Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Astuzia cristiana: senso del dovere e del “padrone” giusto
(Lc 16,1-8)
Ci chiediamo: c’è un altro stile di vita, oltre il vezzo di farsi valere in qualsiasi circostanza? Cosa genera tanti attriti senza posa né criterio, anche in tempi di sottomissione? Qual è la soluzione per edificare una casa comune? E il primo passo concreto per il futuro?
Lc parla molto chiaro, cesellando una catechesi probabilmente tratta da un’esperienza viva che ha segnato l’ambiente dei credenti.
In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] l’irriverente Luciano di Samosata, polemista del II sec. - così si esprime nei confronti dei cristiani:
«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente Crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».
Ipotizziamo la situazione, probabilmente da riferire a un veterano della cerchia giudeo cristiana [considerata nei Vangeli quella dei “farisei” di ritorno nelle assemblee dei primi tempi] (cf. Lc 16,14).
Un responsabile, leader di comunità [cf. v.14], viene accusato di profittare della posizione di amministratore dei beni di Dio e della chiesa.
La Torah, le normative specifiche e tutto il costume ufficiale dell’Oriente antico vietavano di chiedere interessi sulle forniture (o prestiti) di derrate alimentari.
Ma di fatto e sottobanco i possidenti facevano leva sul ricatto. Trattenendo compensi indebiti e lauti, sulle transazioni.
La percentuale di scremature dipendeva dalla capacità di scrutare i bisogni e alzare il tasso d’interesse - persino sul frumento, l’olio e il cibo base.
Anche il coordinatore di chiesa si era lasciato sedurre dal malcostume corrente, per un facile guadagno (sulla fame della gente).
Avendo fatto a lungo orecchie da mercante, lo scandalo emerge (fra dirigenti e gruppi che si fregiano del nome Cristiano!).
L’uomo di spicco viene messo alle strette per un rendiconto trasparente.
Allora il “pizzicato” sceglie di ricalcolare e allineare la contabilità - rinunciando all’illecito introito che aveva accarezzato di godersi in prima persona.
Tutto avrebbe dovuto essere messo a disposizione dei fedeli e del bene comune, senza intrallazzi (privi di controllo - soliti).
Sebbene abituato ad andare a testa alta in società, il tizio sceglie finalmente di non proseguire cocciutamente nell’inguaribile imbroglio delle quote in aggiunta che non gli spettavano.
I tesori (di Dio) sono da condividere, senza ricarico privato - quindi evita di arrampicarsi sugli specchi, piroettare, cercare l’appoggio di complici o di cordate [cf. v.14] e gruppi di ammanicati.
Coglie l’occasione che si presenta sulla sua strada. Questo il punto che Lc sottolinea. E decide prontamente di non continuare a corrompere se stesso e gli altri: opzione valida.
Le cose sono evidenti e non accampa quel genere di spiegazioni - come purtroppo capita - che cronicizzano e degenerano la situazione.
Viene dunque lodato (v.8) perché invece di tornare ad alimentare se stesso e il suo codazzo… si accorge di un’altra possibilità.
C’è un Altrove da percepire, qui; con previdente tensione interiore ed equa “scaltrezza”, stavolta non aleatoria.
La Via spirituale ha un crocevia crudo: chiedersi se ricominciare nello stile d’accumulo-e-trattenere, o puntare sulla qualità dei rapporti.
Non più intimidazioni del tipo: «Tu non sai chi sono io»; «Voi non sapete chi e quanti siamo noi» - e tentativi appiccicati al tornaconto.
Non più imbrogli da celare e sotterfugi distruttivi, per un’allegra gestione amministrativa: meglio sfigurare personalmente che essere complici attivi e omertosi di un altro “dio” (quello che dà ordini opposti ai consigli del Padre).
Opera eccellente della Fede nell’esperienza ecclesiale - e soglia della gioia - è trasformare le risorse in Vita e Relazione.
Ecco la nostra Guida per il domani e la felicità, sempre.
Giustizia e destinazione universale dei beni non sono semplici aggiunte all’andare devoto, di cui si possa sfumare il senso - anche laddove le pertinenze comunitarie fossero appannaggio di chi ha mani e piedi dappertutto: cricche dalle buone maniere e pessime abitudini.
Esiste un’altra proficuità e funzionalità degli antichi profitti disinvolti: non quelli dell’economia liberale e della proprietà privata, ma dell’Amicizia libera, che non trattiene - capacità di ricreare equilibri dove non sono; coltivare uguaglianza e trasparenza, felicità e vita diffusa.
Non basta uno spiritualismo di carattere sentimentale. Bisogna sanare i bilanci.
Ristabilita la verità e senza guardare in faccia a nessun primattore, né a “compagni di merende” o gruppi di pressione, ecco un bel metodo per «purificare» anche la ricchezza iniqua: usarla per i destinatari.
È l’unica valutazione giusta, che annienta il malcostume e le stranissime competizioni fra poveracci senza dote e a testa in giù, che paiono destinati solo a friggere.
Siamo chiamati a usare le “nostre” energie e risorse per dilatare l’esistere di tutti, invece di continuare a beccarsi e papparci per far vedere chi comanda.
Questo è - malgrado gli errori che si possono commettere - dare la svolta decisiva, per una vita bella.
Insomma, la pienezza del Regno di Dio si realizza attraverso l’incontro, e i beni hanno senso come possibilità di sviluppo umano (cf. vv.9-13).
Nell’enciclica Fratelli Tutti leggiamo al n.120:
«la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione [...] Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica».
Tale diritto-base è senza frontiere, e altrettanto vale per il funzionamento della società ecclesiale - non cooptata, né occulta.
A maggior ragione dei privati, essa deve rendere conto senza trucchi: gestisce infatti beni per se stessi comuni, variegati, sacri e non esclusivi.
I responsabili di Chiesa sono i primi chiamati a vincere l’unilateralità del ruolo e delle risorse, tantomeno da gestire come fossero di proprietà selettiva o di club riservati.
Pertanto le guide spirituali devono essere i primi testimoni di detta funzione sociale, umanizzante e divina.
Essi sono chiamati a disporre delle risorse da “spezzare” in modo non allegro e spensierato, bensì con spiccato senso di responsabilità - senza ombra alcuna.
«Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura» [I Promessi Sposi, cap.3].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua comunità l’amministrazione dei beni è pubblica, regolare e trasparente o cronico appannaggio d’individui e gruppi senza controllo?
Nelle passate domeniche, san Luca, l’evangelista che più degli altri si preoccupa di mostrare l’amore che Gesù ha per i poveri, ci ha offerto diversi spunti di riflessione circa i pericoli di un attaccamento eccessivo al denaro, ai beni materiali e a tutto ciò che ci impedisce di vivere in pienezza la nostra vocazione ad amare Dio e i fratelli. Anche quest’oggi, attraverso una parabola che provoca in noi una certa meraviglia perché si parla di un amministratore disonesto che viene lodato (cfr Lc 16,1-13), a ben vedere il Signore ci riserva un serio e quanto mai salutare insegnamento. Come sempre il Signore trae spunto da fatti di cronaca quotidiana: narra di un amministratore che sta sul punto di essere licenziato per disonesta gestione degli affari del suo padrone e, per assicurarsi il futuro, cerca con furbizia di accordarsi con i debitori. E’ certamente un disonesto, ma astuto: il Vangelo non ce lo presenta come modello da seguire nella sua disonestà, ma come esempio da imitare per la sua previdente scaltrezza. La breve parabola si conclude infatti con queste parole: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8) […]
Potremmo allora dire, parafrasando una considerazione di sant’Agostino, che per mezzo delle ricchezze terrene dobbiamo procurarci quelle vere ed eterne: se infatti si trova gente pronta ad ogni tipo di disonestà pur di assicurarsi un benessere materiale sempre aleatorio, quanto più noi cristiani dovremmo preoccuparci di provvedere alla nostra eterna felicità con i beni di questa terra (cfr Discorsi 359,10). Ora, l’unica maniera di far fruttificare per l’eternità le nostre doti e capacità personali come pure le ricchezze che possediamo è di condividerle con i fratelli, mostrandoci in tal modo buoni amministratori di quanto Iddio ci affida.
[Papa Benedetto, omelia a Velletri 23 settembre 2007]
2. Vengono da lontano, si potrebbero quasi definire endemici, i problemi e le sfide che si presentano all’attività pastorale del Nordest brasiliano, ponendo ai pastori della Chiesa l’inquietante interrogativo: come evangelizzare così immense e povere popolazioni e condividere le angustie nate dalla loro povertà che riveste, nella vita reale, aspetti concretissimi, nei quali dovremmo riconoscere le sembianze sofferenti di Cristo? Come edificare la Chiesa, con la caratteristica che la distingue di “segnale e salvaguardia della dimensione trascendente della persona umana” e promotrice della sua dignità integrale, con queste “pietre vive”, quando la loro povertà non è, molte volte, solamente una tappa casuale di situazioni ineluttabili di fattori naturali, ma anche prodotto di determinate strutture economiche, sociali e politiche?
3. Non si può non ricordare con gratitudine in questa circostanza, per lo meno globalmente le pleiadi di missionari e pastori abnegati, virtuosi e devoti che vi hanno preceduto e che debbono essere considerati come i fondatori della Chiesa di Dio (cf. Ef 2, 20) nelle vostre attuali diocesi, o, per usare l’espressione patristica, “hanno lì generato” Chiese e non senza sofferenza. A loro tempo, essi si saranno sicuramente chiesti quale fosse il piano di Dio sulla vocazione di ciascun uomo nella costruzione della società, per renderla sempre più umana, giusta e fraterna, e come si potesse attuare la priorità delle priorità nell’evangelizzazione: cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia.
5. I popoli e i gruppi umani, in generale, per poter progredire, gradualmente ed efficacemente e non solo soddisfare le immediate necessità vitali, hanno bisogno di solidarietà, per giungere all’indispensabile e permanente trasformazione delle strutture della vita economica. Ma non si presenta facile procedere lungo lo scosceso sentiero di questa trasformazione, se non interviene una vera conversione delle menti, della volontà e dei cuori, che faccia scomparire la confusione della libertà con l’istinto dell’interesse individuale e collettivo, o ancora con l’istinto di lotta e di predominio, qualunque siano i colori ideologici di cui essi si rivestono (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 16).
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai Vescovi Brasiliani 16 settembre 1985]
Oggi Gesù ci porta a riflettere su due stili di vita contrapposti: quello mondano e quello del Vangelo. Lo spirito del mondo non è lo spirito di Gesù. E lo fa mediante il racconto della parabola dell’amministratore infedele e corrotto, che viene lodato da Gesù nonostante la sua disonestà (cfr Lc 16,1-13). Bisogna precisare subito che questo amministratore non viene presentato come modello da seguire, ma come esempio di scaltrezza. Quest’uomo è accusato di cattiva gestione degli affari del suo padrone e, prima di essere allontanato, cerca astutamente di accattivarsi la benevolenza dei debitori, condonando loro parte del debito per assicurarsi così un futuro. Commentando questo comportamento, Gesù osserva: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (v. 8).
A tale astuzia mondana noi siamo chiamati a rispondere con l’astuzia cristiana, che è un dono dello Spirito Santo. Si tratta di allontanarsi dallo spirito e dai valori del mondo, che tanto piacciono al demonio, per vivere secondo il Vangelo. E la mondanità, come si manifesta? La mondanità si manifesta con atteggiamenti di corruzione, di inganno, di sopraffazione, e costituisce la strada più sbagliata, la strada del peccato, perché una ti porta all’altra! È come una catena, anche se - è vero - è la strada più comoda da percorrere, generalmente. Invece lo spirito del Vangelo richiede uno stile di vita serio - serio ma gioioso, pieno di gioia! -, serio e impegnativo, improntato all’onestà, alla correttezza, al rispetto degli altri e della loro dignità, al senso del dovere. E questa è l’astuzia cristiana!
Il percorso della vita necessariamente comporta una scelta tra due strade: tra onestà e disonestà, tra fedeltà e infedeltà, tra egoismo e altruismo, tra bene e male. Non si può oscillare tra l’una e l’altra, perché si muovono su logiche diverse e contrastanti. Il profeta Elia diceva al popolo di Israele che andava su queste due strade: “Voi zoppicate con i due piedi!” (cfr 1 Re 18,21). È bella l’immagine. È importante decidere quale direzione prendere e poi, una volta scelta quella giusta, camminare con slancio e determinazione, affidandosi alla grazia del Signore e al sostegno del suo Spirito. Forte e categorica è la conclusione del brano evangelico: «Nessun servo può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro» (Lc 16,13).
Con questo insegnamento, Gesù oggi ci esorta a fare una scelta chiara tra Lui e lo spirito del mondo, tra la logica della corruzione, della sopraffazione e dell’avidità e quella della rettitudine, della mitezza e della condivisione. Qualcuno si comporta con la corruzione come con le droghe: pensa di poterla usare e smettere quando vuole. Si comincia da poco: una mancia di qua, una tangente di là… E tra questa e quella lentamente si perde la propria libertà. Anche la corruzione produce assuefazione, e genera povertà, sfruttamento, sofferenza. E quante vittime ci sono oggi nel mondo! Quante vittime di questa diffusa corruzione. Quando invece cerchiamo di seguire la logica evangelica dell’integrità, della limpidezza nelle intenzioni e nei comportamenti, della fraternità, noi diventiamo artigiani di giustizia e apriamo orizzonti di speranza per l’umanità. Nella gratuità e nella donazione di noi stessi ai fratelli, serviamo il padrone giusto: Dio.
La Vergine Maria ci aiuti a scegliere in ogni occasione e ad ogni costo la strada giusta, trovando anche il coraggio di andare controcorrente, pur di seguire Gesù e il suo Vangelo.
[Papa Francesco, Angelus 18 settembre 2016]
Un Dio in ricerca dei perduti e disuguali, per dilatarci la vita
(Lc 15,1-10)
Gesù sgretola tutte le prevedibilità. Nel Figlio, Dio viene rivelato non più come proprietà esclusiva, bensì Potenza d’Amore che perdona emarginati e smarriti: salva e crea, liberando.
E mediante la sua Chiesa dispiega un Volto che recupera, abbatte le barriere e chiama i miseri.
Gesù vuole destare la coscienza dei “giusti”: c’è una controparte di noi che suppone di sé, molto pericolosa, perché porta all’esclusione e all’abbandono.
Invece l’Amore inesauribile cerca. E trova l’imperfetto e irrequieto.
La palude di energia stagnante che si genera accentuando i confini non consente di crescere: blocca nelle solite posizioni e lascia che ciascuno si arrangi o si perda.
Tutto ciò faceva cadere le virtù creative nella disperazione. Invece il Padre è alla ricerca dell’insufficiente… Peccatore ma vero, quindi più disposto all’amore trasparente: questo il principio di Redenzione.
Non è l’atteggiamento schizzinoso che unisce a Lui. Il Signore non ha interessi esterni.
Egli si rallegra con tutti, ed è il bisogno che lo attira a noi. Quindi non temiamo di farci trovare e lasciarci riportare (v.5)... in Casa sua, che è casa nostra.
Se c’è uno smarrimento, vi sarà un ritrovamento, e questo non è una perdita per nessuno - salvo per gli invidiosi dell’altrui libertà (v.2).
Dio infatti non si compiace di emarginazioni, né intende spegnere il lucignolo fumigante.
Il Figlio non viene per puntare il dito sui momenti no, ma per recuperare, facendo leva sul coinvolgimento intimo. Forza invincibile di fedeltà.
Questo lo stile di una Chiesa dal Cuore Sacro, amabile, elevato e benedetto.
(Ciò che attira a partecipare ed esprimersi è sentirsi capiti, non condannati). Diceva Carlo Carretto: «È sentendosi amato, non criticato, che l’uomo inizia il suo cammino di trasformazione».
Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti: Gesù - nostro Motore e Motivo - «aveva un cuore aperto, che faceva propri i drammi degli altri» (n.84).
E aggiunge ad esempio della Tradizione: «Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti [...] bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione [...] Altrimenti avremo solo apparenza».
«San Bonaventura spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti come Dio li intende» (n.91).
Insomma, le ricchezze umane e spirituali rischiano di venire depositate in luogo appartato - se così, esse invecchiano e sviliscono.
Nelle assemblee dei figli sono invece condivise: si accrescono e comunicano; moltiplicandosi rinverdiscono, con beneficio universale.
[Giovedì 31.a sett. T.O. 7 novembre 2024]
Un Dio in ricerca dei perduti e disuguali, per dilatarci la vita
(Lc 15,1-10)
Perché Gesù parla di Gioia in riferimento all’unica pecorella?
Dice il Tao Tê Ching (x): «Preserva l’Uno dimorando nelle due anime: sei capace di non farle separare?».
Anche nel cammino spirituale, Gesù si guarda bene dal proporre un universalismo dettato o pianificato, come se il suo fosse un modello ideale, «allo scopo di omogeneizzare» (Fratelli Tutti n.100).
Il tipo di Comunione che il Signore ci propone non mira a «un’uniformità unidimensionale che cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità».
Perché «il futuro non è “monocromatico” ma se ne abbiamo il coraggio è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» (da un Discorso ai giovani in Tokyo, novembre 2019).
Sebbene la pietà e la speranza dei rappresentanti della religiosità ufficiale fosse fondata su una struttura di sicurezze umane, etniche, culturali e una visione del Mistero consolidati da una grande tradizione, Gesù sgretola tutte le prevedibilità.
Nel Figlio, Dio viene rivelato non più come proprietà esclusiva, bensì Potenza d’Amore che perdona gli emarginati e smarriti: salva e crea, liberando. E mediante i discepoli dispiega il suo Volto che recupera, abbatte le barriere consuete, chiama moltitudini misere.
Sembra un’utopia impossibile da realizzare nel concreto (oggi della crisi sanitaria e globale) ma è il senso del passaggio di consegne alla Chiesa, chiamata a farsi incessante pungolo d’Infinito e fermento d’un mondo alternativo, per lo sviluppo umano integrale:
«Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (FT n.8).
Attraverso una domanda assurda (formulata in modo retorico) Gesù vuole destare la coscienza dei “giusti”: c’è una controparte di noi che suppone di sé, molto pericolosa, perché porta all’esclusione, all’abbandono.
Invece l’Amore inesauribile cerca. E trova l’imperfetto e irrequieto.
La palude di energia stagnante che si genera accentuando i confini non fa crescere nessuno: blocca nelle solite posizioni e lascia che ciascuno si arrangi o si perda. Per disinteresse interessato - che impoverisce tutti.
Tutto ciò faceva cadere le virtù creative nella disperazione.
E faceva precipitare chi era fuori del giro degli eletti - anteposti che non avevano nulla di superiore. Infatti Lc li tratteggia del tutto incapaci di trasalire di gioia umana per il progresso altrui.
Calcolatori, recitanti e conformi - i dirigenti (fondamentalisti o sofisticati) non sanno della realtà, e usano la religione come un’arma.
Invece Dio è agli antipodi degli sterilizzati finti - o del pensiero disincarnato - e alla ricerca di colui che vaga malfermo, facilmente si disorienta, smarrisce la strada.
Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino. Per questo motivo il Padre è alla ricerca dell’insufficiente.
La persona così limpida e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro i lati apparentemente detestabili. Forse ch’egli stesso non apprezza.
Questo il principio di Redenzione che sbalordisce e rende interessante i nostri percorsi spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore” - nella Fede generando però autostima, credito, pienezza e gioia.
L’impegno del purificatore e l’impeto del riformatore sono “mestieri” che in apparenza si contrappongono, ma facili facili… e tipici di chi pensa che le cose da contestare e cambiare siano sempre fuori di sé.
Ad esempio nei meccanismi, nelle regole generali, nell’assetto giuridico, nelle visioni del mondo, negli aspetti formali (o istrionici) invece che nell’artigianato del bene particolare concreto; così via.
Sembrano scuse per non guardarsi dentro e mettersi in gioco, per non incontrare i propri stati profondi in tutti i versanti e non solo nelle linee guida. E recuperare o rallegrare individui concretamente smarriti, tristi, in tutti i lati oscuri e difficili.
Ma Dio è agli antipodi degli sterilizzati di maniera o degli idealisti finti, e alla ricerca dell’insufficiente: colui che vaga e smarrisce la strada. Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino.
La persona trasparente e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro gli aspetti apparentemente detestabili (forse ch’egli stesso non apprezza).
Chiediamo allora soluzione alle nuove energie interpersonali misteriose, imprevedibili, che entrano in gioco; da dentro le cose.
Senza interferire con idee di passato o di futuro che non vediamo, ovvero opponendosi ad esse. Piuttosto possedendone l’anima, il suo farmaco spontaneo.
Questo il principio della Salvezza che sbalordisce e rende interessante i nostri percorsi [spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore”] - generando infine autostima, credito e gioia.
L’idea che l’Altissimo sia un notaio o principe di un foro, e che operi netta distinzione fra giusti e trasgressori, è caricatura.
Del resto, una vita da salvati non è produzione propria, né possesso esclusivo o proprietà privata - che si capovolge in doppiezza.
Non è l’atteggiamento schizzinoso, né quello cerebrale, che unisce a Lui. Il Padre non blandisce amicizie supponenti, né ha interessi esterni.
Egli si rallegra con tutti, ed è il bisogno che lo attira a noi. Quindi non temiamo di farci trovare e lasciarci riportare (v.5)... in Casa sua, che è casa nostra.
Se c’è uno smarrimento, vi sarà un ritrovamento, e questo non è una perdita per nessuno - salvo per gli invidiosi nemici della libertà (v.2).
L’Eterno infatti non si compiace di emarginazioni, né intende spegnere il lucignolo fumigante.
Gesù non viene per puntare il dito sui momenti no, ma per recuperare, facendo leva sul coinvolgimento intimo. Forza invincibile di fedeltà.
Questo lo stile d’una Chiesa dal Cuore Sacro, amabile, elevato e benedetto.
[Ciò che attira a partecipare ed esprimersi è sentirsi capiti, restituiti a dignità piena - non condannati].
Diceva Carlo Carretto: «È sentendosi amato, non criticato, che l’uomo inizia il suo cammino di trasformazione».
Come sottolinea ancora l’enciclica Fratelli Tutti:
Gesù - nostro Motore e Motivo - «aveva un cuore aperto, che faceva propri i drammi degli altri» (n.84).
E aggiunge ad esempio della nostra grande Tradizione:
«Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti [...] bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione [...] Altrimenti avremo solo apparenza».
«San Bonaventura spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti come Dio li intende» (n.91).
Nelle sètte o nei gruppi d’ispirazione unilaterale, per emarginazione saccente le ricchezze umane e spirituali vengono depositate in luogo appartato, così invecchiano e sviliscono.
Nelle assemblee dei figli sono invece condivise: si accrescono e comunicano; moltiplicandosi rinverdiscono, con beneficio universale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ti attira della Chiesa? Nei confronti coi primi della classe, ti senti giudicato o adeguato?
Provi l’Amore che salva, anche se permani incerto?
Cuore che non si arrende
Celebrando il Giubileo dei Sacerdoti nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù, siamo chiamati a puntare al cuore, ovvero all’interiorità, alle radici più robuste della vita, al nucleo degli affetti, in una parola, al centro della persona. E oggi volgiamo lo sguardo a due cuori: il Cuore del Buon Pastore e il nostro cuore di pastori.
Il Cuore del Buon Pastore non è soltanto il Cuore che ha misericordia di noi, ma è la misericordia stessa. Lì risplende l’amore del Padre; lì mi sento sicuro di essere accolto e compreso come sono; lì, con tutti i miei limiti e i miei peccati, gusto la certezza di essere scelto e amato. Guardando a quel Cuore rinnovo il primo amore: la memoria di quando il Signore mi ha toccato nell’animo e mi ha chiamato a seguirlo, la gioia di aver gettato le reti della vita sulla sua Parola (cfr Lc 5,5).
Il Cuore del Buon Pastore ci dice che il suo amore non ha confini, non si stanca e non si arrende mai. Lì vediamo il suo continuo donarsi, senza limiti; lì troviamo la sorgente dell’amore fedele e mite, che lascia liberi e rende liberi; lì riscopriamo ogni volta che Gesù ci ama «fino alla fine» (Gv 13,1) - non si ferma prima, fino alla fine -, senza mai imporsi.
Il Cuore del Buon Pastore è proteso verso di noi, “polarizzato” specialmente verso chi è più distante; lì punta ostinatamente l’ago della sua bussola, lì rivela una debolezza d’amore particolare, perché tutti desidera raggiungere e nessuno perdere.
Davanti al Cuore di Gesù nasce l’interrogativo fondamentale della nostra vita sacerdotale: dove è orientato il mio cuore? Domanda che noi sacerdoti dobbiamo farci tante volte, ogni giorno, ogni settimana: dove è orientato il mio cuore? Il ministero è spesso pieno di molteplici iniziative, che lo espongono su tanti fronti: dalla catechesi alla liturgia, alla carità, agli impegni pastorali e anche amministrativi. In mezzo a tante attività permane la domanda: dove è fisso il mio cuore? Mi viene alla memoria quella preghiera tanto bella della Liturgia: “Ubi vera sunt gaudia…”. Dove punta, qual è il tesoro che cerca? Perché – dice Gesù – «dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Ci sono debolezze in tutti noi, anche peccati. Ma andiamo al profondo, alla radice: dov’è la radice delle nostre debolezze, dei nostri peccati, cioè dov’è proprio quel “tesoro” che ci allontana dal Signore?
I tesori insostituibili del Cuore di Gesù sono due: il Padre e noi. Le sue giornate trascorrevano tra la preghiera al Padre e l’incontro con la gente. Non la distanza, l’incontro. Anche il cuore del pastore di Cristo conosce solo due direzioni: il Signore e la gente. Il cuore del sacerdote è un cuore trafitto dall’amore del Signore; per questo egli non guarda più a sé stesso – non dovrebbe guardare a sé stesso – ma è rivolto a Dio e ai fratelli. Non è più “un cuore ballerino”, che si lascia attrarre dalla suggestione del momento o che va di qua e di là in cerca di consensi e piccole soddisfazioni. E’ invece un cuore saldo nel Signore, avvinto dallo Spirito Santo, aperto e disponibile ai fratelli. E lì risolve i suoi peccati.
Per aiutare il nostro cuore ad ardere della carità di Gesù Buon Pastore, possiamo allenarci a fare nostre tre azioni, che le Letture di oggi ci suggeriscono: cercare, includere e gioire.
Cercare. Il profeta Ezechiele ci ha ricordato che Dio stesso cerca le sue pecore (34,11.16). Egli, dice il Vangelo, «va in cerca di quella perduta» (Lc 15,4), senza farsi spaventare dai rischi; senza remore si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. E non si fa pagare gli straordinari. Non rimanda la ricerca, non pensa “oggi ho già fatto il mio dovere, e casomai me ne occuperò domani”, ma si mette subito all’opera; il suo cuore è inquieto finché non ritrova quell’unica pecora smarrita. Trovatala, dimentica la fatica e se la carica sulle spalle tutto contento. A volte deve uscire a cercarla, a parlare, persuadere; altre volte deve rimanere davanti al tabernacolo, lottando con il Signore per quella pecora.
Ecco il cuore che cerca: è un cuore che non privatizza i tempi e gli spazi. Guai ai pastori che privatizzano il loro ministero! Non è geloso della sua legittima tranquillità - legittima, dico, neppure di quella -, e mai pretende di non essere disturbato. Il pastore secondo il cuore di Dio non difende le proprie comodità, non è preoccupato di tutelare il proprio buon nome, ma sarà calunniato, come Gesù. Senza temere le critiche, è disposto a rischiare, pur di imitare il suo Signore. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…» (Mt 5,11).
Il pastore secondo Gesù ha il cuore libero per lasciare le sue cose, non vive rendicontando quello che ha e le ore di servizio: non è un ragioniere dello spirito, ma un buon Samaritano in cerca di chi ha bisogno. È un pastore, non un ispettore del gregge, e si dedica alla missione non al cinquanta o al sessanta per cento, ma con tutto sé stesso. Andando in cerca trova, e trova perché rischia. Se il pastore non rischia, non trova. Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è infatti ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini.
Seconda parola: includere. Cristo ama e conosce le sue pecore, per loro dà la vita e nessuna gli è estranea (cfr Gv 10,11-14). Il suo gregge è la sua famiglia e la sua vita. Non è un capo temuto dalle pecore, ma il Pastore che cammina con loro e le chiama per nome (cfr Gv 10,3-4). E desidera radunare le pecore che ancora non dimorano con Lui (cfr Gv 10,16).
Così anche il sacerdote di Cristo: egli è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. E’ un uomo che sa includere.
Gioire. Dio è «pieno di gioia» (Lc 15,5): la sua gioia nasce dal perdono, dalla vita che risorge, dal figlio che respira di nuovo l’aria di casa. La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Nella preghiera scopre la consolazione di Dio e sperimenta che nulla è più forte del suo amore. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio.
Cari sacerdoti, nella Celebrazione eucaristica ritroviamo ogni giorno questa nostra identità di pastori. Ogni volta possiamo fare veramente nostre le sue parole: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». È il senso della nostra vita, sono le parole con cui, in un certo modo, possiamo rinnovare quotidianamente le promesse della nostra Ordinazione. Vi ringrazio per il vostro “sì”, e per tanti “sì” nascosti di tutti i giorni, che solo il Signore conosce. Vi ringrazio per il vostro “sì” a donare la vita uniti a Gesù: sta qui la sorgente pura della nostra gioia.
[Papa Francesco, omelia 3 giugno 2016]
Oggi, la liturgia ripropone alla nostra meditazione il capitolo 15° del Vangelo di Luca, una delle pagine più alte e commoventi di tutta la Sacra Scrittura. È bello pensare che nel mondo intero, dovunque la comunità cristiana si raduna per celebrare l'Eucaristia domenicale, risuona in questo giorno, questa Buona Notizia di verità e di salvezza: Dio è amore misericordioso. L'evangelista Luca ha raccolto in questo capitolo tre parabole sulla misericordia divina: le due più brevi, che ha in comune con Matteo e Marco, sono quelle della pecora smarrita e della moneta perduta; la terza, lunga, articolata e propria a lui solo, è la celebre parabola del Padre misericordioso, detta abitualmente del "figliol prodigo". In questa pagina evangelica sembra quasi di sentire la voce di Gesù, che ci rivela il volto del Padre suo e Padre nostro. In fondo, per questo Egli è venuto nel mondo: per parlarci del Padre; per farlo conoscere a noi, figli smarriti, e risuscitare nei nostri cuori la gioia di appartenergli, la speranza di essere perdonati e restituiti alla nostra piena dignità, il desiderio di abitare per sempre nella sua casa, che è anche la nostra casa.
Le tre parabole della misericordia Gesù le raccontò perché i farisei e gli scribi parlavano male di Lui, vedendo che si lasciava avvicinare dai peccatori e addirittura mangiava con loro (cfr Lc 15, 1-3). Allora Egli spiegò, con il suo tipico linguaggio, che Dio non vuole che si perda nemmeno uno dei suoi figli e il suo animo trabocca di gioia quando un peccatore si converte. La vera religione consiste allora nell'entrare in sintonia con questo Cuore "ricco di misericordia", che ci chiede di amare tutti, anche i lontani e i nemici, imitando il Padre celeste che rispetta la libertà di ciascuno ed attira tutti a sé con la forza invincibile della sua fedeltà. Questa è la strada che Gesù mostra a quanti vogliono essere suoi discepoli: "Non giudicate... non condannate... perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato... Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro" (Lc 6, 36-38). In queste parole troviamo indicazioni assai concrete per il nostro quotidiano comportamento di credenti.
Nel nostro tempo, l'umanità ha bisogno che sia proclamata e testimoniata con vigore la misericordia di Dio. Intuì quest'urgenza pastorale, in modo profetico, l'amato Giovanni Paolo II, che è stato un grande apostolo della divina Misericordia. Al Padre misericordioso dedicò la sua seconda Enciclica, e lungo tutto il suo pontificato si fece missionario dell'amore di Dio a tutte le genti. Dopo i tragici avvenimenti dell'11 settembre 2001, che oscurarono l'alba del terzo millennio, egli invitò i cristiani e gli uomini di buona volontà a credere che la Misericordia di Dio è più forte di ogni male, e che solo nella Croce di Cristo si trova la salvezza del mondo. La Vergine Maria, Madre di Misericordia, che ieri abbiamo contemplato Addolorata ai piedi della Croce, ci ottenga il dono di confidare sempre nell'amore di Dio e ci aiuti ad essere misericordiosi come il Padre nostro che è nei cieli.
[Papa Benedetto, Angelus 16 settembre 2007]
1. Nell'Incarnazione, Dio rivela pienamente se stesso nel Figlio che è venuto nel mondo (cfr Tertio Millennio adveniente, n. 9). La nostra fede non è semplicemente il risultato della nostra ricerca di Dio. In Gesù Cristo è Dio che, personalmente, viene da noi per parlarci e indicarci il cammino verso di Lui.
L'Incarnazione rivela anche la verità sull'uomo. In Gesù Cristo, il Padre ha pronunciato la parola definitiva sul nostro vero destino e sul significato della storia umana (cfr ibidem, n. 5). «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4, 10). L'Apostolo parla dell'amore che ha ispirato il Figlio a farsi uomo e a dimorare in mezzo a noi. Attraverso Gesù Cristo sappiamo quanto il Padre ci ama. In Gesù Cristo, per dono dello Spirito Santo, ognuno di noi può partecipare all'amore che è la vita della Santissima Trinità.
San Giovanni prosegue: «Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio» (1 Gv 4, 15). Attraverso la fede nel Figlio di Dio fattosi uomo dimoriamo nel cuore di Dio: «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4, 16). Queste parole ci rivelano il mistero del Sacro Cuore di Gesù: l'amore e la compassione di Gesù sono la porta attraverso la quale l'amore eterno del Padre viene riversato sul mondo. Nel celebrare questa Messa del Sacro Cuore, spalanchiamo i nostri cuori alla misericordia salvifica di Dio!
2. Nella lettura del Vangelo che abbiamo appena ascoltato, san Luca usa la figura del Buon Pastore per parlare di questo amore divino. Il Buon Pastore è un'immagine cara a Gesù nei Vangeli. Rispondendo ai Farisei che si lamentavano perché riceveva i peccatori mangiando con loro, il Signore pone loro una domanda: Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? «Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (Lc 15, 5-6).
Questa parabola sottolinea la gioia di Cristo e del nostro Padre celeste per ogni peccatore che si pente. L'amore di Dio è un amore che ci cerca. È un amore salvifico. Questo è l'amore che troviamo nel Cuore di Gesù.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Saint Louis 27 gennaio 1999]
Nella Liturgia di oggi si legge il capitolo 15 del Vangelo di Luca, che contiene le tre parabole della misericordia: quella della pecora smarrita, quella della moneta perduta, e poi la più lunga di tutte le parabole, tipica di san Luca, quella del padre e dei due figli, il figlio “prodigo” e il figlio, che si crede “giusto”, che si crede santo. Tutte e tre queste parabole parlano della gioia di Dio. Dio è gioioso. Interessante questo: Dio è gioioso! E qual è la gioia di Dio? La gioia di Dio è perdonare, la gioia di Dio è perdonare! E’ la gioia di un pastore che ritrova la sua pecorella; la gioia di una donna che ritrova la sua moneta; è la gioia di un padre che riaccoglie a casa il figlio che si era perduto, era come morto ed è tornato in vita, è tornato a casa. Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! Al contrario, la misericordia è la vera forza che può salvare l’uomo e il mondo dal “cancro” che è il peccato, il male morale, il male spirituale. Solo l’amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella storia. Solo l’amore può fare questo, e questa è la gioia di Dio!
Gesù è tutto misericordia, Gesù è tutto amore: è Dio fatto uomo. Ognuno di noi, ognuno di noi, è quella pecora smarrita, quella moneta perduta; ognuno di noi è quel figlio che ha sciupato la propria libertà seguendo idoli falsi, miraggi di felicità, e ha perso tutto. Ma Dio non ci dimentica, il Padre non ci abbandona mai. E’ un padre paziente, ci aspetta sempre! Rispetta la nostra libertà, ma rimane sempre fedele. E quando ritorniamo a Lui, ci accoglie come figli, nella sua casa, perché non smette mai, neppure per un momento, di aspettarci, con amore. E il suo cuore è in festa per ogni figlio che ritorna. E’ in festa perché è gioia. Dio ha questa gioia, quando uno di noi peccatore va da Lui e chiede il suo perdono.
Il pericolo qual è? E’ che noi presumiamo di essere giusti, e giudichiamo gli altri. Giudichiamo anche Dio, perché pensiamo che dovrebbe castigare i peccatori, condannarli a morte, invece di perdonare. Allora sì che rischiamo di rimanere fuori dalla casa del Padre!
[Papa Francesco, Angelus 15 settembre 2013]
E preoccuparsi del numero
(Lc 14,25-33)
Gesù è preoccupato di vedere attorno a sé «molte folle» (v.25).
Inusuale che una proposta di dono totale e rischio dell’intera vita - beni, relazioni, prestigio, speranze - possa trovare consenso oceanico.
In effetti non sono pochi coloro che non sanno «dove» va. Non a prendere il potere e parteciparlo agli amici - insieme al bottino.
Il Signore è preoccupato (v.25) e deve ricominciare a insegnare. Avere tanti ammiratori è cosa strana per Chi propone d’implicarsi e non cedere all’indifferenza.
Ancora oggi il Maestro interpella, e c’incalza, punge.
Per coloro che fanno la scelta dell’amore gratuito, la prima disposizione è l’integrazione degli affetti, persino “famigliari”. Non per farci rinunciare a vivere.
Le cerchie possono staccarci dalle esigenze sconfinate d’un rapporto tra persone che condividono grandi ideali oltre confine.
Sentimenti e legami vanno ricollocati; devono acquistare una luce nuova.
Nessuno è tanto eroe da riuscire a non pensare più a se stesso e i suoi, ma subentra una dimensione prospettica, nell’esperienza di un Padre che provvede a creare svolte più sapienti.
Tutte le logiche di buonsenso assumono un altro significato.
Persino l’attaccamento alla propria immagine e reputazione: «prendere, sollevare, portare il braccio della Croce» [v.27: senso del verbo greco].
Era il momento della massima solitudine e percezione di fallimento.
Chi è agitato per l’opinione-attorno si limita, non inizia percorsi, non s’affida alle proprie doti e neppure le scopre; non impara a prendere il passo di ciò che avviene, né sovverte ciò che va detestato.
Il contrasto coi poteri forti che chiedono la solita fedeltà a doppio taglio, è semplicemente da mettere in conto.
Terzo “impegno” (v.33): i beni in eccesso servono solo per costruire Relazione. Questa è la soglia della Felicità: rende simili a Dio.
Affare assurdo, ma fonte di gioia incondizionata, che ci porta assai più dell’emozione. Quindi bisogna aprire bene gli occhi.
Perché in missione non si vive di adrenalina, ma di convinzioni che riflettono la vita intima e la pienezza di essere.
Chi ci mette la faccia deve però prima incontrare e misurare se stesso molto molto a fondo, perché egli va come in guerra (vv.31-32).
Qui non si scherza: i gendarmi dei clan consolidati sono capaci di tutto, per continuare a darsi importanza e occupare posizioni.
Si paga di persona. Non si partecipa di un corteo trionfale: piuttosto, si viene respinti.
Ma la Fede sostiene: crede che il Signore non eserciti soprusi, né voglia attorno testimoni rassegnati.
Il suo Sogno valica il buonsenso - per farci trasalire d’un imprevisto ‘pondus’ che ritroviamo gratis in cuore.
D’ora in poi non si mercanteggia più: questa la nuova Torre (vv.28-30) da costruire.
[Mercoledì 31.a sett. T.O. 6 novembre 2024]
«Too pure water has no fish». Accepting ourselves will complete us: it will make us recover the co-present, opposite and shadowed sides. It’s the leap of profound Faith. And seems incredible, but the Rock on which we build the way of being believers is Freedom
«L’acqua troppo pura non ha pesci». Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda. Sembra incredibile, ma la Roccia sulla quale edifichiamo il modo di essere credenti è la Libertà
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
don Giuseppe Nespeca
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