don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 14 Ottobre 2025 04:41

Non «ritorno», e gente libera

Presenza e Venuta senza contese

(Lc 12,39-48)

 

Gesù tira le orecchie a quelli di Casa, non per autolesionismo: non è amore né libertà non poter capire in quale direzione andare, non avere una mèta che trasmetta senso al nostro pellegrinare in ricerca.

Già nelle comunità dei primi secoli era viva l’idea della fine del mondo e dell’immediatamente successivo «ritorno» del Risorto ad aggiustare le cose - come un qualsiasi Messia. Così qualcuno non s’impegnava più. Altri rimanevano col nasino all’insù, per scrutare il cielo.

Ma la Venuta del Cristo è sempre imminente, e il Giudizio sulle cose del mondo è già stato pronunciato sulla Croce.

Nel suo Spirito che fa nuove tutte le cose, e nei suoi intimi, il Signore non si è mai trasferito (altrove; o in alto) [cf. Mt 28,20].

La fase finale della storia inizia appunto da questo germe di Fede non alienata, di Persona non repressa, e di società alternativa; ma la storia da scrivere è compito della Chiesa.

Il nuovo cielo e la nuova terra della Presenza che divinizza è già palpitante. In tal guisa, Egli è accanto a noi quando lottiamo per la realizzazione e la vita piena di tutti.

Poi, in nessun passo dei Vangeli è scritto che Gesù «tornerà»: sebbene non percepibile ai sensi, non si è mai allontanato.

Gode di una Vita piena, non condizionata da coordinate spazio temporali come la nostra.

Egli è ‘il Veniente’ [testo greco, passim]: colui che Viene senza posa, e si fa compagno di viaggio - non solo in figura eccezionale.

L’attenzione delle persone impressionabili già negli anni 80 si spostava (purtroppo) sul Ritorno invece che sulla «Venuta incessante»: ossia, percezione della sua Amicizia nelle cose anche comuni, nell’Appello dei bisognosi; nel Richiamo delle intuizioni, della Parola, degli accompagnatori del nostro viaggio; nel genio del tempo, e persino nelle vicende di tutti i giorni.

«Venuta» è: nei traguardi che sorridono, ma persino e forse ancor più negli scogli da vivere - o aggirare, spostando lo sguardo; nelle delusioni, che ci guidano a cercare una gioia meno esteriore.

Così - secondo il desiderio del Signore - la buona guida della comunità cristiana si farà servitrice degli smarriti, non si approprierà dei beni della Chiesa, diverrà vigilante anche in favore altrui.

È fondamentale che i primi della classe non si lascino trascinare dal desiderio adolescenziale di autoaffermarsi, con avidità di privilegi e incetta di mansioni rilevanti.

La fedeltà è atteggiamento richiesto specialmente a coloro che nelle assemblee hanno un compito particolare e preciso, di guida: vietato abusarne!

L’unica smania da cui devono sentirsi presi è quella di affrettare l’ora della Comunione e introdurre un’energia rigeneratrice, anche nei ruoli.

Pietro è però condizionato dal falso insegnamento tradizionale, del tutto antitetico, e non riesce a concepirlo.

Secondo il Maestro, invece, capi e responsabili di comunità non sono dei privilegiati o eletti esclusivi, bensì coloro cui è chiesto di fare più e meglio.

Gente libera.

Unico obbiettivo plausibile del cammino particolare nella potenza del Risorto è di carattere materno e universale: «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli» [FT n.278].

 

 

[Mercoledì 29.a sett. T.O.  22 Ottobre 2025]

(Lc 12,39-48)

 

«Anche voi siate pronti perché, nell’ora che non credete il Figlio dell’uomo viene» (Lc 12,40).

 

Gesù tira le orecchie a quelli di Casa, non per autolesionismo: non è amore né libertà non poter capire in quale direzione andare, non avere una mèta che trasmetta senso al nostro pellegrinare in ricerca.

Già nelle comunità dei primi secoli era viva l’idea della fine del mondo e dell’immediatamente successivo «ritorno» del Risorto ad aggiustare le cose - come un qualsiasi Messia.

Così qualcuno non si impegnava più. Altri rimanevano col nasino all’insù, per scrutare il cielo.

Ma la Venuta del Cristo è sempre imminente, e il Giudizio sulle cose del mondo è già stato pronunciato sulla Croce.

Nel suo Spirito che fa nuove tutte le cose, e nei suoi intimi, il Signore non si è mai trasferito (altrove; o in alto) [cf. Mt 28,20].

La fase finale della storia inizia appunto da questo germe di Fede non alienata, di Persona non repressa, e di società alternativa; ma la storia da scrivere è compito della Chiesa.

Il nuovo cielo e la nuova terra della Presenza che divinizza è già palpitante. In tal guisa, Egli è accanto a noi quando lottiamo per la realizzazione e la vita piena di tutti.

Per tale motivo, in epigrafe all’enciclica Fratelli Tutti, ecco stagliarsi la figura pratica ed eloquente di s. Francesco «che si sentiva fratello del sole, del mare e del vento, sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi» [n.2].

I Vangeli e il Magistero recente - non più neutrale - intonano il de profundis alla spiritualità periferica, intimista e vuota che ha segnato il cattolicesimo di massa in Occidente.

 

Chiaro il motivo per cui in nessun passo dei Vangeli è scritto che Gesù «tornerà»: sebbene non percepibile ai sensi, non si è mai allontanato.

Gode di una Vita piena, non condizionata da coordinate spazio temporali.

Egli è ‘il Veniente’ [testo greco, passim]: colui che Viene senza posa, e si fa compagno di viaggio - non solo nelle figure eccezionali come il Santo d’Assisi.

Tuttavia già negli anni 80 del primo secolo l’attenzione delle persone impressionabili si stava spostando (purtroppo) sul Ritorno invece che sulla Venuta provvidente - perno della Fede positiva nella vita stessa, che rivela il Volto del Dio-Con.

«Venuta incessante»: è percezione della sua Amicizia nelle cose, anche comuni, nell’Appello dei bisognosi; nel Richiamo delle intuizioni, della Parola, e degli accompagnatori del nostro viaggio.

«Venuta» è: nei traguardi che sorridono, ma persino e forse ancor più negli scogli da vivere - o aggirare, spostando lo sguardo; nelle delusioni, che ci guidano a cercare una gioia meno esteriore.

È «Avvento» del Cristo: l’istinto vocazionale che ci attiva, il senso della fraternità vitale, l’amicizia sensibile di tutti coloro che sanno comprendere, introdurre e coordinare - nonché la predilezione per le relazioni di qualità; la Fiducia nel genio del tempo, persino nelle vicende di tutti i giorni.

In tal guisa e secondo il desiderio del Signore, la buona guida della comunità cristiana si farà servitrice degli smarriti, non si approprierà dei beni della Chiesa, e diverrà vigilante anche in favore altrui.

È fondamentale che i primi della classe non si lascino trascinare dal desiderio adolescenziale di autoaffermarsi, con avidità di privilegi e incetta di mansioni rilevanti.

La fedeltà è atteggiamento richiesto specialmente a coloro che nelle assemblee hanno un compito particolare e preciso, di guida: vietato abusarne!

L’unica smania da cui devono sentirsi presi è quella di affrettare l’ora della Comunione e introdurre un’energia rigeneratrice, anche nei ruoli.

Pietro è però condizionato dal falso insegnamento tradizionale, del tutto antitetico; e non riesce a concepirlo.

Secondo il Maestro, invece, i capi e responsabili di comunità non sono dei privilegiati o eletti esclusivi, bensì coloro cui è chiesto di fare più e meglio - non in favore loro!

Il mondo e la Chiesa hanno bisogno di meno finti padroni - piuttosto, di servitori diligenti e convinti, che attirino per testimonianza diretta. Non per prestigio di titoli e ruoli.

Gente libera.

Unico obbiettivo plausibile del cammino particolare nella potenza del  Risorto è di carattere materno e universale: «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli» [FT n.278].

 

Dice il Tao (LXVI): «La ragione per cui fiumi e mari possono essere sovrani di cento valli è che ben se ne tengono al disotto: perciò possono essere sovrani di cento valli. Così chi vuol stare disopra al popolo con i detti se ne pone al disotto, chi vuol stare davanti al popolo con la persona ad esso si pospone».

E il maestro Ho shang-Kung commenta: «Il mondo non si sazia del santo, perché costui non contende con gli altri per il primo o l’ultimo posto».

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua comunità hai incontrato servitori o padroni?

Le guide ti aiutano a cercare il balzo, la realizzazione autentica, la gioia interiore?

La prima caratteristica, che il Signore richiede dal servo, è la fedeltà. Gli è stato affidato un grande bene, che non gli appartiene. La Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio. Il servo deve rendere conto di come ha gestito il bene che gli è stato affidato. Non leghiamo gli uomini a noi; non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente. Con ciò li introduciamo nella verità e nella libertà, che deriva dalla verità. La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati. Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune. Il Signore traccia con poche linee un'immagine del servo malvagio, il quale si mette a gozzovigliare e a percuotere i dipendenti, tradendo così l'essenza del suo incarico. In greco, la parola che indica "fedeltà" coincide con quella che indica "fede". La fedeltà del servo di Gesù Cristo consiste proprio anche nel fatto che egli non cerca di adeguare la fede alle mode del tempo. Solo Cristo ha parole di vita eterna, e queste parole dobbiamo portare alla gente. Esse sono il bene più prezioso che ci è stato affidato. Una tale fedeltà non ha niente di sterile e di statico; è creativa. Il padrone rimprovera il servo, che aveva nascosto sottoterra il bene consegnatogli per evitare ogni rischio. Con questa apparente fedeltà il servo ha in realtà accantonato il bene del padrone, per potersi dedicare esclusivamente ai propri affari. Fedeltà non è paura, ma è ispirata dall'amore e dal suo dinamismo. Il padrone loda il servo, che ha fatto fruttificare i suoi beni. La fede richiede di essere trasmessa: non ci è stata consegnata soltanto per noi stessi, per la personale salvezza della nostra anima, ma per gli altri, per questo mondo e per il nostro tempo. Dobbiamo collocarla in questo mondo, affinché diventi in esso una forza vivente; per far aumentare in esso la presenza di Dio.

[Papa Benedetto, omelia per l’ordinazione episcopale 12 settembre 2009]

Martedì, 14 Ottobre 2025 04:26

Chiamata: a servire

3. - “...come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28).

Gesù è davvero il modello perfetto del “servo” di cui parla la Scrittura. Egli è colui che s’è spogliato radicalmente di sé per assumere “la condizione di servo” (Fil 2,7), e dedicarsi totalmente alle cose del Padre (cfr Lc 2,49), quale Figlio prediletto in cui il Padre si compiace (cfr Mt 17,5). Gesù non è venuto per esser servito, “ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28); ha lavato i piedi dei suoi discepoli e ha obbedito al progetto del Padre fino alla morte e alla morte di cro- ce (cfr Fil 2,8). Per questo il Padre stesso lo ha esaltato dandogli un no- me nuovo e facendolo Signore del cielo e della terra (cfr Fil 2,9-11).

Come non leggere nella vicenda del “servo Gesù” la storia d’ogni vocazione, quella storia pensata dal Creatore per ogni essere umano, storia che inevitabilmente passa attraverso la chiamata a servire e culmina nella scoperta del nome nuovo, pensato da Dio per ciascuno? In tale “nome” ciascuno può cogliere la propria identità, orientandosi verso una realizzazione di se stesso che lo renderà libero e felice. Come non leggere, in particolare, nella parabola del Figlio, Servo e Signore, la storia vocazionale di chi è da Lui chiamato a seguirlo più da vicino, ad esser cioè servo nel ministero sacerdotale o nella consacrazione religiosa? In effetti, la vocazione sacerdotale o religiosa è sempre, per natura sua, vocazione al servizio generoso a Dio e al prossimo.

Il servizio diventa allora via e mediazione preziosa per giungere a meglio comprendere la propria vocazione. La diakonia è vero e proprio itinerario pastorale vocazionale (cfr Nuove vocazioni per una nuova Europa, 27c).

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XL Giornata Mondiale per le Vocazioni, 11 maggio 2003]

Nell’odierna pagina del Vangelo (Lc 12,32-48), Gesù parla ai suoi discepoli dell’atteggiamento da assumere in vista dell’incontro finale con Lui, e spiega come l’attesa di questo incontro deve spingere ad una vita ricca di opere buone. Tra l’altro dice: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma» (v. 33). E’ un invito a dare valore all’elemosina come opera di misericordia, a non riporre la fiducia nei beni effimeri, a usare le cose senza attaccamento ed egoismo, ma secondo la logica di Dio, la logica dell’attenzione agli altri, la logica dell’amore. Noi possiamo, essere tanto attaccati al denaro, avere tante cose, ma alla fine non possiamo portarle con noi. Ricordatevi che “il sudario non ha tasche”.

L’insegnamento di Gesù prosegue con tre brevi parabole sul tema della vigilanza. Questo è importante: la vigilanza, essere attenti, essere vigilanti nella vita. La prima è la parabola dei servi che aspettano nella notte il ritorno del padrone. «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli» (v. 37): è la beatitudine dell’attendere con fede il Signore, del tenersi pronti, in atteggiamento di servizio. Egli si fa presente ogni giorno, bussa  alla porta del nostro cuore. E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli. Con questa parabola, ambientata di notte, Gesù prospetta la vita come una veglia di attesa operosa, che prelude al giorno luminoso dell’eternità. Per potervi accedere bisogna essere pronti, svegli e impegnati al servizio degli altri, nella consolante prospettiva che, “di là”, non saremo più noi a servire Dio, ma Lui stesso ci accoglierà alla sua mensa. A pensarci bene, questo accade già ogni volta che incontriamo il Signore nella preghiera, oppure nel servire i poveri, e soprattutto nell’Eucaristia, dove Egli prepara un banchetto per nutrirci della sua Parola e del suo Corpo.

La seconda parabola ha come immagine la venuta imprevedibile del ladro. Questo fatto esige una vigilanza; infatti Gesù esorta: «Tenetevi pronti, perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (v. 40). Il discepolo è colui che attende il Signore e il suo Regno. Il Vangelo chiarisce questa prospettiva con la terza parabola: l’amministratore di una casa dopo la partenza del padrone. Nel primo quadro, l’amministratore esegue fedelmente i suoi compiti e riceve la ricompensa. Nel secondo quadro, l’amministratore abusa della sua autorità e percuote i servi, per cui, al ritorno improvviso del padrone, verrà punito. Questa scena descrive una situazione frequente anche ai nostri giorni: tante ingiustizie, violenze e cattiverie quotidiane nascono dall’idea di comportarci come padroni della vita degli altri. Abbiamo un solo padrone a cui non piace farsi chiamarsi “padrone” ma “Padre”. Noi tutti siamo servi, peccatori e figli: Lui è l’unico Padre.

Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo. Anzi, proprio questa nostra speranza di possedere il Regno nell’eternità ci spinge a operare per migliorare le condizioni della vita terrena, specialmente dei fratelli più deboli. La Vergine Maria ci aiuti ad essere persone e comunità non appiattite sul presente, o, peggio, nostalgiche del passato, ma protese verso il futuro di Dio, verso l’incontro con Lui, nostra vita e nostra speranza.

[Papa Francesco, Angelus 7 agosto 2016]

Martedì, 07 Ottobre 2025 14:42

28a Domenica T.O. (anno C)

XXVIII Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [12 Ottobre 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Riflettere sulla gratitudine che è più facile notare fra coloro che sono lontani è un invito a rivedere la nostra personale relazione con Dio.

 

Prima Lettura dal secondo libro dei Re (5, 14-17)

La lettura di questa domenica comincia nel momento in cui il generale Naaman, apparentemente docile come un agnello, si immerge nell’acqua del Giordano, su ordine del profeta Eliseo; ma ci manca l’inizio della storia: ve lo racconto. Naaman è un generale siriano molto stimato dal re di Aram (l’attuale Damasco). Ovviamente, per il popolo di Israele, egli è uno straniero e in certi periodi addirittura un nemico e soprattutto essendo un pagano non appartiene al popolo eletto. Ancora più grave: è lebbroso, il che significa che presto tutti lo eviteranno e per lui è una vera maledizione. Fortunatamente per lui, sua moglie ha una schiava israelita la quale dice alla padrona: “A Samaria c’è un grande profeta che potrebbe sicuramente guarire Naaman”. La padrona lo riferisce al marito Naaman, il quale lo dice al re di Aram: il profeta di Samaria può guarirmi. E poiché Naaman gode di grande favore, il re scrive una lettera di presentazione al re di Samaria raccomandando Naaman  affetto da lebbra perché vada dal  profeta Eliseo. Il re di Israele non sa che il profeta Eliseo può guarire anzi è nel panico perché pensa che il re di Siria sta cercando un pretesto per fargli guerra. Eliseo viene a sapere e chiede di venire Naaman che arriva con tutta la sua scorta e i bagagli pieni di doni per il guaritore. In realtà, solamente un servo socchiude la porta e si limita a dirgli che il suo padrone gli ordina di immergersi sette volte nel Giordano per essere purificato.  Naaman ritiene questo offensivo e a che serve tuffarsi nel Giordano dato che in Siria ci sono fiumi ben più belli del Giordano. Infuriato riprende la strada verso Damasco, ma fortunatamente i suoi servi gli dicono: Ti aspettavi che il profeta ti chiedesse cose straordinarie per guarirti e le avresti fatte. Ora ti ordina una cosa ordinaria perché non puoi farla? Naaman  si lascia convincere e comincia da questo punto la lettura di oggi. Naaman obbedisce a un ordine semplice immergendosi sette volte nel Giordano ed  è guarito. A noi sembra semplice, ma per un grande generale di un esercito straniero è proprio questa obbedienza che non è affatto semplice! Il seguito del testo lo dimostra. Naaman è guarito e torna da Eliseo per dirgli due cose. La prima: “Ora so che non c’è Dio, su tutta la terra, se non in Israele” e aggiungerà dopo che tornato nel suo paese, gli offrirà sacrifici. L’autore di questo passo approfitta per dire agli Ebrei: voi avete da secoli la protezione dell’unico Dio e ora vedete che Dio è anche per gli stranieri, mentre voi continuate a lasciarvi tentare dall’idolatria. Questo straniero, invece ha capito in fretta da dove gli viene la guarigione. Inoltre Naaman dice a Eliseo che vuole dargli un dono per ringraziarlo, ma il profeta rifiuta energicamente: i doni di Dio non si comprano.. Infine perché Naaman vuol portare con sé un po’ di terra d’Israele? Egli motiva la richiesta perché non vuole offrire  olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma solo al Dio d’Israele. Questo fa capire che, al tempo del profeta Eliseo, tutti i popoli vicini a Israele credevano che le divinità regnassero su territori specifici e per offrire sacrifici al Dio d’Israele, Naaman crede dunque di dover portare con sé della terra sulla quale regna questo Dio.

 

Salmo Responsoriale (97/98, 1-4)

Nella prima lettura Naaman, generale siriano quindi un pagano, viene guarito dal profeta Eliseo e, grazie a questo, scopre il Dio d’Israele. Naaman è dunque del tutto adatto a cantare questo salmo, nel quale si parla dell’amore di Dio sia per i pagani, quelli che la Bibbia chiama le nazioni (o le genti), sia per Israele. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2) e subito dopo (v 3): “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele”, che è l’espressione consacrata per ricordare l’elezione d’Israele, la relazione del tutto privilegiata che lega questo piccolo popolo al Dio dell’universo. Le semplici parole “la sua fedeltà”, “il suo amore” sono il richiamo all’Alleanza: è attraverso queste parole che, nel deserto, Dio si è fatto conoscere al popolo che ha scelto. La frase “Dio di amore e di fedeltà” indica che Israele è il popolo eletto ma la frase precedente ricorda che, se Israele è stato scelto, non è per godere egoisticamente del privilegio, non per considerarsi figlio unico, ma per comportarsi come fratello maggiore e il suo ruolo è annunciare l’amore di Dio per tutti gli uomini, così da integrare a poco a poco tutta l’umanità nell’Alleanza. In questo salmo, questa certezza segna perfino la composizione del testo; se lo si guarda più da vicino, si nota la costruzione in inclusione dei versetti 2 e 3. Ricordo che l’inclusione è un procedimento letterario che si trova spesso nella Bibbia. È un po’ come un riquadro in un giornale o in una rivista; ovviamente, lo scopo è mettere in evidenza il testo scritto all’interno del riquadro. Nella Bibbia, funziona allo stesso modo: il testo centrale viene messo in risalto, incorniciato da due frasi identiche, una prima e una dopo. Qui, la frase centrale parla di Israele, il popolo eletto, ed è incorniciata da due frasi che parlano delle nazioni: la prima frase “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” e la seconda riguarda Israele: “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele” e la terza: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Qui non compare il termine “le genti” ma è sostituito dall’espressione “tutti i confini della terra”. Il che significa che l’elezione d’Israele è centrale, ma non bisogna dimenticare che deve irradiare su tutta l’umanità. Una seconda sottolineatura di questo salmo è la proclamazione molto marcata della regalità di Dio. Per esempio, nel Tempio di Gerusalemme si canta: “Acclamate il Signore, terra intera, acclamate il vostro re”. Questo salmo è un grido di vittoria, il grido che si innalza sul campo di battaglia dopo il trionfo, la teru‘ah in onore del vincitore. La vittoria di Dio, di cui qui si parla, è duplice: è innanzitutto la vittoria della liberazione dall’Egitto e poi la vittoria attesa per la fine dei tempi, la vittoria definitiva di Dio contro tutte le forze del male. E già allora si acclamava Dio come un tempo si acclamava il nuovo re nel giorno della sua incoronazione, con grida di vittoria al suono delle trombe, dei corni e tra gli applausi della folla. Ma mentre con i re della terra si andava sempre verso la delusione, questa volta si sa che non si sarà delusi; ecco perché stavolta la teru‘ah deve essere particolarmente vibrante! I cristiani acclamano Dio con ancora più forza, perché hanno visto con i loro occhi il re del mondo: dall’Incarnazione del Figlio, essi sanno e affermano, contro ogni evento apparentemente contrario, che il Regno di Dio, cioè dell’amore, è già cominciato.

 

Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 8 – 13)

Il canto «Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti; egli è la nostra salvezza, la nostra gloria eterna» si trova nel suo contesto originale nella seconda lettera a Timoteo, dove Paolo scrive: «Ricordati di Gesù Cristo, discendente di Davide». In ambiente ebraico era essenziale affermare che Gesù fosse davvero della stirpe di Davide per essere riconosciuto come Messia. Paolo aggiunge: «Egli è risorto dai morti: questo è il mio Vangelo». La questione è radicale: o Gesù è risorto, o non lo è. Paolo, inizialmente convinto che fosse un’invenzione, aveva cercato di impedire la diffusione di tale annuncio. Ma, dopo l’esperienza sulla via di Damasco, ha visto il Risorto e ne è diventato testimone. Gesù è vincitore della morte e del male, e con lui nasce il mondo nuovo, a cui i credenti devono partecipare con tutta la loro vita. Per questo Paolo si consacra all’annuncio del Vangelo e invita Timoteo a fare lo stesso, preparandolo alle opposizioni e incoraggiandolo a combattere la buona battaglia con coraggio, dolcezza e fiducia nello Spirito ricevuto. La risurrezione è il cuore della fede cristiana. Se per molti Ebrei la risurrezione della carne era credibile, per i Greci era difficile da accogliere, come mostra il fallimento della predicazione di Paolo ad Atene. Proprio per l’annuncio della risurrezione Paolo ha conosciuto più volte il carcere: «Cristo è risorto dai morti, questo è il mio Vangelo. Per lui soffro, fino a essere incatenato come un malfattore». Anche Timoteo, ammonisce Paolo, dovrà soffrire per il Vangelo. Le catene di Paolo non fermano la verità: «Sono incatenato, ma la Parola di Dio non è incatenata». Gesù stesso aveva detto che se taceranno loro, grideranno le pietre perché nulla può fermare la verità. Paolo aggiunge che sopporta tutto per gli eletti, affinché ottengano anch’essi la salvezza che è in Cristo Gesù, con la gloria eterna. Qui riecheggia il canto iniziale e .segue probabilmente un antico inno battesimale introdotto con la formula: Ecco una parola degna di fede:Se siamo morti con lui, con lui vivremo; se perseveriamo, con lui regnerem». È il mistero del Battesimo, già spiegato in Romani 6: con esso siamo immersi nella morte e risurrezione di Cristo, uniti a lui in modo inseparabile. Passione, morte e risurrezione costituiscono un unico evento che ha inaugurato una nuova epoca per l’umanità. Le ultime frasi mettono in luce la tensione tra libertà umana e fedeltà di Dio perché se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà: Dio rispetta il nostro rifiuto consapevole. Se manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso dato che Dio resta sempre fedele anche di fronte alle nostre fragilità.

 

Dal Vangelo secondo Luca (17, 11-19)

Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attendono passione, morte e risurrezione. Luca sottolinea l’itinerario perché ciò che narra è legato al mistero della salvezza. Durante il viaggio, incontra dieci lebbrosi che, costretti a restare a distanza secondo la Legge, gridano verso di lui chiamandolo “Maestro”: è segno insieme della loro debolezza e della fiducia che ripongono in lui. Diversamente da un altro episodio (Lc 5,12), questa volta Gesù non li tocca, ma ordina soltanto di andare a presentarvi ai sacerdoti, passo necessario per il riconoscimento ufficiale della guarigione. L’ordine è già promessa di salvezza. Il racconto richiama l’episodio di Naaman e del profeta Eliseo (2Re 5) della prima lettura perché mentre i dieci si mettono in cammino, la loro lebbra scompare: la loro fiducia li salva. La malattia li aveva uniti, ma la guarigione rivela la differenza dei cuori: nove Giudei vanno verso i sacerdoti, uno solo,- un Samaritano, considerato eretico — torna indietro. Egli riconosce che la vita e la guarigione vengono da Dio, glorifica Dio a gran voce, si prostra ai piedi di Gesù rendendogli grazie: un atteggiamento riservato a Dio. Così riconosce il Messia e comprende che il vero luogo per rendere gloria a Dio non è più il Tempio di Gerusalemme, ma Gesù stesso. Il suo ritorno è conversione, e Gesù lo proclama: “Àlzati e va’: la tua fede ti ha salvato”. Degli altri nove, Gesù chiede conto: hanno incontrato il Messia ma non lo hanno riconosciuto, scegliendo di correre subito verso il Tempio per compiere la Legge senza fermarsi a ringraziare. Il Vangelo sottolinea così un tema ricorrente: la salvezza è per tutti, ma spesso non sono i più vicini a Dio ad accoglierla: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno riconosciuto”. Già l’Antico Testamento affermava l’universalità della salvezza (cf. Sal 97/98). La prima lettura ricorda la conversione di Naaman, straniero, e  Gesù aveva rimproverato a Nazaret, citando l’esempio del Siro guarito mentre molti lebbrosi in Israele non lo furono (Lc 4,27), suscitando la collera della sinagoga. Negli Atti, Luca mostrerà ancora il contrasto tra il rifiuto di parte d’Israele e l’accoglienza dei pagani. Questa questione era viva nelle prime comunità cristiane: bisognava essere Giudei per ricevere il battesimo, o anche i pagani potevano essere accolti? Il racconto del Samaritano convertito ricorda tre verità: la salvezza portata da Cristo con passione, morte e risurrezione è per tutti; il rendimento di grazie è spesso compiuto meglio dagli stranieri o dagli eretici; i poveri sono i più disponibili a incontrare Dio. In conclusione, sul cammino verso Gerusalemme, cioè verso la salvezza, Gesù conduce tutti gli uomini disposti a convertirsi, qualunque sia la loro origine o religione.

+ Giovanni D’Ercole

Martedì, 30 Settembre 2025 23:23

27a Domenica T.O. (anno C)

XXVII Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [5 Ottobre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Le raccomandazioni di Paolo a Timoteo sono quanto mai utili anche per noi. E la parola del vangelo apre il nostro cuore all’umile fiducia nel compimento della nostra missione.

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Abacuc (1, 2-3 ; 2, 2-4) 

Il profeta Abacuc non è molto di moda oggi, ma certamente lo era al tempo del Nuovo Testamento, dal momento che viene citato più volte. Per esempio, la frase della Vergine Maria nel Magnificat: «Io gioisco nel Signore, esulto in Dio mio salvatore» si trovava già, secoli prima, nel libro di Abacuc (Ab 3,18); è da lui inoltre che san Paolo ha tratto e citato più volte una frase, che fa parte della nostra lettura di oggi: “Il giusto vivrà per la sua fed” (Rm 1,17; Gal 3,11). Questo piccolo libro è davvero un libretto, solo tre capitoli, di circa venti versetti ciascuno, ma che ricchezza di sentimenti! Dal lamento alla violenza, dall’invocazione di aiuto all’esultanza pura. I suoi gridi di angoscia fanno pensare a Giobbe: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi?» (Ab 1,2). Eppure la speranza non lo abbandona mai: quando san Pietro invita i suoi lettori alla pazienza, riprende  un’espressione ispirata da Abacuc: «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa…» (2 Pt 3,9). I primi versetti somigliano al libro di Giobbe: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti? A te alzerò il grido “Violenza!”, e non salvi?» È una supplica davanti al dilagare della violenza; ma soprattutto è il grido dell’angoscia estrema, quella del silenzio di Dio. Qui, come nel libro di Giobbe e in molti salmi, la Bibbia osa dire frasi in cui l’uomo sembra chiedere conto a Dio: “Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti? Griderò a te: “Violenza!” e non salvi?”  La violenza di cui parla Abacuc è quella di Babilonia, la nuova potenza emergente del Medio Oriente. Da che mondo è mondo, le stesse atrocità della guerra si ripetono come possiamo ben constatare anche oggi. Eppure Abacuc non perde la fede. In un altro versetto afferma: “Starò in piedi al mio posto di guardia, mi metterò sul bastione e starò attento a vedere che cosa mi dirà il Signore” (Ab 2,1). In questa espressione ci sono almeno due cose: anzitutto è l’attesa della sentinella, sicuro che l’alba arriverà; è lo stesso tema del Salmo 129/130: “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora” e la seconda è la coscienza che la sua interpellanza è un po’ audace: il profeta ha chiesto conto a Dio e si aspetta di essere rimproverato. E invece la risposta di Dio non porta nessuna condanna; lo invita soltanto alla pazienza e alla fiducia: i giorni della vittoria del nemico non dureranno sempre (cf. Ab 2,2-3). Nel testo di oggi Abacuc non descrive il contenuto della visione, sarà oggetto del capitolo seguente; ma già si intuisce che riguarda la liberazione degli oppressi. Resta però un fatto: Dio non ha davvero risposto alla domanda; non ha detto perché a volte sembra sordo alle nostre preghiere. Ha solo riaffermato che non ci abbandona mai. Il messaggio di Abacuc sembra allora essere questo: nelle prove, anche le più terribili, l’unica strada possibile per il credente è custodire la fiducia in Dio: accettare di non capire, ma non accusare Dio. Ogni altra posizione distrugge perché la diffidenza verso Dio non porta che dolore. È probabilmente questo il senso della formula finale: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4), o, detto in altro modo, è la fiducia in Dio che ci fa vivere, altrimenti il sospetto e la ribellione ci logorano. Al contrario, è lecito gridare il proprio dolore: se la Bibbia ci fa leggere, nel libro di Giobbe e nei salmi, grida di angoscia e perfino rimproveri rivolti a Dio, è perché il credente ha il diritto di gridare la propria sofferenza, la sua impazienza davanti alla violenza che lo schiaccia. Riprendiamo la frase finale: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4). L’orgoglioso è Babilonia che si vanta delle sue conquiste e pensa di fondare su di esse una prosperità duratura; il giusto, invece, sa che solo Dio dà vita. L’esempio più celebre nella storia d’Israele è Abramo: quando lasciò la sua terra e la sua famiglia per rispondere alla chiamata di Dio, non sapeva dove sarebbe stato condotto. Quando, sempre obbedendo a Dio, si preparava a offrire suo figlio unico, non capiva, ma continuò a fidarsi di Colui che glielo aveva dato. E ancora una volta la sua fede fece vivere lui e suo figlio (Gn 22). La Scrittura dice di lui: “Abramo ebbe fede nel Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gn 15,6).

 

*Salmo Responsoriale (94/95, 1-2, 6-7ab, 7d-8a.9)

Siamo nel tempio di Gerusalemme, i pellegrini si affollano sui gradini del tempio per una grande celebrazione: “Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza”. La roccia della nostra salvezza: questa espressione, da sola, è una professione di fede. Israele ha scelto di poggiare su Dio e solo su di Lui, come nei primi giorni dell’Alleanza. La Bibbia paragona spesso la storia del popolo d’Israele a un fidanzamento con il suo Dio. Dopo lo slancio iniziale e le promesse, sono venuti i dubbi, le infedeltà. Dio, però, è sempre rimasto fedele, e dopo ogni tempesta e ogni infedeltà, Israele è sempre tornato a Lui, come una sposa pentita e riconoscente per l’Alleanza sempre rinnovata: Andiamo a Lui con rendimento di grazie. La parola ebraica qui è tôdah: indica un momento preciso del culto dell’Alleanza, il sacrificio di tôdah, che esprime insieme gratitudine, ringraziamento, lode, pentimento, desiderio di amare… In ebraico moderno, grazie si dice ancora tôdah. Un termine italiano che riassumerebbe bene questo salmo è proprio riconoscenza: riconoscere Dio, conoscere chi Egli è conoscere chi siamo noi, e allora la gratitudine ci invade.Riconoscere Dio, anzitutto: il nostro Creatore ma, ancor più, il nostro liberatore.  Sembra semplice fidarsi di questo Dio che ci guida e ci protegge, di questo Dio che ci ha liberati dalla schiavitù d’Egitto. È semplice, finché non ci sono problemi. Ma quando arrivano le prove, sorgono i dubbi. Eppure proprio nella prova si verifica la nostra fiducia e qui viene posta precisamente la questione della fiduci. Ascoltare, nella Bibbia, significa avere fiducia; ascoltare la sua voce è anche il contrario di indurire il cuore. Il salmo infatti continua: “Oggi, se ascoltaste la sua voce! Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere”. Massa e Meriba significano, appunto, tentazione e provocazione. L’episodio di Massa e Meriba è rimasto celebre nella memoria di Israele come il simbolo della tentazione del sospetto verso Dio non appena sopraggiunge la prima difficoltà. Il popolo cominciò a rimpiangere la schiavitù perché la libertà appena conquistata sembrava ben poco confortevole. In Egitto erano schiavi, certo, ma almeno sopravvivevano….nel deserto, il popolo ebbe sete e venne montata la rivolta. Il testo dice che il popolo mormorava, ma il termine è probabilmente più forte che nel nostro italiano di oggi, perché Mosè esclama a Dio: “Ancora un poco e mi lapideranno!” (Es 17,4). Dio interviene, e l’acqua sgorga dalla roccia (ritorna qui l’immagine: Dio, mia roccia). Quanto sarebbe stato più giusto fidarsi! Nella sofferenza, come abbiamo visto in Abacuc nella prima lettura, possiamo gridare, supplicare, interpellare Dio, ma mai dubitare di Lui. Massa e Meriba restano i nomi di quel sospetto che sempre può riaffiorare nei nostri cuori.

 

*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo a Timoteo (1, 6-8. 13-14)

Quando Paolo scrive la sua seconda lettera a Timoteo, si trova in prigione a Roma, poco prima della sua esecuzione; egli stesso dice di essere incatenato come un malfattore e chiede a Timoteo di non vergognarsi di lui, come invece hanno fatto altri. Sa molto bene che non gli resta molto tempo e si sente molto solo. Questa seconda lettera a Timoteo è quindi una sorta di testamento:Timoteo dovrà prendere il suo posto e Paolo gli dà delle raccomandazioni in questo senso. Bisogna sapere che, per ragioni di stile, di vocabolario e persino di contenuto, si pensa generalmente che le lettere a Timoteo non siano di Paolo, ma di uno dei suoi discepoli dopo la sua morte. Non si è in grado di dirimere questa questione difficile e per essere fedeli all’insegnamento di queste lettere, non dobbiamo a nostra volta perderci in discussioni senza fine. Per comodità di linguaggio, continueremo quindi a parlare di Paolo e Timoteo. Del resto, che si tratti di Paolo e Timoteo o dei loro discepoli futuri ha ormai poca importanza per noi: ciò che conta è il contenuto di queste lettere che raccolgono le raccomandazioni di Paolo a un giovane responsabile cristiano, e dunque ci riguardano da vicino. La prima raccomandazione è forse la più importante: “Ravviva il dono gratuito di Dio”; questo dono di Dio, se leggiamo il seguito del testo, è evidentemente lo Spirito Santo. E, visibilmente, Timoteo ne avrà proprio bisogno! Paolo, incatenato per il Vangelo, lo sa fin troppo bene. Questo dono dello Spirito, Timoteo l’ha ricevuto con l’imposizione delle mani: le parole confermazione e ordinazione non esistevano ancora, ma sappiamo che, fin dall’inizio della Chiesa, il gesto dell’imposizione delle mani significava il dono dello Spirito. Ravviva in te il dono di Dio significa che i doni di Dio possono dunque dormire in noi. Altrove Paolo dice: “Non spegnete lo Spirito” (Cf 1 Tess 5,19). Anche qui, possiamo ascoltare un messaggio che incoraggia  a portare in noi il fuoco dello Spirito, e anche se sembra che lo abbiamo ricoperto di cenere, esso è ancora in noi, arde sotto la cenere dato che nulla può spegnerlo. Questo Spirito non è spirito di paura, ma spirito di forza, di amore, di dominio di sé. Qui ritroviamo un tema caro a Paolo: quello della trasmissione della fede. Paolo ha trasmesso a Timoteo questo tesoro prezioso, che Timoteo deve trasmettere a sua volta e così via: Tieniti al modello delle sane parole che hai udito da me, nella fede e nell’amore che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi. Altrove, nella prima lettera ai Corinzi, Paolo scriveva: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto” (cf 15,3-4). Questo fa pensare a una corsa a staffetta, nella quale i corridori si trasmettono un testimone che rimane identico dall’inizio alla fine della corsa mentre il deposito della fede si esprime inevitabilmente in termini diversi lungo i secoli. La fede, infatti, non è un oggetto ben confezionato e imballato, intoccabile. Il problema è sapere però se la trasmissione sia davvero fedele. Molte controversie, nel corso dei secoli, sono nate dalle divergenze tra cristiani sul contenuto del deposito della fede. Ma, in realtà, non siamo noi i garanti ultimi di questa fedeltà: è lo Spirito Santo il custode supremo del deposito della fede. Per trasmettere fedelmente la fiaccola alle generazioni successive, ci basta dunque ravvivare in noi il dono di Dio, il fuoco dello Spirito che nulla può spegnere.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (17, 5-10)

 Troviamo qui diversi versetti che si susseguono e non si somigliano. Sembra quasi che ci siano due parti in questo testo: nella prima, un dialogo tra Gesù e i suoi apostoli sulla fede, con quella formula un po’ terribile di Gesù: «Se aveste fede quanto un granello di senape, direste a quest’albero: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe”. Nella seconda parte, una specie di parabola sul servo, che si conclude anch’essa con una frase molto forte di Gesù: “Quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Gesù non cerca certo di scoraggiarci; e, d’altra parte, se questi versetti si trovano così vicini, senza alcuna interruzione significa che c’è un legame tra di essi. Abbiamo qui un dialogo tra Cristo e i suoi apostoli cioè gli inviati, il che vuol dire che questa frase di Gesù riguarda l’attività di evangelizzazione. Gli inviati dicono a colui che li manda: Aumenta la nostra fede! Una preghiera che è anche molto spesso la nostra quando prendiamo coscienza della nostra debolezza, della nostra impotenza, e ci sembra che se fossimo più ricchi di fede saremmo più efficaci. Ma come armonizzare questo con la frase di Paolo: “Se avessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla” (1 Cor 13,2)? Nel suo linguaggio, Gesù risponde che non si tratta di misurare la nostra fede: il problema non è lì. Si tratta piuttosto di contare sulla potenza di Dio perché è Lui ad agire e non la nostra fede, piccola o grande che sia. Gesù accentua volutamente il paradosso: il granello di senape era considerato il più piccolo di tutti i semi, e il grande albero di cui parla (in greco, sicomoro) era ritenuto impossibile da sradicare. La frase di Gesù significa dunque: Non serve avere tanta fede: basta un granello di senape, piccolissimo, per fare cose apparentemente impossibili. Si potrebbe allora tradurre così: Quando agite nel nome del Vangelo, ricordatevi che nulla è impossibile a Dio. C’è poi l’espressione “servi inutili” archreioi  (17,10) che  possiamo tradurre  così: voi siete semplicemente dei servi nemmeno indispensabili chiamati al servizio di un compito che vi supera. E – direi - per fortuna perché chi si sentirebbe abbastanza forte per portare la responsabilità del Regno di Dio? Queste frasi di Gesù, dunque, non sono dure o scoraggianti, ma al contrario vogliono incoraggiarci: se noi non siamo che subalterni, la responsabilità non ricade su di noi, ma non per questo siamo inutili: se il servo fosse davvero inutile, nessun padrone lo terrebbe. Se Dio ci prende come servi, è perché vuole avere bisogno di noi. Se Gesù ha scelto degli apostoli e ha detto che “la messe è molta ma gli operai sono pochi” (Mt 9,37-38) e questa sua parola continua a risuonare da duemila anni, è perché vuole avere bisogno della nostra collaborazione. Noi siamo quel che siamo e Dio ci associa alla sua opera di salvezza.  Dice Gesù: “Quando anche voi avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (17,10). Con ciò ci suggerisce due atteggiamenti: in primo luogo invita ancora una volta a uscire dalla logica dei meriti e delle ricompense, ma soprattutto invita a rimanere sereni nell’esercizio della nostra missione. È Lui il padrone della messe, non noi. Allora si capisce meglio il legame tra le due parti di questo testo: il messaggio è lo stesso: un po’ di fede, per quanto piccola, è sufficiente a Dio per compiere miracoli. A condizione, però, che ci mettiamo fedelmente al suo servizio.

+ Giovanni D’Ercole

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In these words we find the core of biblical truth about St. Joseph; they refer to that moment in his life to which the Fathers of the Church make special reference (Redemtoris Custos n.2)
In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa (Redemtoris Custos n.2)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situations
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses. He also teaches us that amid the tempests of life, we must never be afraid to let the Lord steer our course. At times, we want to be in complete control, yet God always sees the bigger picture» (Patris Corde, n.2)
«Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande» (Patris Corde, n.2)
Man is the surname of God: the Lord in fact takes his name from each of us - whether we are saints or sinners - to make him our surname (Pope Francis). God's fidelity to the Promise is realized not only through men, but with them (Pope Benedict).
L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome (Papa Francesco). La fedeltà di Dio alla Promessa si attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro (Papa Benedetto)
In the communities of Galilee and Syria the pagans quickly became a majority - elevated to the rank of sons. They did not submit to nerve-wracking processes, but spontaneously were recognizing the Lord
Nelle comunità di Galilea e Siria i pagani diventavano rapidamente maggioranza - elevati al rango di figli. Essi non si sottoponevano a trafile snervanti, ma spontaneamente riconoscevano il Signore
And thus we must see Christ again and ask Christ: “Is it you?” The Lord, in his own silent way, answers: “You see what I did, I did not start a bloody revolution, I did not change the world with force; but lit many I, which in the meantime form a pathway of light through the millenniums” (Pope Benedict)
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: “Sei tu?”. Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: “Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni” (Papa Benedetto)
Experts in the Holy Scriptures believed that Elijah's return should anticipate and prepare for the advent of the Kingdom of God. Since the Lord was present, the first disciples wondered what the value of that teaching was. Among the people coming from Judaism the question arose about the value of ancient doctrines…

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