momento. Questa stessa ottusità spirituale e visione egoistica della fede può segnare la nostra vita di cristiani. Chiudendo il cuore alla Grazia diventiamo ciechi e obesi spiritualmente perché, come alcuni contemporanei di Gesù chiusi nelle loro certezze, non riuscirono a riconoscerlo e seguirlo come il Messia. Papa Francesco ripeteva che un cuore chiuso non ascolta la voce di Dio né riconosce il volto dei fratelli. Accogliamo allora l’invito del Signore a togliere dal nostro cuore la durezza, per ricevere in dono un cuore di carne: solo così potremo comprendere la sua volontà e annunciare il suo vangelo con gioia.
+ Giovanni D’Ercole
XX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [17 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ecco il commento ai testi biblici di domenica prossima.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (38,4-6.8-10)
Il nome di Geremia ha dato origine al termine “geremiade”. Ma sarebbe un errore pensare che questo profeta abbia passato il suo tempo a lamentarsi e a piangersi addosso. È vero, invece, che fu spesso portato a gridare misericordia sotto il peso delle prove. E Dio sa quante ne ha vissute! Al punto che il proverbio “Nessuno è profeta in patria” si applica particolarmente a lui. A volte, dalla sua penna emergono espressioni di scoraggiamento assoluto (cf.Ger 15,10.18; 20,14). Di fronte ai ripetuti fallimenti della sua missione e ai mali di cui è vittima, Geremia si pone domande inquietanti, arrivando persino a chiedere conto a Dio, la cui condotta gli appare sorprendente, se non addirittura ingiusta: “Tu sei giusto, Signore! Ma io voglio discutere con te. Perché riescono i malvagi? Perché sono tranquilli tutti i traditori?” (Ger 12,1-2). Leggendo il libro di Geremia ci si rende conto che aveva buone ragioni per porsi queste domande e lamentarsi:capitolo dopo capitolo, emergono i complotti dei suoi avversari, gli inganni, le minacce poi messe crudelmente in atto (cf. Ger 20,10; 18,18; 11,21;12,6). Nel brano che la liturgia propone questa domenica, ci troviamo davanti a una delle tante sue sventure, un episodio tipico della sua vita in cui compaiono tutti gli argomenti e la cattiveria dei suoi avversari: “Si metta a morte Geremia, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia il popolo dicendo loro simili parole, perché quest’uomo non cerca il benessere del popol, ma il male” (v.4). Lo prendono e lo gettano nella cisterna del principe Melchia, dove non c’era acqua ma fango e affondò nel fango per cui più realistica di così non si potrebbe descrivere la persecuzione che subì. Dio però non abbandona il suo profeta, mantiene la promessa fatta il giorno della sua vocazione, quella di sostenerlo contro ogni avversità e fu davvero un’alleanza tra Dio e lui (Ger 1,4-5.17-19); infatti, in un giorno in cui era particolarmente scoraggiato, Dio gli aveva rinnovato la missione e la promessa (Ger 15,21) e ora lo strumento della liberazione sarà uno straniero, un etiope chiamato Ebed-Melech. Non è la prima volta che la Bibbia ci presenta degli stranieri rispettosi di Dio e dei suoi profeti più del popolo eletto. Quest’etiope ha il coraggio di intervenire presso e il re, che concede il permesso di salvare Geremia. Quando più tardi Gesù racconterà la parabola del Buon Samaritano, forse pensava anche a questo etiope che salvò il profeta perché molti sono i punti in comune tra il buon samaritano e l’etiope. Nel seguito del racconto, versetti non riportati nel testo liturgico, emergono molti dettagli della delicatezza del pagano che salva il profeta, con mille precauzioni per non ferirlo durante la risalita (28, 11-13). Perché nessuno è profeta nella propria patria? Domanda ricorrente: probabilmente ciò avviene perché l’annuncio dell’amore di Dio per gli uomini comporta l’esigenza di amarci, a nostra volta e quando si vive insieme si è più facili a vedere il negativo che il positivo: “Nessuno è grande agli occhi del proprio vicino”. Le lamentele di Giobbe (al capitolo 3) sono simili a quelle di Geremia e si pensa che l’autore del libro di Giobbe si sia ispirato ai lamenti di Geremia, considerato esempio per eccellenza del giusto perseguitato.
Salmo responsoriale (39/40,2,3,4,18)
“Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato”. Il salmo parla in prima persona singolare, ma in realtà è il popolo d’Israele che canta la sua riconoscenza perché ha attraversato terribili prove e Dio lo ha liberato. Questo salmo è dunque un salmo di ringraziamento, composto per essere cantato nel Tempio al momento dell’offerta di un sacrificio di ringraziamento, sacrifici di animali celebrati fino alla distruzione definitiva del Tempio, nel 70 d.C. Il popolo intero esplode di gioia al ritorno dall’esilio babilonese come dopo il passaggio del Mar Rosso. L’esilio è stato come una caduta mortale in un pozzo senza fondo, un abisso da cui sembrava impossibile rialzarsi e il salmo parla del “terrore dell’abisso”. Durante quel lungo periodo di prova, il popolo, sostenuto da sacerdoti e profeti, ha mantenuto la speranza e la forza di invocare aiuto: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare!” (v. 18) e Dio lo ha salvato: “Il Signore…ha dato ascolto al mio grido”(v.2). Al suo rientro il popolo sembra resuscitato e ringrazia: “Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo…Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore…Ma io sono povero e bisognoso: di me ha cura il Signore” (vv4, 18). Prima dell’esilio Israele viveva nella sicurezza ma i profeti non erano riusciti a svegliarlo dalla sua indifferenza. Durante l’esilio ha meditato sulle cause del disastro chiedendosi se la causa non fosse questa sua superficialità. Questo salmo suona come un avvertimento per il futuro, o meglio come una risoluzione perché, per non ricadere nello stesso errore, Israele deve vivere fedelmente l’Alleanza. In questo spirito, il salmo sviluppa una riflessione su ciò che piace veramente a Dio: “sacrifici e offerta non gradisci… non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo”.(vv 7,8,9). Per esprimere l’esperienza del ritorno alla terra promessa, come un ritorno alla vita, il salmista utilizza la parabola di un uomo gettato in un pozzo dai nemici, ispirandosi forse all’esperienza del profeta Geremia, di cui la prima lettura racconta le disavventure: gettato in un pozzo è liberato da Ebed-Melek, uno straniero. Geremia sapeva che, dietro alla generosità sorprendente di quell’uomo, c’era Dio stesso:”Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi.”(v.3). Liberato, esplode di gioia: Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio. Molti vedranno e confideranno nel Signore.”(v.4). Chi è stato salvato canta la lode di Dio ed altri, vedendo che Dio salva, desidereranno rivolgersi a Lui. Il salmo non si ferma qui perché il versetto finale proclama: Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare!” (v.18). Poiché l’umanità non ha ancora raggiunto il pieno compimento del disegno di Dio, il salmista suggerisce due atteggiamenti di preghiera: La lode per le salvezze già avvenute, perché altri si aprano al Dio salvatore; la supplica per la salvezza che ancora attendiamo, perché lo Spirito ci ispiri le azioni da compiere. Non siamo noi a salvare il mondo come il salmo dice: ”Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio.Molti vedranno e confideranno nel Signore.”(v.4) Dio troverà sempre un piccolo resto da salvare. Amos dice: ”Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe” (5,15); Anche Isaia ripete cose simili come poi approfondiranno Michea, Sofonia, Zaccaria i quali annunciano che il “Resto” d’Israele non sarà solo salvato, ma diventerà strumento di salvezza per tutti gli altri. Dio si servirà di loro per salvare l’umanità intera come afferma Michea: “Il resto di Giacobbe sarà, in mezzo a molti popoli, come una rugiada venuta dal Signore” (5,6).
Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12,1-4)
Ai cristiani perseguitati, l’autore della Lettera rivolge parole di incoraggiamento. Ha dedicato il capitolo 11 a presentare i grandi modelli di fede dell’Antico Testamento e domenica scorsa si parlava di Abramo e Sara. Qui, all’inizio del capitolo 12, afferma che tutti icredenti dell’Antico Testamento sono come una “nube di testimoni” che ci circonda: una nube di protettori. L’autore non si accontenta di raccomandare ai cristiani di imitare la fiducia e la costanza dei grandi personaggi del passato, ma li invita a «tenere fisso lo sguardo su Gesù», il testimone sempre presente, colui che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), origine alla fede e suo compimento. Una traduzione più letterale sarebbe: Gesù è il “pioniere della fede” e il termine greco utilizzato ἀρχηγός archēgós tradotto con “pioniere” indica capo, condottiero, pioniere, iniziatore, fondatore, colui che apre la via e guida in avanti, una guida perfetta di cui ci si può fidare perché conduce al pieno compimento. Infatti, egli stesso ha attraversato la prova della perseveranza, nella quale anche i cristiani sono ora impegnati. Molto più dura la sua prova: venuto come lo Sposo, per la gioia di una festa di nozze, aveva detto parlando di sé che non si può far digiunare gli invitati finché lo sposo è con loro (cf. Mc 2,19), ma lo Sposo non fu riconosciuto ed anzi, rinunciando alla gioia che gli era posta innanzi, sopportò la croce disprezzando l’infamia di quel supplizio. San Paolo lo dice in altro modo scrivendo ai Filippesi: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce” (Fil 2,6-8). Un tale contrasto è persino inimmaginabile: venuto a salvare l’umanità dal peccato, il Cristo ha ricevuto un drammatico rifiuto, ucciso a causa del peccato degli uomini: “Pensate attentamente colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori”(v.3) . Sia la Lettera agli Ebrei sia quella ai Filippesi sottolineano che Gesù è nostro modello e sostegno non per la quantità delle sue sofferenze, ma per la sua “obbedienza” fino alla morte, e a una morte di croce, come scrive Paolo mentre nella Lettera agli Ebrei si legge che pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì (cf. 5,8). Obbedire – dal latino ob-audire – significa letteralmente “porre l’orecchio davanti alla Parola” che è l’attitudine della fiducia assoluta. Gesù nella situazione più estrema mantiene totale fiducia nel Padre, che sempre presente e attento al suo Figlio amato, condivide la sua sofferenza e le sue angosce: “rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2,13). Segue il trionfo dell’Amore di Dio e Cristo siede alla destra di Dio, regna con lui. Questo stesso trionfo viene promesso a coloro che sopportano la persecuzione come Cristo. L’autore non esita a usare la parola “lotta” per descrivere questo coraggio: i cristiani a cui scrive rischiano visibilmente la vita per restare fedeli a Gesù che così aveva avvertito: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi… Ma con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” (Lc 21,12 - 19). In tutto il mondo, alcuni cristiani sono direttamente coinvolti da questa sorte perché stanno vivendo persecuzioni aperte o nascoste. A noi, che almeno per il momento non conosciamo la persecuzione diretta, è chiesto di essere testimoni parlando con coraggio di Dio e difendendo la sua verità.
Dal Vangelo secondo Luca (12,49-53)
Gesù paragona la sua missione a un fuoco: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” Fin dal fuoco della Pentecoste, questo annuncio fu come una fiamma diffusasi rapidamente: nel popolo ebraico appariva come distruttore di tutto l’edificio religioso, nel mondo pagano era considerato come una contagiosa follia. San Paolo scrive ai Corinzi: “Noi predichiamo un Messia crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani.” (1 Cor 1,23). Questo fuoco lascia tracce indelebili: coloro che si lasciano ardere dal Vangelo e coloro che lo rifiutano diventano irrimediabilmente antagonisti, anche se uniti da legami familiari per cui si realizza ciò che descriveva con desolazione il profeta Michea nel suo tempo di angoscia: “Il figlio insulta il padre, la figlia si ribella contro la madre, la nuora contro la suocera; i nemici di ciascuno sono i suoi familiari.” (Mi 7,6). Quando Gesù annuncia queste lacerazioni, non si tratta di un semplice presentimento: parla per esperienza come avvenne a Nazaret dove, dopo un primo entusiasmo, i suoi amici d’infanzia e i suoi familiari si rivoltano contro di lui, perché aveva appena detto che la sua missione superava i confini d’Israele (Lc 4,28-29). E non è l’unica volta in cui Gesù si scontra con l’incomprensione, persino l’opposizione dei suoi: san Giovanni scrive che nemmeno i suoi fratelli credevano in lui (cf. Gv 7,5). Del resto, Gesù non esita a dire ai suoi discepoli che una delle condizioni per annunciare il Regno di Dio è accettare possibili separazioni dolorose. Se infatti lo si vuole seguire, ma non lo si ama più delle persone più care e perfino più della propria vita, mai si diventa suoi discepoli. (cf. Lc 14,26) per cui il fuoco che egli ha acceso conduce a scelte radicali. Israele attendeva un Messia che portasse la pace al mondo, essendo ben note le profezie di Isaia (Is 2;11), Gesù invece annuncia divisioni: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione.” La pace di Gesù esige la conversione radicale del cuore, ma a questa conversione molti si opporranno con tutte le forze. Il suo annuncio di pace incontrerà il favore di alcuni, ma l’opposizione di molti: venuto tra noi per annunciare l’amore e la salvezza, ha subìto sofferenza e morte, come egli stesso aveva predetto: “È necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto, sia rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venga ucciso e il terzo giorno risorga.” (Lc 9,22). E ancora: sarà consegnato ai pagani, deriso, insultato, sputato, flagellato e ucciso, ma risorgerà il terzo giorno (cf Lc 18,32). La sua risurrezione ci infonde coraggio: vivificati dal suo Spirito effuso su di noi, non abbiamo paura di incendiare il mondo con il fuoco della sua carità.
+ Giovanni D’Ercole
Tutti chiamati, ma con quale corredo? Senza artifizi
(Mt 22,1-14)
La «veste di nozze» (vv.11-12) è figura dell’essenziale - l’imprescindibile senz’ammennicoli di ricercatezza.
Il Regno di Dio annunciato da Gesù non ammette noncuranze personali e civili [cf. Mt 21]. E il Banchetto predicato dal Maestro non è un Giardino di Eden per un futuro nell’aldilà, bensì un filo diretto.
La sua Mensa imbandita è la nuova condizione in cui viene introdotta la persona che si fida della sua proposta.
Ma c’è chi si sente sazio, perché ritiene di possedere già quanto basta per una vita senza troppi problemi.
Era la situazione delle autorità, soddisfatte della sovrabbondante struttura religiosa, la quale sembrava offrisse una giusta sicurezza sociale, e certezza anche davanti a Dio.
Tutti sono chiamati (v.14) al Banchetto, tuttavia qualcuno non ha mantenuto il vestitino bianco del Battesimo in Cristo. Ha totalmente cambiato corredo, e si presenta con gli stracci della vita antica.
Gesù riprende a parlare con i leaders e li affronta senza mezze misure, perché non paragona il Regno del Padre a un’assemblea solenne, bensì a una festa nuziale!
Nella franchezza semplice, popolare, immediata e gioconda di uno sposalizio c’è una realtà umana caratterizzante la condizione divina: la Gioia spontanea delle relazioni franche, a tu per tu.
La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti venerano un altro padrone: l’interesse.
L’opportunismo non può essere ingrediente del Sacro: il tornaconto ripiega le persone su di sé, chiude lo sguardo, rende unilaterali, cupi.
E i calcoli spregevoli portano il popolo a distruzione (v.7).
Lo sfondo della parabola è l’attrito fra giudei e pagani convertiti.
Considerandosi prescelti - «eletti» (v.14) - i primi si rifiutavano di spezzare il Pane, condividere, mettersi alla pari coi secondi.
Interessante invece che proprio i servitori fedeli, spingi spingi, si distinguessero a rovescio: in qualsiasi circostanza restavano disposti a entrare “ultimi” al Banchetto.
Insomma, lo spazio aperto dall’auto-esclusione del popolo chiamato per primo non sarebbe riuscita a mettere la parola “fine” agli sforzi di coloro che da sempre lottano per la vita e l'autenticità.
Gli alberi fruttiferi non amano prevaricare. Rischiano e occupano solo l’ultimo posto; per stare vicini agli incerti, e incoraggiarli.
Quindi al v.9 Mt invita ad andare agli «sbocchi delle vie» [testo greco] ossia nelle periferie esistenziali dove la vita non è scontata, ma pulsa sempre nuova. Lì dove non si può essere indifferenti.
Il termine greco indica la fine delle strade urbane (rassicuranti) e l’inizio dei sentieri poco curati e rischiosi.
Nella mentalità semitica, erano il confine del territorio puro e la soglia dei luoghi precari, contaminati.
Non solo: l’offerta d’amore di Dio raduna per primi i “cattivi” [«malvagi»: v.10 testo greco] per sottolineare che il Cielo non è ‘a punti’.
Esso è a disposizione dei bisognosi, di chi si riconosce tale.
Però tutti possono essere malvestiti fuori, non dentro: ossia vigili al fratello e diligenti. Siamo chiamati ad abbandonare trascuratezze e noncuranze.
Per Fede che ci incorpora senza condizioni allo Sposo, l’abito pulito e fastoso è sempre messo a disposizione dal Padrone di Casa.
Ma indossarlo è frutto di una scelta consapevole, fatta propria: voler «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato» [Fratelli Tutti, n. 278].
Il popolo di Dio non può vivere in un mondo parallelo, scollegato e doppio - come se l’unico Dio adorato fosse ‘marketing e convenienza’.
[Giovedì 20.a sett. T.O. 21 agosto 2025]
Tutti chiamati, ma con quale corredo? Senza artifizi
Mt 22,1-14 (1-21)
La «veste di nozze» (vv.11-12) è figura dell’essenziale - l’imprescindibile anche precario, senz’ammennicoli di ricercatezza.
«“Ognuno di voi, dunque, che nella Chiesa ha fede in Dio ha già preso parte al banchetto di nozze, ma non può dire di avere la veste nuziale se non custodisce la grazia della Carità” (Homilia 38,9: PL 76,1287). E questa veste è intessuta simbolicamente di due legni, uno in alto e l’altro in basso: l’amore di Dio e l’amore del prossimo (cfr ibid.,10: PL 76,1288)» (Gregorio Magno; Papa Benedetto, 9 ottobre 2011).
Il Regno di Dio annunciato da Gesù è diverso da quello immaginato dai rabbini, la cui dottrina poteva ammettere noncuranze personali e civili [es: venditori nel tempio, fico sterile, obiezione sull’autorità, vignaioli omicidi, così via: Mt 21].
Il Banchetto predicato dal Maestro non è un Giardino di Eden allestito per un futuro nell’aldilà, che intanto - sebbene a sprazzi - possa sopportare l’inautenticità. Bensì un filo diretto.
La sua Mensa imbandita è la nuova condizione in cui viene introdotta la persona che si fida della sua proposta di condivisione.
C’è chi si sente sazio, perché ritiene di possedere già quanto basta per una vita senza troppi problemi - e allora si adatta a qualsiasi occasione, perfino meschina.
Era la situazione delle autorità, soddisfatte della sovrabbondante struttura religiosa, la quale sembrava offrisse una giusta sicurezza sociale, e certezza anche davanti a Dio.
Invece (come dire): non basta avere il proprio nome trascritto nei registri parrocchiali, e poi presentarsi con gli stracci della vita antica.
Oggi la rinascita dalla crisi globale chiama a opzioni fondamentali, a cambiare radicalmente mentalità e realtà.
Bisogna davvero rinnovare il ‘vestiario’, ossia impostare le scelte su nuovi valori.
È opportuno ridiventare plastici, rimodellarci sulla Persona del Cristo, non rifiutare i mutamenti che stimolano - sino a costruire un comune progetto di vita, e riedificare il mondo attorno.
Tutti sono chiamati (v.14), però qualcuno non ha mantenuto il vestitino bianco del Battesimo. Ha totalmente cambiato corredo, purtroppo - malgrado in alcuni casi presieda e difenda l’istituzione.
Gesù riprende a parlare con i leaders e li offende senza mezze misure, perché non paragona il Regno del Padre a un’assemblea liturgica delle loro, quelle ben allestite, di grandi autorità, piena di artifici… bensì a una festa nuziale, senza sacri stendardi!
In quella semplicità festosa, nella franchezza immediata e gioconda di uno sposalizio c’è una realtà umana caratterizzante la condizione divina: la Gioia spontanea delle relazioni franche, a tu per tu - ormai smarrita nei formalismi della religione assuefatta.
La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti (che la sanno lunga) venerano un altro padrone: l’interesse.
L’opportunismo non può essere ingrediente del Sacro: il tornaconto ripiega le persone su di sé, chiude lo sguardo, rende unilaterali e cupi.
Consegna la Chiesa alle cordate.
Gesù si accorge: tutto quello che gli astuti e affezionati di messinscene facevano era funzione del loro utile. Infatti pensavano il Regno in modo elettivo, già selezionato [e commerciale, solito].
Come per gli operai dell’ultima ora [Mt 20,1-16] unica moneta per tutti è Cristo stesso. Ma ai veterani che si considerano primi della classe per diritto, la felicità delle persone non interessa.
Quindi il destino dei Profeti non era altro che l’esito disattento di calcoli spregevoli [in Luca 14,18-20 “normalissimi” doveri quotidiani] i quali però stavano portando il popolo a distruzione (v.7).
Lo sfondo della parabola è l’attrito fra giudei convertiti e pagani convertiti.
Considerandosi prescelti - “eletti” (v.14) - i primi si rifiutavano di spezzare il Pane, condividere e mettersi alla pari coi secondi.
Interessante invece che proprio i servitori fedeli, spingi spingi, si distinguessero a rovescio: già li si riconosceva perché in qualsiasi circostanza restavano disposti a entrare “ultimi” al Banchetto.
Insomma, lo spazio aperto dall’auto-esclusione del popolo chiamato per primo non sarebbe riuscita a mettere la parola “fine” agli sforzi di coloro che da sempre lottano per la vita e l'autenticità.
Gli alberi fruttiferi - sostiene Gesù, e lo vediamo anche oggi ovunque - non amano prevaricare: preferiscono produrre, senza rivendicazioni opportuniste, né invidie.
Rischiano, e occupano solo l’ultimo posto; per stare vicini agli incerti, e incoraggiarli.
Quindi al v.9 Mt non parla di andare nei crocicchi [traduzione CEI] bensì agli sbocchi delle vie [testo greco].
Papa Francesco direbbe: nelle periferie esistenziali, dove la vita non è scontata, ma pulsa sempre nuova. Lì dove non si può essere indifferenti.
Il termine greco indica la fine delle strade urbane (rassicuranti) e l’inizio dei sentieri poco curati e rischiosi.
Nella mentalità semitica, erano il confine del territorio puro e la soglia dei luoghi precari, contaminati.
Non solo: l’offerta d’amore di Dio raduna per primi i “cattivi” [«malvagi»: v.10 testo greco] per sottolineare che il Cielo non è ‘a punti’.
Esso è a disposizione dei bisognosi, di chi si riconosce tale.
Però tutti possono essere malvestiti fuori, non dentro: ossia vigili al fratello e diligenti.
Siamo chiamati ad abbandonare trascuratezze e noncuranze.
Per non creare confusione sul Volto di Dio e non rovinare la vita dei più motivati, all’interno della Chiesa è necessario un cambiamento di mentalità.
Una decisa sostituzione di princìpi e convenienze, rovesciando ogni ideologia piramidale, di tornaconto e di potere.
Per Fede che ci incorpora senza condizioni allo Sposo, l’abito pulito e fastoso è sempre messo a disposizione dal Padrone di Casa.
Ma indossarlo è frutto di una scelta consapevole, fatta propria: voler «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato» [Fratelli Tutti, n. 278].
Ovvero continueremo a subire il viaggio nel mondo parallelo - talora anche comunitario - dove tutto è scollegato e doppio: esito di pessimi indottrinamenti, corrotte opzioni e diaboliche ragioni.
Come se l’unico Dio adorato fosse ‘marketing e convenienza’.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ritieni diabolico e immagini possa allontanarti dalla via spirituale?Pensi a Dio in modo serioso o lo associ alla gioia di una festa di nozze?
Restituire a Dio l’immagine dell’umanità vera. Quale Sigla?
(Mt 22,15-21)
Dopo la cacciata dei venditori dal Tempio, l’obiezione sull’autorità e le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi, del banchetto rifiutato (riferite tutte all’élite), ecco un altro scontro fra Gesù e i leaders politici e religiosi - questi ultimi piazzati dietro le quinte.
Gesù (nei suoi) smantella sistematicamente le trappole allestite da direttori e soliti esperti.
Con sperimentata doppiezza, essi si accostano a Lui cercando di accarezzarne l’amor proprio (v.16: situazioni che capitano spesso anche ai testimoni critici).
L’interesse dei furbi si scontra però con l'attenzione del Cristo, tutto proteso al bene reale delle persone e al rispetto dell’intelligenza delle cose - non alla smania di approvazioni o all’opportunismo.
Proprio nel Tempio (Mt 21,23) - l’eminente Dimora del Dio unico Signore - questi gendarmi provocano il nuovo Rabbi sul pagamento delle tasse ai romani (22,17).
Sappiamo cosa c’era in ballo: l’accusa di non essere un profeta secondo il Diritto divino, o (viceversa) quella di collaborazionismo con gli occupanti.
Il Maestro non si lascia ingannare dall’ostentazione di vicinanza al Dio d’Israele - falsa perché cercata all’esterno - e li gioca facilmente.
Nel Tempio di Gerusalemme era vietato portare monete romane, che raffiguravano profili e insegne imperiali (contrarie al Comandamento “Non ti farai immagine alcuna”).
Egli però le chiede, perché effettivamente non ne aveva. Ma proprio i paludati gliene porgono una... La scena rasenta il ridicolo.
Traendo la moneta vietata dal sacchetto celato sotto il mantello, proprio i dirigenti palesano il loro vero Dio: l’interesse (ben nascosto sotto maniere devotissime e ostentate, che fanno solo da paravento).
Cristo invita a non lasciarci lusingare dalla doppiezza ostentata delle insegne: quel che conta è non ingannare la gente usando forme pie come maschera da teatranti (v.18 testo greco).
I fanatici della purezza vivono solo l’angolo epidermico; e ad esso si affidano: non di rado nascondono bene le medesime passioni materiali che disdegnano. Con Cristo non funziona.
Ciascuno è chiamato a restituire al suo vero signore l’immagine e somiglianza indelebile che vi è stata incisa. Dunque la moneta venga data indietro al suo padrone.
La donna e l’uomo - creature in cui è impressa l’immagine e somiglianza di Dio - restituiscano se stessi in autenticità, al Creatore (v.21) che dimora nella loro essenza di persone.
L'umanità è siglata da ben altra appartenenza intima e naturale, che quelle di comodo.
Eucaristia, gratuità e sconosciuti: inaudito o marketing
(Lc 14,15-24)
Gesù non paragona il Regno del Padre a un’assemblea solenne, bensì a una grande Cena!
La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti hanno altri impegni e interessi…
Dopo la distruzione del Tempio, il governo delle sinagoghe fu assunto dai farisei, salvatisi dal disastro perché il loro tradizionalismo non aveva esplicite venature politico-nazionaliste.
Ritenevano infatti che l’attesa del Messia non aveva nulla a che fare con la lotta contro Roma; in questo sembravano in sintonia coi cristiani.
Ma di continuo esigevano nei seguaci il rigido compimento delle norme che identificavano la religione giudaica tradizionale.
Dopo l’anno 70 tale pretesa li condusse a una sempre più ossessiva condanna dei giudei convertiti al Signore Gesù - e a fine secolo alla cacciata dalle sinagoghe.
I leaders religiosi fondamentalisti finirono quindi per emarginare anche socialmente i fedeli al più giovane Messia, rei di trascurare le distinzioni fra costumanze d’Israele e quelle di altri popoli.
Nelle comunità di Lc la situazione era meno lacerante, ma ugualmente viva.
I convertiti alla fede in Cristo provenivano in buona parte dal paganesimo, che nonostante diversità di bagaglio culturale e ceto, vivevano qua e là [senza quelle tare ideologiche puriste] l’ideale della condivisione e della comunione anche dei beni.
L’invito a prendere parte alla Festa è stato inizialmente rivolto ai figli d’Israele, che ancora paragonavano i tempi messianici a un grande Banchetto, caratterizzato da gratitudine e fraternità (interna).
Ma le difficoltà ad allargare i criteri di comunione venivano appunto dai convertiti dal giudaismo, che per lunga pratica conservavano l’usanza di non condividere il cibo coi lontani; così lo spezzare del Pane eucaristico.
Nell’ambito delle loro usanze e delle norme sacrali attestate nella Torah (Dt 20,5-7) il comportamento di coloro che rifiutano l’invito della parabola del Banchetto (vv.18-20) era legittimo dal punto di vista del diritto riconosciuto - non dell’amicizia.
È per accentuare il senso del gesto che il padrone della festa ordina ai servitori di raccogliere proprio coloro che erano socialmente esclusi dalla religione antica, perché considerati impuri: i pagani. Aperti all’attesa.
Cristo continua a tracciare una linea divisoria tra chi propugna un ordine e ideali intoccabili sopra la realtà umana, e coloro che essendo in periferia sono sempre ben disposti a partecipare alla Festa.
Non sono i “tutti preoccupati del rito”, delle maniere, dell’apparire; ma della vita che spargono.
Questi ultimi non si lasciano condizionare da privilegi, loro cose, e leggi: danno senza tenere conti a partita doppia, accettano con prontezza naturale; si rallegrano della realtà e non della distinzione fra sacro e profano. Non pensano di avere già la risposta, e non finiscono con l’esserne schiavi.
L’insegnamento di Gesù invita a non limitare gli affetti e non lasciarsi ingombrare il cuore dalle consuetudini, dalla mentalità particolare o corrente, da blocchi legalisti - o dalle ‘tante cose’.
Nell’assemblea dei figli non sono i ben provveduti [persone serie, piene d’impegni, che non hanno tempo da perdere, con troppi beni e inviti da gestire] ma la gente dappoco... che passa in primo piano... malgrado le scarse attitudini.
Tutto ciò, perché caratteristica dei Piccoli e pitocchi è la disponibilità a valicare steccati: ciò che rende atti a cogliere la convocazione di Dio.
I lontani - benché alle strette - riempiono la casa del Padre.
In società il povero è uno dei tanti, ma l’invito a Mensa gli trasmette il senso dei valori che non soffocano la vita di meschinità, e legami; anzi, l’indigente ha spesso una migliore comprensione delle cose divino-umane.
Questa sempre più cosciente rassomiglianza al Figlio di Dio si accentua nello stento dei mezzi “adeguati”: penuria che rende veri, che induce altri a riflettere - restando poco eclatanti, incapaci di fare fulmini.
Tale consapevolezza intima, luminosa, trasfigurante, impallidisce e si spegne nel vortice dei legalismi, delle convenzioni culturali.
Sembra attenuarsi nel moltiplicare vertiginoso delle attività - esse che non riformano: ci rendono esterni e condizionati dai vantaggi della sicurezza mondano-sacrale, purtroppo monopolista.
Un banchetto obbligatorio non sarebbe un Banchetto... certamente non è una Festa, un Dono da curare - confuso con vantaggi o perfezioni [pessima interpretazione dei circoli osservanti cocciuti].
Per questo motivo molti preferiscono il loro purgatorio particolare al Cielo sulla terra che il Padre offre.
La nostra solidarietà non è un fatto di simpatia, interessi comuni e spirito di corpo, bensì il risultato di una Chiamata estesa, di un’unica Vita potente che circola in tutti, rispettandone libertà e realtà - nonché le fasi di mutamento.
Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti (nn.13-15, passim) secondo il passo di Lc bisogna rimanere attenti a non impoverire la vita di Fede, trasformandola in un distaccato impegno alla «colonizzazione culturale».
Se così fosse, anche l’orizzonte universale-cattolico d’una convivialità delle differenze si dissolverebbe in un invito troppo normalizzato, assolutamente prevedibile, infine desertico.
Il rifiuto ingessato o interessato al Banchetto recherebbe con sé - come sotto i nostri occhi - l’«ulteriore disgregazione» del «pensiero critico», dell’azione «per la giustizia», dei suoi «percorsi d’integrazione».
Anche la società ecclesiale può infatti correre il rischio di «alterare le grandi parole», «rischiare d’impoverirsi»; quindi «ridursi alla prepotenza del più forte» e alle «ricette solo effimere di marketing, che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace».
Ma il popolo di Dio non può vivere in un mondo parallelo, scollegato e doppio - come se l’unico Eterno adorato fosse un coacervo di astuzie, marketing e convenienza.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa trasmette l’Eucaristia nella tua realtà ecclesiale o di gruppo? Che invito particolare e speciale comunica?
Gesù nel Vangelo ci parla della risposta che viene data all’invito di Dio - rappresentato da un re - a partecipare a questo suo banchetto (cfr Mt 22,1-14). Gli invitati sono molti, ma avviene qualcosa di inaspettato: si rifiutano di partecipare alla festa, hanno altro da fare; anzi alcuni mostrano di disprezzare l’invito. Dio è generoso verso di noi, ci offre la sua amicizia, i suoi doni, la sua gioia, ma spesso noi non accogliamo le sue parole, mostriamo più interesse per altre cose, mettiamo al primo posto le nostre preoccupazioni materiali, i nostri interessi. L’invito del re incontra addirittura reazioni ostili, aggressive. Ma ciò non frena la sua generosità. Egli non si scoraggia, e manda i suoi servi ad invitare molte altre persone. Il rifiuto dei primi invitati ha come effetto l’estensione dell’invito a tutti, anche ai più poveri, abbandonati e diseredati. I servi radunano tutti quelli che trovano, e la sala si riempie: la bontà del re non ha confini e a tutti è data la possibilità di rispondere alla sua chiamata. Ma c’è una condizione per restare a questo banchetto di nozze: indossare l’abito nuziale. Ed entrando nella sala, il re scorge qualcuno che non l’ha voluto indossare e, per questa ragione, viene escluso dalla festa. Vorrei fermarmi un momento su questo punto con una domanda: come mai questo commensale ha accettato l’invito del re, è entrato nella sala del banchetto, gli è stata aperta la porta, ma non ha messo l’abito nuziale? Cos’è quest’abito nuziale? Nella Messa in Coena Domini di quest’anno ho fatto riferimento a un bel commento di san Gregorio Magno a questa parabola. Egli spiega che quel commensale ha risposto all’invito di Dio a partecipare al suo banchetto, ha, in un certo modo, la fede che gli ha aperto la porta della sala, ma gli manca qualcosa di essenziale: la veste nuziale, che è la carità, l’amore. E san Gregorio aggiunge: “Ognuno di voi, dunque, che nella Chiesa ha fede in Dio ha già preso parte al banchetto di nozze, ma non può dire di avere la veste nuziale se non custodisce la grazia della Carità” (Homilia 38,9: PL 76,1287). E questa veste è intessuta simbolicamente di due legni, uno in alto e l’altro in basso: l’amore di Dio e l’amore del prossimo (cfr ibid.,10: PL 76,1288). Tutti noi siamo invitati ad essere commensali del Signore, ad entrare con la fede al suo banchetto, ma dobbiamo indossare e custodire l’abito nuziale, la carità, vivere un profondo amore a Dio e al prossimo.
[Papa Benedetto, omelia a Lamezia Terme 9 ottobre 2011]
2. Dice Gesù: “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio” (Mt 22, 2). La parabola del banchetto nuziale presenta il Regno di Dio come un’iniziativa regale - e dunque sovrana - di Dio stesso. Essa include anche il tema dell’amore, e precisamente dell’amore sponsale: il figlio per il quale il padre prepara il banchetto di nozze è lo sposo.
Anche se in questa parabola non viene chiamata per nome la sposa, le circostanze indicano la sua presenza, e lasciano capire bene chi è. Ciò apparirà chiaramente in altri testi del Nuovo Testamento, che identificano la Chiesa con la Sposa (Gv 3, 29; Ap 21, 9; 2 Cor 11, 2; Ef 5, 23-27.29).
3. Invece nella parabola è contenuta chiaramente l’indicazione dello Sposo, che è il Cristo, il quale attua l’Alleanza nuova del Padre con l’umanità. Questa è un’alleanza d’amore, e il Regno stesso di Dio appare come una comunione (comunità d’amore), che il Figlio attua per volere del Padre. Il “banchetto” è l’espressione di questa comunione. Nel contesto dell’economia della salvezza descritta dal Vangelo, non è difficile scorgere in questo banchetto nuziale in riferimento all’Eucaristia: il sacramento della nuova ed eterna Alleanza, il sacramento delle nozze sponsali di Cristo con l’umanità nella Chiesa.
4. Anche se la Chiesa come Sposa non è nominata nella parabola, si trovano nel contesto di questa altri elementi che richiamano ciò che il Vangelo ci dice sulla Chiesa come Regno di Dio. Così l’universalità dell’invito divino: “Il Re dice ai suoi servi: “Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”” (Mt 22, 9).
Tra gli invitati al banchetto nuziale del Figlio mancano quelli scelti per primi: quelli che dovevano essere ospiti secondo la tradizione dell’antica Alleanza. Questi si rifiutano di andare al banchetto della nuova Alleanza, adducendo diversi pretesti. Allora Gesù fa dire al Re, padrone di casa: “Molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22, 14). Al loro posto l’invito viene rivolto a molti altri, che affollano la sala del banchetto. Il particolare fa pensare a quell’altra parola ammonitrice che aveva pronunciato Gesù: “Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori” (Mt 8, 11-12). Qui si vede bene come l’invito diventa universale: Dio intende stringere la nuova Alleanza nel suo Figlio non più con il solo popolo eletto, ma con l’intera umanità.
5. Il seguito della parabola indica che la partecipazione definitiva al banchetto nuziale è legata a certe condizioni essenziali. Non basta essere entrati nella Chiesa per essere sicuri della salvezza eterna: “Amico, come hai potuto entrare qui senza abito nuziale?” (Mt 22, 12), domanda il Re ad uno degli invitati. La parabola, che a questo punto sembra passare dal problema del rifiuto storico della elezione da parte del popolo d’Israele al comportamento individuale di chiunque sia chiamato e sul giudizio che su di lui sarà pronunciato, non precisa il significato di quell’“abito”. Ma si può dire che la spiegazione si trova nell’insieme dell’insegnamento di Cristo. Il Vangelo, in particolare il discorso della montagna, parla del comandamento dell’amore, che è il principio della vita divina e della perfezione sul modello del Padre: “Siate . . . perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Si tratta di quel “comandamento nuovo”, che, come insegna Gesù, consiste in questo: “Come io vi ho amato così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Sembra dunque si possa concludere che l’“abito nuziale”, come condizione per partecipare al banchetto, è proprio quest’amore.
Il che viene confermato da un’altra grande parabola, riguardante il giudizio finale, e quindi di carattere escatologico. Soltanto coloro che attuano il comandamento dell’amore nelle opere di misericordia spirituale e corporale verso il prossimo possono prendere parte al banchetto del Regno di Dio: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25, 34).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 18 settembre 1991]
Con il racconto della parabola del banchetto nuziale, dell’odierna pagina evangelica (cfr Mt 22,1-14), Gesù delinea il progetto che Dio ha pensato per l’umanità. Il re che «fece una festa di nozze per suo figlio» (v. 2), è immagine del Padre che ha predisposto per tutta la famiglia umana una meravigliosa festa di amore e di comunione intorno al suo Figlio unigenito. Per ben due volte il re manda i suoi servi a chiamare gli invitati ma questi rifiutano, non vogliono andare alla festa perché hanno altro a cui pensare: campi e gli affari. Tante volte anche noi anteponiamo i nostri interessi e le cose materiali al Signore che ci chiama – e ci chiama a una festa. Ma il re della parabola non vuole che la sala resti vuota, perché desidera donare i tesori del suo regno. Allora dice ai servi: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli» (v. 9). Così si comporta Dio: quando è rifiutato, invece di arrendersi, rilancia e invita a chiamare tutti quelli che si trovano ai crocicchi delle strade, senza escludere nessuno. Nessuno è escluso dalla casa di Dio.
Il termine originale che utilizza l’evangelista Matteo fa riferimento ai limiti delle strade, ossia quei punti in cui le strade di città terminano e iniziano i sentieri che conducono alla zona di campagna, fuori dall’abitato, dove la vita è precaria. È a questa umanità dei crocicchi che il re della parabola invia i suoi servi, nella certezza di trovare gente disposta a sedersi a mensa. Così la sala del banchetto si riempie di “esclusi”, quelli che sono “fuori”, di coloro che non erano mai sembrati degni di partecipare a una festa, a un banchetto nuziale. Anzi: il padrone, il re, dice ai messaggeri: “Chiamate tutti, buoni e cattivi. Tutti!”. Dio chiama pure i cattivi. “No, io sono cattivo, ne ho fatte tante …”. Ti chiama: “Vieni, vieni, vieni!”. E Gesù andava a pranzo con i pubblicani, che erano i peccatori pubblici, erano i cattivi. Dio non ha paura della nostra anima ferita da tante cattiverie, perché ci ama, ci invita. E la Chiesa è chiamata a raggiungere i crocicchi odierni, cioè le periferie geografiche ed esistenziali dell’umanità, quei luoghi ai margini, quelle situazioni in cui si trovano accampati e vivono brandelli di umanità senza speranza. Si tratta di non adagiarsi sui comodi e abituali modi di evangelizzazione e di testimonianza della carità, ma di aprire le porte del nostro cuore e delle nostre comunità a tutti, perché il Vangelo non è riservato a pochi eletti. Anche quanti stanno ai margini, perfino coloro che sono respinti e disprezzati dalla società, sono considerati da Dio degni del suo amore. Per tutti Egli apparecchia il suo banchetto: giusti e peccatori, buoni e cattivi, intelligenti e incolti. Ieri sera, sono riuscito a fare una telefonata a un anziano prete italiano, missionario dalla gioventù in Brasile, ma sempre lavorando con gli esclusi, con i poveri. E vive quella vecchiaia in pace: ha bruciato la sua vita con i poveri. Questa è la nostra Madre Chiesa, questo è il messaggero di Dio che va agli incroci dei cammini.
Tuttavia, il Signore pone una condizione: indossare l’abito nuziale. E torniamo alla parabola. Quando la sala è piena, arriva il re e saluta gli invitati dell’ultima ora, ma vede uno di loro senza l’abito nuziale, quella specie di mantellina che all’entrata ciascun invitato riceveva in dono. La gente andava come era vestita, come poteva essere vestita, non indossava abiti di gala. Ma all’entrata veniva loro data una specie di mantellina, un regalo. Quel tale, avendo rifiutato il dono gratuito, si è autoescluso: così il re non può fare altro che gettarlo fuori. Quest’uomo ha accolto l’invito, ma poi ha deciso che esso non significava nulla per lui: era una persona autosufficiente, non aveva alcun desiderio di cambiare o di lasciare che il Signore lo cambiasse. L’abito nuziale – questa mantellina – simboleggia la misericordia che Dio ci dona gratuitamente, cioè la grazia. Senza grazia non si può fare un passo avanti nella vita cristiana. Tutto è grazia. Non basta accettare l’invito a seguire il Signore, occorre essere disponibili a un cammino di conversione, che cambia il cuore. L’abito della misericordia, che Dio ci offre incessantemente, è un dono gratuito del suo amore, è proprio la grazia. E richiede di essere accolto con stupore e con gioia: “Grazie, Signore, per avermi dato questo dono”.
Maria Santissima ci aiuti a imitare i servi della parabola evangelica nell’uscire dai nostri schemi e dalle nostre vedute ristrette, annunciando a tutti che il Signore ci invita al suo banchetto, per offrirci la grazia che salva, per darci il suo dono.
[Papa Francesco, Angelus 11 ottobre 2020]
(Moneta unica e smart working: l’Amore)
(Mt 20,1-16)
Nell'atrio del tempio di Gerusalemme, il rampicante del portale era simbolo dei doni che il popolo era chiamato a presentare a Dio: accoglienza reciproca, comprensione, condivisione... per la felicità di tutti.
Ovvio che entrare all'inizio della giornata (ossia, della nostra esistenza) in questa logica dell'amore è meglio che entrare all'ultima ora.
Essere in comunione con Dio, stare nella sua Vigna e aver avuto la grazia di non perdere neppure un istante di vita senza la sua Presenza è un «portare il peso» o viceversa un piacere?
I credenti della prima ora si sentono profondamente offesi, perché sotto sotto identificano il “vantaggio” con ciò che si sono sempre negati.
Pensano il “godersi la vita” allo stesso modo dei pagani! Il lavoro è infatti... «sopportato» [v.12: notare il verbo!].
Ebbene, Dio non ha operai a stipendio: solo figli; nessun subalterno. E nessuno di noi è trascurabile per “inefficienza”.
Quello dei modelli è un effetto bloccante; legato a paragoni insignificanti.
Non in sincronia profonda con se stessi [vv.6-7].
Il Vangelo di Mt nasce da comunità siro-palestinesi, le quali iniziavano a fare esperienza di pagani e peccatori che accorrevano numerosi e stavano diventando maggioranza numerica.
L’atteggiamento dei forestieri che si presentavano alle porte delle comunità era molto più libero di quello dei veterani imbarazzati.
La nuova mentalità, sciolta da vincoli, provocava gelosie tra coloro che erano abituati a scrutare la vita altrui - quasi per dovere religioso.
In fondo, quella dei principianti e ‘meticci’ che volevano iniziare un cammino d’amore non era che un riflesso della fluidità sovrabbondante dei Doni divini.
‘Gratis’: comunicato senza diffidenze né esclusioni; non sulla base di meriti precedenti, bensì senza necessario contraccambio - e in forza del solo bisogno.
Pertanto, il brano di oggi resta un Richiamo forte.
L’importanza del lavoro induce il Padrone a non mandare il suo fattore (!) di cui sa purtroppo di non potersi fidare pienamente.
Egli stesso esce ripetutamente e non vuole interferenze dirigiste, nel chiamare personalmente gli operai.
Unico a capire: non è mai troppo tardi!
L’insegnamento è appunto per i responsabili di comunità, i quali spesso non si accollano l’onere di scomodarsi da casa alla continua ricerca di tutti, e adattarsi loro a persone e vicende.
Il Padre vuole invece una Famiglia (Vigna) che presenti al mondo il dolce e zuccherino frutto della Festa - unica cosa davvero importante, principio non negoziabile.
Così, ai sempre morbosi primi della classe il Signore continua a fare un “dispetto” assai educativo.
Già in vita devono scoprire che Egli non discrimina sulla base di percentuali redditizie esterne, o altrui stati mentali negativi.
“Paga” tutti senza riserve e con «moneta» unica: la sua Persona. Nessun pilota automatico è abilitato a turbare il nostro respiro.
Conta l’anima, non il curriculum o la prestazione.
[Mercoledì 20.a sett. T.O. 20 agosto 2025]
The invitation has three characteristics: freely offered, breadth and universality. Many people were invited, but something surprising happened: none of the intended guests came to take part in the feast, saying they had other things to do; indeed, some were even indifferent, impertinent, even annoyed (Pope Francis)
L’invito ha tre caratteristiche: la gratuità, la larghezza, l’universalità. Gli invitati sono tanti, ma avviene qualcosa di sorprendente: nessuno dei prescelti accetta di prendere parte alla festa, dicono che hanno altro da fare; anzi alcuni mostrano indifferenza, estraneità, perfino fastidio (Papa Francesco)
Those who are considered the "last", if they accept, become the "first", whereas the "first" can risk becoming the "last" (Pope Benedict)
Proprio quelli che sono considerati "ultimi", se lo accettano, diventano "primi", mentre i "primi" possono rischiare di finire "ultimi" (Papa Benedetto)
St Clement of Alexandria commented: “Let [the parable] teach the prosperous that they are not to neglect their own salvation, as if they had been already foredoomed, nor, on the other hand, to cast wealth into the sea, or condemn it as a traitor and an enemy to life, but learn in what way and how to use wealth and obtain life” (Who is the Rich Man That Shall Be Saved, 27, 1-2) [Pope Benedict]
Così commenta San Clemente di Alessandria: «La parabola insegni ai ricchi che non devono trascurare la loro salvezza come se fossero già condannati, né devono buttare a mare la ricchezza né condannarla come insidiosa e ostile alla vita, ma devono imparare in quale modo usare la ricchezza e procurarsi la vita» (Quale ricco si salverà?, 27, 1-2) [Papa Benedetto]
The dialogue of Jesus with the rich young man, related in the nineteenth chapter of Saint Matthew's Gospel, can serve as a useful guide for listening once more in a lively and direct way to his moral teaching [Veritatis Splendor n.6]
Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale [Veritatis Splendor n.6]
The Gospel for this Sunday (Lk 12:49-53) is part of Jesus’ teachings to the disciples during his journey to Jerusalem, where death on the cross awaits him. To explain the purpose of his mission, he takes three images: fire, baptism and division [Pope Francis]
Il Vangelo di questa domenica (Lc 12,49-53) fa parte degli insegnamenti di Gesù rivolti ai discepoli lungo la sua salita verso Gerusalemme, dove l’attende la morte in croce. Per indicare lo scopo della sua missione, Egli si serve di tre immagini: il fuoco, il battesimo e la divisione [Papa Francesco]
«And they were certainly inspired by God those who, in ancient times, called Porziuncola the place that fell to those who absolutely did not want to own anything on this earth» (FF 604)
«E furono di certo ispirati da Dio quelli che, anticamente, chiamarono Porziuncola il luogo che toccò in sorte a coloro che non volevano assolutamente possedere nulla su questa terra» (FF 604)
It is a huge message of hope for each of us, for you whose days are always the same, tiring and often difficult. Mary reminds you today that God calls you too to this glorious destiny (Pope Francis)
È un grande messaggio di speranza per ognuno noi; per te, che vivi giornate uguali, faticose e spesso difficili. Maria ti ricorda oggi che Dio chiama anche te a questo destino di gloria (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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