Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Domenica di Pentecoste (anno C) [8 giugno 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Nella festa della Pentecoste come Maria e gli apostoli disponiamo il cuore ad accogliere il dono dello Spirito Santo che ci trasformi in fuoco e luce di amore. Oggi la prima lettura e il salmo responsoriale sono comuni agli anni A, B, C, mentre la seconda lettura e il vangelo sono diversi ogni anno.
*Prima lettura dal Libro degli Atti degli Apostoli (2, 1-11)
Gerusalemme non è solo la città dove Gesù ha istituito l’eucaristia, è morto ed è risorto, ma è anche la città dove lo Spirito è stato effuso sull’umanità. Era l’anno della morte di Gesù, ma le persone presenti in città probabilmente non avevano mai sentito parlare della sua morte e ancor meno della sua risurrezione per cui la festa di Pentecoste per loro era come tutte le altre. La Pentecoste ebraica era molto importante perché festa del dono della Legge, una delle tre feste dell’anno per le quali si saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme e l’elenco di tutte le nazionalità presenti in quell’occasione ne prova il grande interesse. Per i discepoli di Gesù, che lo avevano visto, udito e toccato dopo la sua risurrezione, nulla era più come prima, anche se non si aspettavano ciò che stava per accadere. Luca ci aiuta a comprendere ciò che succede, scegliendo le parole con cura, ed evocando almeno questi tre testi dell’Antico Testamento: Il dono della Legge al Sinai, una profezia di Gioele, l’episodio della torre di Babele. Anzitutto Il Sinai. Le lingue di fuoco, il fragore simile a un vento impetuoso richiamano quanto avvenne al Sinai, quando Dio diede le tavole della Legge a Mosè, Esodo19,16-19. Inserendosi in questa linea, Luca aiuta a capire che quella Pentecoste non fu il semplice pellegrinaggio tradizionale, ma un nuovo Sinai, sul quale Dio donò la sua Legge per insegnare al popolo a vivere nell’Alleanza. In questa Pentecoste Egli donò il suo stesso Spirito e d’allora in poi, la sua Legge, l’unico vero cammino verso la libertà e la felicità, non si trova più scritta su tavole di pietra, ma nel cuore dell’uomo, come aveva profetizzato Ezechiele (Ez.11,19-20; 36,26-27). Il profeta Gioele: Luca ha certamente voluto evocare anche una parola di Gioele: “Effonderò il mio spirito su ogni essere umano, dice Dio” (Gl 3,1), cioè su tutta l’umanità. Per Luca, quei Giudei devoti provenienti da tutte le nazioni sotto il cielo, come li chiama, sono simbolo dell’intera umanità, per la quale si compie finalmente la profezia di Gioele e questo significa che è giunto il “Giorno del Signore” tanto atteso. La torre di Babele, evento che possiamo riassumere in due atti: Atto 1: Gli uomini, che parlano la stessa lingua e le stesse parole, decidono di costruire una torre immensa tra la terra e il cielo. Atto 2: Dio li blocca e li disperde sulla terra confondendo le loro lingue e da quel momento non si comprendono più. Qual è in significato di questo racconto? Dio certamente non vuole mortificare le potenzialità dell’uomo e se quindi interviene, lo fa per risparmiare all’umanità la falsa strada del pensiero unico e di un progetto umano che esclude Dio. È come se dicesse: state cercando l’unità, che è cosa buona, con una strada sbagliata perché l’unità nell’amore non avviene con l’omologazione, ma nella diversità. E questo è il messaggio della Pentecoste: a Babele, l’umanità impara la diversità, a Pentecoste, apprende l’unità nella diversità “convivialità” (come scrive don Tonino Bello) perché tutte le nazioni ascoltano proclamare, ciascuna nella propria lingua, l’unico messaggio: “Magnalia Dei, le grandi opere di Dio” (At 2,11).
*Salmo responsoriale (103 (104), 1.24, 29-30, 31.34)
Questo salmo conta 36 versetti di lode e meraviglia davanti alle opere di Dio, un poema stupendo. Viene proposto per la festa di Pentecoste perché Luca, nel libro degli Atti degli Apostoli, racconta che la mattina di Pentecoste, gli apostoli, ripieni di Spirito Santo, si sono messi a proclamare in tutte le lingue le “grandi opere di Dio” della creazione. In tutte le civiltà ci sono poemi sulla bellezza della natura. In particolare, è stato ritrovato in Egitto, sulla tomba di un faraone, un poema scritto dal celebre faraone Akhenaton (Amenofi IV), un inno al Dio-Sole. Amenofi IV visse intorno al 1350 a.C., in un’epoca in cui gli Ebrei probabilmente si trovavano in Egitto e forse hanno conosciuto questo poema. Tra il poema del faraone e il salmo 103/104 ci sono somiglianze di stile e di vocabolario, ma ciò che interessa è cogliere le differenze segnate dalla rivelazione di Dio al popolo dell’Alleanza. Prima differenza: Dio solo è Dio, differenza essenziale per la fede di Israele: Dio è l’unico Dio, non ce ne sono altri e il sole non è un dio. Il racconto della creazione nel libro della Genesi rimette sole e luna al loro posto: non sono dèi, ma luminari anch’essi semplici creature. Diversi versetti mostrano Dio come unico Signore della creazione usando un linguaggio regale: Dio si presenta come un re magnifico, maestoso e vittorioso. Seconda particolarità: La creazione è tutta buona e qui c’è un’eco della Genesi che ripete instancabilmente: “E Dio vide che era cosa buona”. Questo salmo evoca tutti gli elementi della creazione con lo stesso stupore: “Io gioisco nel Signore” e il salmista aggiunge (in un versetto non letto questa domenica): “Voglio cantare al Signore finché vivo, suonare per il mio Dio finché esisto” Tuttavia, il male non è ignorato: la fine del salmo lo menziona e ne invoca la scomparsa dato che già nell’Antico Testamento si era compreso che il male non viene da Dio, perché tutta la creazione è buona e un giorno Dio farà sparire ogni male dalla terra: il Re vittorioso eliminerà tutto ciò che ostacola la felicità dell’uomo. Terza particolarità: La creazione è continua non essendo un atto del passato, come se Dio avesse lanciato la terra e l’uomo nello spazio una volta per tutte, ma una relazione perenne tra il Creatore e le sue creature. Quando diciamo nel Credo: “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra”non affermiamo solo la fede in un atto iniziale, ma riconosciamo di essere in una relazione necessaria con lui lui e questo salmo lo ribadisce parlando della costante azione di Dio:”Tutti da te aspettano…Nascondi il tuo volto: sono smarriti…Ritiri il loro respiro: muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito: sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Altra particolarità: L’uomo è culmine della creazione. Per la fede ebraica al vertice della creazione c’è l’uomo, il re del creato e per questo riempito del soffio di Dio. Ed è proprio ciò che celebriamo a Pentecoste: lo Spirito di Dio che è in noi vibra e entra in risonanza con l’uomo e con tutto il creato e il salmista canta: “Dio gioisca delle sue opere! Io gioisco nel Signore”. In conclusione la creazione ha senso nella luce dell’Alleanza: In Israele ogni riflessione sulla creazione si colloca nella prospettiva dell’Alleanza avendo Israele sperimentato dapprima la liberazione da parte di Dio, e solo dopo ha meditato sulla creazione alla luce di questa fondamentale esperienza. Nel salmo ci sono tracce visibili di ciò: Anzitutto, il nome di Dio usato è sempre il celebre tetragramma YHWH, che traduciamo con Signore, il nome del Dio dell’Alleanza, rivelato a Mosè. Inoltre nell’espressione: “Signore, mio Dio, quanto sei grande” il possessivo è un richiamo all’Alleanza, poiché il progetto di Dio nell’Alleanza era proprio detto così: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio”. Questa promessa si compie nel dono dello Spirito a ogni carne, come proclama il profeta Gioele e ogni uomo è invitato a ricevere il dono dello Spirito per diventare vero figlio di Dio.
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8, 8 –17)
La difficoltà principale di questo testo è nella parola “carne” che nel vocabolario di san Paolo non ha lo stesso significato rispetto al nostro vocabolario in cui spesso si contrappongono i due componenti dell’essere umano corpo e anima rischiando di male interpretare quel che Paolo intende dire quando parla di carne e di Spirito. Quel che lui chiama “carne” non è ciò che noi chiamiamo corpo e quel che chiama “Spirito” non corrisponde a ciò che chiamiamo anima; anzi egli precisa più volte che si tratta dello Spirito di Dio,“lo Spirito di Cristo”. Non contrappone due parole, “carne” e “Spirito”, ma due espressioni: “vivere secondo la carne” e “vivere secondo lo Spirito” cioè scegliere tra due modi di vivere, o meglio decidere chi seguire e quale linea di condotta adottare. Torna il tema delle due vie che ogni giudeo come san Paolo ben conosce: scegliere tra due strade, tra due atteggiamenti possibili davanti alle difficoltà o alle prove: la fiducia in Dio, oppure la diffidenza; la sicurezza di non sentirsi mai abbandonati da Dio oppure il dubbio e il sospetto che Dio non cerchi veramente il nostro bene; la fedeltà ai suoi comandamenti perché ci fidiamo di lui, oppure la disobbedienza perché ci riteniamo capaci di autonome decisioni. La storia d’Israele nella Bibbia (si pensi a Massa e Meriba nel libro dell’esodo) presenta numerosi esempi di sfiducia davanti alle prove della vita e nel deserto specialmente di fronte alle tante prove tra cui la fame e la sete. Quando il popolo sospettò che Dio lo abbandonasse fece un vero processo d’intenzione a Dio e a Mosè. Anche Adamo, difronte al limite posto ai suoi desideri, sospettò e disobbedì al Signore. La tentazione di Adamo ed Eva nell’Eden si ripropone nella nostra vita ogni giorno: è il costante problema della fiducia e della sfiducia, il cosiddetto peccato “originale” nel senso che è alla base di tutti i disastri umani. Opposto al sospetto e alla ribellione contro Dio sta l’atteggiamento di Cristo pieno di fiducia e sottomissione perché sa che la volontà di Dio è solo bene. Soprattutto di fronte alle sfide del dolore in tutte le sue forme e alla morte sono due agli tteggiamenti opposti che Paolo chiama “vivere secondo la carne” o “vivere secondo lo Spirito”. Vivere secondo la carne significa per lui comportarsi come schiavi che non si fidano e obbediscono per obbligo o per paura delle punizioni. “Vivere secondo lo Spirito” è invece “comportarsi da figli”, tessere cioè relazioni di fiducia e di tenerezza che, seguendo l’esempio di Cristo, portano alla vita. Vivere sotto l’influsso della carne (cioè nell’atteggiamento di sfiducia e disobbedienza verso Dio) conduce alla morte, mentre vivere mediante lo Spirito è far morire le opere del peccato. In altre parole: l’atteggiamento da schiavo, è distruttivo mentre l’atteggiamento da figlio è via di pace e felicità. Lo Spirito di Dio, che con il battesimo abita in noi, ci fa chiamare Dio “Abbà-Padre”, e il giorno in cui tutta l’umanità riconoscerà Dio come Padre, il progetto divino sarà compiuto, e tutti insieme entreremo nella sua gloria. Pochi versetti più avanti, Paolo annoterà che la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Il testo odierno ci ricorda infine che poiché siamo figli di Dio, siamo anche eredi di Dio, coeredi con Cristo, a condizione di soffrire con lui per essere con lui anche nella gloria. Un testo che può essere letto in due modi: lo schiavo immagina un Dio che mette delle condizioni all’eredità; invece il figlio considera Dio come Padre anche e soprattutto nella sofferenza. Il soffrire è inevitabile come lo fu anche per Cristo, ma vissuto con lui e come lui, diventa via di risurrezione ed allora “a condizione di soffrire con lui” vuol dire: a condizione di essere con lui, di rimanere uniti a lui in ogni momento, anche nella sofferenza inevitabile.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 15-16. 23b-26)
Questo passo evangelico molto noto assume oggi una nuova luce grazie agli altri testi biblici proposti per la festa di Pentecoste. Ad esempio, si è tentati di pensare allo Spirito Santo in termini di ispirazione, di idee, di discernimento, di intelligenza, ma per la festa del dono dello Spirito, il vangelo oggi parla soltanto di amore. Gesù dice qui che lo Spirito di Dio è tutt’altra cosa: è Amore, l’Amore personificato. Questo significa che, la mattina di Pentecoste, a Gerusalemme, quando i discepoli furono ricolmi di Spirito Santo, fu l’amore stesso che è Dio a riempirli. E allo stesso modo, anche noi, battezzati e cresimati, sappiamo che la nostra capacità di amare è abitata dall’amore stesso di Dio. Lo ricorda il salmo responsoriale 103/104 quando proclama: Tu mandi il tuo Spirito, e noi, creati a immagine di Dio, siamo chiamati a somigliargli sempre di più, costantemente modellati da Lui a sua immagine. Lo Spirito è il vasaio che lavora la sua creta e ogni vaso diventa sempre più raffinato nelle mani dell’artigiano. Noi siamo la creta nelle mani di Dio per cui la nostra somiglianza con Lui si affina sempre più nella misura in cui ci lasciamo trasformare dallo Spirito d’Amore. Nella seconda lettura san Paolo parla del nostro rapporto con Dio riassunto in una frase: non siamo più schiavi, ma siamo figli di Dio, mentre nel vangelo Gesù collega il nostro rapporto con Dio al nostro rapporto con i fratelli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv14, 15) e sappiamo bene qual è il suo comandamento: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv 13,34). Se Gesù si riferisce al gesto della lavanda dei piedi, cioè a un atteggiamento deciso di servizio, possiamo tradurre “se mi amate, osserverete i miei comandamenti” con “se mi amate, vi metterete a servizio gli uni degli altri”. L’amore di Dio e l’amore dei fratelli sono inseparabili, così inseparabili che è dalla qualità del nostro servizio verso il prossimo che va giudicata la qualità del nostro amore per Dio e quindi “se non vi mettete al servizio dei vostri fratelli, non pretendete di dire che mi amate!” Poco più avanti, Gesù riprende un’espressione simile e la sviluppa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv14,23). Non significa che il Padre del cielo non ci ama se non ci mettiamo al servizio dei fratelli perché in lui non ci sono condizioni e ricatti. Al contrario, la caratteristica della misericordia è proprio chinarsi ancora più verso i miseri come miseri siamo tutti, almeno in quanto a amore e servizio degli altri. L’amore si impara esercitandolo, ma ciò che qui il Signore ci dice è qualcosa che ben conosciamo: la capacità di amare è un’arte, e ogni arte si impara esercitandola. L’amore del Padre è smisurato, infinito ma la nostra capacità di accoglierlo è limitata e cresce man mano che lo esercitiamo. Possiamo allora tradurre così: “Se qualcuno mi ama, si metterà al servizio degli altri e a poco a poco, il suo cuore si allargherà; l’amore di Dio lo invaderà sempre di più, e potrà servire ancora meglio gli altri…e così via fino all’infinito” cioè in un progresso senza limiti. Concludiamo tornando al termine “Paraclito” che può tradursi in consolatore e difensore. Sì, abbiamo bisogno di un difensore, ma non davanti a Dio e san Paolo lo chiarisce bene nella seconda lettura: Lo Spirito che avete ricevuto non vi rende schiavi, gente che ha ancora paura, è invece Spirito che vi rende figli (cf Rm 8,15). Non abbiamo quindi più paura di Dio e non abbiamo bisogno di un avvocato davanti a Lui. Ma allora perché Gesù dice che pregherà il Padre, ed egli ci darà un altro difensore, perché rimanga con noi per sempre? Sì, abbiamo bisogno di un difensore, che ci difenda da noi stessi, dalle nostre remore a servire gli altri, dalla scarsa fiducia nella potenza di Dio, difenda in noi costantemente la causa degli altri contro il nostro egoismo perché, così agendo, in realtà difende noi stessi dato che la vera felicità consiste nel lasciarci modellare ogni giorno da Dio a sua immagine vincendo ogni resistenza egoistica.
+Giovanni D’Ercole
Confronti no, Eccezionalità sì
(Gv 21,20-25)
Ancora una volta nel quarto Vangelo si fronteggiano il passo e il carattere petrino [incerto] con quello del discepolo amato dal Signore.
Ma la pienezza di Dio traspare dall’intera Chiesa, se genuina. Le Vocazioni sono diverse. Nessuna in sé sufficiente.
Ciascuno sente l’Appello a portare avanti la propria Chiamata per Nome secondo carattere diretto, confidenziale, proprio, e passo dopo passo, senza arenarsi nei confronti.
Nessuno è modello superiore, o viceversa destinato a facsimile: l’amore erompe in modo personale, sempre libero, inedito.
L’opinione, la vicenda o curiosità altrui, è un veleno, sia per la realizzazione che per la dimensione missionaria.
Attenzione dunque alle dicerie, alle congetture, all’immagine, anche diffuse sul territorio.
Soprattutto in situazioni di monopolio, porterebbero all’omologazione, alla “vita media”, al collasso.
Bando ai paragoni:
«Me, segui» (v.22) significa aderire a un Cielo che abita ciascun figlio - e in Comunione, non in branco.
A ogni energia, storia, e sensibilità esclusiva, corrisponde un modo riservato, irripetibile, di essere discepoli.
Differenze e legami si ricompongono nello Spirito, che sa dove andare - chiamando ogni personalità singolare a dimensioni d’esistenza raccolta o estroversa - nella propria Radice.
Chi è spinto più all’azione [o riflessione] non deve indugiare, né volgersi indietro; piuttosto, immergersi.
Ciascuno è nel punto giusto. Non deve smarrire la strada unica.
Insomma, l’amore autentico non ha fondamenta generiche, bensì impredicibili, singolari, insolite; di rilievo comunque, sebbene “scorrette”.
Non dobbiamo distrarci dal nostro scopo naturale e spirituale innato.
Il mistero che avvolge Cristo dispiegato nel suo Popolo è inesauribile, e anche noi siamo chiamati in prima persona a ‘scrivere’ senza timori un caratteristico Vangelo (v.25) [cf. Gv 20,29-30].
La differenza tra religiosità antica e vita di Fede? Non siamo fotocopie d’una condotta persistente, bensì inventori e battistrada.
Cristo vuol essere reinterpretato in prima persona e nella convivialità delle differenze.
A ciascuno il Maestro riconosce un suo agire. Il consenso non c’entra con la Vocazione.
Invece spesso ci sediamo in armature esterne, e forse misuriamo anche il progetto di vita, il segno dei tempi, il dono, lo stimolo, il Segreto dei fratelli, con la stessa miopia di programmi commisurati.
Dio si riserva appunto d’indicarlo Lui a ciascuno. Oltre ogni ‘mappa’ e organigramma.
Poi, anche le “stabilità” sono parziali, attendono un compimento.
Chi scommette sulla Via della Fede sa di doversi allontanare dallo spirito di unilateralità.
Lo stesso vigore del cammino chiede la sosta quieta e il convergere.
Anche il “restare” lancia infine una sua energia tranquilla proprio alle iniziative... così via.
I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui, Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
[Sabato 7.a sett. di Pasqua, 7 giugno 2025]
Confronti no, Eccezionalità sì
(Gv 21,20-25)
Ancora una volta nel quarto Vangelo si fronteggiano il passo e il carattere petrino (incerto) con quello del discepolo amato dal Signore.
In lui anche noi siamo chiamati a una personalità sciolta e liberale [più tipica delle comunità giovannee dell’Asia Minore] che rifletta un animo meno rigido e profeticamente superiore rispetto alla chiesa apostolica ufficiale - ancora giudaizzante.
I primi cristiani attendevano imminente la cosiddetta seconda Venuta del Signore.
Alcune chiese, di fronte al decesso dei seguaci, iniziarono a immaginare che almeno alcuni di loro sarebbero sopravvissuti fino alla Parusia del Cristo.
Col passare del tempo e la morte non solo degli apostoli, ma anche dei discepoli di seconda e terza generazione, sorgevano dissidi sulle precedenze e l’interpretazione delle Scritture.
Tutto ciò, malgrado Gv abbia insistito sulla Presenza sempre attuale del Risorto, e la storicità della Vita dell’Eterno [cosiddetta ‘vita eterna’].
In aggiunta a ciò, il quarto Vangelo ribadisce l’attualità delle realtà ultime e del Giudizio.
Viceversa, permaneva diffusa l’idea del loro carattere di futurità.
Ma la morte dello stesso evangelista scosse non poco le comunità, sconcertando molti fedeli che immaginavano quel discepolo dovesse - almeno lui - essere presente al cosiddetto «Ritorno» [termine che nei Vangeli - in lingua originale - non esiste].
Questo il motivo dell’aggiunta di una “seconda conclusione” a Gv 20,30-31.
È ciò che designiamo «capitolo 21» - opera di scuola giovannea, che tenta di chiarire la Vicinanza del Signore, il senso delle «Manifestazioni» del Risorto, il servizio dell’autorità, la testimonianza del “discepolo amato”.
La pienezza di Dio traspare dall’intera Chiesa, se genuina. Le Vocazioni sono diverse. Nessuna in sé sufficiente.
Ciascuno sente l’Appello a portare avanti la propria Chiamata per Nome secondo carattere diretto, confidenziale, proprio, e passo dopo passo, senza arenarsi nei confronti.
L’opinione, la vicenda o curiosità altrui, è un veleno, sia per la realizzazione che per la dimensione missionaria.
Attenzione dunque alle dicerie, alle congetture, all’immagine, anche diffuse sul territorio.
Soprattutto in situazioni di monopolio culturale, spirituale, o semplicemente denominazionale [come ancora in Italia] dette convinzioni normalizzate porterebbero all’omologazione, alla “vita media”, al collasso.
Bando ai paragoni:
«Me, segui» (v.22 testo greco) significa aderire a un Cielo che abita ciascun figlio - e in Comunione, non in branco.
A ogni energia, storia, e sensibilità esclusiva, corrisponde un modo riservato, irripetibile, di essere discepoli.
Nessuno è modello superiore, o viceversa destinato a facsimile: l’amore erompe in modo personale, sempre libero, inedito.
La via della sequela additata, il rimanere o trattenere indeterminato, sono caratteristiche o polarità correlative e plasmabili: proprio da esse sorgono risposte inattese a questioni vere, e la Novità di Dio.
Differenze e legami si ricompongono nello Spirito, che sa dove andare - chiamando ogni personalità singolare a dimensioni d’esistenza raccolta o estroversa - nella propria Radice.
Chi è spinto più all’azione [o riflessione] non deve indugiare, né volgersi indietro; piuttosto, immergersi.
Ciascuno è nel punto giusto. Non deve smarrire la strada unica.
Nel mio giardino ho dei pini grossi che danno ombra, ma uno di essi all’improvviso è seccato irreparabilmente. Sembrava chissà cosa; in un attimo è precipitato. Da non credere. Succede anche nella vita religiosa.
Fra la mia erba campagnola noto fiorire - senza mai averle curate - diverse pianticelle che prive d’artificio scacciano gli insetti, offrendo al terreno una trama variegata e uno spettacolo cromatico delicato.
Se imponessi al sottobosco di crescer su per dare ombra, si ammalerebbe. Il tutto non diventerebbe neanche un rovo; piuttosto, un intreccio innaturale di disagi (imposti di testa mia) che mai sfumerebbero.
A ogni seme corrisponde un suo sviluppo e una propria unicità, anche in rapporto con la situazione differente a contorno - alla luce o meno.
Insomma, l’amore autentico non ha fondamenta generiche, bensì impredicibili, singolari, insolite; di rilievo comunque, sebbene “scorrette”.
Si narra che s. Antonio Abate si arrovellasse sul Giudizio finale [chi si salva e chi no?]. La risposta gli venne perentoria: «Antonio, bada a te stesso!» - a dire che l’interesse per le inclinazioni e preferenze altrui è ambiguo. Non sempre buono; talora inutile. Spesso funesto e letale.
Se a qualcuno è proposta in dono una vocazione di carità speciale - persino di sangue - ad altri è riservato un diverso genere di testimonianza irripetibile; es. martirio sapienziale o critico [degli osteggiati e pionieri].
Invece di perdere il pondus e carattere della propria Chiamata per Nome, lasciandosi travolgere dalla prepotenza di forze in campo - anche nella vita ecclesiale viene spontaneo annunciare un altro regno rispetto a quello del pensiero unico, del consenso, dei furbetti del quartierino.
Non c’entrano con la Vocazione.
Non dobbiamo distrarci dal nostro scopo naturale e spirituale innato.
Il mistero che avvolge Cristo dispiegato nel suo Popolo è inesauribile. E anche noi siamo chiamati in prima persona a scrivere senza timori un caratteristico Vangelo (v.25) [cf. Gv 20,29-30].
La differenza tra religiosità antica e vita di Fede? Non siamo le fotocopie d’una condotta persistente, bensì inventori e battistrada.
Cristo vuol essere reinterpretato in prima persona e nella convivialità delle differenze.
A ciascuno il Maestro riconosce un suo agire.
Invece spesso ci sediamo in armature esterne, e forse misuriamo anche il progetto di vita, il segno dei tempi, il dono, lo stimolo, il Segreto dei fratelli, con la stessa miopia di programmi commisurati.
Dio si riserva appunto d’indicarlo Lui a ciascuno. Oltre ogni ‘mappa’ e organigramma.
Poi, anche le “stabilità” sono parziali, attendono un compimento.
Chi scommette sulla Via della Fede sa di doversi allontanare dallo spirito di unilateralità.
Lo stesso vigore del cammino chiede la sosta quieta e il convergere.
Anche il “restare” lancia infine una sua energia tranquilla proprio alle iniziative... così via.
I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui, Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» (Tradizione orale africana Peul).
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale» (Rabindranath Tagore).
«La Verità non è affatto ciò che ho. Non è affatto ciò che hai. Essa è ciò che ci unisce nella sofferenza, nella gioia. Essa è figlia della nostra Unione, nel dolore e nel piacere partoriti. Né io né Te. E io e Te. La nostra opera comune, stupore permanente. Il suo nome è Saggezza» (Irénée Guilane Dioh).
«Lo smarrimento e la perdita di ogni certezza e riparo è insieme una sorta di prova e una sorta di guarigione» (Pema Chödrön).
«Quando patiamo una grave delusione, non sappiamo mai se si tratta della conclusione della vicenda che stiamo vivendo: potrebbe essere anche l’inizio di una grande avventura» (Pema Chödrön).
«Crescere significa superare ciò che siete oggi. Non imitate. Non pretendete d’avere raggiunto lo scopo e non cercate di bruciare le tappe. Cercate solo di crescere» (Svami Prajnanapada).
«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» (Gandhi).
«La verità risiede in ogni cuore umano, e qui bisogna cercarla; bisogna lasciarsi guidare dalla verità quale ciascuno la vede. Ma nessuno ha il diritto di costringere gli altri ad agire secondo la propria visione della verità» (Gandhi).
«Ti devi oppone al mondo intero anche a costo di rimanere solo. Devi fissare il mondo negli occhi, anche se può succedere che il mondo ti guardi con occhi iniettati di sangue. Non temere. Credi in quella piccola cosa dentro di te che risiede nel cuore e dice: abbandona amici, moglie, tutto; ma porta testimonianza a quello per cui sei vissuto e per cui devi morire» (Gandhi).
«Nel Benin, se vedi una giara d’acqua posata sotto un albero davanti a una casa, sappi che è per te, straniero di passaggio; non c’è bisogno di bussare alla porta per chiedere da bere, ti basta aprire la giara, prendere la zucca, bere l’acqua e proseguire per la tua strada se non c’è nessuno» (Raymond Johnson).
«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» (Sobonfu Somé).
«Osservare e ascoltare sono una grande arte. Dall’osservazione e dall’ascolto impariamo infinitamente più che non dai libri. I libri sono necessari, ma l’osservazione e l’ascolto ti affinano i sensi» (Krishnamurti).
«Il Fuoco è legato al Sogno, al mantenimento del nostro legame con noi stessi e con gli antenati, e all’arte di mantenere vive le nostre visioni» (Griot dell’Africa centrale).
«Come nella vita, i contrari coesistono ovunque: nell’organizzazione sociale e nella vita affettiva, negli scambi fra individui. Vivere e realizzare la contraddizione, ecco l’essenziale» (Alassane Ndaw).
«Il processo ai crimini è istruito, ma cosa ne pensa la giuria? Chi sono i giurati? Chi è il sostituto procuratore generale dell’umanità?» (Djibril Tamsir Niane).
«L’uomo deve assumersi la responsabilità dei legami, visibili e invisibili, il cui insieme conferisce un senso alla vita» (Aminata Traoré).
«Introdurre lo spirito di altre persone nella nostra vita ci dà più occhi per vedere e ci consente di superare i nostri limiti» (Sobonfu Somé).
«Nella foresta, quando i rami litigano, le radici si abbracciano»(Proverbio Africano).
Infatti persino in un rapporto d’amore profondo e coesistenza «c’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali» (Amoris Laetitia, n.139).
«Le onde si sollevano ciascuna alla sua altezza, quasi gareggiando incessantemente tra loro, ma giungono solo fino a un dato punto; in tal modo conducono la nostra mente alla grande calma del mare, di cui anch’esse sono parte e alla quale dovranno ritornare con un ritmo di meravigliosa bellezza» (Rabindranath Tagore).
Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20) [Giovanni Paolo II]
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale Vangelo senti di dover scrivere con la tua vita?
Unicità
11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.
[Papa Francesco, Gaudete et Exsultate]
Cari fratelli e sorelle,
dedichiamo l'incontro di oggi al ricordo di un altro membro molto importante del collegio apostolico: Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo. Il suo nome, tipicamente ebraico, significa “il Signore ha fatto grazia”. Stava riassettando le reti sulla sponda del lago di Tiberìade, quando Gesù lo chiamò insieme con il fratello (cfr Mt 4,21; Mc 1,19). Giovanni fa sempre parte del gruppo ristretto, che Gesù prende con sé in determinate occasioni. E’ insieme a Pietro e a Giacomo quando Gesù, a Cafarnao, entra in casa di Pietro per guarirgli la suocera (cfr Mc 1,29); con gli altri due segue il Maestro nella casa dell'archisinagògo Giàiro, la cui figlia sarà richiamata in vita (cfr Mc 5,37); lo segue quando sale sul monte per essere trasfigurato (cfr Mc 9,2); gli è accanto sul Monte degli Olivi quando davanti all’imponenza del Tempio di Gerusalemme pronuncia il discorso sulla fine della città e del mondo (cfr Mc 13,3); e, finalmente, gli è vicino quando nell'Orto del Getsémani si ritira in disparte per pregare il Padre prima della Passione (cfr Mc 14,33). Poco prima della Pasqua, quando Gesù sceglie due discepoli per mandarli a preparare la sala per la Cena, a lui ed a Pietro affida tale compito (cfr Lc 22,8).
Questa sua posizione di spicco nel gruppo dei Dodici rende in qualche modo comprensibile l’iniziativa presa un giorno dalla madre: ella si avvicinò a Gesù per chiedergli che i due figli, Giovanni appunto e Giacomo, potessero sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel Regno (cfr Mt 20,20-21). Come sappiamo, Gesù rispose facendo a sua volta una domanda: chiese se essi fossero disposti a bere il calice che egli stesso stava per bere (cfr Mt 20,22). L’intenzione che stava dietro a quelle parole era di aprire gli occhi dei due discepoli, di introdurli alla conoscenza del mistero della sua persona e di adombrare loro la futura chiamata ad essergli testimoni fino alla prova suprema del sangue. Poco dopo infatti Gesù precisò di non essere venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine (cfr Mt 20,28). Nei giorni successivi alla risurrezione, ritroviamo “i figli di Zebedeo” impegnati con Pietro ed alcuni altri discepoli in una notte infruttuosa, a cui segue per intervento del Risorto la pesca miracolosa: sarà “il discepolo che Gesù amava” a riconoscere per primo “il Signore” e a indicarlo a Pietro (cfr Gv 21,1-13).
All'interno della Chiesa di Gerusalemme, Giovanni occupò un posto di rilievo nella conduzione del primo raggruppamento di cristiani. Paolo infatti lo annovera tra quelli che chiama le “colonne” di quella comunità (cfr Gal 2,9). In realtà, Luca negli Atti lo presenta insieme con Pietro mentre vanno a pregare nel Tempio (cfr At 3,1-4.11) o compaiono davanti al Sinedrio a testimoniare la propria fede in Gesù Cristo (cfr At 4,13.19). Insieme con Pietro viene inviato dalla Chiesa di Gerusalemme a confermare coloro che in Samaria hanno accolto il Vangelo, pregando su di loro perché ricevano lo Spirito Santo (cfr At 8,14-15). In particolare, va ricordato ciò che afferma, insieme con Pietro, davanti al Sinedrio che li sta processando: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). Proprio questa franchezza nel confessare la propria fede resta un esempio e un monito per tutti noi ad essere sempre pronti a dichiarare con decisione la nostra incrollabile adesione a Cristo, anteponendo la fede a ogni calcolo o umano interesse.
Secondo la tradizione, Giovanni è “il discepolo prediletto”, che nel Quarto Vangelo poggia il capo sul petto del Maestro durante l'Ultima Cena (cfr Gv 13,21), si trova ai piedi della Croce insieme alla Madre di Gesù (cfr Gv 19, 25) ed è infine testimone sia della Tomba vuota che della stessa presenza del Risorto (cfr Gv 20,2; 21,7). Sappiamo che questa identificazione è oggi discussa dagli studiosi, alcuni dei quali vedono in lui semplicemente il prototipo del discepolo di Gesù. Lasciando agli esegeti di dirimere la questione, ci contentiamo qui di raccogliere una lezione importante per la nostra vita: il Signore desidera fare di ciascuno di noi un discepolo che vive una personale amicizia con Lui. Per realizzare questo non basta seguirlo e ascoltarlo esteriormente; bisogna anche vivere con Lui e come Lui. Ciò è possibile soltanto nel contesto di un rapporto di grande familiarità, pervaso dal calore di una totale fiducia. E’ ciò che avviene tra amici; per questo Gesù ebbe a dire un giorno: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici ... Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,13.15).
Negli apocrifi Atti di Giovanni l'Apostolo viene presentato non come fondatore di Chiese e neppure alla guida di comunità già costituite, ma in continua itineranza come comunicatore della fede nell'incontro con “anime capaci di sperare e di essere salvate” (18,10; 23,8). Tutto è mosso dal paradossale intento di far vedere l'invisibile. E infatti dalla Chiesa orientale egli è chiamato semplicemente “il Teologo”, cioè colui che è capace di parlare in termini accessibili delle cose divine, svelando un arcano accesso a Dio mediante l'adesione a Gesù.
Il culto di Giovanni apostolo si affermò a partire dalla città di Efeso, dove, secondo un’antica tradizione, avrebbe a lungo operato, morendovi infine in età straordinariamente avanzata, sotto l'imperatore Traiano. Ad Efeso l'imperatore Giustiniano, nel secolo VI, fece costruire in suo onore una grande basilica, di cui restano tuttora imponenti rovine. Proprio in Oriente egli godette e gode tuttora di grande venerazione. Nell’iconografia bizantina viene spesso raffigurato molto anziano – secondo la tradizione morì sotto l’imperatore Traiano - e in atto di intensa contemplazione, quasi nell’atteggiamento di chi invita al silenzio.
In effetti, senza adeguato raccoglimento non è possibile avvicinarsi al mistero supremo di Dio e alla sua rivelazione. Ciò spiega perché, anni fa, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, colui che il Papa Paolo VI abbracciò in un memorabile incontro, ebbe ad affermare: “Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma” (O. Clément, Dialoghi con Atenagora, Torino 1972, p. 159). Il Signore ci aiuti a metterci alla scuola di Giovanni per imparare la grande lezione dell’amore così da sentirci amati da Cristo “fino alla fine” (Gv 13,1) e spendere la nostra vita per Lui.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 5 luglio 2006]
VEGLIA DI PENTECOSTE
1. "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo"! (Gv 20, 21-22).
In questa vigilia di Pentecoste, la Chiesa che è in Roma si trova radunata come gli Apostoli nel Cenacolo, dopo gli eventi del triduo pasquale. Essi sapevano che il Signore era risorto ed era apparso a Simone. Ma Gesù in persona venne in mezzo a loro ed offrì il saluto di pace. Mostrò poi le mani ed il costato trafitti, con i segni visibili della passione. Sì! È proprio Lui. È lo stesso Gesù, prima crocifisso ed ora risorto. "I discepoli gioirono al vedere il Signore" ( Gv 20, 20 ).
Fin dalla sera del giorno di Pasqua, però, Gesù anticipò l’evento della Pentecoste: "Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo".
2.
Carissimi Fratelli e Sorelle della Diocesi di Roma! Mediante una veglia di preghiera, che richiama quella pasquale, ci siamo qui riuniti per prepararci alla solennità della discesa dello Spirito Santo.
La lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, che abbiamo poc’anzi ascoltata, ricorda quanto accadde a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste: l’improvviso vento impetuoso, l’apparizione delle lingue di fuoco, gli Apostoli che, pieni di Spirito Santo, cominciano ad annunciare il Vangelo in lingue a loro sconosciute.
Persone appartenenti a varie nazioni, e che usano linguaggi diversi, ascoltano parlare nelle loro proprie lingue gli Apostoli, che erano Galilei (cf. At 1, 11 ): "Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio" ( At 2, 11 ).
È l’inizio solenne della missione degli Apostoli, missione ricevuta cinquanta giorni prima dal Risorto, che aveva ordinato loro: "Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo" ( Gv 20, 21 . 22 ).
3.
"Emitte Spiritum tuum et creabuntur": "manda il tuo Spirito e saranno creati" (cf. Sal 103, 30 ).
Dicendo: "Ricevete lo Spirito Santo", Cristo rivela la potenza creatrice dello Spirito di Dio che, effuso sopra ogni uomo (cf. Gl 3, 1 ), ristabilisce quell’unità del genere umano infranta, a causa del peccato, presso la torre di Babele.
Babele è diventata il simbolo della disgregazione e della dispersione (cf. Gen 11,1-9 ). La Pentecoste costituisce invece il compimento pieno dell’unità che, per la potenza dello Spirito di verità, viene ricostruita a partire proprio dalla molteplicità dell’esistenza e delle esperienze umane.
Cristo è posto a capo del popolo della Nuova Alleanza: Egli è l’atteso grande Profeta. Attorno a Lui devono riunirsi "i figli e le figlie" del nuovo Israele (cf. Lumen gentium, n. 9), i quali, animati dallo Spirito che dà la vita (cf. Ez 37, 14 ), prendono personalmente parte alla missione salvifica di Cristo, Sacerdote, Profeta e Re, seguendo le sue orme, lungo i secoli ed i millenni.
4.
Il secondo millennio cristiano volge ormai al termine.
Consapevoli del "Tertio Millennio adveniente", del Terzo Millennio che si sta avvicinando, siamo riuniti in questo particolare Cenacolo della Chiesa, costituito questa sera presso la tomba di san Pietro. Ci guardano i quasi due millenni trascorsi, testimoniati in modo singolare da questo luogo, segnato dalle tombe di Martiri e di Confessori della fede. Qui siamo presso le reliquie degli Apostoli, colonne della Chiesa che è in Roma.
E si ripete in mezzo a noi, adesso, ciò che accadde la sera di Pasqua. Cristo, mediante l’Eucaristia, oltrepassa lo spazio e il tempo e si rende presente fra noi, come fece allora con gli Apostoli riuniti nel Cenacolo. Ci rivolge le stesse parole: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’ io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo".
5.
Ricevete lo Spirito Santo!
Siamo riuniti per invocare insieme il dono dello Spirito Santo per l’intera Comunità ecclesiale di Roma, chiamata a compiere un’impegnativa missione cittadina. Con questa iniziativa apostolica, la Chiesa che è in Roma intende spalancare le braccia ad ogni persona e famiglia della Città e penetrare come lievito in ogni ambito sociale, di lavoro, di sofferenza, di arte e di cultura, annunciando e testimoniando ai vicini e ai lontani il Signore risorto.
Carissimi Fratelli e Sorelle, vivendo in questa metropoli, che purtroppo non sfugge alle tentazioni del secolarismo, si è come sottilmente minacciati dalla stanchezza, dall’indifferenza, dal torpore spirituale e da quel relativismo in cui tutto si annacqua e si confonde. Ecco perché la grande missione cittadina, che con questa Veglia solennemente inauguriamo, è rivolta in primo luogo ai credenti. Essa è anzitutto implorazione allo Spirito Santo perché rinsaldi la nostra fede, rinnovi il nostro fervore, accenda la nostra carità.
Non si lasci turbare il nostro cuore dai timori e dalle perplessità. Al contrario, contando non sulle forze umane ma sulla grazia che viene da Dio, portiamo, quali testimoni della verità e dell’amore di Cristo, il Vangelo della speranza ad ogni abitante di Roma. Potremo così anche incidere sulla cultura, sui modi di vivere, sulle attese e i progetti dell’intera comunità cittadina.
6.
Chiesa che sei in Roma, il Signore ti ha amata con un amore incondizionato. Per questo sei ricca di energie spirituali e missionarie e molte di più lo Spirito, proprio attraverso la missione, ne susciterà in te.
Mi rivolgo anzitutto a voi, cari fratelli nel sacerdozio, consacrati per essere i primi testimoni del Vangelo e gli apostoli di verità e unità: siate i primi operatori instancabili della missione, siate santi per poter essere docili strumenti attraverso cui Dio opera la santificazione del suo popolo. È dalle parrocchie che deve partire questa missione e voi delle comunità parrocchiali siete i responsabili e i qualificati animatori.
E voi, cari religiosi e religiose, chiamati ad essere il segno profetico della presenza di Dio, donatevi con slancio, mediante la preghiera e le attività apostoliche, a questa Chiesa in missione. Troverete proprio in questo donarvi il gusto della vostra vocazione.
Penso a voi, cari fratelli e sorelle che operate pazientemente nelle parrocchie e formate il solido tessuto dell’attività pastorale quotidiana, della catechesi e del servizio della carità. Attraverso la missione potrete trovare un rinnovato vigore spirituale per trasmettere il Vangelo di Cristo nelle vostre famiglie e negli ambienti in cui lavorate. Voi, cari membri dei numerosi movimenti, organismi ed associazioni ecclesiali, assicurate alla missione cittadina la piena e fedele collaborazione, in stretta intesa con i Pastori, le parrocchie e l’intera realtà diocesana.
Voi, cari giovani, mettete le vostre fresche energie al servizio di questa grande impresa spirituale, superando ogni eventuale timore o rispetto umano. Proclamate con franchezza e coraggio la vostra fede in Cristo tra i vostri coetanei ed amici. Anche da voi, cari ammalati e sofferenti, e da voi che vi sentite emarginati, la missione cittadina attende un contributo in un certo senso determinante per il suo successo. Accogliendo la vostra condizione ed offrendola al Padre celeste insieme a Cristo, potete diventare una via provvidenziale e misteriosa di salvezza per Roma.
La missione vi appartiene, cari membri della Curia Romana e miei collaboratori al servizio della Chiesa universale, chiamati a dare il vostro qualificato contributo alla vita della Comunità cristiana, che è in Roma, ed alla preparazione del Grande Giubileo dell’Anno Duemila. Anche il vostro apporto sarà quanto mai importante per la buona riuscita di questa vasta azione evangelizzatrice.
La missione è fatta pure per voi, cari fratelli e sorelle giunti a Roma dalle più diverse parti del mondo. Voi ormai siete parte integrante della nostra Comunità diocesana. Grazie di essere qui con noi, questa sera, a pregare.
Possa la missione cittadina, dopo il Sinodo diocesano, segnare un ulteriore passo in avanti nel cammino di crescita spirituale e di comunione fra tutti i cristiani che vivono nella nostra Città.
7.
Il nostro sguardo, questa sera, non può non allargarsi alle attese della Chiesa universale, in cammino verso il Grande Giubileo del Duemila. La Chiesa cerca di prendere una coscienza più viva della presenza dello Spirito che agisce in lei, per il bene della sua comunione e missione, mediante doni sacramentali, gerarchici e carismatici.
Uno dei doni dello Spirito al nostro tempo è certamente la fioritura dei movimenti ecclesiali, che sin dall’inizio del mio Pontificato continuo a indicare come motivo di speranza per la Chiesa e per gli uomini. Essi "sono un segno della libertà di forme, in cui si realizza l’unica Chiesa, e rappresentano una sicura novità, che ancora attende di essere adeguatamente compresa in tutta la sua positiva efficacia per il Regno di Dio all’opera nell’oggi della storia" (Insegnamenti, VII 2[1984], p. 696). Nel quadro delle celebrazioni del Grande Giubileo, soprattutto quelle dell’anno 1998, dedicato in modo particolare allo Spirito Santo e alla sua presenza santificatrice all’interno della Comunità dei discepoli di Cristo (cf. Tertio millennio adveniente, n. 44), conto sulla comune testimonianza e sulla collaborazione dei movimenti. Confido che essi, in comunione con i Pastori ed in collegamento con le iniziative diocesane, vorranno portare nel cuore della Chiesa la loro ricchezza spirituale, educativa e missionaria, quale preziosa esperienza e proposta di vita cristiana.
8.
"Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo".
Cristo, anche nel segno dell’Evangeliario che questa sera affido al Cardinale Vicario perché sia solennemente esposto nella Basilica di san Giovanni in Laterano, è presente e sostiene il cammino della grande missione cittadina che condurrà la Comunità ecclesiale di Roma alle soglie del terzo millennio.
"Anch’io mando voi... ".
Signore, come avvenne agli inizi della missione della Chiesa, all’alba del primo millennio, tu oggi ci invii per una nuova missione evangelizzatrice.
Ci affidi il compito di portare la Buona Novella nelle strade e nelle piazze di questa Città; tu vuoi che la tua Chiesa sia pellegrina di speranza e di pace nelle vie del mondo.
Sostieni il nostro cammino con la forza del tuo Spirito; rendici apostoli coraggiosi del Vangelo e costruttori di una nuova umanità.
Maria, Salus Populi Romani, che accompagnerai con la tua venerata icona il pellegrinaggio di questa notte, guida i nostri passi; ottienici la pienezza dei doni dello Spirito Santo.
"Emitte Spiritum tuum et creabuntur". Amen!
[Papa Giovanni Paolo II, Omelia per l’Inaugurazione della Missione cittadina, in preparazione al Grande Giubileo, 25 maggio 1996]
Anche stasera, vigilia dell’ultimo giorno del tempo di Pasqua, festa di Pentecoste, Gesù è in mezzo a noi e proclama ad alta voce: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38).
È “il fiume d’acqua viva” dello Spirito Santo che scaturisce dal grembo di Gesù, dal suo fianco trafitto dalla lancia (cfr Gv 19,36), e che lava e feconda la Chiesa, mistica sposa rappresentata da Maria, nuova Eva, ai piedi della croce.
Lo Spirito Santo sgorga dal grembo di misericordia di Gesù Risorto, riempie il nostro grembo di una “misura buona, pigiata, colma e traboccante” di misericordia (cfr Lc 6,38) e ci trasforma in Chiesa-grembo di misericordia, cioè in una “madre dal cuore aperto” per tutti! Quanto vorrei che la gente che abita a Roma riconoscesse la Chiesa, ci riconoscesse per questo di più di misericordia – non per altre cose –, per questo di più di umanità e di tenerezza, di cui c’è tanto bisogno! Si sentirebbe come a casa, la “casa materna” dove si è sempre benvenuti e dove si può sempre ritornare. Si sentirebbe sempre accolta, ascoltata, ben interpretata, aiutata a fare un passo avanti nella direzione del regno di Dio… Come sa fare una madre, anche con i figli diventati ormai grandi.
Questo pensiero alla maternità della Chiesa mi fa ricordare che 75 anni fa, l’11 giugno del 1944, il Papa Pio XII compì uno speciale atto di ringraziamento e di supplica alla Vergine, per la protezione della città di Roma. Lo fece nella chiesa di Sant’Ignazio, dove era stata portata la venerata immagine della Madonna del Divino Amore. L’Amore Divino è lo Spirito Santo, che scaturisce dal Cuore di Cristo. È Lui la “roccia spirituale” che accompagna il popolo di Dio nel deserto, perché attingendone l’acqua viva possa dissetarsi lungo il cammino (cfr 1 Cor 10,4). Nel roveto che non si consuma, immagine di Maria Vergine e Madre, c’è il Cristo Risorto che ci parla, ci comunica il fuoco dello Spirito Santo, ci invita a scendere in mezzo al popolo per ascoltare il grido, ci invia per aprire il varco a cammini di libertà che portano a terre promesse da Dio.
Lo sappiamo: c’è anche oggi, come in ogni tempo, chi cerca di costruire “una città e una torre che arrivi fino al cielo” (cfr Gen 11,4). Sono i progetti umani, anche i nostri progetti, fatti al servizio di un “io” sempre più grande, verso un cielo dove non c’è più spazio per Dio. Dio ci lascia fare per un po’, in modo da farci sperimentare fino a che punto di male e di tristezza siamo capaci di arrivare senza di Lui… Ma lo Spirito del Cristo, Signore della storia, non vede l’ora di buttare all’aria tutto, per farci ricominciare! Noi siamo sempre un po’ “stretti” di sguardo e di cuore; lasciati a noi stessi finiamo per perdere l’orizzonte; arriviamo a convincerci di aver compreso tutto, di aver preso in considerazione tutte le variabili, di aver previsto cosa accadrà e come accadrà… Sono tutte costruzioni nostre che si illudono di toccare il cielo. Invece lo Spirito irrompe nel mondo dall’Alto, dal grembo di Dio, lì dove il Figlio è stato generato, e fa nuove tutte le cose.
Che cosa celebriamo oggi, tutti insieme, in questa nostra città di Roma? Celebriamo il primato dello Spirito, che ci fa ammutolire di fronte all’imprevedibilità del piano di Dio, e poi trasalire di gioia: “Allora era questo che Dio aveva in grembo per noi!”: questo cammino di Chiesa, questo passaggio, questo Esodo, questo arrivo alla terra promessa, la città-Gerusalemme dalle porte sempre aperte per tutti, dove le varie lingue dell’uomo si compongono nell’armonia dello Spirito, perché lo Spirito è l’armonia.
E se abbiamo presenti le doglie del parto, comprendiamo che il nostro gemito, quello del popolo che abita in questa città e il gemito del creato intero non sono altro che il gemito stesso dello Spirito: è il parto del mondo nuovo. Dio è il Padre e la madre, Dio è la levatrice, Dio è il gemito, Dio è il Figlio generato nel mondo e noi, Chiesa, siamo al servizio di questo parto. Non al servizio di noi stessi, non al servizio delle nostre ambizioni, di tanti sogni di potere, no: al servizio di questo che Dio fa, di queste meraviglie che Dio fa.
«Se l’orgoglio e la presunta superiorità morale non ci ottundono l’udito, ci renderemo conto che sotto il grido di tanta gente non c’è altro che un gemito autentico dello Spirito Santo. È lo Spirito che spinge ancora una volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che ci salverà da ogni “risistematizzazione” diocesana» (Discorso al Convegno diocesano, 9 maggio 2019). Il pericolo è questa voglia di confondere le novità dello Spirito con un metodo di “risistematizzare” tutto. No, questo non è lo Spirito di Dio. Lo Spirito di Dio sconvolge tutto e ci fa incominciare non da capo, ma da un nuovo cammino.
Lasciamoci allora prendere per mano dallo Spirito e portare in mezzo al cuore della città per ascoltarne il grido, il gemito. A Mosè Dio dice che questo grido nascosto del Popolo è arrivato sino a Lui: Egli lo ha udito, ha visto l’oppressione e le sofferenze… E ha deciso di intervenire inviando Mosè per suscitare e alimentare il sogno di libertà degli Israeliti e rivelare loro che questo sogno è la sua stessa volontà: fare di Israele un Popolo libero, il suo Popolo, legato a Lui da un’alleanza d’amore, chiamato a testimoniare la fedeltà del Signore davanti a tutte le genti.
Ma perché Mosè possa realizzare la sua missione, Dio vuole invece che egli “scenda” con Lui in mezzo agli Israeliti. Il cuore di Mosè deve diventare come quello di Dio, attento e sensibile alle sofferenze e ai sogni degli uomini, a quello che gridano di nascosto quando alzano le mani verso il Cielo, perché non hanno più appigli sulla terra. È il gemito dello Spirito, e Mosè deve ascoltare, non con l’orecchio, con il cuore. Oggi chiede a noi, cristiani, di imparare ad ascoltare con il cuore. E il Maestro di questo ascolto è lo Spirito. Aprire il cuore perché Lui ci insegni ad ascoltare con il cuore. Aprirlo.
E per metterci in ascolto del grido della città di Roma, anche noi abbiamo bisogno che il Signore ci prenda per mano e ci faccia “scendere”, scendere dalle nostre posizioni, scendere in mezzo ai fratelli che abitano nella nostra città, per ascoltare il loro bisogno di salvezza, il grido che arriva fino a Lui e che noi abitualmente non udiamo. Non si tratta di spiegare cose intellettuali, ideologiche. A me fa piangere quando vedo una Chiesa che crede di essere fedele al Signore, di aggiornarsi quando cerca strade puramente funzionalistiche, strade che non vengono dallo Spirito di Dio. Questa Chiesa non sa scendere, e se non si scende non è lo Spirito che comanda. Si tratta di aprire occhi e orecchie, ma soprattutto il cuore, ascoltare con il cuore. Allora ci metteremo in cammino davvero. Allora sentiremo dentro di noi il fuoco della Pentecoste, che ci spinge a gridare agli uomini e alle donne di questa città che è finita la loro schiavitù e che è Cristo la via che porta alla città del Cielo. Per questo ci vuole la fede, fratelli e sorelle. Chiediamo oggi il dono della fede per andare su questa strada.
[Papa Francesco, omelia alla veglia di Pentecoste 8 giugno 2019]
(Gv 21,15-19)
Gesù chiama Simone con l’attributo «di Giovanni» perché lo considera ancora spiritualmente allievo del Battista (!).
Malgrado le sue oscillazioni, il Signore lo rimette in piedi.
Anche con noi, il Figlio non si stanca di riproporre un Volto di Dio amabile e invitante, capace di stupire.
Ricordiamo infatti che l’apostolo capo era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9 con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].
Così, al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo è Gesù stesso che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».
L’amore umano attende un minimo di soddisfazione; non riesce a configurarsi in pura perdita. Aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.
Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.
‘Attendere’ è l’infinito del verbo amare, perché consente di ‘nascere’ ancora.
Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.
L’Amore divino recupera, aiuta a diventare un’altra persona - non rompe l’intesa.
La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni.
Anche attraverso le opere, dire «ti amo» è [purtroppo non di rado] una dichiarazione fatua.
O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.
È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia che tramuta la presunzione di sé in apostolato!
Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).
E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.
Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.
«Pascere» non è (appunto) dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).
Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta - poi si vedrà...
Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.
La pienezza del “risultato” è la Gioia di ogni singola persona reale - così com’è - non “come dovrebbe essere” secondo opinione.
Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?
[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].
Dunque ‘nemico’ di Dio non è l’incertezza, ma la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.
[Venerdì 7.a sett. di Pasqua, 6 giugno 2025]
Mistero dell’Amore e dell’Eros
Gv 21,15-19 (1-19)
Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 non riguarda la vicenda della Chiesa dopo la Pasqua, ma si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.
Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.
La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo [Pietro]. Qualcuno sta dentro e fuori [Tommaso], altri restano legati al passato [Natanaele], e non mancano i fanatici [i figli di Zebedeo]; quindi gli anonimi, ossia tutti noi.
Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri pur insubordinati decideranno spontaneamente (v.3), dilatando la loro vita.
Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta e non salva nessuno.
Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.
La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!
Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte verso una possibilità di respiro o stima di sé e vita piena, bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.
Richiamo per noi. Ogni cultura possiede molte qualità: si faccia leva su di esse, invece di approcciare donne e uomini, etnie o situazioni, evidenziando limiti e problemi.
Quindi il Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].
Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.
È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].
E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare tutti.
Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della notizia di Dio favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli di maniera.
Per la comunione con Dio e i fratelli, nel cammino della vita e nel senso di rinascita che vi si annida [ad es. dopo un dolore, i travagli, esperienze di rifiuto, pensieri di fallimento e morte...] Gesù aveva fatto emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno.
La sua proposta aveva soppiantato il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione, sostituite appunto con le nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro. Non: combattere, bensì accogliere. Non: obbedire, ma somigliare. E così via.
La chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di santi, ma di peccatori e indecisi. La vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.
È la risurrezione che ci manda fra gli uomini, appunto da rigenerare; proprio come noi. Quindi la condizione di apostolo non è sottoposta alla solita trafila dottrinale, moralistica, di costume, e religiosa; non tarda più ad essere assunta.
Malgrado il credere in sé rimanga fragile, facciamo di continuo esperienza di risuscitazione dalle nostre macerie - risollevando o nel migliore dei casi rigenerando l’intero organismo dello spirito, e l’universo interiore.
Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e in tal guisa sa giustificare le resistenze all’Annuncio.
Infatti è nel recupero dei lati opposti e nella sinergia delle contraddizioni che siamo diventati - nel proprio - esperti della difficoltà. Più in grado di cogliere i disagi; perfino il sentimento di sentirsi svuotati, che presto o tardi darà spazio al capovolgimento; inedito felice.
Poi abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni: l’intuirsi travolti - persino nelle idee. E la necessità di cogliere e perderci nei dolori, assurdi o insopportabili. Lati dignitosi; volti di noi stessi.
Insomma, al fine di una realizzazione vocazionale, ciascuno è già “perfetto”.
Nel suo portato di energie difformi, deve solo imparare a incontrare i rilievi di sé cui ancora non ha fatto largo.
Come se dentro di noi avessimo una molteplicità di aspetti, spesso tutti da scoprire, dietro un qualche guscio che resiste - i quali ci completano e guidano infallibilmente alla fioritura personale e sociale.
Così nell’esodo passiamo dall’esperienza di morte-risurrezione alla vera testimonianza - nella spontanea franchezza di venire abilitati come evangelizzatori.
Cosa che ci sorprende. Ma adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.
Diventa Richiamo di pace, però esplosivo - incredibile, e lo si vede più dai limiti (ora nulla da temere) che dall’abilità, o dallo stile esterno, dalla capacità di allestire cattedre sentenziose, nonché vetrine.
Dopo Cristo non bisogna più “migliorare” secondo accezione comune - né attesa, o proposito, che guardino e si abbeverino alla fonte del già detto da altri [in passato, o per la moda] che poi ricolloca nella medesima situazione prevedibile di sempre.
Per i malfermi apostoli, il consenso, la religione antica o glamour, l’identificazione, erano la negazione di se stessi nel cuore.
Viceversa la Chiamata per Nome diveniva lo sviluppo di ciò che ognuno era nel profondo e che non si era dato, manipolandosi.
Strada della realizzazione di sé, anche nel contributo ai fratelli. Anch’essi non intimamente dissociati.
Unica arma convincente, la genuinità - che arde dentro per farci santuari, inconsapevoli e incompleti ma viventi.
Contemplativi e in azione. Sola via per incontrare le anime.
Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.
Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.
Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.
Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo a capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].
Al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo con lo stesso Simone - «di Giovanni» perché ancora spiritualmente allievo del Battista (!) - è Gesù che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».
L’amore umano attende un minimo di soddisfazione, non riesce a configurarsi in pura perdita - aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.
Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.
‘Attendere’ è l’infinito del verbo ‘amare’, perché consente di nascere ancora.
Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.
L’Amore divino recupera; aiuta a diventare un’altra ‘persona’, a tutto tondo - non rompe l’intesa.
La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni: anche attraverso le opere, dire «ti amo» è (purtroppo non di rado) una dichiarazione fatua.
O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.
È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia, che tramuta la presunzione di sé in apostolato!
Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).
E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.
Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.
«Pascere» non è [appunto] dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).
Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta, poi si vedrà.
Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.
La pienezza del ‘risultato’ è la Felicità di ogni singola persona reale - così com’è - non come “dovrebbe essere” secondo opinione acclarata.
Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?
Dunque “nemico” di Dio non è l’incertezza o il peccato - ossessione che genera squilibrati - bensì la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.
[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Sei un inviato o un semplice ammiratore?
Qual è la tua personale Sorgente?
Qual è la Fonte delle tue relazioni?
E la radice della fedeltà e di ogni generosità che ti trascina, e mostri?
Amore totale e non
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.
In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).
Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.
(Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006)
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.
In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).
Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006]
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athenagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
This is to say that Jesus has put himself on the level of Peter, rather than Peter on Jesus' level! It is exactly this divine conformity that gives hope to the Disciple, who experienced the pain of infidelity. From here is born the trust that makes him able to follow [Christ] to the end: «This he said to show by what death he was to glorify God. And after this he said to him, "Follow me"» (Pope Benedict)
Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Papa Benedetto)
Unity is not made with glue [...] The great prayer of Jesus is to «resemble» the Father (Pope Francis)
L’Unità non si fa con la colla […] La grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre (Papa Francesco)
Divisions among Christians, while they wound the Church, wound Christ; and divided, we cause a wound to Christ: the Church is indeed the body of which Christ is the Head (Pope Francis)
Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo (Papa Francesco)
The glorification that Jesus asks for himself as High Priest, is the entry into full obedience to the Father, an obedience that leads to his fullest filial condition [Pope Benedict]
La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale [Papa Benedetto]
All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]
Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza [Papa Francesco]
The Ascension does not point to Jesus’ absence, but tells us that he is alive in our midst in a new way. He is no longer in a specific place in the world as he was before the Ascension. He is now in the lordship of God, present in every space and time, close to each one of us. In our life we are never alone (Pope Francis)
L’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli (Papa Francesco)
The Magnificat is the hymn of praise which rises from humanity redeemed by divine mercy, it rises from all the People of God; at the same time, it is a hymn that denounces the illusion of those who think they are lords of history and masters of their own destiny (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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