Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Nel Vangelo dell’odierna domenica, l’insegnamento di Gesù riguarda proprio la vera saggezza ed è introdotto dalla domanda di uno della folla: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità» (Lc 12,13). Gesù, rispondendo, mette in guardia gli ascoltatori dalla brama dei beni terreni con la parabola del ricco stolto, il quale, avendo accumulato per sé un abbondante raccolto, smette di lavorare, consuma i suoi beni divertendosi e s’illude persino di poter allontanare la morte. «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”» (Lc 13,20). L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza. L’uomo che confida nel Signore, invece, non teme le avversità della vita, neppure la realtà ineludibile della morte: è l’uomo che ha acquistato “un cuore saggio”, come i Santi.
[Papa Benedetto, Angelus 1 agosto 2010]
1. La nostra meditazione sul Salmo 48 sarà scandita in due tappe, proprio come fa la Liturgia dei Vespri, che ce lo propone in due tempi. Ne commenteremo ora in modo essenziale la prima parte, nella quale la riflessione prende lo spunto da una situazione di disagio, come nel Salmo 72. Il giusto deve affrontare «giorni tristi», perché lo «circonda la malizia dei perversi», i quali «si vantano della loro grande ricchezza» (cfr Sal 48,6-7).
La conclusione a cui il giusto arriva è formulata come una sorta di proverbio, che si ritroverà anche nella finale dell’intero Salmo. Essa sintetizza in modo limpido il messaggio dominante della composizione poetica: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (v. 13). In altri termini, la «grande ricchezza» non è un vantaggio, anzi! Meglio è essere povero e unito a Dio.
2. Nel proverbio sembra echeggiare la voce austera di un antico sapiente biblico, l’Ecclesiaste o Qoelet, quando descrive il destino apparentemente uguale di ogni creatura vivente, quello della morte, che rende del tutto vano l’aggrapparsi frenetico alle cose terrene: «Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così se ne andrà di nuovo come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé… Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli... Tutti sono diretti verso la medesima dimora» (Qo 5,14; 3,19.20).
3. Un’ottusità profonda s’impadronisce dell’uomo quando s’illude di evitare la morte affannandosi ad accumulare beni materiali: non per nulla il Salmista parla di un «non comprendere» di impronta quasi bestiale.
Il tema sarà, comunque, esplorato da tutte le culture e da tutte le spiritualità e sarà espresso nella sua sostanza in modo definitivo da Gesù che dichiara: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). Egli narra poi la famosa parabola del ricco insipiente, che accumula beni a dismisura senza immaginare l’agguato che la morte gli sta tendendo (cfr Lc 12,16-21).
4. La prima parte del Salmo è tutta centrata proprio su questa illusione che conquista il cuore del ricco. Costui è convinto di riuscire a «comprarsi» anche la morte, tentando quasi di corromperla, un po’ come ha fatto per avere tutte le altre cose, ossia il successo, il trionfo sugli altri in ambito sociale e politico, la prevaricazione impunita, la sazietà, le comodità, i piaceri.
Ma il Salmista non esita a bollare come stolta questa pretesa. Egli fa ricorso a un vocabolo che ha un valore anche finanziario, «riscatto»: «Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba» (Sal 48,8-10).
5. Il ricco, aggrappato alle sue immense fortune, è convinto di riuscire a dominare anche la morte, così come ha spadroneggiato su tutto e su tutti col denaro. Ma per quanto ingente sia la somma che è pronto ad offrire, il suo destino ultimo sarà inesorabile. Egli, infatti, come tutti gli uomini e le donne, ricchi o poveri, sapienti o stolti, dovrà avviarsi alla tomba, così come è accaduto anche ai potenti e dovrà lasciare sulla terra quell’oro tanto amato, quei beni materiali tanto idolatrati (cfr vv. 11-12).
Gesù insinuerà ai suoi ascoltatori questa domanda inquietante: «Che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16,26). Nessun cambio è possibile perché la vita è dono di Dio, che «ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio d’ogni carne umana» (Gb 12,10).
6. Tra i Padri che hanno commentato il Salmo 48 merita un’attenzione particolare sant’Ambrogio, che ne allarga il senso secondo una visione più ampia, proprio a partire dall’invito iniziale del Salmista: «Ascoltate, popoli tutti, porgete l’orecchio, abitanti del mondo».
L’antico Vescovo di Milano commenta: «Riconosciamo qui, proprio all’inizio, la voce del Signore salvatore che chiama i popoli alla Chiesa, perché rinuncino al peccato, diventino seguaci della verità e riconoscano il vantaggio della fede». Del resto, «tutti i cuori delle varie generazioni umane erano inquinati dal veleno del serpente e la coscienza umana, schiava del peccato, non era in grado di staccarsene». Per questo il Signore «di sua iniziativa promette il perdono nella generosità della sua misericordia, perché il colpevole non abbia più paura, ma, in piena consapevolezza, si rallegri di dover offrire ora i suoi uffici di servo al Signore buono, che ha saputo perdonare i peccati, premiare le virtù» (Commento a dodici Salmi, n. 1: SAEMO, VIII, Milano-Roma 1980, p. 253).
7. In queste parole del Salmo si sente riecheggiare l’invito evangelico: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi» (Mt 11,28). Ambrogio continua: «Come uno che verrà a visitare gli ammalati, come un medico che verrà a curare le nostre piaghe dolorose, così egli ci prospetta la cura, perché gli uomini lo sentano bene e tutti corrano con fiduciosa sollecitudine a ricevere il rimedio della guarigione… Chiama tutti i popoli alla sorgente della sapienza e della conoscenza, promette a tutti la redenzione, perché nessuno viva nell’angoscia, nessuno viva nella disperazione» (n. 2: ibid., pp. 253.255).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 20 ottobre 2004]
Il Vangelo di oggi (cfr Lc 12, 13-21) si apre con la scena di un tale che si alza tra la folla e chiede a Gesù di dirimere una questione giuridica circa l’eredità di famiglia. Ma Egli nella risposta non affronta la questione, ed esorta a rimanere lontano dalla cupidigia, cioè dall’avidità di possedere. Per distogliere i suoi ascoltatori da questa ricerca affannosa della ricchezza, Gesù racconta la parabola del ricco stolto, che crede di essere felice perché ha avuto la fortuna di una annata eccezionale e si sente sicuro per i beni accumulati. Sarà bello che oggi voi la leggiate; è nel capitolo dodicesimo di San Luca, versetto 13. È una bella parabola che ci insegna tanto. Il racconto entra nel vivo quando emerge la contrapposizione tra quanto il ricco progetta per se stesso e quanto invece Dio gli prospetta.
Il ricco mette davanti alla sua anima, cioè a se stesso, tre considerazioni: i molti beni ammassati, i molti anni che questi beni sembrano assicurargli e terzo, la tranquillità e il benessere sfrenato (cfr v.19). Ma la parola che Dio gli rivolge annulla questi suoi progetti. Invece dei «molti anni», Dio indica l’immediatezza di «questa notte; stanotte morirai»; al posto del «godimento della vita» Gli presenta il «rendere la vita; renderai la vita a Dio», con il conseguente giudizio. Per quanto riguarda la realtà dei molti beni accumulati su cui il ricco doveva fondare tutto, essa viene ricoperta dal sarcasmo della domanda: «E quello che ha preparato, di chi sarà?» (v.20). Pensiamo alle lotte per le eredità; tante lotte di famiglia. E tanta gente, tutti sappiamo qualche storia, che all’ora della morte incomincia a venire: i nipoti, i nipotini vengono a vedere: “Ma cosa tocca a me?”, e portano via tutto. È in questa contrapposizione che si giustifica l’appellativo di «stolto» - perché pensa a cose che lui crede essere concrete ma sono una fantasia - con cui Dio si rivolge a quest’uomo. Egli è stolto perché nella prassi ha rinnegato Dio, non ha fatto i conti con Lui.
La conclusione della parabola, formulata dall’evangelista, è di singolare efficacia: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (v.21). È un ammonimento che rivela l’orizzonte verso cui tutti noi siamo chiamati a guardare. I beni materiali sono necessari – sono beni! -, ma sono un mezzo per vivere onestamente e nella condivisone con i più bisognosi. Gesù oggi ci invita a considerare che le ricchezze possono incatenare il cuore e distoglierlo dal vero tesoro che è nei cieli. Ce lo ricorda anche San Paolo nell’odierna seconda lettura. Dice così: «Cercate le cose di lassù. … rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2).
Questo – si capisce - non vuol dire estraniarsi dalla realtà, ma cercare le cose che hanno un vero valore: la giustizia, la solidarietà, l’accoglienza, la fraternità, la pace, tutte cose che costituiscono la vera dignità dell’uomo. Si tratta di tendere ad una vita realizzata non secondo lo stile mondano, bensì secondo lo stile evangelico: amare Dio con tutto il nostro essere, e amare il prossimo come lo ha amato Gesù, cioè nel servizio e nel dono di sé. La cupidigia dei beni, la voglia di avere beni, non sazia il cuore, anzi provoca di più fame! La cupidigia è come quelle buone caramelle: tu ne prendi una e dice: “Ah! Che buona”, e poi prendi l’altra; e una tira l’altra. Così è la cupidigia: non si sazia mai. State attenti! L’amore così inteso e vissuto è la fonte della vera felicità, mentre la ricerca smisurata dei beni materiali e delle ricchezze è spesso sorgente di inquietudine, di avversità, di prevaricazioni, di guerre. Tante guerre incominciano per la cupidigia.
La Vergine Maria ci aiuti a non lasciarci affascinare dalle sicurezze che passano, ma ad essere ogni giorno credibili testimoni dei valori eterni del Vangelo.
[Papa Francesco, Angelus 4 agosto 2019]
Profezia, Rivelazione
(Mt 14,1-12)
Chi è ammantato di lustro e potere diventa ambizioso, sfrontato e disposto ad ogni violenza per un falso punto d’onore.
Il coraggioso che denuncia soprusi viene stroncato, ma la voce del suo martirio non tacerà più. Per questo l’episodio non induce Gesù a maggiore prudenza.
I tiranni si fanno beffe dell’isolato, scomodo e indifeso, ma capi e potenti sono anche vigliacchi: non intendono alienarsi la fama popolare.
Oltre che smidollato, qui Erode Antipa appare superstizioso, addirittura influenzato da credenze ellenistiche sulla riapparizione dei morti.
In aggiunta, egli pensava gli uomini di Dio come facitori di miracoli - termine ambiguo, che la nuova traduzione CEI evita (cf. v.2).
Gesù non ha mai frequentato la nuova capitale erodiana, Tiberiade, la città dei palazzi di corte, costruita in diplomatico omaggio all’imperatore romano - dopo Sefforis, dove anche Gesù ha lavorato.
La religiosità generica e confusionaria può adattarsi a ogni stagione ed esser fatta propria anche da chi pensa che la vita altrui non valga nulla, ma un Profeta non si assesta al capriccio di sistemi corrotti.
Nei villaggi palestinesi la vita della gente era vessata da balzelli e abusi di latifondisti [che neppure risiedevano in loco] e controllata dal perfetto connubio d’interessi fra potere civile e religioso.
I leaders della fede popolare, ortodossa, subalterna e confacente, erano a guinzaglio delle autorità sul territorio, le quali si consideravano definitive e trovavano forza nella coalizione.
Sembrava assurdo che in quella società qualcuno osasse infrangere il muro omertoso che garantiva ai facinorosi - alle guide, ai prepotenti persino d’infimo livello - di considerarsi intoccabili.
Di fronte al ricatto (senza troppi complimenti) dei privilegiati che avevano il controllo d’ogni ceto sociale e culturale, pareva impossibile iniziare un nuovo cammino, o dire e fare qualsiasi cosa non allineata.
La domanda su «Gesù, Chi è?» cresce lungo tutti i Vangeli.
Il bilancio delle opinioni della gente (es: Mt 14,1-2; Mc 6,14-16; Lc 9,7-9) lascia intendere che anche attorno alle prime assemblee di credenti si tentava di capire Cristo a partire da quanto si sapeva già [dai criteri delle Scritture e della tradizione, dalle credenze e suggestioni antiche - persino superstiziose].
Ma l’uomo di Dio non è semplice purificatore del Tempio, né un rabberciatore della religiosità conformista. Egli capovolge le speranze popolaresche, emotive o standard.
In tal guisa, ogni Profeta inquieta tutti i personaggi “di rango”, che detengono l’esclusiva.
Giovanni e Gesù sfidano e attraggono su di sé le vendette di coloro che tentano di perpetuare le prerogative del cosmo antiquato, e le rabbie di quanti vengono smascherati nelle loro ipocrisie.
È la difficoltà reale che incontra l’Annuncio del nuovo Regno nel mondo.
Il suo rifiuto sprezzante e ogni tentativo di omicidio saranno una cartina al tornasole della nostra singolare e rinnovata testimonianza, la cui rivelazione correrà parallela ai Due.
[Sabato 17.a sett. T.O. 2 agosto 2025]
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio, dalla preghiera, che è il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Giovanni è il dono divino lungamente invocato dai suoi genitori, Zaccaria ed Elisabetta (cfr Lc 1,13); un dono grande, umanamente insperabile, perché entrambi erano avanti negli anni ed Elisabetta era sterile (cfr Lc 1,7); ma nulla è impossibile a Dio (cfr Lc 1,36). L’annuncio di questa nascita avviene proprio nel luogo della preghiera, al tempio di Gerusalemme, anzi avviene quando a Zaccaria tocca il grande privilegio di entrare nel luogo più sacro del tempio per fare l’offerta dell’incenso al Signore (cfr Lc 1,8-20). Anche la nascita del Battista è segnata dalla preghiera: il canto di gioia, di lode e di ringraziamento che Zaccaria eleva al Signore e che recitiamo ogni mattina nelle Lodi, il «Benedictus», esalta l’azione di Dio nella storia e indica profeticamente la missione del figlio Giovanni: precedere il Figlio di Dio fattosi carne per preparargli le strade (cfr Lc 1,67-79). L’esistenza intera del Precursore di Gesù è alimentata dal rapporto con Dio, in particolare il periodo trascorso in regioni deserte (cfr Lc 1,80); le regioni deserte che sono luogo della tentazione, ma anche luogo in cui l’uomo sente la propria povertà perché privo di appoggi e sicurezze materiali, e comprende come l’unico punto di riferimento solido rimane Dio stesso. Ma Giovanni Battista non è solo uomo di preghiera, del contatto permanente con Dio, ma anche una guida a questo rapporto. L’Evangelista Luca riportando la preghiera che Gesù insegna ai discepoli, il «Padre nostro», annota che la richiesta viene formulata dai discepoli con queste parole: «Signore insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (cfr Lc 11,1).
Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità. La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio. La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 29 agosto 2012]
1. […] la tradizione cristiana fa memoria del martirio di San Giovanni Battista, "il più grande fra i nati di donna", secondo l’elogio del Messia stesso (cfr Lc 7, 28). Egli rese a Dio la suprema testimonianza del sangue immolando la sua esistenza per la verità e la giustizia; fu infatti decapitato per ordine di Erode, al quale aveva osato dire che non gli era lecito tenere la moglie di suo fratello (cfr Mt 6, 17 – 29).
2. Nell’Enciclica Veritatis splendor, ricordando il sacrificio di Giovanni Battista (cfr n.91), notavo che il martirio è "un segno preclaro della santità della Chiesa" (n.93). Esso infatti "rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale" (ibid.). Se relativamente pochi sono chiamati al sacrificio supremo, vi è però "una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici" (ibid.). Ci vuole davvero un impegno talvolta eroico per non cedere, anche nella vita quotidiana, alle difficoltà che spingono al compromesso e per vivere il Vangelo "sine glossa".
3. L’eroico esempio di Giovanni Battista fa pensare ai martiri della fede che lungo i secoli hanno seguito coraggiosamente le sue orme. In modo speciale, mi tornano alla mente i numerosi cristiani, che nel secolo scorso sono stati vittime dell’odio religioso in diverse nazioni d’Europa. Anche oggi, in alcune parti del mondo, i credenti continuano ad essere sottoposti a dure prove per la loro adesione a Cristo e alla sua Chiesa.
Sentano questi nostri fratelli e sorelle la piena solidarietà dell’intera comunità ecclesiale! Li affidiamo alla Vergine Santa, Regina dei martiri, che ora insieme invochiamo.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 29 agosto 2004]
Un uomo, Giovanni, e una strada, che è quella di Gesù, indicata dal Battista, ma è anche la nostra, nella quale tutti siamo chiamati al momento della prova.
Parte dalla figura di Giovanni, «il grande Giovanni: al dire di Gesù “l’uomo più grande nato da donna”» la riflessione di Papa Francesco nella messa celebrata a Santa Marta venerdì 6 febbraio. Il vangelo di Marco (6, 14-29) racconta della prigionia e del martirio di quest’«uomo fedele alla sua missione; l’uomo che ha sofferto tante tentazioni» e che «mai, mai ha tradito la sua vocazione». Un uomo «fedele» e «di grande autorità, rispettato da tutti: il grande di quel tempo».
Papa Francesco si è soffermato ad analizzare la sua figura: «Quello che gli usciva dalla bocca era giusto. Il suo cuore era giusto». Era tanto grande che «Gesù dirà anche di lui che “è Elia che è tornato, per pulire la casa, per preparare il cammino”». E Giovanni «era cosciente che il suo dovere era soltanto annunziare: annunziare la prossimità del Messia. Lui era cosciente, come ci fa riflettere sant’Agostino, che lui era la voce soltanto, la Parola era un altro». Anche quando «è stato tentato di “rapinare” questa verità, lui è rimasto giusto: “Io non sono, dietro di me viene, ma io non sono: io sono il servo; io sono il servitore; io sono quello che apre le porte, perché lui venga».
A questo punto il Pontefice ha introdotto il concetto di strada, perché, ha ricordato: «Giovanni è il precursore: precursore non solo della entrata del Signore nella vita pubblica, ma di tutta la vita del Signore». Il Battista «va avanti nel cammino del Signore; dà testimonianza del Signore non soltanto mostrandolo — “È questo!”— ma anche portando la vita fino alla fine come l’ha portata il Signore». E finendo la vita «col martirio» è stato «precursore della vita e della morte di Gesù Cristo».
Il Papa ha continuato a riflettere su queste strade parallele lungo le quali «il grande» soffre «tante prove e diventa piccolo, piccolo, piccolo, piccolo fino al disprezzo». Giovanni, come Gesù, «si annienta, conosce la strada dell’annientamento. Giovanni con tutta quella autorità, pensando alla sua vita, comparandola con quella di Gesù, dice alla gente chi è lui, come sarà la sua vita: “Conviene che lui cresca, io invece debbo diminuire”». È questa, ha sottolineato il Papa, «la vita di Giovanni: diminuire davanti a Cristo, perché Cristo cresca». È «la vita del servo che fa posto, fa strada perché venga il Signore».
La vita di Giovanni «non è stata facile»: infatti, «quando Gesù ha incominciato la sua vita pubblica», egli era «vicino agli Esseni, cioè agli osservanti della legge, ma anche delle preghiere, delle penitenze». Così, a un certo punto, nel periodo in cui era in carcere, «ha sofferto la prova del buio, della notte nella sua anima». E quella scena, ha commentato Francesco, «commuove: il grande, il più grande manda da Gesù due discepoli per domandargli: “Ma Giovanni ti domanda: sei tu o ho sbagliato e dobbiamo aspettare un altro?”». Lungo la strada di Giovanni si è affacciato quindi «il buio dello sbaglio, il buio di una vita bruciata nell’errore. E questa per lui è stata una croce».
Alla domanda di Giovanni «Gesù risponde con le parole di Isaia»: il Battista «capisce, ma il suo cuore rimane nel buio». Ciò nonostante si presta alle richieste del re, «al quale piaceva sentirlo, al quale piaceva portare avanti una vita adultera», e «quasi diventava un predicatore di corte, di questo re perplesso». Ma «lui si umiliava» perché «pensava di convertire quest’uomo».
Infine, ha detto il Papa, «dopo questa purificazione, dopo questo calare continuo nell’annientamento, facendo strada all’annientamento di Gesù, finisce la sua vita». Quel re da perplesso «diventa capace di una decisione, ma non perché il suo cuore sia stato convertito»; piuttosto «perché il vino gli dà coraggio».
E così Giovanni finisce la sua vita «sotto l’autorità di un re mediocre, ubriaco e corrotto, per il capriccio di una ballerina e per l’odio vendicativo di un’adultera». Così «finisce il grande, l’uomo più grande nato da donna», ha commentato Francesco che ha confessato: «Quando io leggo questo brano, mi commuovo». E ha aggiunto una considerazione utile alla vita spirituale di ogni cristiano: «Penso a due cose: primo, penso ai nostri martiri, ai martiri dei nostri giorni, quegli uomini, donne, bambini che sono perseguitati, odiati, cacciati via dalle case, torturati, massacrati». E questa, ha sottolineato, «non è una cosa del passato: oggi succede questo. I nostri martiri, che finiscono la loro vita sotto l’autorità corrotta di gente che odia Gesù Cristo». Perciò «ci farà bene pensare ai nostri martiri. Oggi pensiamo a Paolo Miki, ma quello è successo nel 1600. Pensiamo a quelli di oggi, del 2015».
Il Pontefice ha proseguito aggiungendo che questo brano lo spinge anche a riflettere su se stesso: «Anche io finirò. Tutti noi finiremo. Nessuno ha la vita “comprata”. Anche noi, volendo o non volendo, andiamo sulla strada dell’annientamento esistenziale della vita». E ciò, ha detto, lo spinge «a pregare che questo annientamento assomigli il più possibile a Gesù Cristo, al suo annientamento».
Si chiude così il cerchio della meditazione di Francesco: «Giovanni, il grande, che diminuisce continuamente fino al nulla; i martiri, che diminuiscono oggi, nella nostra Chiesa di oggi, fino al nulla; e noi, che siamo su questa strada e andiamo verso la terra, dove tutti finiremo». In questo senso la preghiera finale del Papa: «Che il Signore ci illumini, ci faccia capire questa strada di Giovanni, il precursore della strada di Gesù; e la strada di Gesù, che ci insegna come deve essere la nostra».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 07.02.2015]
Divino nell’Umano: gesti forti, dignitosi e fraterni, non di repertorio
(Mt 13,54-58)
Il Divino nell’Umano si rende Presente nelle relazioni intense, accoglienti, che aprono a recuperi inspiegabili; quindi trapela nei gesti forti, dignitosi e fraterni - non di repertorio.
Nel passo di Vangelo di oggi c’è una differenza rilevante con la traduzione CEI (‘74) precedente (vv.54.58).
Il Signore ci aiuta a crescere con veri «prodigi», non con “miracoli”[eventi puntuali] bensì operando nell’intimo, modificando il cuore rattrappito e migliorandoci col suo Amore.
Il «profetico» non ha a che fare col clamoroso che s’impone.
Solo così non ci si stancherà del buono che non è brillante; né si disprezzerà l’esistenza della gente normale, perché senza prestigio e titoli.
Le opere potenti di Gesù si dispiegano nel tempo - educando, non impressionando e assoggettando.
I suoi ‘segni’, quei recuperi inspiegabili che compie, sono calibro e frutto d’un Incontro-per-Via che cresce.
Opera d’Arte (assai meglio di scorciatoie accidentali) è che il profittatore diventi giusto, il dubbioso più sicuro, l’infelice riprenda a sperare.
Ci vuole tempo, anche se lo stupore può essere immediato.
Il Mistero della potenza del nuovo Dio annunciato da Cristo si cela in ‘Qualcuno dentro qualcosa’.
È la trama ove si annidano i Segni d’una Realtà grande, cui malgrado le difficoltà abbiamo accesso e siamo partecipi.
La Persona di Gesù narra di un Padre il quale non teme che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto col mondo.
Il Mistero sovreminente è già nell’uomo comune.
Quindi il conflitto non è coi forestieri, bensì con i soliti ostinati “vicini” colmi di pregiudizio - abitudinari e assuefatti, i quali già sanno come va a finire... Ma non inaugurano nulla.
Invece il Figlio non è più un bambinone del posto: un programma quieto del «villaggio», il prodotto d’idee arcaiche normali o di propositi già trasmessi, che nessun Incontro potrà destare e smuovere.
In patria il Maestro non sbalordisce come altrove: incontra una diffidenza che logora di giorni tutti contati quella sporgenza del credere che colmerebbe le indigenze.
La Fede invece comprende ciò che taglia il Sogno impossibile della Novità: il nostro vanto non è da condizione sociale, né da genere stabilito.
Essa coglie un suo peso specifico non nei balocchi del folklore, bensì appunto nel rigenerare - per l’incessante riattivarsi dell’interesse intrinseco.
In tal guisa, la Fede non è retorica: intuisce che lo stato di dubbio è più fecondo delle convinzioni.
Come si diventa un non-popolo?
Le sicurezze non lasciano respiro all’inventiva del fare inusuale, né al sentimento o alla crescita della Vita forte, non sfigurata dal repertorio di compimenti attesi.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come la tua esistenza ordinaria riscatta le vicende della gente malferma?
Come vivi il di più della Fede sulle abitudini e luoghi comuni?
[Venerdì 17.a sett. T.O. 1 agosto 2025]
Divino nell’Umano: gesti forti, dignitosi e fraterni, non di repertorio
(Mt 13,54-58)
«I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui. Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto. È una domanda che, insieme, ci dà gioia e ci inquieta: siamo veramente il santuario di Dio nel mondo e per il mondo? Apriamo agli uomini l’accesso a Dio o piuttosto lo nascondiamo? Non siamo forse noi – popolo di Dio – diventati in gran parte un popolo dell’incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo? Abbiamo motivo di gridare in quest’ora a Dio: “Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa’ che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa’ che la forza del tuo Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinché con gioia testimoniamo il tuo messaggio!».
[Papa Benedetto, omelia 21 aprile 2011]
Il Divino nell’Umano si rende Presente nelle relazioni intense, accoglienti, che aprono a recuperi inspiegabili; quindi trapela nei gesti forti, dignitosi e fraterni - non di repertorio.
Nel passo di Vangelo di oggi c’è una differenza rilevante con la traduzione CEI (‘74) precedente (vv.54.58).
Il Signore ci aiuta a crescere con veri «prodigi», non con “miracoli”[eventi puntuali] bensì operando nell’intimo, modificando il cuore rattrappito e migliorandoci col suo Amore.
Il «profetico» non ha a che fare col clamoroso che s’impone.
Solo così non ci si stancherà del buono che non è brillante; né si disprezzerà l’esistenza della gente normale, perché senza prestigio e titoli.
Le opere potenti di Gesù si dispiegano nel tempo - educando, non impressionando e assoggettando.
I suoi ‘segni’, quei recuperi inspiegabili che compie, sono calibro e frutto d’un Incontro-per-Via che cresce.
Opera d’Arte (assai meglio di scorciatoie accidentali) è che il profittatore diventi giusto, il dubbioso più sicuro, l’infelice riprenda a sperare.
Ci vuole tempo, anche se lo stupore può essere immediato.
Il Mistero della potenza del nuovo Dio annunciato da Cristo si cela in ‘Qualcuno dentro qualcosa’.
È la trama ove si annidano i Segni d’una Realtà grande, cui malgrado le difficoltà abbiamo accesso e siamo partecipi.
La Persona di Gesù narra di un Padre il quale non teme che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto col mondo.
Il Mistero sovreminente è già nell’uomo comune.
Quindi il conflitto non è coi forestieri, bensì con i soliti ostinati “vicini” colmi di pregiudizio - abitudinari e assuefatti, i quali già sanno come va a finire... Ma non inaugurano nulla.
Invece il Figlio non è più un bambinone del posto: un programma quieto del «villaggio», il prodotto d’idee arcaiche normali o di propositi già trasmessi, che nessun Incontro potrà destare e smuovere.
In patria il Maestro non sbalordisce come altrove: incontra una diffidenza che logora di giorni tutti contati quella sporgenza del credere che colmerebbe le indigenze.
La Fede invece comprende ciò che taglia il Sogno impossibile della Novità: il nostro vanto non è da condizione sociale, né da genere stabilito.
Essa coglie un suo peso specifico non nei balocchi del folklore, bensì appunto nel rigenerare - per l’incessante riattivarsi dell’interesse intrinseco.
In tal guisa, la Fede non è retorica: intuisce che lo stato di dubbio è più fecondo delle convinzioni.
Come si diventa un non-popolo?
Le sicurezze non lasciano respiro all’inventiva del fare inusuale, né al sentimento o alla crescita della Vita forte, non sfigurata dal repertorio di compimenti attesi.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come la tua esistenza ordinaria riscatta le vicende della gente malferma?
Come vivi il di più della Fede sulle abitudini e luoghi comuni?
Aspettative, incomprensioni - e lo spirito della valle
(Mc 6,1-6)
Lato domestico, non addomesticazioni
Dove la Fede è carente avvengono solo piccoli cambiamenti, non i prodigi sbalorditivi della presenza alternativa del Regno di Dio:
«E non poté fare là alcuna opera potente, se non che avendo imposto le mani a pochi infermi, curò» (v.5).
Non ci capacitiamo che il Signore possa provenire da umili origini, disonorevoli, come potrebbero essere le nostre - prive di grandi vincoli dinastici, o salti di ceto violenti.
Dice il Tao Tê Ching (vi):
«Lo spirito della valle non muore [...] viene usato, ma non si stanca». Commenta il maestro Wang Pi:
«Lo spirito della valle è la non-valle al centro della valle. Non ha forma né ombra, nulla contrasta e nulla rifiuta, resta in basso senza muoversi, si mantiene cheto senza affievolirsi. La valle è completata da esso, eppure non se ne vede la forma: questo è il modello più perfetto».
Al pari dei codici della Sapienza di natura, la Fede in Cristo dà l’addio all’idea diffusa nelle culture e religioni istituzionali, rappresentative e verticiste.
Tutte maldisposte, nei loro grandi saperi, a occuparsi della normalità della vita che fluisce.
Gesù evita modelli rigidi o di grande apparenza. Si dona con semplicità ai suoi paesani e mira alla formazione degli autentici credenti.
La loro Fiducia dev’essere riposta unicamente nel Regno di Dio - dimensione che davvero rompe gli equilibri, perché s’introduce nell’esistenza diurna, e la fermenta a partire da radici invisibili.
Quale inviato del Padre, vorrebbe che tutto il popolo fosse edificatore e alfiere di altri sogni - ma nel suo villaggio natale si sente come bloccato da chi è incapace di decifrare la dimensione del divino nell’umano.
Egli deve fronteggiare l’incomprensione ottusa dei centri di potere, ma anche le inadempienze e le speranze stesse - quiete o divisive - della realtà popolare che frequenta i luoghi di culto.
I paesani si attendevano le solite benedizioni (ormai assuefatte) o forse un capo carismatico in lotta contro i romani - e qui volentieri usavano far leva sulla vampa dell'identità religiosa, per infiammare gli animi.
Avrebbero accettato un capitano bellicoso, che rispecchiasse credenze arcaiche - invece si ritrovano delusi della realtà inapparente sotto gli occhi.
Non sanno scoprire la trama di Dio nella storia dei minimi.
Viceversa, numerosi sono i segni divini iscritti in quanto si manifesta sommario: avvisaglie che possono farci scoprire la dimensione non puramente terrena delle cose, delle relazioni, delle presenze; così via.
Molti fraintendono lo spirito di forza che la Fede ci trasmette.
Essa rompe gli equilibri perché non offre garanzie già immaginate - ma è in fondo domestica e tutta naturale [ogni Seme ha il suo destino e sviluppo particolare].
Come mai dunque il ragazzo che hanno conosciuto fin dalla nascita è così diverso?
Per il fatto che non c’è equazione fra ciò che si pensa in modo conformista, e il Signore. Neppure dando enfasi ai propositi.
Sia le grandi attese che la prossimità possono essere di ostacolo per una conoscenza quotidiana di ciò che di straordinario si cela dietro la dimensione ordinaria degli accadimenti e delle persone.
Anche molti confratelli o collaboratori di Santi non hanno saputo cogliere l’eccezionalità di una vita comune vissuta in fedeltà e dedizione alla propria Chiamata per Nome. Tanto più reale quanto meno appariscente.
L’incomprensione e la gelosia paesana di chi vive accanto e insegue un suo dio - sfigurato - è fonte di amarezza; ma non ci blocca.
L’esperienza del rifiuto spinge a cambiare direzione (v.6b).
L’anima vive sotto il segno dell’Unicità che rinuncia al preconcetto, alla vita tranquilla, alla semplice approvazione, al facile successo.
E le porte chiuse possono essere un valore aggiunto! Esse ci aprono al viaggio dell’anima nello Spirito, all’Annuncio eccentrico, alla Missione stupefacente.
Purtroppo, registriamo un altro genere di spirito della “valle” - di segno del tutto negativo, che nell’azione di evangelizzazione e animazione delle comunità s’identifica con la pastorale del consenso [io ti dò quello che tu vuoi].
Il coordinatore astuto gestisce i rapporti con i fedeli, le masse e le istituzioni con estrema accortezza, nonché aspettative - concrete, immediate - d’approvazione e tornaconto individuale o di cerchia.
Talora alcuni responsabili (anche di chiesa) sembrano nient’altro che abili affabulatori: non combattono le strutture disumanizzanti, né i potenti sul territorio. Viceversa, cercano di farseli alleati, per vincere facile.
Sussiste anche nel tempo della crisi globale la convinzione che le strutture educative, culturali e “religiose” possano andare avanti solo col sostegno esterno delle gerarchie di potere, e dell’ordine stabilito da sempre. O con la ricerca di altri “segni” e altrettanti prodigi.
Purtroppo tale atteggiamento al ribasso, esteriore - per stanchezza, assai diffuso - non equivale alla valorizzazione dei più variegati e intimi Doni di Dio nelle persone, né alla promozione del Regno.
Ovvio poi che i frequentatori del palazzo non amino gli incendiari: chi detiene titoli e un ruolo glorioso resta impermeabile al lavoro dello Spirito che fa nuove tutte le cose.
[Ogni opportunista resta purtroppo legato alle catene di comando, agli antichi equilibri tattici che gli hanno pur garantito carriera, posizione, lustro, visibilità, facili sicurezze a contorno].
L’aspetto forse peggiore di questo gioco al ribasso e al normale comun denominatore è probabilmente la dozzinale identificazione tra ordine garantito dall’Evangelo ed equilibrio corrente.
Un’illusione di sintonia esterna fra Beatitudini annunciate dal Signore e opportunità di vita quieta, o guadagno, e riconoscimenti sociali.
Così i princìpi vissuti in prima persona dal Maestro vengono sovvertiti da alcuni seguaci, in strategia opaca che finisce per snaturare il Lieto Annuncio in favore di ogni smarrito.
E ciascun malfermo sebbene insoddisfatto, tende spontaneamente ad adeguarsi alle piccole certezze che trova, offerte dalla retorica di pur grandi narrazioni.
Ancora oggi invece la Parola di Dio fa scintille con il facile richiamo di tali dinamiche e strutture di autentico “peccato”: le minaccia senza mezzi termini.
Esse infatti sequestrano le anime, le rendono conformiste, indifferenti all’ingiustizia, timorose della libertà - e tendono a prendere in ostaggio perfino il Dio dell’Esodo.
Il Padre però continua a suscitare Profeti eccentrici: essi rendono tutti noi più capaci di percepire il genio del tempo. Nonché i talenti personali dispiegati - anche fra le irritate minacce dei “compaesani” presi dal marketing livellante.
Annunciatori che rischiano di rimanere senza protezione o casato, ovvio.
Ma che si rifiutano di apporre sigilli già pronti allo spirito di mediocrità che non infastidisce nessuno.
Per interiorizzare e vivere la Parola, chiediamoci:
Cosa è cambiato nel tuo percorso da quando hai cominciato a vivere più intensamente in adesione al Cristo? Come ha reagito il tuo ambiente?
Cari fratelli e sorelle!
Vorrei soffermarmi brevemente sul brano del Vangelo […] un testo da cui è tratto il celebre detto «Nemo propheta in patria», cioè nessun profeta è bene accetto tra la sua gente, che lo ha visto crescere (cfr Mc 6,4). In effetti, dopo che Gesù, a circa trent’anni, aveva lasciato Nazareth e già da un po’ di tempo era andato predicando e operando guarigioni altrove, ritornò una volta al suo paese e si mise ad insegnare nella sinagoga. I suoi concittadini «rimanevano stupiti» per la sua sapienza e, conoscendolo come il «figlio di Maria», il «falegname» vissuto in mezzo a loro, invece di accoglierlo con fede si scandalizzavano di Lui (cfr Mc 6,2-3). Questo fatto è comprensibile, perché la familiarità sul piano umano rende difficile andare al di là e aprirsi alla dimensione divina. Che questo Figlio di un falegname sia Figlio di Dio è difficile crederlo per loro. Gesù stesso porta come esempio l’esperienza dei profeti d’Israele, che proprio nella loro patria erano stati oggetto di disprezzo, e si identifica con essi. A causa di questa chiusura spirituale, Gesù non poté compiere a Nazareth «nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì» (Mc 6,5). Infatti, i miracoli di Cristo non sono una esibizione di potenza, ma segni dell’amore di Dio, che si attua là dove incontra la fede dell’uomo nella reciprocità. Scrive Origene: «Allo stesso modo che per i corpi esiste un’attrazione naturale da parte di alcuni verso altri, come del magnete verso il ferro … così tale fede esercita un’attrazione sulla potenza divina» (Commento al Vangelo di Matteo 10, 19).
Dunque, sembra che Gesù si faccia – come si dice – una ragione della cattiva accoglienza che incontra a Nazareth. Invece, alla fine del racconto, troviamo un’osservazione che dice proprio il contrario. Scrive l’Evangelista che Gesù «si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,6). Allo stupore dei concittadini, che si scandalizzano, corrisponde la meraviglia di Gesù. Anche Lui, in un certo senso, si scandalizza! Malgrado sappia che nessun profeta è bene accetto in patria, tuttavia la chiusura del cuore della sua gente rimane per Lui oscura, impenetrabile: come è possibile che non riconoscano la luce della Verità? Perché non si aprono alla bontà di Dio, che ha voluto condividere la nostra umanità? In effetti, l’uomo Gesù di Nazareth è la trasparenza di Dio, in Lui Dio abita pienamente. E mentre noi cerchiamo sempre altri segni, altri prodigi, non ci accorgiamo che il vero Segno è Lui, Dio fatto carne, è Lui il più grande miracolo dell’universo: tutto l’amore di Dio racchiuso in un cuore umano, in un volto d’uomo.
Colei che ha compreso veramente questa realtà è la Vergine Maria, beata perché ha creduto (cfr Lc 1,45). Maria non si è scandalizzata di suo Figlio: la sua meraviglia per Lui è piena di fede, piena d’amore e di gioia, nel vederlo così umano e insieme così divino. Impariamo quindi da lei, nostra Madre nella fede, a riconoscere nell’umanità di Cristo la perfetta rivelazione di Dio.
[Papa Benedetto, Angelus 8 luglio 2012]
By willingly accepting death, Jesus carries the cross of all human beings and becomes a source of salvation for the whole of humanity. St Cyril of Jerusalem commented: “The glory of the Cross led those who were blind through ignorance into light, loosed all who were held fast by sin and brought redemption to the whole world of mankind” (Catechesis Illuminandorum XIII, 1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Pope Benedict]
Accettando volontariamente la morte, Gesù porta la croce di tutti gli uomini e diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità. San Cirillo di Gerusalemme commenta: «La croce vittoriosa ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, ha liberato chi era prigioniero del peccato, ha portato la redenzione all’intera umanità» (Catechesis Illuminandorum XIII,1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Papa Benedetto]
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
In the New Testament, it is Christ who constitutes the full manifestation of God's light [Pope Benedict]
Nel Nuovo Testamento è Cristo a costituire la piena manifestazione della luce di Dio [Papa Benedetto]
Today’s Gospel reminds us that faith in the Lord and in his Word does not open a way for us where everything is easy and calm; it does not rescue us from life’s storms. Faith gives us the assurance of a Presence (Pope Francis)
Il Vangelo di oggi ci ricorda che la fede nel Signore e nella sua parola non ci apre un cammino dove tutto è facile e tranquillo; non ci sottrae alle tempeste della vita. La fede ci dà la sicurezza di una Presenza (Papa Francesco)
Dear friends, “in the Eucharist Jesus also makes us witnesses of God’s compassion towards all our brothers and sisters. The Eucharistic mystery thus gives rise to a service of charity towards neighbour” (Post-Synodal Apostolic Exhortation Sacramentum Caritatis, 88) [Pope Benedict]
Cari amici, “nell’Eucaristia Gesù fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Nasce così intorno al Mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo” (Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 88) [Papa Benedetto]
The fool in the Bible, the one who does not want to learn from the experience of visible things, that nothing lasts for ever but that all things pass away, youth and physical strength, amenities and important roles. Making one's life depend on such an ephemeral reality is therefore foolishness (Pope Benedict)
L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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