Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (8 settembre 2024)
1. Nella prima lettura dell’odierna liturgia il profeta Isaia si rivolge agli ebrei deportati in Babilonia che tornano verso Gerusalemme: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”. C’è una parola che potrebbe sorprendere: “la vendetta divina”. E’ meglio subito precisare che non ha lo stesso significato rispetto al nostro modo di sentire. Contestualizzandola nel momento storico, si capisce che quando il profeta parla della vendetta di Dio si riferisce alla salvezza e lo comprendiamo meglio se si formula il testo così: “Ecco la vendetta di Dio: Egli viene e vi salverà”, e poi: “Ecco la ricompensa di Dio: Egli stesso viene per salvarvi”. Ancor più aiutano a percepire questo messaggio di speranza le promesse che seguono: i malati guariranno, i ciechi riacquisteranno la vista, i sordi l’udito, gli storpi salteranno come cervi e griderà di gioia la lingua del muto. Queste promesse hanno il sapore d’un balsamo lenitivo e incoraggiante alle orecchie di un popolo deportato in Babilonia e segnato dalle atroci ferite inferte dall’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor. E’ a loro che Dio assicura futuri giorni di benessere e di gioia ritrovata. Ma c’è di più: alla luce del quadro storico e religioso di quel tempo la “vendetta” veniva percepita in maniera favorevole dagli ebrei perché sapevano che il Signore mai avrebbe abbandonato il suo popolo e anzi lottava contro il male che l’opprimeva. “Vendetta divina” significava quindi ridare dignità a coloro che formano questo popolo che il Signore si è scelto e che pone in lui ogni attesa. E proprio in questo brilla la gloria di Dio. A meglio comprendere giova aggiungere che all’inizio della sua storia, il popolo della Bibbia immaginava un Dio vendicativo come sono gli uomini e, solo attraverso un percorso di purificazione della fede durato lunghi secoli grazie alla predicazione dei profeti, ha cominciato a scoprire il vero volto del Signore. E allora, pur restando la parola “vendetta” il contenuto è del tutto mutato, come si è verificato per altre parole, ad esempio “sacrificio” e “il timore di Dio”. Ci sono voluti secoli per arrivare a riconoscere il vero volto di Dio, un Dio diverso da come si poteva immaginare, un Dio che è amore e spende il suo amore per tutti gli uomini. Con la frase: “Ecco la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”, il profeta vuol far intendere che Dio ama più di ogni altro al mondo e in qualsiasi prova, dolore e umiliazione fisica o morale, non tarda a intervenire manifestando la sua misericordia. Quanto è necessario riscoprire nella nostra vita la misericordia divina! Dio viene a salvarci, viene a rialzarci. Un aspetto fondamentale della fede è proprio la certezza che Egli ha già vinto la prepotenza del male con l’onnipotenza del suo amore misericordioso e anche se le forze sataniche operanti a vari livelli apparentemente dominano nel mondo, il cristiano non cede alla tentazione del pessimismo perché sa di essere amato da Colui che in tanti modi vuole manifestarci la sua tenerezza di Padre e mai ci abbandona.
2. Oggi è per noi l’invito che Isaia rivolge agli esuli in Babilonia che fanno ritorno a Gerusalemme. La fede ci assicura che l’umanità è in sicura attesa della definitiva liberazione da ogni forma di schiavitù e di offesa alla dignità dell’uomo, da ogni rischio di accecamento fisico e morale che perturba la pace. Il Messia è il salvatore promesso: i contemporanei di Gesù dovevano averlo compreso perché, presentando sé stesso come Messia nella sinagoga di Nazaret (Cf Lc 4) Gesù cita proprio il profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l'apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l'anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio” (61,1-2). Da notare però che della profezia omette di proposito le ultime parole: “il giorno di vendetta del nostro Dio”, per chiarire che egli viene per dare speranza e salvezza ai poveri, ai prigionieri, agli oppressi, che con fatica avrebbero compreso la parola “vendetta”. Ormai ogni sua azione avrà il volto della misericordia. Misericordia, di cui sono segni tangibili i ciechi che riacquistano la vista, gli storpi che riprendono a camminare, i lebbrosi purificati, i sordi capaci di sentire nuovamente, i morti che risuscitano e soprattutto il vangelo annunciato ai poveri, come il Cristo afferma rispondendo ai discepoli di Giovanni Battista venuti per domandargli se è il Messia atteso (Lc 7,22). Questo è il vangelo: Dio ci rialza dalla nostra miseria e ci salva, e questo appare chiaramente nell’odierna pagina del vangelo di Marco (cap.7). Gesù è in terra pagana - il territorio della Decapoli - dove guarisce un uomo che soffre di doppia infermità: è sordo e muto. L’evangelista utilizza il termine greco “magilalos”(che significa colui che parla con difficoltà perché è non udente), raramente usato nel Nuovo Testamento e una sola volta presente nell’Antico Testamento proprio nel testo d’Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: ”griderà di gioia la lingua del muto”. L’evangelista assicura che questa profezia si è compiuta in Gesù e ne è prova la guarigione del sordo muto, simbolo dell’umanità incapace di sentire e quindi con serie difficoltà nel comunicare (balbetta soltanto). Si chiede a Gesù “di imporgli la mano” e lui compie qualcosa che mai aveva fatto prima. Lo allontana dalla folla e ripete gesti rituali dei guaritori: mette le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua. Gesù non cambia questi gesti ma li riveste di un nuovo significato. A differenza dei guaritori, egli guarda verso il cielo, emette un sospiro e gli dice: “Effata, cioè apriti”. Alzando gli occhi verso l’Alto manifesta che guarisce grazie al potere conferitogli dal Padre. Quanto al sospiro si tratta piuttosto di un gemito: viene usata la stessa parola che san Paolo, nella lettera ai Romani, utilizza per descrivere sia l’impazienza della creazione che attende la liberazione, sia la maniera con cui lo Spirito Santo prega nel cuore dei credenti “con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Nel gemito di Gesù possiamo avvertire da una parte l’umanità che aspetta e invoca la liberazione e dall’altra lo Spirito che intercede per noi perché nessuna umana sofferenza ci lasci indifferenti. Il vangelo si chiude con la gente che piena di stupore proclama: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Percepiamo qui un’anticipazione della professione di fede della comunità cristiana che sarà totale e perfetta sulle labbra del centurione sotto la croce di Cristo verso la fine del vangelo di Marco: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15, 39).
3. Effatà, cioè “Apriti” è una delle poche parole aramaiche citate direttamente nel vangelo e rimaste immutate in ogni lingua. Si trova nel rito del battesimo, quando il celebrante tocca le orecchie e le labbra del battezzato aggiungendo: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede a lode e gloria di Dio Padre. Ogni giorno ascoltiamo nella liturgia il salmista che canta: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca annuncerà la tua lode (Sal 50/51,17), e torna frequente nella predicazione l’affermazione dell’apostolo Paolo: “Nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Co 12,3). Solo Dio può aprire il cuore dell’uomo e rendere le sue labbra degne di onorarlo. Solo Dio ci salva: tocca però alla nostra libertà decidere di scegliere di amarlo e proclamare la sua lode non semplicemente a parole, bensì con tutta la vita diventata vangelo vivente.
Buona domenica + Giovanni D’Ercole
XX Domenica del tempo ordinario B (18 agosto 2024)
1. Come domenica scorsa, anche quest’oggi san Paolo, nella seconda lettura, rivolge agli Efesini alcune raccomandazioni, che possiamo riassumere in quattro punti: “non vivete come dei pazzi, ma siate saggi”; “fate buon uso del tempo perché i giorni nostri sono cattivi”; “non ubriacatevi di vino che fa perdere il controllo di sé, ma siate ricolmi dello Spirito”; “rendete continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel nome di nostro Signore Gesù Cristo”. Vivere come pazzi o come saggi è la sfida per ogni essere umano. Lo sforzo di chi vuole seguire Gesù è nutrirsi della sua sapienza che si presenta come un cammino, un modo di concepire la vita e di comportarsi non alla maniera di questo mondo bensì secondo la vocazione dei figli della luce, immersi nell’amore divino. Stiamo attraversando, osserva san Paolo, tempi non facili fra gente che facilmente diventa egoista, nemica del bene e amante dei piaceri piuttosto che dedicarsi alla ricerca della gioia di Dio (Cf. 2 Tm 3, 1-7). La vera sapienza consiste nell’accogliere ogni giorno la volontà di Dio, riempirsi non di vino che ubriaca, cioè di ciò che stordisce la coscienza e indebolisce la volontà, ma di Spirito Santo che rende capaci di vivere nella lode, nell’adorazione e nel ringraziamento. Grazie all’azione dello Spirito Santo tutta l’umana esistenza si converte in una vera liturgia perché è lui a introdurci nella sapienza di Cristo, Colui che dona la vita perché il mondo abbia la vita.
2. Il riferimento di san Paolo alla sapienza divina, e di questa sapienza parla anche la prima lettura tratta dal libro dei Proverbi, ci prepara alla meditazione dell’odierna pagina del vangelo di Giovanni che prosegue il racconto della catechesi sull’Eucarestia che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Quest’oggi riprende con quest’affermazione: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (v.51). Gesù non sta parlando di un cannibale, di antropofagia; e non si meravigliano i suoi ascoltatori perché minimamente sospettano che si tratti di un linguaggio assurdo. Nel mondo ebraico si era abituati ad utilizzare la metafora del mangiare e del bere e si sapeva che esistono fame e sete più urgenti ed esigenti di quelle dello stomaco. Ci sono uomini che possono riempirsi lo stomaco a volontà, ma soffrono di mancanza di amore, allo stesso modo il cuore umano lontano da Dio finisce per morire di inedia spirituale. La sapienza per il popolo d’Israele è sempre una scelta: tra la vita o la morte, tra il bene o il male, tra la gioia o la tristezza mortale, tra Dio o l’uomo. Dio solo però, conoscendola può donare all’uomo la vera sapienza che non delude. Nel libro della Genesi il racconto dell’albero della conoscenza del bene e del male e del peccato di Adamo ed Eva costituisce una metafora per dire che la conoscenza di ciò che rende l’uomo veramente libero e felice o schiavo e infelice è accessibile solo a Dio e l’uomo con la sola sua intelligenza/volontà non può mai costruirsela (Gn 2, 8 - 3, 24). All’uomo allora non resta che mettersi in ascolto obbediente di Dio, il quale ha voluto dare in dono la sapienza al suo popolo e Israele è fiero di essere il depositario della sapienza divina dinanzi al mondo intero. Sempre nella prima lettura dal libro dei Proverbi, si dice che la divina sapienza ha posto la sua tenda sulla montagna santa a Gerusalemme e “si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne”. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola e ha mandato le sue ancelle a proclamare a chi è inesperto e a chi è privo di senno: “venite a mangiare pane e bere vino che vi ho preparato”. Non si fa fatica a capire il nesso tra il dono della Sapienza e il dono dell’Eucarestia, tutto e sempre nella logica del dono.
3. Gli ascoltatori a Cafarnao conoscevano questi testi dell’Antico Testamento e per questo rimangono basiti quando Gesù parla di sé come del pane della vita e si chiedono: ma per chi si prende quest’uomo che conosciamo bene? Capivano che Gesù si stava presentando come il Messia che loro aspettavano e questo era per loro inaccettabile. Nel suo discorso Gesù più volte ha insistito sul fatto di essere l’Inviato di Dio per dare la vita al mondo affrontando l’incomprensione, il mormorio critico e spesso il deciso rifiuto degli ascoltatori. Rifiuto della sua identità che san Giovanni afferma già nel prologo del suo vangelo, quando scrive che il Verbo “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1, 11). In effetti pochi riescono a entrare gradualmente nel mistero di Dio e sono coloro che umilmente ascoltano Gesù fino in fondo invece di cominciare subito a discutere. Questo vale anche per noi: solo avvolti dalla sapienza divina che è follia per gli uomini possiamo accostarci al mistero. Gesù di Nazaret, ebreo tra gli ebrei, parlava con il linguaggio del tempo, utilizzava le stesse immagini e i medesimi simboli. Chi lo ascoltava poteva capirlo almeno per il fatto che stava usando lo stesso vocabolario e condivideva la stessa maniera di ragionare. Invece la maggioranza decide di non seguirlo e questo avviene in tanti momenti della sua vita. Non essendoci nel quarto vangelo, come invece nei sinottici, il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia il Giovedì Santo dopo l’ultima cena, questo discorso costituisce una prima grande catechesi sul mistero eucaristico. Quando Giovanni scrive il vangelo, le prime comunità cristiane erano già abituate da diversi anni a nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo ogni domenica e cercavano di capire questo mistero. Ma più che cercare di capire – dice Gesù - occorre con umiltà lasciarsi contagiare dal mistero. Nel cuore della preghiera eucaristica anche il celebrante lo proclama: questo è “Mistero della fede”. Entrare nel mistero dell’Eucarestia va oltre la nostra capacità ed allora è necessario lasciarsi illuminare e condurre da Dio. E Gesù spiega ancora: “Come il Padre che la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Vivere la stessa sua vita: è questo il dono di Dio agli uomini nell’Eucaristia. Gesù aveva proclamato che la sua parola è nutrimento per il mondo, ma qui va ben oltre, parla di carne da mangiare che diventa cibo da assimilare non solo per noi stessi ma per il bene dell’umanità: ”Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo”. Si riferisce alla sua passione e alla sua morte e risurrezione dato che tutto il Nuovo Testamento ci fa comprendere che il mondo ha ritrovato la vita grazie proprio al dono della croce gloriosa di Cristo, cioè vittoriosa della morte. Non meravigliamoci se facciamo fatica a capire con la nostra intelligenza perché l’unica strada percorribile non è cercare di capire, ma lasciarci attrarre da Dio. A coloro che mormoravano tra loro quando Gesù aveva detto di essere il pane disceso dal cielo, Gesù aveva replicato: “Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio”. Dunque per l’uomo tutto è difficile se Dio stesso non viene ad istruirci. Quando ascoltiamo gli insegnamenti del Padre incontriamo Gesù perché “nessuno viene a me – insiste - se il Padre mio non l’attira”. Nell’Eucarestia siamo attratti: è la Trinità Santissima che ci attrae divinamente a sé. Sì, nella celebrazione eucaristica, entriamo nel mistero della Santissima Trinità. Prima, durante e dopo restiamo in adorazione lasciandoci istruire e trasformare da Dio Trinità Santissima e Misericordia infinita. Questo è l’esempio dei santi, che traggono dall’immersione nel mistero della Santissima Trinità la forza per amare tutti nella verità. E questo è un dono offerto a tutti. Durante la sua breve vita, Carlo Acutis, un adolescente già beato e presto proclamato santo viveva dell’Eucarestia. Diceva: "L'Eucaristia è la mia autostrada per il Paradiso", e "se stiamo davanti al sole, diventiamo marroni, ma quando stiamo davanti a Gesù nell'Eucaristia, diventiamo santi".
+Giovanni D'Ercole
Solennità dell’Assunzione di Maria (15 agosto 2024)
1. Nel cuore dell’estate la liturgia c’invita a celebrare la Vergine Maria assunta in cielo, segno di consolazione e di sicura speranza per tutti. Fu papa Pio XII, il 1° novembre dell’Anno Santo del 1950, a dichiarare come dogma (cioè verità di fede) l’Assunzione di Maria alla gloria celeste in anima e corpo. L’odierno Vangelo di Luca presenta Maria come colei che è beata perché ha creduto. Al saluto di Elisabetta: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”, lei risponde con il suo silenzio che si espande alla fine nel canto del Magnificat. Al suo posto parla in maniera misteriosa Gesù in gestazione dentro di lei facendo sussultare di gioia Giovanni Battista nel ventre dell’anziana Elisabetta. Eccola Maria, Arca della nuova alleanza, primo itinerante tabernacolo dell’Eucarestia nella storia dell’umanità, modello di evangelizzazione: annunciare il vangelo senza bisogno di parole, recando Cristo nel cuore. Fra i mussulmani san Charles de Foucauld scelse l’icona della Visitazione come riferimento per la sua missione di piccolo fratello di tutti. Volle essere come Maria in adorazione costante dell’Eucarestia e in ascolto dei bisogni della gente dapprima a Beni-Abbès, al confine tra Algeria e Marocco e poi a Tamanrasset fra i tuareg del deserto del Sahara. Arca della nuova alleanza, Maria continua a camminare anche oggi ed entra nelle nostre case come fece nell’Antico Testamento l’Arca dell’alleanza che da Gerusalemme fu portata sulle colline della Giudea ed entrò per restarvi tre mesi nella casa di Obed Edom recandovi gioia (2 S 6,11-12). La preghiera, il cantico del Magnificat con cui risponde ad Elisabetta, è una silloge di tanti piccoli frammenti di testi biblici e salmi. Non ha voluto inventare la sua preghiera, ma ha ripreso diverse espressioni degli antenati nella fede incarnando così la sua preghiera nella vita dell’umanità. Maria, donna umile e credente, ci offre un prezioso insegnamento: in questo tempo tanto difficile per l’umanità dove si sta provocando Dio con ogni offesa e si rischia una guerra che potrebbe creare l’autodistruzione dell’umanità dobbiamo tornare al silenziare tante polemiche e tanti dibattiti e scontri. Dobbiamo avvertire la responsabilità di ciò che diciamo e facciamo sapendo che siamo parte di una stessa umanità e nel bene come nel male tocchiamo la vita di tutti. Il credente non può dimenticare che ogni vocazione, pur nella pluralità delle differenze, ci rende servitori dell’unico popolo chiamato ad affrontare in ogni epoca una dura lotta contro le potenze del male.
2. A questa guerra senza fronti fa riferimento la prima lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, che vede vincitrice la “Donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”, accompagnata da altre simboliche immagini: l’Arca dell’alleanza, il dragone e il bambino appena nato. L’Arca dell’alleanza, come già detto, è il richiamo all’Arca di legno dorato che accompagnava il popolo di Dio durante l’esodo verso il Sinai. Quando Giovanni scrive l’Apocalisse, l’Arca dell’alleanza si era persa già da molti anni durante l’esilio babilonese e tutti pensavano che il profeta Geremia l’avesse nascosta in un posto segreto del monte Nebo (2 M 2,8) e sarebbe riapparsa all’arrivo del Messia. Se Giovanni la descrive ritrovata, vuol dire che ormai si è compiuta la promessa, si è definitivamente attuata l’alleanza di Dio con l’umanità grazie alla nascita del Messia (Ap 11,19). La “Donna vestita di sole” è incinta e “grida per le doglie del parto”. La Donna è immagine del popolo eletto all’interno del quale nasce il Messia, un parto doloroso perché è un popolo segnato da sofferenze, divisioni e persecuzioni. Con l’avvento di Gesù non fu difficile ai primi cristiani associare nella Donna dell’Apocalisse il richiamo alla Chiesa, nuovo Israele e a Maria, la Madre del Salvatore. Davanti alla Donna si apposta “un dragone rosso con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi” per divorare il figlio appena nato, simbolo impressionante delle forze del male scatenate contro il piano di Dio. La sua testa e le corna indicano l’intelligenza e la violenza del potere di satana che vuole distruggere l’umanità. Il drago sembra prevalere perché abbatte un terzo delle stelle de cielo per precipitarle a terra, eloquente parabola del travaglio di un universo mai in pace. Nonostante però la sua potenza, riesce ad abbattere soltanto un terzo delle stelle. Si tratta quindi di una vittoria illusoria e il messaggio è chiaro: il potere del male è provvisorio e ad abbatterlo definitivamente sarà il bambino appena nato destinato a governare tutte le nazioni. Tutti riconoscono in questo neonato, trionfatore delle potenze sataniche, il Messia essendoci nell’Apocalisse chiari riferimenti ai salmi che ne prevedevano la venuta: ”Il Signore mi ha detto : Tu sei mio figlio , io oggi ti ho generato . Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai.” (Sal 2,7-9). Inoltre, nel rapimento del neonato è simboleggiata la risurrezione di Cristo risorto, vincitore della morte e assiso alla destra del Padre. Al Messia si unisce il richiamo a Maria, la vergine Madre Immacolata, rappresentata sempre nell’atto di schiacciare la testa del serpente- dragone, il quale avendo fallito in cielo non riuscirà nemmeno sulla terra. Come allora non amare Maria entrando nel suo Cuore Immacolato, “sicuro rifugio delle anime”?
3. Maria è sostegno della nostra speranza perché è Donna della fede che ha accettato il progetto di Dio senza tutto comprendere, anzi una spada le ha trafitto l’animo come aveva predetto il vecchio Simeone (Lc 2,35). La tradizione della Chiesa fin dall’inizio l’ha associata inscindibilmente a Gesù, il modello insuperabile della totale adesione alla volontà di Dio. Anzi lui stesso c’insegna con l’orazione del “Padre nostro” ad abbandonarci senza paura tra le braccia del Padre celeste dicendogli con la vita: “si compia la tua volontà”. Maria ha conosciuto come tutti noi la fatica, il dolore e la morte; per uno speciale privilegio però la morte è stata per lei un addormentarsi entrando così nella gloria in Dio. Contemplandola possiamo capire ciò che attendeva l’uomo se i nostri progenitori non avessero compiuto il primo peccato che ci ha resi condannati ai patimenti della morte. Alla luce di Maria possiamo dunque affermare due verità: Il nostro corpo, a causa del peccato originale, è soggetto alle fatiche, alla sofferenza e alla morte che decompone il nostro essere mortale. Maria assunta in cielo ci assicura però che, se a causa del peccato è entrata la morte, Dio può trasformarla e ridarci in dono la vita immortale. Questo è il messaggio dell’odierna festa dell’Assunzione, un’occasione per riflettere, pregare e confidare nella misericordia di Dio che in Maria ci mostra la vittoria dell’amore sull’odio e della vita sulla morte. Fermiamoci a contemplare Maria con questa preghiera di san Bernardo: “Chiunque tu sia, tu che avverti che nel flusso di questo mondo stai ondeggiando tra burrasche e tempeste invece di camminare sicuro sulla terra, non distogliere gli occhi dallo splendore di questa stella, se non vuoi essere sopraffatto dalle tempeste! Se si alzano i venti della tentazione, se t’imbatti negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sbattuto dalle onde della superbia, dell’ambizione, della calunnia, della gelosia, guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira o l’avarizia o le lusinghe della carne hanno scosso la navicella del tuo animo, guarda Maria. Se turbato dalla enormità dei peccati, confuso dalla indegnità della coscienza, impaurito dall’orrore del giudizio, tu cominci ad essere inghiottito nel baratro della tristezza, nell’abisso della disperazione, pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non s’allontani dalla tua bocca, non s’allontani dal tuo cuore. E per ottenere il suffragio della sua preghiera, non abbandonare l’esempio della sua vita raccolta in Dio. Seguendo Lei non ti smarrisci, pregando Lei non ti disperi, pensando a Lei non sbagli. Se Lei ti tiene, non cadi; se Lei ti protegge, non temi; se Lei ti guida, non ti stanchi; se Lei ti dà il suo favore, tu arrivi al tuo fine, e così sperimenti in te stesso quanto giustamente sia stato detto: «E il nome della Vergine era Maria” (In laudibus Virginis Matris II,17).
+ Giovanni D’Ercole
19.a Domenica del tempo ordinario Anno B (11 agosto 2024)
Riferimenti Biblici:
Prima lettura: “Con la forza di quel cibo camminò fino al monte di Dio” (1Re 19,4-8)
Salmo responsoriale: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (salmo 33/34 2-3,4-5)
Seconda Lettura: “Camminate nella carità come Cristo” (Ef 4,30-5,2)
Vangelo: ”Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6, 411- 51)
1. Dio non ci lascia mai soli. Nella prima lettura incontriamo il profeta Elia, Eliyyah che significa “Il mio Dio é Yah” prima sillaba del nome di Dio. Un nome che indica bene le sue caratteristiche di profeta che ha combattuto una battaglia incessante contro l’idolatria. A un certo punto però sentì venir meno le forze, situazione che può capitare a tutti, ed essendo rimasto solo e abbandonato da tutti, andò verso il deserto sfiduciato per sfuggire alla regina Gezabele che voleva ucciderlo. La siccità, la carestia, la solitudine, la stanchezza fisica e morale: il deserto era specchio del suo vuoto interiore reso più acuto dalla paura della morte. Dio però non lo abbandona e la sua fuga si trasforma in un pellegrinaggio alle sorgenti della fede ebraica, il monte Sinai chiamato anche Oreb. Dio lo attrae sulla Montagna dell’Alleanza, dove un tempo chiamò Mosè (Es. 3) per consegnargli le tavole della legge (Es 19) e gli mostrò nel buio di una caverna il suo misterioso fulgore (Es 33,21-23). Da quell’incontro nacque il popolo ebraico liberato dalla schiavitù egiziana, metafora di ogni schiavitù. In quello stesso luogo avverrà la nuova nascita per Elia come grande profeta d’Israele. Avremo modo di meglio conoscere tutto ciò con i miracoli compiuti in casa della vedova di Sarepta (1 R 17,7-24) nella prossima XXXII Domenica del Tempo Ordinario, oggi invece sostiamo con Elia, che dopo una giornata di cammino stanco e disperato dubita persino di sé stesso perché prende coscienza della sua indegnità. Dio non lo lascia solo e un angelo gli fa avere pane, acqua e soprattutto il conforto dal Cielo per comprendere il senso della sua missione. Se fino ad allora aveva difeso un Dio onnipotente che distrugge i suoi nemici e lo aveva sfidato sul monte Carmelo contro i 450 sacerdoti di Baal, ora per scoprire il vero volto di Dio dovrà entrare nella stessa caverna dell’Oreb, dove Mosè vide il Signore: solo allora pure Elia capirà che il Dio dell’Amore non si rivela nell’uragano, nel terremoto e nel fuoco, ma nel mormorio di una brezza leggera (1 R 19,12). La prima lettura oggi descrive il suo cammino di quaranta giorni e quaranta notti per prepararsi a quest’incontro. Nella Bibbia il numero quaranta indica sempre una gestazione e quel che il profeta ha vissuto richiama la nostra esperienza personale: per rinascere occorre passare per il deserto e ricevere in dono il pane, l’acqua che ridanno la vita quando ci si sente abbandonati e persi sull’orlo del suicidio, della disperazione, schiavi del peccato e segnati da ogni tipo di sofferenza fisica e morale. Elia si credeva un privilegiato perché chiamato da Dio, ora scopre che il profeta è uno come gli altri al quale Dio affida una missione ben superiore alle sue forze: sperimenta però che il Signore non abbandona nessuno e non esistono situazioni che sfuggono al potere della sua misericordia. A tutto ciò fa eco il salmo responsoriale: “il povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce” (salmo 33/34).
2. Da qui nasce un invito per tutti: ogni volta che celebriamo l’Eucarestia, sentiamo il Signore sussurrarci nel cuore:” Alzati e mangia perché lungo è il cammino che ti resta da percorrere”.
Il disagio interiore del profeta Elia appare, sia pure in un contesto diverso, nell’inquietudine degli ascoltatori di Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Domenica scorsa il suo discorso si era fermato a queste parole: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà mai fame ”, espressioni che suonano strane e suscitano perplessità e critiche in chi lo ascolta. Il popolo ebraico conosceva bene che ci sono due tipi di pane: il pane materiale e quello spirituale e sapevano che l’unico pane spirituale è la parola di Dio, come leggiamo nel Deuteronomio: ”L’uomo non vive solo di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). Comprensibile allora la domanda della gente: Come fa Gesù a credersi la parola di Dio? Come può pretendere di essere colui che porta la vita eterna, lui che è il figlio di Giuseppe, carpentiere di Nazareth e di Maria una semplice donna del villaggio? E’ uno come noi e pretende di ritenersi Dio? A dire il vero chiunque si ferma alle affermazioni di Gesù non può che trovarle a prima vista difficili da capire e da accettare. Nessuna meraviglia dunque se, come leggeremo nelle prossime domeniche, alcuni fra i presenti lo abbandoneranno. Gli ascoltatori erano contadini della Galilea abituati ad avere i piedi per terra, adoravano un Dio unico e quindi nemici dell’idolatria. Gesù li provoca e ci provoca con una domanda che tocca il cuore del cristianesimo: Gesù uomo può essere Dio? Domanda, cuore della fede cristiana che sempre interpella e attende la risposta personale. Gesù percepisce il borbottare della gente come il rifiuto di credere e reagisce in maniera energica: “non mormorate tra voi”. Questo comando sulle labbra di Gesù richiama il severo rimprovero legato all’incredulità, peccato originale d’Israele, il quale mormorava e si ribellava contro Dio e Mosè nel deserto durante i quarant’anni dell’esodo. E’ la tentazione di ogni credente. Ma Gesù prosegue con paziente pedagogia il suo discorso e ribadisce uno dopo l’altro i punti fondamentali della sua rivelazione: Sì, io sono la parola di Dio, sono colui che dona la vita eterna, sono il Figlio di Dio e a conferma fa riferimento ai profeti che avevano assicurato: “E tutti saranno istruiti da Dio”.
3. Sì, “Io sono il pane della vita” e aggiunge: “questo è il pane che discende dal cielo perché chi ne mangia non muoia”. Le diffidenze, i dubbi e le mormorazioni degli ascoltatori e persino dei discepoli toccano anche noi – non dobbiamo meravigliarci - perché per superare lo scandalo dell’incarnazione, della morte in croce di Cristo, è indispensabile l’umile ascolto della voce dello Spirito che ci invita a fidarci sempre e totalmente di Dio: Siamo salvati solo da Dio. Tutto questo è il mistero del “pane eucaristico”, presenza reale della vita divina in Gesù Cristo, presenza della Santissima Trinità. Se la fede non apre il cuore all’umile ascolto dello Spirito Santo, si rischia di ridurre il tutto a un rito liturgico che chiamiamo semplicemente “la messa”. San Giovanni non racconta l’istituzione dell’Eucarestia durante l’ultima cena e la sostituisce con il gesto profetico della lavanda dei piedi, rendendo evidente il legame inscindibile che unisce l’Eucaristia al Comandamento nuovo dell’amore e del servizio. Qualcuno dice che è più importante fare del bene agli altri che partecipare alla messa. Attenzione a non perdere di vista che la pienezza dell’amore evangelico legato al mistero eucaristico non deve mai ridursi a un’opera benefica, sociale e solidale. Solo la fedele condivisione nell’Eucarestia del “pane di vita” che è Dio stesso Amore che si dona gratuitamente apre il cuore del cristiano al dono totale dell’amore. Ma può capitare che ci si accosti alla celebrazione eucaristica pensando di condividere un rito religioso senza comprendere che invece è accogliere nella nostra povera esistenza Colui che è la gloria di Dio e la salvezza del mondo. Quando la domenica ci riuniamo non è per fare insieme la preghiera più bella e importante, ma per ben altro: partecipiamo in modo reale e vivo alla stessa vita di Dio - Trinità. Si può dire che c'è l'Eucarestia, Corpo di Cristo, perchè lo Spirito Santo «trasfigura» il pane e il vino nell'identità di Gesù Cristo, lo stesso Spirito che Gesù con la sua «autorità» invia per questa trasformazione. Se Gesù non mandasse lo Spirito il pane e il vino resterebbero tali; e se lo Spirito non fosse presente nessuna forza lo potrebbe sostituire, perché la forza di Gesù é significata e attivata dallo Spirito Santo. Quando si separa Cristo del suo Spirito si dissolve il disegno di Dio Trinità Misericordia. Nella tradizione cristiana Cristo e lo Spirito sono tenuti strettamente uniti per l'intelligenza dell'Eucarestia. E il cuore della celebrazione eucaristica viene sigillato dal celebrante che prega così: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio padre onnipotente nell’unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli”. L'Amen finale di tutta l'assemblea è indispensabile perché è una solenne e quanto mai necessaria proclamazione di assenso e di consenso: è la firma che ci permette di contemplare la gloria di Dio attraverso Gesù. San Girolamo diceva che l'Amen rimbomba simile a un tuono dal cielo (Dai “dialoghi contro i Luciferi”, in latino: “Dialogus contra Luciferianos).
+ Giovanni D’Ercole
P.S. L’apostolo Paolo c’invita nella seconda lettura tratta dalla Lettera agli Efesini ad essere imitatori cioè amici di Dio (Ef 5,1) e questa imitazione non è altro che la nostra identificazione nel Cristo: come il Cristo ci ha amato “camminate nella carità”. Collegando questo alle parole di Gesù a Cafarnao si capisce che nessuno riesce a comprendere l’Eucarestia se non è istruito e attirato dall’amore di Dio. Leggiamo nel vangelo: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv6,44). Dio solo conosce Dio e per questo Gesù dice che occorre essere istruiti dalla luce di Dio per entrare nel mistero del pane della vita. L’Eucarestia è il segno per eccellenza dell’alleanza di Dio con l’umanità, è l’espressione originale del suo amore, realizzato da Gesù in una carne umana come la nostra. Amore indicato dall’offerta e dal sacrificio del suo corpo e del suo sangue, celebrato ogni volta che facciamo memoria della morte e della risurrezione di Colui che nella speranza attendiamo che venga nella gloria.
«Too pure water has no fish». Accepting ourselves will complete us: it will make us recover the co-present, opposite and shadowed sides. It’s the leap of profound Faith. And seems incredible, but the Rock on which we build the way of being believers is Freedom
«L’acqua troppo pura non ha pesci». Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda. Sembra incredibile, ma la Roccia sulla quale edifichiamo il modo di essere credenti è la Libertà
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
don Giuseppe Nespeca
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