Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge “Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge” (Ibid 28). Lutero a questo punto tradusse: “giustificato per la sola fede”. Ritornerò su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa “Legge” dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle “opere della Legge” che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola “πάντα μοι έξεστιν” (tutto mi è lecito). E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.
Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che determinavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio.
Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politesimo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò l’espressione “sola fide” di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14).
Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 19 novembre 2008]
Dio si è rivelato in Cristo, in lui ha offerto se stesso all’uomo come suo vero destino, come sua dimora perenne, nel tempo e nell’eternità.
Il destino è “vocazione”, cioè chiamata a legarsi e a rimanere uniti a Dio, che ha voluto legarsi a noi perché avessimo la vita in abbondanza (cf. Gv 10, 10).
Per seguire Cristo, non bisogna essere superuomini, o compiere azioni sovrumane. Il giovane cristiano, certamente, si distingue dalla massa, ma non per l’apparenza esterna, bensì per il modo con cui pensa e agisce. È diverso dentro, nel cuore, e questo si riflette all’esterno, nel suo modo di comportarsi, di parlare, di trattare con gli altri, in ogni situazione quotidiana.
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai Giovani, Catania 5 novembre 1994]
Ci sono «due strade». Ed è Gesù stesso, con i suoi «gesti di vicinanza», a darci l’indicazione giusta su quale prendere. Da una parte, infatti, c’è la strada degli «ipocriti», che chiudono le porte a causa del loro attaccamento alla «lettera della legge». Dall’altra, invece, c’è «la strada della carità», che passa «dall’amore alla vera giustizia che è dentro la legge». Lo ha detto Papa Francesco alla messa celebrata venerdì mattina, 31 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta.
In pratica, ha affermato il Pontefice, «questa gente era tanto attaccata alla legge che aveva dimenticato la giustizia; tanto attaccata alla legge che aveva dimenticato l’amore». Ma «non solo alla legge; erano attaccati alle parole, alle lettere della legge».
Precisamente questo modo «di vivere, attaccati alla legge, li allontanava dall’amore e dalla giustizia: curavano la legge, trascuravano la giustizia; curavano la legge, trascuravano l’amore». Eppure «erano i modelli». Ma «Gesù per questa gente trova soltanto una parola: ipocriti!». Non si può, infatti, andare «in tutto il mondo cercando proseliti» e poi chiudere «la porta». Per il Signore si trattava di «uomini di chiusura, uomini tanto attaccati alla legge, alla lettera della legge: non alla legge», perché «la legge è amore», ma «alla lettera della legge». Erano uomini «che sempre chiudevano le porte della speranza, dell’amore, della salvezza, uomini che soltanto sapevano chiudere».
Solo «nella carne di Cristo», infatti, la legge «ha il pieno compimento». Perché «la carne di Cristo sa soffrire, ha dato la sua vita per noi». Mentre «la lettera è fredda».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 01/11/2014]
Otri nuovi e Libertà vocazionale
(Lc 5,33-39)
Il digiuno è un principio di rigenerazione che ha un potere curativo unico, sia disintossicante che essenziale. Esso attiva le energie della propria umanità e nel contempo della propria diversità.
Tale pratica silenziosa si rivolge agli strati profondi, alla dimensione interna, che diventa la guida e rischiamo d’ignorare.
Il digiuno era segno di religiosità profonda, perciò i discepoli di Gesù - che non digiunavano, anzi la loro vita aveva un carattere festivo - erano assimilati più o meno a dei peccatori.
Sebbene non esistessero prescrizioni formali, presso i circoli osservanti si trattava di pie pratiche diventate consuetudini [legate a giorni precisamente scanditi].
Nelle credenze semitiche il digiuno era in specie espressivo dell’imbarazzo e dell’afflizione dell’uomo devoto nell’aspettativa dei tempi messianici, che tardavano.
Per questo Gesù associa il digiuno al lutto - che non ha più senso nella vita come festa di Nozze senza remore che Egli inaugura.
Il digiuno rimane come segno di attesa del compimento, ma ora la mestizia non ha più significato.
Nel tempo della Chiesa che rende presente il Risorto, la rinuncia a ingozzare non è forma di penitenza ma di speranza (v.35).
E serve a tener sgombro il cuore degli amici dello Sposo dalle vanità, con una forma d’identificazione coi poveri.
In altre comunità, i giudaizzanti tentavano di ridurre la Fede pura - fondamento e partecipazione entusiasta - a credenze e praticucce qualsiasi [che non facevano sentire tutti liberi e adeguati].
Gran parte dei giudei convertiti a Cristo propendeva infatti per nostalgie che risultavano di freno e impedimento.
Lc incoraggia i convertiti delle sue fraternità, provenienti da credenze miste e non regolari - fronteggiando l’opinione delle tradizioni religiose più severe.
Ancora oggi la proposta del Signore si distingue - perché non pretende di preparare il Regno, bensì lo accoglie e lo ascolta.
Sarà unicamente il Cristo-in-noi ad alimentarci in modo ininterrotto e crescente, nell’impegno per ripartire nel compito di ritrovarci ed emancipare il mondo - ma in un clima di austerità tranquilla.
Il Richiamo dei Vangeli permane al contempo equilibrato, concreto e fortemente profetico, perché suscita attenzione alle persone, alla realtà, e alla nostra gioia - assai più che a norme di perfezionamento non richieste, o altri rattoppi (v.36).
Non soverchiando né imponendo carichi artificiosi ai credenti, la vita di Fede mette in gioco la libertà [e così ce la fa conoscere] affinché ne prendiamo coscienza e la assumiamo per poterla investire come Grazia, carica e risorsa di novità.
I meccanismi rinunciatari e mortificanti di affinamento individualista sono estranei in partenza - a meno che non siano pensati per la condivisione dei beni.
Gesù non viene per farsi un gruppetto di seguaci seduti sulla cattedra dell’austerità, ma per comunicare che il rapporto con Dio è una festa.
Il digiuno gradito al Padre sta nell’esperienza lucida della propria irripetibile eccentricità e Chiamata, nel liberarsi dall’egoismo dell’arraffare per sé, e nel recare sollievo al prossimo.
Per questo motivo la Chiesa ha abolito quasi del tutto il precetto del digiuno esteriore, mentre intende impegnarsi maggiormente per forme di limitazione in favore dei malfermi, umili e bisognosi.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Tieni al digiuno? Da cosa? E per quale scopo?
[Venerdì 22.a sett. T.O. 5 settembre 2025]
(Lc 5,33-39)
Non sempre le vecchie usanze possono essere combinate con la Novità recata dal Signore; anzi, non di rado è necessario saper separare le cose.
Lc fronteggia l’opinione dei pochi messianici delle sue comunità, che volevano riportare la proposta del Maestro alle comuni radici giudaiche da cui essi stessi provenivano.
Pur apprezzando l’antica consuetudine, ricca di forme attraenti e pure incantevoli, conforta piuttosto i suoi membri di chiesa provenienti dal paganesimo.
Con la sua catechesi l'evangelista vuol impedire che nelle piccole fraternità allora agli albori, il ritorno della seduzione emanata dalle vecchie sicurezze religiose potesse prevalere sulla manifestazione piena della potenza di vita inaugurata - nell’Appello autentico di Dio.
Il digiuno ha percorso tutte le tradizioni religiose e mistiche, perché inteso ad avvicinare la donna e l’uomo alla propria essenza profonda - a un ascolto di sé, dei codici del sacro, del cosmo interiore, della propria vocazione, delle sacre Pagine - nell’attesa di trasformazioni.
Ci si affida a una diversa saggezza - meno rumorosa - che può attivare processi di metamorfosi, proprio facendo un vuoto dalle intrusioni del pensiero omologato, dalle abitudini o conformismi esterni che tendono a sopraffare la personalità.
Staccandosi, svaniranno i tormenti, sostituiti da altri interessi e sogni lucidi; suscitati dalla nuova breccia verso il nostro lato eterno, e da quell’affidarsi al nocciolo dell’essere che ancora ci sta creando.
L'unità psico-fisica e sovrannaturale sono un organismo prodigioso, che può diradare le nebbie ed esaltare le sue capacità con diverse forme di sospensione e pulizia anche mentale - la quale ci porterà dove dobbiamo andare.
Ma nello specifico dei figli di Dio, tutto ciò mira ad affinare lo sguardo nel senso della conoscenza, scoperta, sorpresa di capacità e qualità singolari e missionarie insospettabili. Quelle che sgorgano dal rinvenimento del Sé eminente, dalla propria Relazione fondante - per divenire unicità di rapporto eccezionale con gli altri, nell’Esodo che ci corrisponde.
Il digiuno è un principio di rigenerazione che ha un potere curativo unico, sia disintossicante che essenziale. Esso attiva le energie della propria umanità e nel contempo della propria diversità.
Tale pratica silenziosa si rivolge agli strati profondi, alla dimensione interna, che diventano la guida (e rischiamo di ignorare).
Ma qui capire le dissomiglianze resta indispensabile. Per noi è un gesto di apertura!
Altro genere di diete o atletismi sono non di rado devianti: il loro stesso nonsenso recherà tristezza e persino depressione.
Il digiuno rimane segno di attesa del compimento, ma ora la mestizia non ha più significato.
Nel tempo della Chiesa che rende presente il Risorto, la rinuncia a ingozzare non è forma di penitenza ma di speranza (v.35).
E serve a tener sgombro il cuore degli amici dello Sposo dalle vanità, con una forma d’identificazione coi poveri.
Ma Gesù non viene per farsi un gruppetto di seguaci seduti sulla cattedra dell’austerità, bensì per comunicare che il rapporto con Dio è una festa!
Insomma, il digiuno gradito al Padre sta nell’esperienza lucida della propria irripetibile eccentricità e Chiamata, nel liberarsi dall’egoismo dell’arraffare per sé, e recare sollievo al prossimo.
Clima che crea vita, non la decurta.
Il digiuno era segno di religiosità profonda, perciò i discepoli di Gesù - che non digiunavano, anzi la loro vita aveva un carattere festivo - erano assimilati più o meno a dei peccatori.
Sebbene non esistessero prescrizioni formali, si trattava di pie pratiche diventate consuetudini, presso i circoli osservanti (qui la seriosità era tutto) legate a giorni precisamente scanditi.
Nelle credenze semitiche il digiuno era in specie espressivo dell’imbarazzo e dell’afflizione dell’uomo devoto nell’aspettativa fremente dei tempi messianici, che tardavano.
Per questo Gesù associa il digiuno al lutto - che non ha più senso nella vita come festa di Nozze senza remore che Egli inaugura.
Dove appunto non c’è bisogno di aggiunte, né controlli o impronte, marchi e caratteri distintivi.
La Nuova Alleanza non è neppure ammodernamento di pratiche morali o prescrizioni pie che forniscano un lasciapassare religioso esterno.
Tutto è in rapporto alla presenza reale dello Sposo, che non punisce la vita.
Certo, colui che procede nel cammino dell’emancipazione e non si accontenta di un Gesù-Sposo parziale, già conosce in sé cosa lo attende…
Poi (v.35) nel confronto stridente con i capi religiosi - aggrappati al prestigio - ecco mestizie e umiliazioni a non finire. Altro che digiuno dai cibi.
Tuttavia, chi ha deciso di continuare il suo cammino di Libertà vocazionale sa che deve rivivere le medesime vicende di palese conflitto che ha contrapposto il Maestro alla mentalità e alle autorità del suo tempo; infine, in tale Incontro reale con Lui, sperimentare il dono totale della vita (v.35).
Sarà unicamente il Cristo-in-noi (anche centellinato e non definitivo) ad alimentare anima e corpo in modo ininterrotto e crescente.
Ciò con l’impegno per ripartire nella missione di trovarci e dare respiro al mondo.
In un clima di austerità tranquilla; senza freni artificiosi.
Nelle comunità di estrazione pagana cui Lc si rivolge, c’era un forte desiderio di liberare il Risorto da pastoie (fissazioni disciplinari, orari, calendario).
I credenti Lo percepivano vivo - complice del nuovo carattere umanizzante che sperimentavano giorno per giorno.
L’evangelista vuole orientare le sue assemblee della zona di Efeso [forse di metà anni 80] a non attaccarsi a finte sicurezze.
Bisognava prendere una posizione del tutto alternativa e non finire come i gruppi attorno, di estrazione settaria.
Ma anche i giudaizzanti tentavano di ridurre la Fede pura - fondamento e partecipazione entusiasta - a rigide credenze e praticucce qualsiasi.
Circoli viziosi che finivano per ritrasmettere vecchi sensi di colpa, invece che insoliti spunti relazionali.
Gran parte dei giudei convertiti propendeva infatti per nostalgie che risultavano di freno e impedimento.
Proprio tali veterani faticavano a fare proprio in modo entusiasta il nuovo habitus di libertà, e lo spumeggiare completo del Vangelo.
Ancora oggi la Proposta del Signore si distingue da tutte le dottrine esclusiviste, colme di prescrizioni e adempimenti.
La sua Presenza traspare in spirito. E i suoi intimi non pretendono preparare il Regno, bensì lo accolgono e ascoltano (con fiducia nella vita).
Così avviene nel tempo della pandemia, che sta disponendo a un digiuno meno esteriore, più globale - considerevole ma sapiente.
Travaglio che può condurre l'umanità alla percezione sensibile, al senso di comunione, al silenzio e all’abbraccio; a un minore impeto egocentrico e dirigista. Ad un approfondimento - e completezza.
Scrive il Tao Tê Ching (v): «Lo spazio tra Cielo e Terra, come somiglia a un mantice!».
Commenta il maestro Wang Pi: «Se il mantice avesse una sua volontà nell’emettere il soffio, non potrebbe attuare l’intento di chi lo fa soffiare».
E il maestro Ho-shang Kung aggiunge: «Le molte imprese nuocciono allo spirito».
Insomma, Cristo fa tesoro della sapienza naturale e non ci riduce a misura di religione qualsiasi: non confina i credenti in “trattative”, mediante piccole procedure di atletismo e perfezione individuale.
Non insiste su mortificazioni eroiche, rinunce straordinarie, osservanza puntigliosa di leggi sterili - unilaterali - a meno che non siano pensate in ordine al ritrovarsi, all’umanizzazione, alla condivisione dei beni.
Il Richiamo dei Vangeli permane al contempo equilibrato, concreto e fortemente profetico.
Appello che suscita attenzione alle persone, alla realtà, alla nostra gioia - assai più che a norme di levigatura asettica (stoica) non richieste, o altri rattoppi (v.36).
Non soverchiando né imponendo carichi artificiosi ai credenti, la vita di Fede mette in gioco l’autodeterminazione.
Così ce la fa conoscere - affinché ne prendiamo coscienza e la assumiamo per poterla investire come Grazia, carica (non diminuzione): risorsa di novità.
I meccanismi ascetici di affinamento individualista sono estranei in partenza: l’obbiettivo è creare Famiglia, non ritagliarsi una cerchia di duri e puri (tutti esterni e fieri di sé) che si distacchino da fratelli più deboli.
Poi, autocompiaciuti, divenire sleali, usurpatori, intriganti: una storia di pecche, trame equivoche e ritardi pastorali, dietro una facciata impeccabile di dottrine cerebrali, discipline (a modo) e commemorazioni eclatanti sul corpo del “povero defunto”.
Per questo motivo la Chiesa ha abolito quasi del tutto il precetto del digiuno esteriore, mentre intende impegnarsi maggiormente per forme di limitazione in favore dei malfermi, emarginati, umili e bisognosi.
La scelta vuol continuare a essere nitida: la libertà non ha prezzo.
E non c’è amore se qualcuno (fosse anche Dio) tagliasse o sovrastasse l’altro, imponendo gioghi artificiosi, troppo uguali a sempre; insopportabili, strampalati, infecondi.
Così i vecchi contenitori non vanno più accoppiati al nuovo fermento. La pratica dei rappezzi danneggia sia le usanze che la Novità di Dio.
Certo, il vino vecchio e le talari hanno un’attrattiva fascinosa per i sensi e l’immaginario epidermico vintage…
Per questo continuano a piacere [v.39: «Il vecchio è eccellente!»]. Non pochi vogliono combinarlo con il Signore (Mc 2,22; Mt 9,17; Lc 5,37-38).
Il Maestro non era per sé avversario dello spirito dell’antico, ma combatteva le sue scorze, le quali impedivano di fatto la manifestazione d’un inedito Volto di Dio, d’una più genuina idea di uomo riuscito - germe di società alternativa, fraterna.
Realtà ben separate da quelle intimiste o autoreferenziali tipiche dei culti ufficiali o fai-da-te. Tutte innovazioni che dovevano manifestarsi.
Il gusto e i retrogusti del vino vecchio ammantano i riti devoti e le usanze stagionate con arte, leziosità e fascino evocativo, ma ci piantano lì e non graffiano la vita; ricordano ricordano, ma non fanno memoriale - ossia non riattualizzano per noi.
Nella pratica dei molti culti di provincia, nelle sue imprese di catechesi senza nerbo pastorale, notiamo da decenni un rigurgito pre-conciliare meccanico, che si ferma alle grandi icone.
Meraviglie e memorie della Storia della Salvezza... tutto lì. Ai responsabili locali è sembrato più facile tornare alle usanze e catechismi abbreviati che affrontare il rischio educativo (che lo stesso Magistero imporrebbe).
Il risultato immediato è stato valutato appetibile e redditizio, per il settore (sotto sotto) fondamentalista e astuto - volentieri soppiantando l’effervescenza sconosciuta del vino novello.
Infatti, da parte di coloro che sanno “come si sta al mondo”, bisogna ancora subire tutta una superficialità di ripieghi e accomodature abitudinarie, le quali non riscattano nessuno e non recano gioia, perché non entrano nelle vicende umane.
Accontentandosi poi del menu di pesce il venerdì. Autentico superfluo.
Ma chi si ferma al passato di mortificazioni e cartapesta non potrà mai comprendere la Riforma che lo Spirito propone per edificare ogni anima nell’appagamento (autentico) che ci stringe meglio gli uni gli altri.
Così i vecchi contenitori non vanno più accoppiati al nuovo fermento.
La pratica delle rappezzature può da un lato danneggiare le usanze, perché esse hanno un loro gusto rifinito e spiccato (pertinente in sé) - dall’altro distogliere e attenuare la vita nel mutamento, nella Novità di Dio.
Insomma, il Signore non pensa per noi una pratica di rammendi e delimitazioni che rinchiudono: piuttosto, vuol rompere le gabbie.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Tieni al digiuno? Da cosa? E per quale scopo? Rompe le gabbie? È o no in ordine al conoscersi, ritrovarsi, e ascoltare, curare, condividere, abbracciarsi, stringersi meglio gli uni gli altri?
Quali conflitti interiori sperimenti attorno a pratiche religiose che ritieni rechino ancora sofferenza alle persone e non sono espressione sponsale o motivo di emancipazione per la donna e l’uomo?
Quale immagine di Dio e dell’umanità credente soggiace a preconcetti e proibizioni? Come dimostri il primato di Gesù in ogni settore della vita?
Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale "vede nel segreto, e ti ricompenserà" (Mt 6,18). Egli stesso ne dà l'esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che "non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il "vero cibo", che è fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34). Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore "di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male", con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.
Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr At 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del "vecchio Adamo", ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio. Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca. Scrive san Pietro Crisologo: "Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica" (Sermo 43: PL 52, 320. 332).
Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una "terapia" per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio. Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a "non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e ... anche a vivere per i fratelli" (cfr Cap. I). La Quaresima potrebbe essere un'occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr Mt 22,34-40).
La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore. Sant'Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva "nodo tortuoso e aggrovigliato" (Confessioni, II, 10.18), nel suo trattato L'utilità del digiuno, scriveva: "Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio.
Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (3,17). Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr Enc. Deus caritas est, 15). Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina. Questo è stato, sin dall'inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr Didascalia Ap., V, 20,18). Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.
Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine, i cui effetti negativi investono l'intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia - Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".
Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr Enc. Veritatis splendor, 21).
[Papa Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2009]
1. “Proclamate il digiuno!” (Gal 1,14). Sono le parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura del Mercoledì delle Ceneri. Le ha scritte il profeta Gioele e la Chiesa conformemente ad esse stabilisce la pratica di Quaresima, ordinando il digiuno. Oggi la pratica della Quaresima, definita da Paolo VI nella Costituzione Paenitemini, è notevolmente mitigata rispetto a quelle di una volta. In questa materia il Papa ha lasciato molto alla decisione delle Conferenze Episcopali dei singoli paesi, alle quali, pertanto, spetta il compito di adattare le esigenze del digiuno secondo le circostanze in cui si trovano le rispettive società. Egli ha ricordato pure che l’essenza della penitenza quaresimale è costituita non soltanto dal digiuno, ma anche dalla preghiera e dall’elemosina (opera di misericordia). Bisogna quindi decidere secondo le circostanze, in quanto lo stesso digiuno può essere “sostituito” da opere di misericordia e dalla preghiera. Lo scopo di questo particolare periodo nella vita della Chiesa è sempre e dappertutto la penitenza, cioè la conversione a Dio. La penitenza, infatti, intesa come conversione, cioè “metànoia”, forma un insieme, che la tradizione del Popolo di Dio già nell’antica alleanza e poi Cristo stesso hanno legato, in un certo modo, alla preghiera, all’elemosina e al digiuno.
Perché al digiuno?
In questo momento ci vengono forse in mente le parole con cui Gesù ha risposto ai discepoli di Giovanni Battista quando lo interrogavano: “Perché i tuoi discepoli non digiunano?”. Gesù rispose: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto, mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno” (Mt 9,15). Difatti il tempo di Quaresima ci ricorda che lo sposo ci è stato tolto. Tolto, arrestato, imprigionato, schiaffeggiato, flagellato, incoronato di spine, crocifisso... Il digiuno nel tempo di Quaresima è l’espressione della nostra solidarietà con Cristo. Tale è stato il significato della Quaresima attraverso i secoli e così rimane oggi.
“L’amore mio è stato crocifisso e non c’è più in me la fiamma che desidera le cose materiali”, come scrive il Vescovo di Antiochia Ignazio nella lettera ai Romani (S. Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, VII, 2).
2. Perché il digiuno?
A questa domanda bisogna dare una risposta più ampia e profonda, perché diventi chiaro il rapporto tra il digiuno e la “metànoia”, cioè quella trasformazione spirituale, che avvicina l’uomo a Dio. Cercheremo quindi di concentrarci non soltanto sulla pratica dell’astensione dal cibo o dalle bevande – ciò infatti significa “il digiuno” nel senso comune – ma sul significato più profondo di questa pratica che, del resto, può e deve alle volte essere “sostituita” da qualche altra. Il cibo e le bevande sono indispensabili all’uomo per vivere, egli se ne serve e deve servirsene, tuttavia non gli è lecito abusarne sotto qualsiasi forma. La tradizionale astensione dal cibo e dalle bevande ha come fine di introdurre nell’esistenza dell’uomo non soltanto l’equilibrio necessario, ma anche il distacco da quello che si potrebbe definire “atteggiamento consumistico”. Tale atteggiamento è divenuto nei nostri tempi una delle caratteristiche della civiltà e in particolare della civiltà occidentale. L’atteggiamento consumistico! L’uomo orientato verso i beni materiali, molteplici beni materiali, molto spesso ne abusa. Non si tratta qui unicamente del cibo e delle bevande. Quando l’uomo è orientato esclusivamente verso il possesso e l’uso di beni materiali, cioè delle cose, allora anche tutta la civiltà viene misurata secondo la quantità e la qualità delle cose che è in grado di fornire all’uomo, e non si misura con il metro adeguato all’uomo. Questa civilizzazione infatti fornisce i beni materiali non soltanto perché servano all’uomo a svolgere le attività creative e utili, ma sempre di più... per soddisfare i sensi, l’eccitazione che ne deriva, il piacere momentaneo, una sempre maggiore molteplicità di sensazioni.
Alle volte si sente dire che l’incremento eccessivo dei mezzi audio-visivi nei paesi ricchi non sempre giova allo sviluppo dell’intelligenza, particolarmente nei bambini; al contrario, talvolta contribuisce a frenarne lo sviluppo. Il bambino vive solo di sensazioni, cerca delle sensazioni sempre nuove... E diventa così, senza rendersene conto, schiavo di questa passione odierna. Saziandosi di sensazioni, rimane spesso intellettualmente passivo; l’intelletto non si apre alla ricerca della verità; la volontà resta vincolata dall’abitudine, alla quale non sa opporsi.
Da ciò risulta che l’uomo contemporaneo deve digiunare, cioè astenersi non soltanto dal cibo o dalle bevande, ma da molti altri mezzi di consumo, di stimolazione, di soddisfazione dei sensi. Digiunare significa astenersi, rinunciare a qualcosa.
3. Perché rinunciare a qualcosa? Perché privarsene? Abbiamo già in parte risposto a questo quesito. Tuttavia la risposta non sarà completa, se non ci rendiamo conto che l’uomo è se stesso anche perché riesce a privarsi di qualcosa, perché è capace di dire a se stesso: “no”. L’uomo è un essere composto di corpo e di anima. Alcuni scrittori contemporanei presentano questa struttura composta dell’uomo sotto la forma di strati e parlano, ad esempio, di strati esteriori in superficie della nostra personalità, contrapponendoli agli strati in profondità. La nostra vita sembra esser divisa in tali strati e si svolge attraverso di essi. Mentre gli strati superficiali sono legati alla nostra sensualità, gli strati profondi sono espressione invece della spiritualità dell’uomo, cioè: della volontà cosciente, della riflessione, della coscienza, della capacità di vivere i valori superiori.
Questa immagine della struttura della personalità umana può servire a comprendere il significato del digiuno per l’uomo. Non si tratta qui solamente del significato religioso, ma di un significato che si esprime attraverso la cosiddetta “organizzazione” dell’uomo come soggetto-persona. L’uomo si sviluppa regolarmente, quando gli strati più profondi della sua personalità trovano una sufficiente espressione, quando l’ambito dei suoi interessi e delle sue aspirazioni non si limita soltanto agli strati esteriori e superficiali, connessi con la sensualità umana. Per agevolare un tale sviluppo, dobbiamo alle volte consapevolmente distaccarci da ciò che serve a soddisfare la sensualità, vale a dire, da quegli strati esteriori superficiali. Quindi dobbiamo rinunciare a tutto ciò che li “alimenta”.
Ecco, in breve, l’interpretazione del digiuno al giorno d’oggi. La rinuncia alle sensazioni, agli stimoli, ai piaceri e anche al cibo o alle bevande, non è fine a se stessa. Essa deve soltanto, per così dire, spianare la strada per contenuti più profondi, di cui “si alimenta” l’uomo interiore. Tale rinuncia, tale mortificazione deve servire a creare nell’uomo le condizioni per poter vivere i valori superiori, di cui egli è, a suo modo, “affamato”.
Ecco, il “pieno” significato del digiuno nel linguaggio di oggi. Tuttavia, quando leggiamo gli autori cristiani dell’antichità o i Padri della Chiesa, troviamo in loro la stessa verità, spesso espressa con linguaggio così “attuale” che ci sorprende. Dice, per esempio, San Pietro Crisologo: “Il digiuno è pace del corpo, forza delle menti, vigore delle anime” (S. Pietro Crisologo, Sermo VII: “De Jejunio”, 3), e ancora: “Il digiuno è il timone della vita umana e regge l’intera nave del nostro corpo” (Ivi, 1).
E Sant’Ambrogio risponde così alle eventuali obiezioni contro il digiuno: “La carne, per la sua condizione mortale, ha alcune sue concupiscenze proprie: nei loro confronti ti è stato concesso il diritto di freno. La tua carne è sotto di te: non seguire le sollecitazioni della carne fino alle cose illecite, ma frenale alquanto anche per quanto riguarda quelle lecite. Infatti, chi non si astiene da nessuna delle cose lecite, è prossimo pure a quelle illecite” (S. Ambrogio, Sermo de utilitate jejunii, III. V. VII). Anche scrittori non appartenenti al cristianesimo dichiarano la stessa verità. Questa verità è di portata universale. Fa parte della saggezza universale della vita.
4. È ora certamente più facile per noi comprendere il perché Cristo Signore e la Chiesa uniscano il richiamo al digiuno con la penitenza, cioè con la conversione. Per convertirci a Dio, è necessario scoprire in noi stessi quello che ci rende sensibili a quanto appartiene a Dio, dunque: i contenuti spirituali, i valori superiori, che parlano al nostro intelletto, alla nostra coscienza, al nostro “cuore” (secondo il linguaggio biblico). Per aprirsi a questi contenuti spirituali, a questi valori, bisogna distaccarsi da quanto serve soltanto al consumismo, alla soddisfazione dei sensi. Nell’apertura della nostra personalità umana a Dio, il digiuno – inteso sia nel modo “tradizionale” che “attuale” – deve andare di pari passo con la preghiera perché essa ci dirige direttamente verso lui.
D’altronde il digiuno, cioè la mortificazione dei sensi, il dominio del corpo, conferiscono alla preghiera una maggiore efficacia, che l’uomo scopre in se stesso. Scopre infatti che è “diverso”, che è più “padrone di se stesso”, che è divenuto interiormente libero. E se ne rende conto in quanto la conversione e l’incontro con Dio, attraverso la preghiera, fruttificano in lui.
Da queste nostre riflessioni odierne risulta chiaro che il digiuno non è solo il “residuo” di una pratica religiosa dei secoli passati, ma che è anche indispensabile all’uomo di oggi, ai cristiani del nostro tempo.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 21 marzo 1979]
Ma quale penitenza e quale digiuno vuole dall’uomo il Signore? Il rischio, infatti, è di «truccare» una pratica virtuosa, di essere «incoerenti». E non si tratta solo di “scelte alimentari”, ma di stili di vita per i quali si deve avere l’«umiltà» e la «coerenza» di riconoscere e correggere i propri peccati.
È questa in sintesi la riflessione che, all’inizio del cammino quaresimale, il Pontefice ha proposto ai fedeli durante la messa celebrata a Santa Marta la mattina di venerdì 16 febbraio.
Parola chiave della meditazione, suggerita dalla liturgia del giorno, è stata “digiuno”: «Digiuno davanti a Dio, digiuno che è adorazione, digiuno sul serio», perché «digiunare è uno dei compiti da fare nella Quaresima». Ma non nel senso di chi dice: «Mangio soltanto i piatti della Quaresima». Infatti, ha commentato Francesco, «quei piatti fanno un banchetto! Non è cambiare dei piatti o fare il pesce in un modo, nell’altro, più saporito». Altrimenti non si fa altro che «continuare il carnevale».
È la parola di Dio, ha sottolineato, ad ammonire che «il nostro digiuno sia vero. Vero sul serio». E, ha aggiunto, «se tu non puoi fare digiuno totale, quello che fa sentire la fame fino alle ossa», almeno «fai un digiuno umile, ma vero».
Nella prima lettura (Isaia, 58, 1-9), a tale riguardo, «il profeta sottolinea tante incoerenze nella pratica della virtù». E proprio «questa è una delle incoerenze». L’elenco di Isaia è dettagliato: «Voi dite che mi cercate, parlate a me. Ma non è vero», e «nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari»: ossia, mentre «digiunare è un po’ spogliarsi», ci si preoccupa di «fare dei soldi». E ancora: «Angariate tutti i vostri operai»: Ovvero, ha spiegato il Papa, mentre si dice: «Ti ringrazio Signore perché io posso digiunare», si disprezzano gli operai che oltretutto «devono digiunare perché non hanno da mangiare». L’accusa del profeta è diretta: «Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui».
È una doppia faccia inammissibile. Ha spiegato il Pontefice: «Se tu vuoi fare penitenza, falla in pace. Ma tu non puoi da una parte parlare con Dio e dall’altra parlare con il diavolo, invitare al digiuno tutte e due; questa è una incoerenza». E, seguendo sempre le indicazioni della Scrittura — «Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso» — Francesco ha messo in guardia dall’esibizionismo incoerente. È l’atteggiamento di chi, ad esempio, ricorda sempre: «noi siamo cattolici, pratichiamo; io appartengo a quella associazione, noi digiuniamo sempre, facciamo penitenza». A loro ha idealmente chiesto: «Ma, digiunate con coerenza o fate la penitenza incoerentemente come dice il Signore, con rumore, perché tutti la vedano, e dicano: “Ma che persona giusta, che uomo giusto, che donna giusta”?». Questo, infatti, «è un trucco; è truccare la virtù. È truccare il comandamento». Ed è, ha aggiunto, una «tentazione» che tutti qualche volta abbiamo sentito, «di truccarci invece di andare sul serio sulla virtù, su quello che il Signore ci chiede».
Al contrario, il Signore «consiglia ai penitenti, a quelli che digiunano di truccarsi, ma sul serio: “Digiunate, ma truccati perché la gente non veda che stai facendo penitenza. Sorridi, stai contento». Di fronte a tanti che «hanno fame e non possono sorridere», questo è il suggerimento al credente: «Tu cerca la fame per aiutare gli altri, ma sempre con il sorriso, perché tu sei un figlio di Dio e il Signore ti ama tanto e ti ha rivelato queste cose. Ma senza incoerenze».
A questo punto, la riflessione del Pontefice è scesa ancora più in profondità, sollecitata dalla domanda: “quale digiuno vuole il Signore?”. La risposta giunge ancora dalla Scrittura, dove innanzitutto si legge: «Piegare come un giunco il proprio capo». Cioè: umiliarsi. E a chi chiede: «Come faccio per umiliarmi?», il Papa ha risposto: «Ma pensa ai tuoi peccati. Ognuno di noi ne ha tanti». E «vergognati», perché anche se il mondo non li conosce, Dio li conosce bene. Questo, quindi, «è il digiuno che vuole il Signore: la verità, la coerenza».
C’è poi un’aggiunta: «Sciogliere le catene inique» e «togliere il legame del giogo». L’esame di coscienza, in questo caso punta l’obbiettivo sul rapporto con gli altri. Per farsi meglio comprendere, il Papa ha fatto un esempio molto pratico: «Io penso a tante domestiche che guadagnano il pane con il loro lavoro» e che vengono spesso «umiliate, disprezzate». Qui la sua riflessione ha lasciato spazio al ricordo personale: «Mai ho potuto dimenticare una volta che andai a casa di un amico da bambino. Ho visto la mamma dare uno schiaffo alla domestica. Ottantuno anni... Non ho dimenticato quello». Da qui una serie di domande rivolte idealmente a chi ha delle persone a servizio: «Come li tratti? Come persone o come schiavi? Le paghi il giusto, dai loro le vacanze? È una persona o è un animale che ti aiuta a casa tua?». Una richiesta di coerenza che vale anche per i religiosi, «nelle nostre case, nelle nostre istituzioni: come mi comporto io con la domestica che ho in casa, con le domestiche che sono in casa?». Qui il Pontefice ha aggiunto un’altra esperienza personale, ricordando un signore «molto colto» che però «sfruttava le domestiche». e che, messo di fronte alla considerazione che si trattava di «un peccato grave» contro persone che sono «immagine di Dio», obbiettava: «No, Padre dobbiamo distinguere: questa è gente inferiore».
Bisogna perciò «togliere il legame del giogo, sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo». E, commentando il profeta che ammonisce: «dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, i senzatetto», il Papa ha contestualizzato: «Oggi si discute se diamo il tetto o no a quelli che vengono a chiederlo...»
E le indicazioni continuano: «Vestire uno che vedi nudo», ma «senza trascurare i tuoi parenti». È il digiuno vero, quello che coinvolge la vita di ogni giorno. «Dobbiamo fare penitenza, dobbiamo sentire un po’ la fame, dobbiamo pregare di più», ha detto Francesco; ma se «noi facciamo tanta penitenza» e non viviamo così il digiuno, «il germoglio che nascerà da lì» sarà «la superbia», quella di chi dice: «Ti ringrazio, Signore, perché posso digiunare come un santo». E questo, ha aggiunto, «è il trucco brutto», e non quello che Gesù stesso suggerisce «per non far vedere agli altri che io digiuno» (cfr. Matteo, 6, 16-18).
La domanda da porsi, ha concluso il Pontefice, è: «Come mi comporto con gli altri? Il mio digiuno arriva per aiutare gli altri?». Perché se ciò non accade, quel digiuno «è finto, è incoerente e ti porta sulla strada di una doppia vita». Bisogna, perciò, «chiedere umilmente la grazia della coerenza».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 17/02/2018]
XXII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [31 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Sta per chiudersi per molti il tempo delle ferie e ci si prepara a riprendere il ritmo abituale della vita. La Parola di Dio ci viene incontro con appropriati consigli.
*Prima Lettura dal libro del Siracide (3, 17-18. 20. 28-29 NV 3,19-21.30.31)
Questo testo si illumina se si comincia a leggerlo dalla fine: “Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio” (v.29). Quando la Bibbia parla di saggezza intende l’arte di vivere felici. Essere un “un uomo saggio” è l’ideale di tutti in Israele: un popolo così piccolo, nato come “popolo” solo al momento dell’uscita dall’Egitto, ha il privilegio, grazie alla Rivelazione, di sapere che “ogni sapienza viene dal Signore” (Sir 1,1), nel senso che solo Dio conosce i misteri della vita e il segreto della felicità. È dunque al Signore che bisogna chiedere la sapienza perché, nella sua libertà sovrana, Egli ha scelto Israele per essere il depositario della sua sapienza. Yeshua Ben Sira (Gesù figlio di Sira), l’autore del libro, fa parlare la sapienza stessa come se fosse una persona (cf. Sir 24,8); Israele ricerca ogni giorno la sapienza (cf. Sir 51,14) e, secondo il Salmo 1, in essa trova la sua felicità: “Beato l’uomo che medita la legge del Signore giorno e notte (1,2). “Giorno e notte” significa sempre. Chi cerca trova, dirà più tardi Gesù: ma bisogna cercare, cioè riconoscere di non possedere tutto e bisognosi sempre di qualcosa. Ben Sira aveva aperto a Gerusalemme verso il 180 a.C. una scuola di teologia (beth midrash) e per promuoverla diceva: “Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola” (Sir 51,23). Un vero figlio d’Israele sa che la sapienza viene da Dio, si lascia istruire da Lui, medita le massime della sapienza e il suo ideale è un orecchio che ascolta. Israele ha talmente fatto tesoro di questa lezione che recita più volte al giorno lo “Shema‘ Israel, Ascolta, Israele” (Dt 6,4). Un’“orecchio aperto” significa ascoltare consigli, indicazioni, comandamenti; il superbo invece crede di sapere tutto e chiude le orecchie, ma dimentica che, se la casa ha le imposte chiuse, il sole non potrà entrarvi. Leggiamo al v. 28: ”Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. In altre parole, il superbo è un malato incurabile perché, essendo pieno di sé, chiude il cuore. Interessante al riguardo la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18): il pubblicano si è limitato ad essere vero perché l’umile ha i piedi per terra e per questo si riconosce povero e conta solo su Dio. Il fariseo, autosufficiente in tutto, tornò a casa come era venuto mentre il pubblicano trasformato. Isaia descrive la gioia di questi umili: “Gli umili si rallegreranno sempre di più nel Signore, e i poveri esulteranno a causa del Santo d’Israele” (Is 29,19) e Gesù esclamerà: “Ti rendo lode, Padre…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.” (Mt 11,25 // Lc 10,21). Dio può realizzare grandi cose con gli umili, facendoli servitori del suo progetto, come con Mosè, grande e instancabile suo servitore, il cui segreto, come leggiamo nel libro dei Numeri, è che era uomo molto umile, più di ogni altro sulla terra” (12,3) e Gesù, il Servo di Dio, dice di sé:” Io sono mite e umile di cuore.» (Mt 11,29), mentre Paolo scrive: “Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza… Il Signore mi ha detto…la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.» (2Cor 11,30; 12,9). In definitiva, l’umiltà è più che una virtù: è un minimo vitale e condizione preliminare.
*Salmo responsoriale (67/68)
”Signore è il suo nome” (v.5), questa frase piccolissima fa capire il tono dell’insieme: “Signore” è il nome tetragramma (YHWH) rivelato a Mosè che esprime la presenza permanente di Dio in mezzo ai suoi “Ehyeh-Asher-Ehyeh”(Io sono colui che sono). E poiché Egli ci circonda in ogni tempo della sua sollecitudine, ciascuno dei versetti può essere letto a più livelli e la ricchezza e complessità di questo salmo sta nel poterlo cantare in ogni epoca sentendosi coinvolti. “I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia. Cantate a Dio, inneggiate al suo nome. Signore è il suo nome” (vv4-5). Anche Davide danza davanti all’Arca, ma qui si parla della gioia del popolo liberato dall’Egitto: il canto di Mosè dopo il passaggio del mare; Miriam, sorella di Aronne (e di Mosè), prese in mano il tamburello e tutte le donne uscirono dietro a lei, danzando e suonando il tamburello. In seguito durante l’Esodo molteplici furono i motivi per cantare e danzare. Questo emerge nei seguenti versetti: “fa uscire con gioia i prigionieri” (7). “Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio” (10-11). Qui si sovrappongono diversi livelli di lettura, ma ogni allusione alla liberazione riguarda sempre sia l’uscita dall’Egitto, sia il ritorno dall’esilio babilonese e anche le altre liberazioni, cioè ogni volta che persone o interi popoli avanzano verso più giustizia e libertà e infine la liberazione definitiva, che ancora attendiamo. “Fa uscire con gioia i prigionieri”: per noi cristiani è il richiamo alla Risurrezione di Cristo pensando alla nostra. “Pioggia abbondante hai riversato” questo richiamo all’Esodo offre più letture: la manna nel deserto (cf. Es 16, 4.13-15) e molto probabilmente pure la pioggia benefica da cui dipende ogni vita perché senza “l’abbondante pioggia” la terra promessa non stilla «latte e miele». Nel passato ci sono state siccità (e quindi carestie) memorabili: i sette anni di carestia che portarono i figli di Giacobbe con il padre a scendere in Egitto da Giuseppe; la siccità al tempo di Elia (1Re 17-18) con il duro confronto tra Elia e la regina Gezabele, adoratrice di Baal, il dio della fecondità, della tempesta e della pioggia; la carestia sotto l’imperatore Claudio quando le comunità cristiane del bacino del Mediterraneo, regioni non colpite, furono invitate a soccorrere economicamente i sinistrati e san Paolo fece un richiamo alla comunità di Corinto per la lentezza a dare il loro contributo (cf. 2Cor 8-9). Infine anche noi abbiamo motivo di rendere grazie per la nuova manna, nostro pane quotidiano: Gesù Cristo, pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,48-51).
*Seconda Lettura dalla lettera agli Ebrei (12, 18-19. 22-24a)
Essendo indirizzata a cristiani di origine ebraica, la Lettera agli Ebrei ha come obiettivo di collocare correttamente la Nuova Alleanza rispetto all’Antica. Con la vita terrena, passione, morte e risurrezione di Cristo, l’intero passato è considerato dai cristiani come una tappa necessaria nella storia della salvezza, ma ormai superata anche se non annullata per cui tra la Prima e la Nuova Alleanza c’è sia continuità ma anche radicale novità. A favore della continuità ci sono elementi familiari a Israele: Sinai, fuoco, oscurità, tenebre, uragano, trombe, Sion, Gerusalemme, i nomi scritti nei cieli, giudice e giustizia, alleanza con un linguaggio che evoca tutta l’esperienza spirituale del popolo dell’Alleanza e di certo ben familiare agli ascoltatori di allora. (cf. Es 19,16-19;20,18.21; Dt 4,11). Israele si nutre di questi racconti essendo titoli di gloria del popolo dell’Alleanza. La Lettera agli Ebrei sembra però sminuire questa esperienza memorabile perché quell’Alleanza è ora completamente rinnovata. Mosè si avvicinava a Dio, ma il popolo restava a distanza; nella Nuova Alleanza i battezzati sono introdotti in una vera intimità con Dio e l’autore descrive questa nuova esperienza spirituale come ingresso in un mondo nuovo di bellezza e di festa (cf. vv. 22-24). La “paura di Dio” nell’AT era timore dinanzi a manifestazioni di potenza, tanto che il popolo arrivò a chiedere di non udire più la voce di Dio ma in seguito, a poco a poco, il rapporto con Dio si è trasformato e il timore è diventato fiducia filiale. Coloro che hanno conosciuto Gesù hanno scoperto in Lui il vero volto del Padre: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15-16). Gesù, dunque, svolge pienamente il ruolo di mediatore della Nuova Alleanza e permette a tutti i battezzati di accostarsi a Dio e di diventare “primogeniti” (nel senso di “consacrati”). Così, l’antica promessa a Mosè sul Sinai: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli… sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,4) si realizza finalmente in Cristo e per questo anche noi “accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16).
*Dal vangelo secondo Luca (14, 1a. 7 – 14)
Nel Vangelo di Luca si trovano spesso scene di pasti: a casa di Simone il fariseo (7,36); da Marta e Maria (10,38); di nuovo a casa di un fariseo (11,37); da Zaccheo (19); il pasto pasquale (22). L’importanza che Gesù attribuiva ai pasti faceva perfino dire ai malintenzionati: “Ecco un mangione e un beone” (Lc 7,34). Tre di questi pasti si svolgono in casa di farisei e diventano occasione di disaccordo. Durante il primo, a casa di Simone (Lc 7,36), una donna di cattiva reputazione si era gettata ai piedi di Gesù e, contro ogni aspettativa, Egli l’aveva presa come esempio. Il secondo (Lc 11,37) fu ugualmente occasione di un grave malinteso, questa volta perché Gesù non si era lavato le mani prima di mettersi a tavola: la discussione degenera e Gesù ne approfitta per intavolare una severa diatriba tanto che l’episodio si chiude con gli scribi e i farisei che cominciano ad accanirsi contro di lui tendendogli insidie per sorprenderlo in fallo (cf. Lc 11,53). Oggi il terzo pasto in casa di un fariseo avviene di sabato, giorno di riposo (“shabbat” in ebraico significa cessare ogni attività) e di festa: memoria della creazione del mondo, della liberazione del popolo dall’Egitto e attesa della grande festa del Giorno in cui Dio rinnoverà l’intera creazione. Il sabato prevedeva un pasto solenne, spesso occasione per invitare correligionari, anche se i divieti rituali della Legge erano così numerosi che il rispetto delle prescrizioni aveva, per alcuni, oscurato l’essenziale: la carità fraterna. Quel sabato Gesù aveva guarito un malato di idropisia (scena che non figura nella nostra lettura liturgica: cf.Lc14, 2-6) e si aprono vive discussioni perché si accusa Gesù di aver infranto il sabato. Qui mi fermo e pongo una domanda: i rapporti tra Gesù e i farisei sono sempre uno scontro? In verità sono un misto di simpatia e di severità: simpatia perché il loro movimento religioso, nato verso il 135 a.C. da un desiderio di conversione, era stimato e il nome “fariseo”, che significa “separato”, esprimeva il rifiuto di ogni compromesso politico, di ogni lassismo nella pratica religiosa, due problemi allora assai presenti. Al tempo di Cristo se ne apprezzava la fervente fede e il coraggio per il rispetto della tradizione, da non intendere in senso peggiorativo, ma come la ricchezza ricevuta dai padri e trasmessa sotto forma di precetti concernenti i minimi dettagli della vita quotidiana. Queste norme, messe per iscritto dopo il 70 d.C., somigliano a quelle di Gesù stesso e per questo erano rispettabili tanto che Gesù non rifiutava di parlare con loro come dimostrano questi pasti e l’incontro con Nicodemo (cf. Gv 3). Sotto Erode il Grande (39-4 a.C.), seimila di loro, per restare ligi alla Legge, rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Roma e a Erode e furono puniti con pesanti ammende. Tuttavia il rigore nell’osservanza generava talora eccessiva sicurezza di sé e disprezzo per gli altri e Gesù a questo reagiva perché creava alcune ambiguità e deviazioni ben simboleggiate nella parabola della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5; Lc 6,41-42). Nel testo odierno Gesù invita a non occupare i primi posti non per richiamare una norma di buona educazione e di filantropia, ma, alla maniera dei profeti, cerca di aprire i loro occhi prima che sia troppo tardi perché un eccessivo compiacimento di sé può condurre alla cecità. E quindi, proprio perché persone di valore e fedeli praticanti della religione giudaica, Gesù smaschera il rischio del loro disprezzo verso gli altri ricordando che per entrare nel Regno bisogna farsi come bambini (cf Lc 9,46-48; Mt 18,4), accogliendoli e rispettandoli senza attendere nulla in cambio e anzi aprendo il cuore a poveri, storpi, zoppi, ciechi (v.13). Una lezione per i farisei di ieri e di oggi tenendo ben presente quel che san Giacomo scrive: non mescolare mai favoritismi personali con la fede nel Cristo (cf. Gc 2,1).
+ Giovanni D’Ercole
The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
don Giuseppe Nespeca
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