don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 20 Agosto 2024 12:31

Formalismi, e Parole chiare

In questa domenica riprendiamo la lettura del Vangelo di Marco. Nel brano odierno (cfr Mc 7,1-8.14-15.21-23), Gesù affronta un tema importante per tutti noi credenti: l’autenticità della nostra obbedienza alla Parola di Dio, contro ogni contaminazione mondana o formalismo legalistico. Il racconto si apre con l’obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesù, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni. In questo modo, gli interlocutori intendevano colpire l’attendibilità e l’autorevolezza di Gesù come Maestro perché dicevano: “Ma questo maestro lascia che i discepoli non compiano le prescrizioni della tradizione”. Ma Gesù replica forte e replica dicendo: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”» (vv. 6-7). Così dice Gesù. Parole chiare e forti! Ipocrita è, per così dire, uno degli aggettivi più forti che Gesù usa nel Vangelo e lo pronuncia rivolgendosi ai maestri della religione: dottori della legge, scribi… “Ipocrita”, dice Gesù.

Gesù infatti vuole scuotere gli scribi e i farisei dall’errore in cui sono caduti, e qual è questo errore? Quello di stravolgere la volontà di Dio, trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane. La reazione di Gesù è severa perché grande è la posta in gioco: si tratta della verità del rapporto tra l’uomo e Dio, dell’autenticità della vita religiosa. L’ipocrita è un bugiardo, non è autentico.

Anche oggi il Signore ci invita a fuggire il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo.

Il messaggio del Vangelo oggi è rinforzato anche dalla voce dell’Apostolo Giacomo, che ci dice in sintesi come dev’essere la vera religione, e dice così: la vera religione è «visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (v. 27).

“Visitare gli orfani e le vedove” significa praticare la carità verso il prossimo a partire dalle persone più bisognose, più fragili, più ai margini. Sono le persone delle quali Dio si prende cura in modo speciale, e chiede a noi di fare altrettanto.

“Non lasciarsi contaminare da questo mondo” non vuol dire isolarsi e chiudersi alla realtà. No. Anche qui non dev’essere un atteggiamento esteriore ma interiore, di sostanza: significa vigilare perché il nostro modo di pensare e di agire non sia inquinato dalla mentalità mondana, ossia dalla vanità, dall’avarizia, dalla superbia. In realtà, un uomo o una donna che vive nella vanità, nell’avarizia, nella superbia e nello stesso tempo crede e si fa vedere come religioso e addirittura arriva a condannare gli altri, è un ipocrita.

Facciamo un esame di coscienza per vedere come accogliamo la Parola di Dio. Alla domenica la ascoltiamo nella Messa. Se la ascoltiamo in modo distratto o superficiale, essa non ci servirà molto. Dobbiamo, invece, accogliere la Parola con mente e cuore aperti, come un terreno buono, in modo che sia assimilata e porti frutto nella vita concreta. Gesù dice che la Parola di Dio è come il grano, è un seme che deve crescere nelle opere concrete. Così la Parola stessa ci purifica il cuore e le azioni e il nostro rapporto con Dio e con gli altri viene liberato dall’ipocrisia.

L’esempio e l’intercessione della Vergine Maria ci aiutino a onorare sempre il Signore col cuore, testimoniando il nostro amore per Lui nelle scelte concrete per il bene dei fratelli.

[Papa Francesco, Angelus 2 settembre 2018]

Martedì, 20 Agosto 2024 10:35

Ogni Talento è una Chiamata a superarsi

Talenti - Doni del nuovo Regno

(Mt 25,14-30)

 

Mt narra questa parabola perché alcuni giudei convertiti delle sue comunità hanno difficoltà a sbloccarsi ed evolvere.

Fra di essi nasce una competizione che concerne l’importanza degli incarichi ecclesiali. È il vero senso evangelico dei «talenti secondo capacità» (v.15).

Tutti riceviamo qualche accento del Regno, “beni da moltiplicare trasmettendo, ad esempio la Parola di Dio.

Dono unico, ma non raro: prosperità immensa e dalle virtù propulsive di vita straordinarie... per ciascuno e tutti.

Così lo spirito di servizio e condivisione; l’attitudine al discernimento e valorizzazione delle unicità irripetibili, e tanto altro.

L’idea stessa del Dio antico come legislatore e giudice (vv.24-25) induceva i credenti a non crescere né trasmettere - piuttosto a rinchiudersi e allontanarsi dal progetto del Padre.

Il Signore ribadisce con forza che quell’idea deforme di ‘Cielo a punti’ può incidere in modo negativo sulle linee portanti della personalità, e rovinare l’esistenza delle persone.

Anche nella storia successiva è capitato questo, allorché le masse ingenue sono state diseducate a percepire la Libertà come colpa e il rischio d’Amore un pericolo di peccato.

Il Signore vuole invece creare Famiglia, dove nessuno è allarmato o tenuto a freno, né bloccato e messo in buca.

Anche il poco che ciascuno ha in dote può essere investito - attraverso un contributo da porgere, a disposizione di tutti.

Ciò è quel che avviene nella comunità che ci valorizza: la Chiesa ministeriale [«banca» del v.27] che proietta e dilata all’infinito le risorse, il Pane spezzato, i “beni” del Regno di Dio.

Ciò che promuove le persone e rivela la Presenza di Dio è personale e unico, tuttavia non deve permanere come raro.

Ciascuno ha un’occasione di apostolato, la sua attitudine d’amicizia e sue competenze… sono territori ed energie da esplorare senza limiti, affinché vengano condivise, rese sapienziali e propulsive.

In tal guisa, chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa e dà un contributo, vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere e fiorire.

Viceversa, nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia o astratte e disincarnate subiscano ulteriori flessioni - infine periscano senza lasciare rimpianti (vv.27-30).

 

In queste catechesi del capitolo 25 l’evangelista Mt cerca di far comprendere, aiutare e fare da molla alle sue comunità, ricordando che Gesù stesso non era sotto scorta, ma una figura coinvolta, volenterosa.

Neppure ha voluto limitarsi a lottare per un cambiamento giuridico apprezzabile e necessario - ma standosene a distanza di sicurezza.

Agiva infatti in modo laborioso, «artigianale» (FT n.217); senza nulla collocare in cassaforte, per timore.

Non si è limitato a facili contrapposizioni e grandi proclami ex cathedra, che non avrebbero intaccato nulla.

Aveva alternative?

Certo: non muoversi, non custodire i minimi, non proteggerli, limitarsi, tenere la bocca chiusa; eventualmente aprirla, ma solo per adulare i potenti, gli affermati e ben introdotti.

Rinunciando a lottare e intraprendere vie tortuose, non avrebbe avuto problemi.

Ma anche per noi: il gioco al ribasso e sul sicuro atrofizza la vita personale e sociale, non fa crescere un nuovo Regno - lo perde.

 

 

[Sabato 21.a sett.  T.O.  31 agosto 2024]

Martedì, 20 Agosto 2024 10:31

Ogni Talento è una Chiamata a superarsi

Talenti - Doni del nuovo Regno

(Mt 25,14-30)

 

Come può una comunità rivelare la presenza di Dio? Valorizzando e accentuando le sfaccettature della vita, difendendole, promuovendole e rallegrandole.

Perché c’è chi cresce e chi no? Per quale motivo chi avanza meno degli altri, proprio nel cammino “religioso” rischia di rovinare?

Tutti noi abbiamo punti di forza, pallini, qualità e inclinazioni esclusive. Ciascuno riceve doni da battistrada (fosse anche uno solo) e può inserirsi in servizi ecclesiali.

Ognuno - anche il normalmente escluso [come Zaccheo, nel passo parallelo di Lc 19, 1-10.11-28] - ha un bagaglio di risorse impareggiabili che può trasmettere, per l’arricchimento della comunità.

Mt narra questa parabola perché alcuni giudei convertiti delle sue comunità hanno difficoltà a sbloccarsi ed evolvere. E qualcuno proprio non fiorisce, appiccicandosi a ruoli e devozioni.

A dirla tutta e in modo chiaro, fra di essi nasce una competizione che concerne l’importanza degli incarichi ecclesiali [è il vero senso evangelico dei «talenti secondo capacità»: v.15].

Mansioni insidiate anche dall’arrembaggio dei provenienti dal paganesimo, meno intimiditi e più sciolti dei fedeli giudaizzzanti (un po’ da museo).

Il conseguente puntiglio irrigidisce l’atmosfera interna, accentua difficoltà di collaborare, e scambiarsi doti e risorse - arricchendo gli uni gli altri.

Situazioni vanitose e competitive che conosciamo.

 

Tutti riceviamo qualche accento del Regno, “beni” da moltiplicare trasmettendo, ad esempio (qui) la Parola di Dio.

Dono unico, ma non raro: prosperità immensa e dalle virtù propulsive di vita straordinarie... per ciascuno e tutti.

Così lo spirito di servizio e condivisione; l’attitudine al discernimento e valorizzazione delle unicità irripetibili, e tanto altro.

Beninteso, la comunità cresce non se produce, colloca in vetrina e “rende”. Essa è composta di membri tutti preziosi e già “adulti”, che sanno spontaneamente dove e come collocarsi!

Donne e uomini di Fede non cercano meriti, non trattengono per sé; si relazionano con Dio e il prossimo in modo sapiente, anche quando non in termini e formule “corretti” (secondo libretto d’istruzione).

Purtroppo, per convincere a rispettare personaggi e configurazione, e ricalcare il costume, non di rado i veterani hanno fatto leva sul timore.

Per quanto concerne il timore “sociale”, in particolare, sull’inclinazione popolare a non mettersi nei guai (ciò che paralizzava la vita anche interiore).

Dai tempi di Gesù, non sono mancate paure e desiderio di evitare ricatti [diceva sbalordita mia madre dei leaders disonesti: “Usano la religione come un’arma!”].

L’idea stessa del Dio antico come legislatore e giudice (vv.24-25) induceva i credenti a non crescere né trasmettere, anzi a rinchiudersi e allontanarsi dal progetto del Padre.

Pena l’esclusione sociale, era fatto divieto accogliere nuove esperienze di Dio, incontrare autenticamente se stessi, aprire spazi personali (persino radicalmente identitari), tracciare nuovi cammini.

Così per secoli.

Per comprendere il senso del passo parallelo di Lc 19,11-28 [v.22 dove nella traduzione CEI il Re sembrerebbe ribadire l’idea meschina del lavativo diseducato], basta inserire un punto interrogativo [i codici originali in greco non avevano punteggiatura]:

«Gli dice: Dalla tua stessa bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono un uomo severo, che prendo quello che non ho depositato e che mieto quello che non ho seminato?».

Lo stesso in Mt 25, 26:

«Ma rispondendo il suo Signore gli disse: Servo malvagio e poltrone [...] Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso?».

Come dire: «Ma chi te lo ha insegnato?!».

Il Signore ribadisce con forza che quel concetto deforme del Cielo a punti può incidere in modo negativo sulle linee portanti della personalità, e rovinare l’esistenza delle persone. In specie se la Libertà e il rischio dell’Amore vengono percepite come fossero una colpa - comunque un pericolo di peccato che potrebbe condurre allo stato spirituale deleterio di non essere più considerati (dalla religiosità tradizionale) “in grazia di Dio”.

 

Le religioni antiche avevano bisogno di seguaci anche immaturi e ottusi, senza nerbo - i quali si accontentano poi di evitare pericoli, e s’attaccavano alle piccine sicurezze del tran tran d’ogni giorno.

Invece, il Padre desidera cuori dilatati, che intraprendono e rischiano per amore, e per l’amore.

Se il Dio della pietà popolare necessita di greggi talora ottuse e servili, Cristo ha bisogno di amici, famigliari e collaboratori temerari, capaci di camminare sulle loro gambe, che non disumanizzano (anche gli altri).

In tal guisa, oggi, la pastorale del consenso [io ti dò ciò che tu vuoi] presuppone masse ubbidienti e devote, deprivate di personalità e sogni.

Invece il Signore vuole Famiglia, dove nessuno è allarmato, tenuto a freno, bloccato, messo in buca. Magari per timore di perdere la quiete famigliare, il posticino che ha, le finte sicurezze che si è ritagliato o preso in elemosina.

Papa Francesco ad es. non vuole che le conquiste ci spaventino e trattengano, ma che da consanguinei del nostro lato eterno, siamo i primi a vibrare d'ideali profetici. E speronare le false convinzioni che non inquietano - anzi, ci mettono in letargo - per stimolare ambiti ideali più grandiosi per qualità d’umanizzazione.

Anche il poco che ciascuno ha in dote può essere investito - attraverso un contributo da porgere, a disposizione di tutti.

Ciò è quel che avviene nella comunità che ci valorizza: la Chiesa ministeriale [«banca» del v.27] che proietta e dilata all’infinito le risorse, il Pane spezzato, i “beni” del Regno di Dio.

Ciò che promuove le persone e rivela la Presenza di Dio è personale e unico, tuttavia non deve permanere come raro.

Ciascuno ha un’occasione di apostolato, la sua attitudine d’amicizia e sue competenze… sono territori ed energie da esplorare senza limiti, affinché vengano condivise, rese sapienziali e propulsive.

Come ha dichiarato il Pontefice:

«L'incapacità degli esperti di vedere i segni dei tempi è dovuta al fatto che sono chiusi nel loro sistema; sanno cosa si può e non si può fare, e stanno sicuri lì. Interroghiamoci: sono aperto solo alle mie cose e alle mie idee, oppure sono aperto al Dio delle sorprese?».

Chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa e dà un contributo - senza farsi travolgere dalla routine, dal timore, dalla fatica - vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere e fiorire.

Viceversa, nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia o astratte e disincarnate - estenuanti, benché in sé fiacche, esaurite, prive di spina dorsale e solo noiose ovvero fantasiose - subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti (vv.27-30).

 

In queste catechesi del capitolo 25 l’evangelista Mt cerca di far comprendere, aiutare e fare da molla alle sue comunità, ricordando che Gesù stesso non era sotto scorta, ma una figura coinvolta, volenterosa.

Non lasciava correre, ma entrava dentro, in merito alle questioni - né diceva: ma che figura ci faccio?

Neppure ha voluto limitarsi a lottare per un cambiamento giuridico apprezzabile e necessario - ma standosene a distanza di sicurezza.

Ha invece incarnato il dono di sé, tracciando la Via della scelta sociale in prima persona, con arduità d’intraprenderla; senza nulla collocare in cassaforte, per timore.

Parafrasando l’enciclica Fratelli Tutti (n.262) diremmo: sapeva che neppure le norme erano sufficienti «se si pensa che la soluzione ai problemi consista nel dissuadere mediante la paura».

Il Signore infatti frequentava i fuori del giro e le figure intermedie; si teneva alla larga dagli ambienti invidiosi e con la puzza sotto il naso. Agiva in modo laborioso, “artigianale” (FT n.217) e mettendoci la faccia; non predicava agli altri ex cathedra.

 

Aveva alternative?

Certo: non muoversi, non custodire i minimi, non proteggerli, limitarsi, tenere la bocca chiusa; eventualmente aprirla, ma solo per adulare i potenti, gli affermati e ben introdotti.

Rinunciando a lottare e intraprendere vie tortuose, non avrebbe avuto problemi.

E se alla mediocrità comune delle guide spirituali del tempo avesse aggiunto l'omertà, avrebbe potuto benissimo fare carriera.

Ma anche per noi: il gioco al ribasso e sul sicuro atrofizza la vita personale e sociale, non fa crescere un nuovo Regno - lo perde.

 

 

 

In tutti, qualcosa di uguale e disuguale

 

Il Vangelo […] è la parabola dei talenti, tratta da san Matteo (25,14-30). Racconta di un uomo che, prima di partire per un viaggio, convoca i servitori e affida loro il suo patrimonio in talenti, monete antiche di grandissimo valore. Quel padrone affida al primo servitore cinque talenti, al secondo due, al terzo uno. Durante l’assenza del padrone, i tre servitori devono far fruttare questo patrimonio. Il primo e il secondo servitore raddoppiano ciascuno il capitale di partenza; il terzo, invece, per paura di perdere tutto, seppellisce il talento ricevuto in una buca. Al ritorno del padrone, i primi due ricevono la lode e la ricompensa, mentre il terzo, che restituisce soltanto la moneta ricevuta, viene rimproverato e punito.

E’ chiaro il significato di questo. L’uomo della parabola rappresenta Gesù, i servitori siamo noi e i talenti sono il patrimonio che il Signore affida a noi. Qual è il patrimonio? La sua Parola, l’Eucaristia, la fede nel Padre celeste, il suo perdono… insomma, tante cose, i suoi beni più preziosi. Questo è il patrimonio che Lui ci affida. Non solo da custodire, ma da far crescere! Mentre nell’uso comune il termine “talento” indica una spiccata qualità individuale – ad esempio talento nella musica, nello sport, eccetera –, nella parabola i talenti rappresentano i beni del Signore, che Lui ci affida perché li facciamo fruttare. La buca scavata nel terreno dal «servo malvagio e pigro» (v. 26) indica la paura del rischio che blocca la creatività e la fecondità dell’amore. Perché la paura dei rischi dell’amore ci blocca. Gesù non ci chiede di  conservare la sua grazia in cassaforte! Non ci chiede questo Gesù, ma vuole che la usiamo a vantaggio degli altri. Tutti i beni che noi abbiamo ricevuto sono per darli agli altri, e così crescono. È come se ci dicesse: “Eccoti la mia misericordia, la mia tenerezza, il mio perdono: prendili e fanne largo uso”. E noi che cosa ne abbiamo fatto? Chi abbiamo “contagiato” con la nostra fede? Quante persone abbiamo incoraggiato con la nostra speranza? Quanto amore abbiamo condiviso col nostro prossimo? Sono domande che ci farà bene farci. Qualunque ambiente, anche il più lontano e impraticabile, può diventare luogo dove far fruttificare i talenti. Non ci sono situazioni o luoghi preclusi alla presenza e alla testimonianza cristiana. La testimonianza che Gesù ci chiede non è chiusa, è aperta, dipende da noi.

Questa parabola ci sprona a non nascondere la nostra fede e la nostra appartenenza a Cristo, a non seppellire la Parola del Vangelo, ma a farla circolare nella nostra vita, nelle relazioni, nelle situazioni concrete, come forza che mette in crisi, che purifica, che rinnova. Così pure il perdono, che il Signore ci dona specialmente nel Sacramento della Riconciliazione: non teniamolo chiuso in noi stessi, ma lasciamo che sprigioni la sua forza, che faccia cadere muri che il nostro egoismo ha innalzato, che ci faccia fare il primo passo nei rapporti bloccati, riprendere il dialogo dove non c’è più comunicazione… E così via. Fare che questi talenti, questi regali, questi doni che il Signore ci ha dato, vengano per gli altri, crescano, diano frutto, con la nostra testimonianza.

Credo che oggi sarebbe un bel gesto che ognuno di voi prendesse il Vangelo a casa, il Vangelo di San Matteo, capitolo 25, versetti dal 14 al 30, Matteo 25, 14-30, e leggere questo, e meditare un po’: “I talenti, le ricchezze, tutto quello che Dio mi ha dato di spirituale, di bontà, la Parola di Dio, come faccio che crescano negli altri? O soltanto li custodisco in cassaforte?”.

E inoltre Il Signore non dà a tutti le stesse cose e nello stesso modo: ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi; ma in tutti, in tutti c’è qualcosa di uguale: la stessa, immensa fiducia. Dio si fida di noi, Dio ha speranza in noi! E questo è lo stesso per tutti. Non deludiamolo! Non lasciamoci ingannare dalla paura, ma ricambiamo fiducia con fiducia! La Vergine Maria incarna questo atteggiamento nel modo più bello e più pieno. Ella ha ricevuto e accolto il dono più sublime, Gesù in persona, e a sua volta lo ha offerto all’umanità con cuore generoso. A Lei chiediamo di aiutarci ad essere “servi buoni e fedeli”, per partecipare “alla gioia del nostro Signore”.

(Papa Francesco, Angelus 16 novembre 2014)

Martedì, 20 Agosto 2024 10:14

A nessuno fa mancare il dono dell’amore

Nella celebre parabola dei talenti – riportata dall’evangelista Matteo (cfr 25,14-30) – Gesù racconta di tre servi ai quali il padrone, al momento di partire per un lungo viaggio, affida le proprie sostanze. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i beni ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre si compiace dei primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto del suo operato. Con questa parabola, Gesù vuole insegnare ai discepoli ad usare bene i suoi doni: Dio chiama ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. Sarebbe da stolti pensare che questi doni siano dovuti, così come rinunciare ad impiegarli sarebbe un venir meno allo scopo della propria esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).

Cari fratelli, accogliamo l’invito alla vigilanza, a cui più volte ci richiamano le Scritture! Essa è l’atteggiamento di chi sa che il Signore ritornerà e vorrà vedere in noi i frutti del suo amore. La carità è il bene fondamentale che nessuno può mancare di mettere a frutto e senza il quale ogni altro dono è vano (cfr 1 Cor 13,3). Se Gesù ci ha amato al punto da dare la sua vita per noi (cfr 1 Gv 3,16), come potremmo non amare Dio con tutto noi stessi e amarci di vero cuore gli uni gli altri? (cfr 1 Gv 4,11) Solo praticando la carità, anche noi potremo prendere parte alla gioia del nostro Signore. La Vergine Maria ci sia maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel cammino verso l’incontro con Dio.

[Papa Benedetto, Angelus 13 novembre 2011]

Martedì, 20 Agosto 2024 10:10

Doti e Doni

1. “Bene, servo buono e fedele, sei rimasto fedele nel poco, ti darò autorità su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 23).

Avvicinandosi il termine dell’anno liturgico, la Chiesa ci fa ascoltare le parole del Signore che ci invitano a vegliare nell’attesa della parusia. Ad essa dobbiamo prepararci con una risposta semplice, ma decisa, all’appello di conversione, che Gesù ci rivolge chiamandoci a vivere il Vangelo come tensione, speranza, attesa.

Oggi, nell’odierna liturgia, il Redentore ci parla con la parabola dei talenti, per mostrarci come chi aderisce a lui nella fede e vive operosamente nell’attesa del suo ritorno, è paragonabile al “servo buono e fedele”, che in modo intelligente, alacre e fruttuoso cura l’amministrazione del padrone lontano.

Che cosa significa talento? In senso letterale indica una moneta di grande valore usata ai tempi di Gesù. In senso traslato vuol dire “le doti”, che sono partecipate a ogni uomo concreto: il complesso delle qualità, di cui un soggetto personale, nella sua interezza psicofisica, viene dotato “dalla natura”.

Tuttavia la parabola mette in evidenza che queste capacità sono al tempo stesso un dono del Creatore “dato”, trasmesso ad ogni uomo.

Queste “doti” sono diverse e multiformi. Ce lo conferma l’osservazione della vita umana, in cui si vede la molteplicità e la ricchezza dei talenti che sono negli uomini.

Il racconto di Gesù sottolinea con fermezza che ogni “talento” è una chiamata e un obbligo ad un lavoro determinato, inteso nel duplice significato di lavoro su se stessi e di lavoro per gli altri. Afferma, cioè, la necessità di un’ascesi personale unita all’operosità in favore del fratello.

4. Frequentemente i doni che Dio pone nel nostro essere sono talenti difficili, ma non possono essere sprecati né per disistima, né per disobbedienza, né tantomeno perché sono faticosi. La croce per Cristo non fu motivo di obiezione alla volontà del Padre, ma la condizione, il talento supremo, con il quale “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” (Prefazio pasquale). Perciò io chiedo a tutti voi, e in particolare ai malati, ai sofferenti, ai portatori di handicap, di rendere fruttuoso, mediante la preghiera e l’offerta, il difficile talento, l’impegnativo talento ricevuto.

Tenete sempre presente che l’invocazione, le preghiere e la libera accettazione delle fatiche e delle pene della vita, vi permettono di raggiungere tutti gli uomini e di contribuire alla salvezza di tutto il mondo.

5. Questo lavoro su di sé, che porta frutto a tutti gli uomini, ha la sua radice nel Battesimo, il quale ha dato inizio in ciascuno di voi alla vita nuova, mediante il dono soprannaturale della grazia e la liberazione dal peccato originale. Con tale sacramento, che vi ha resi figli di Dio, avete ricevuto quelle “doti”, che costituiscono un’autentica ricchezza interiore della vita in Cristo.

Incorporati a Gesù, conformati a lui, siete chiamati come membra vive a contribuire con tutte le vostre forze e attitudini all’incremento della vostra parrocchia, che è la porta della Chiesa romana-universale.

I talenti ricevuti con il Battesimo sono pure una chiamata alla cooperazione con la grazia, che implica un dinamismo inerente alla vita cristiana e una crescita graduale e costante in quella maturità, che viene formata dalla fede, dalla speranza, dalla carità e dai doni dello Spirito Santo.

Tale collaborazione si compie soprattutto in quel centro di comunione che è la parrocchia, comunità di uomini e donne, che mettono le loro varie capacità a servizio della crescita personale e dei fratelli vicini e lontani.

La parrocchia è Chiesa: comunità di uomini che devono sviluppare in se stessi “i talenti del Battesimo”. Tutta la sua struttura, favorendo e garantendo un apostolato comunitario, soprattutto attraverso la liturgia, la catechesi e la carità, fonde insieme le molteplici differenze umane che vi si trovano e permette che ognuno, secondo le capacità che possiede, dia fraternamente il suo contributo a ogni iniziativa missionaria della sua famiglia ecclesiale (cf. Apostolicam Actuositatem, 10).

6. La parabola dell’odierno Vangelo parla pure di un talento “nascosto sottoterra”, non utilizzato.

“Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco qui il tuo talento” (Mt 25, 24-25). Quest’ultimo servo che ha ricevuto un solo talento mostra come si comporta l’uomo quando non vive un’operosa fedeltà nei confronti di Dio. Prevale la paura, la stima di sé, l’affermazione dell’egoismo, che cerca di giustificare il proprio comportamento con la pretesa ingiusta del padrone, che miete dove non ha seminato.

Questo atteggiamento implica da parte del Signore una punizione, perché quell’uomo è venuto meno alla responsabilità che gli era stata chiesta, e, così facendo, non ha portato a compimento ciò che la volontà di Dio esigeva, con la conseguenza sia di non realizzare se stesso, sia di non essere di utilità a nessuno.

Invece il lavoro su di sé e per il mondo è qualcosa che deve impegnare concretamente il vero discepolo di Cristo. Nelle varie e specifiche situazioni in cui il cristiano è posto, egli deve saper discernere ciò che Dio vuole da lui ed eseguirlo con quella gioia, che poi Gesù rende piena ed eterna.

7. Carissimi fratelli e sorelle, vi esorto ad unirvi con tutto il vostro spirito al sacrificio di Cristo, alla liturgia eucaristica, che rappresenta ogni volta la presenza del Salvatore nella vostra comunità.

Perseverate nell’essere e nel diventare sempre più un cuor solo e un’anima sola, per accogliere ogni giorno tra voi Cristo. Che egli entri in voi, e rimanga in voi, per portarvi la sua pienezza.

Che la Madre di Dio, Santa Maria del Popolo, introduca Gesù nella vostra comunità e l’aiuti a rimanere con il suo Figlio, per portare molto frutto.

Ecco la sintesi dell’insegnamento racchiuso nella parabola dei talenti, che insieme abbiamo ascoltato e meditato: per avere la pienezza della vita e portare frutto occorre, con appassionata vigilanza, compiere la volontà di Dio e rimanere in Cristo, con preghiera supplice e adorante.

Rimaniamo in lui! Rimaniamo in Gesù Cristo!

Rimaniamo mediante tutti i talenti della nostra anima e del nostro corpo!

Mediante i talenti della grazia santificante e operante!

Mediante tutti i talenti che comporta la partecipazione alla parola di Dio e ai sacramenti, soprattutto nell’Eucaristia!

Rimaniamo!

Rimaniamo per dare molto frutto!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 18 novembre 1984]

Il Vangelo ci presenta la parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30). Un uomo, prima di partire per un viaggio, consegna ai suoi servi dei talenti, che a quel tempo erano monete di notevole valore: a un servo cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno. Il servo che ha ricevuto cinque talenti è intraprendente e li fa fruttare guadagnandone altri cinque. Allo stesso modo si comporta il servo che ne ha ricevuti due, e ne procura altri due. Invece il servo che ne ha ricevuto uno, scava una buca nel terreno e vi nasconde la moneta del suo padrone.

È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: «Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra» (vv. 24-25). Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, e così si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.

Questa parabola ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui.

Gesù ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri – come oggi ci ricorda la 1ª Giornata Mondiale dei Poveri –; ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza “sotterrare il talento”, cioè i doni che Dio ci ha affidato, e di cui ci chiederà conto.

La Vergine Santa interceda per noi, affinché restiamo fedeli alla volontà di Dio facendo fruttificare i talenti di cui ci ha dotato. Così saremo utili agli altri e, nell’ultimo giorno, saremo accolti dal Signore, che ci inviterà a prendere parte alla sua gioia.

[Papa Francesco, Angelus 19 novembre 2017]

Martedì, 20 Agosto 2024 03:05

Il senso dell’Invito

Anime sagge

(Mt 25,1-13)

 

Il tema non è quello della vigilanza morale, bensì puntuale: prima o poi tutti i battezzati in Cristo si addormentano (v.5).

E l’ambiente non sembra dei migliori: lo sposo ritarda, le ragazze sono assopite, alcune senz’olio e le altre... acide.

Ma a volte siamo come pazzi che vanno a costruire case sulla sabbia: alla prima fiumana crolla tutto.

L’entusiasmo c’era, la sintonia col Signore e la sua voglia di abbracciare e trasmettere pienezza di essere... forse no.

Manca una dimensione di profondità, o di speranza viva che anima le motivazioni e lubrifica l’energia, nell'impulso alla missione.

È l’esito di coloro che sembrano aver accolto le Beatitudini di tutto punto, ma non le fanno proprie...

Non per il fatto che non adempiono bene il ruolo - una mansione - ma perché non mettono in relazione l’ascolto con la pratica non distratta, squisitamente evangelica.

Alimentare la torcia è promuovere la vita!

E l’Appello, il momento opportuno, giunge improvviso; non si allestisce attraverso una scelta generale o formale che evolve senza correlazioni, binari personali, attenzione agli eventi e capacità di corrispondere.

Qui la relazione di Fede non è olio che si possa prestare.

Esistono anime ansiose o perfezioniste che si precipitano a intervenire, ma difettano di percezione. Vi sono cuori timorosi e paralizzati: devono acquisire flessibilità.

Alcuni fissano i momenti “no” e non sanno trasformarli in occasioni di risveglio, ovvero guariscono troppo tardi. Altri dipendono dalla stagione o vivono di adrenalina e difettano di consapevolezza.

Qualcuno deve rallentare e raccogliersi, ritrovare se stesso e la leggerezza vocazionale istintiva, la propria parte infinita - ma evitando strategie puerili.

Altri che già hanno accolto il divino, avrebbero bisogno di svegliarsi dal torpore, per mettere in moto la luce sapiente e innata che possiedono nelle inclinazioni profonde.

C’è chi ha necessità di gettare zavorre, divenire più sottile nell’udire e nel porgersi, o meno dirigista; altri prepararsi all’Incontro in una dimensione più relazionale e visibile.

Ci sono persone che devono complicarsi la vita per poi semplificare [senza disperdere] divenendo infine più nitide; altre e forse più, imparare a donare. Così via.

Quindi... meglio alcuni con la luce che tutti al buio. Le azioni e il rischio per la sapienza, l’amore e la completezza di vita costruiscono la Persona e il suo dialogo.

Spesso s’immagina di aver provveduto alla propria pratica con Dio iscrivendosi nei registri parrocchiali, senza però elaborarne l’impegno.

Ma chi non edifica né comunica vita non ha nulla a che fare con Dio stesso (v.12).

In tal guisa, anche la crisi potrà avere un senso evolutivo; nel non sentirsi assoluti, nella logica delle opzioni, nella personalizzazione, nell’Incontro imprevisto e differente.

Soglia di ogni Esodo, verso la Libertà e la Festa.

 

Il paradigma di questo Richiamo alto e forte del Vangelo è la terapia che può rigenerare il mondo soggiogato da omologazioni esterne, affinché vada Altrove - e non rinunci alla dimensione del Mistero che lo suscita.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai perso il senso dell’invito a Nozze? O semplicemente preferisci varcare indenne la soglia del Banchetto?

Esiste un Incontro che ritieni possa destare la tua vita, o l’abitudine di attendere si è tramutata in una abitudine di non attendere più nulla?

 

 

[Venerdì 21.a sett. T.O.  30 agosto 2024]

Martedì, 20 Agosto 2024 03:01

Anime pazze o sagge

La distrazione in sala d’attesa, o una crisi dal senso evolutivo

(Mt 25,1-13)

 

Il tema non è quello della vigilanza morale, bensì puntuale: prima o poi tutti i battezzati in Cristo si addormentano (v.5).

E l’ambiente non sembra dei migliori: lo sposo ritarda, le ragazze sono assopite, alcune senz’olio e le altre... acide.

Ma a volte siamo come pazzi che vanno a costruire case sulla sabbia: alla prima fiumana crolla tutto.

L’entusiasmo c’e, la sintonia col Signore e la sua voglia di abbracciare e trasmettere pienezza di essere... forse no.

Manca una dimensione di profondità, o di speranza viva che anima le motivazioni e lubrifica l’energia, nell'impulso alla missione.

È l’esito di coloro che sembrano aver accolto le Beatitudini di tutto punto, ma non le fanno proprie...

Non per il fatto che non adempiono bene il ruolo - una mansione - ma perché non mettono in relazione l’ascolto con la pratica non distratta, squisitamente evangelica.

Alimentare la torcia è promuovere la vita!

Ma come concentrarsi e non offuscarla, anzi sbloccarla, e non lasciarsi suggestionare dai monili, tirarla fuori dal cassetto; orientarla bene - in favore locale e universale, proprio, e di tutti?

L’Appello, il momento opportuno, giunge improvviso. Non si allestisce attraverso una scelta generale o formale che evolve senza correlazioni, senza binari personali, senza attenzione agli eventi e capacità di corrispondere.

Insomma: la relazione di Fede non è olio che si possa prestare.

Come in un rapporto d’Amore, ciascuno ha bisogno istante per istante di un nuovo personale equilibrio - potenziato nella fusione.

Esistono anime ansiose o perfezioniste che si precipitano a intervenire, ma difettano di percezione. Vi sono cuori timorosi e paralizzati: devono acquisire flessibilità.

Alcuni fissano i momenti “no” e non sanno trasformarli in occasioni di risveglio; o guariscono troppo tardi. Altri dipendono dalla stagione o vivono di adrenalina, e difettano di consapevolezza.

Qualcuno deve rallentare e raccogliersi, ritrovare se stesso e la leggerezza vocazionale istintiva, la propria parte infinita - ma evitando strategie puerili.

Altri che già hanno accolto il divino, avrebbero bisogno di svegliarsi dal torpore, per mettere in moto la luce sapiente, innata, che possiedono nelle inclinazioni profonde.

Qualcuno ha necessità di gettare zavorre, divenire più sottile nell’udire e nel porgersi, o meno dirigista; altri, prepararsi all’Incontro in una dimensione più relazionale e visibile.

Ci sono persone che non possono non complicarsi la vita, per poi semplificare [senza disperdere] divenendo infine più nitide; altre e forse più, imparare a donare. Così via.

Quindi... per armonizzare e rinvigorire l’organismo naturale, passionale e vocazionale, meglio alcuni con la luce che tutti al buio - bloccati in sala d’attesa, persi per sempre.

Gesù non predilige gli assopiti in una spiritualità vuota senza unicità - ovvero gli avvinti dall’istinto di autoprotezione. Esso non ricerca prima le proprie risorse, ciò che già trova in sé; bensì quel che ottiene fuori, o vien dato a richiesta, mendicato da altri.

L’ascolto insolito - forse indebito - e personale, nonché le azioni intraprendenti, il rischio per la saggezza, l’amore, lo stimolo alla completezza di essere, costruiscono la Persona e il suo dialogo vero.

I conformismi non producono svolte; permangono nel contorno torpido. 

La folla indistinta senza convivialità delle differenze - se mediocre, priva di picchi esplorativi, eccezioni - spinge in panchina ogni Chiamata irripetibile.

Spesso s’immagina di aver provveduto alla propria pratica con Dio iscrivendosi nei registri parrocchiali, senza elaborarne l’impegno sino in fondo. Forse per timore del rischio o di fatiche impreviste.

Poi qualche zelante manierista assume anche atteggiamenti proni di apparenza [un tempo si diceva] “papista” e [finta] ortodossia - o viceversa, sofisticate, à la page.

Astrazioni disincarnate, che allo Sposo non interessano.

 

Colui che neppure lavora su di sé, ovviamente secondo il carattere delle proprie inclinazioni vocazionali, non edifica né comunica vita.

Non arricchisce né rallegra l’esistenza anche sommaria, dei tempi di stanchezza nell’attesa. Infine, non ha nulla a che fare con Dio (v.12).

 

Il paradigma di questo Richiamo alto e forte del Vangelo è la terapia che può rigenerare il mondo soggiogato da omologazioni esterne, affinché vada Altrove - e non rinunci alla dimensione del Mistero che lo suscita.

Appello fuori del tempo per la Chiesa stessa, affinché non si accontenti di schemi, modelli, ricette standard, o di rimettere le cose a posto in modo abitudinario.

Né si blocchi nei rapporti malati, nelle nomenclature d’appoggio qualunquista; strepitoso o museale. E in tal guisa si ritrovi fuori della Festa, disorientata, sopraffatta; senza neppure aver attivato se stessa, umanizzando.

Come ricorda l’enciclica Fratelli Tutti al n.33 [riprendendo un’omelia di Papa Francesco a Skopje]:

«Ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione [perdendo] il gusto e il sapore della realtà».

Ma anche la crisi potrà avere un senso evolutivo: nell’accettare di sbagliare, nella presa di coscienza delle imperfezioni.

Nel non sentirsi assoluti; nella logica delle opzioni, nella personalizzazione, nell’Incontro imprevisto e differente.

Soglia di ogni Esodo verso la Libertà e la Festa.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai perso il senso dell’invito a Nozze? O semplicemente preferisci varcare indenne la soglia del Banchetto?

Esiste un Incontro che ritieni possa destare la tua vita, o l’abitudine di attendere si è tramutata in una abitudine di non attendere più nulla?

 

 

Per non ricadere

 

«Le Letture bibliche dell’odierna liturgia […] ci invitano a prolungare la riflessione sulla vita eterna […]. Su questo punto è netta la differenza tra chi crede e chi non crede, o, si potrebbe ugualmente dire, tra chi spera e chi non spera. Scrive infatti san Paolo ai Tessalonicesi: «Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza» ( 1 Ts 4,13). La fede nella morte e risurrezione di Gesù Cristo segna, anche in questo campo, uno spartiacque decisivo. Sempre san Paolo ricorda ai cristiani di Efeso che, prima di accogliere la Buona Notizia, erano «senza speranza e senza Dio nel mondo» ( Ef 2,12). Infatti, la religione dei greci, i culti e i miti pagani, non erano in grado di gettare luce sul mistero della morte, tanto che un’antica iscrizione diceva: « In nihil ab nihilo quam cito recidimus», che significa: «Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo». Se togliamo Dio, se togliamo Cristo, il mondo ripiomba nel vuoto e nel buio. E questo trova riscontro anche nelle espressioni del nichilismo contemporaneo, un nichilismo spesso inconsapevole che contagia purtroppo tanti giovani.

Il Vangelo di oggi è una celebre parabola, che parla di dieci ragazze invitate ad una festa di nozze, simbolo del Regno dei cieli, della vita eterna (Mt 25,1-13). E’ un’immagine felice, con cui però Gesù insegna una verità che ci mette in discussione; infatti, di quelle dieci ragazze: cinque entrano alla festa, perché, all’arrivo dello sposo, hanno l’olio per accendere le loro lampade; mentre le altre cinque rimangono fuori, perché, stolte, non hanno portato l’olio. Che cosa rappresenta questo “olio”, indispensabile per essere ammessi al banchetto nuziale? Sant’Agostino (cfr Discorsi 93, 4) e altri antichi autori vi leggono un simbolo dell’amore, che non si può comprare, ma si riceve come dono, si conserva nell’intimo e si pratica nelle opere. Vera sapienza è approfittare della vita mortale per compiere opere di misericordia, perché, dopo la morte, ciò non sarà più possibile. Quando saremo risvegliati per l’ultimo giudizio, questo avverrà sulla base dell’amore praticato nella vita terrena (cfr Mt 25,31-46). E questo amore è dono di Cristo, effuso in noi dallo Spirito Santo. Chi crede in Dio-Amore porta in sé una speranza invincibile, come una lampada con cui attraversare la notte oltre la morte, e giungere alla grande festa della vita».

[Papa Benedetto, Angelus 6 novembre 2011]

Cari fratelli e sorelle!

Le Letture bibliche dell’odierna liturgia […] ci invitano a prolungare la riflessione sulla vita eterna, iniziata in occasione della Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Su questo punto è netta la differenza tra chi crede e chi non crede, o, si potrebbe ugualmente dire, tra chi spera e chi non spera. Scrive infatti san Paolo ai Tessalonicesi: «Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza» ( 1 Ts 4,13). La fede nella morte e risurrezione di Gesù Cristo segna, anche in questo campo, uno spartiacque decisivo. Sempre san Paolo ricorda ai cristiani di Efeso che, prima di accogliere la Buona Notizia, erano «senza speranza e senza Dio nel mondo» ( Ef 2,12). Infatti, la religione dei greci, i culti e i miti pagani, non erano in grado di gettare luce sul mistero della morte, tanto che un’antica iscrizione diceva: « In nihil ab nihilo quam cito recidimus», che significa: «Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo». Se togliamo Dio, se togliamo Cristo, il mondo ripiomba nel vuoto e nel buio. E questo trova riscontro anche nelle espressioni del nichilismo contemporaneo, un nichilismo spesso inconsapevole che contagia purtroppo tanti giovani.

Il Vangelo di oggi è una celebre parabola, che parla di dieci ragazze invitate ad una festa di nozze, simbolo del Regno dei cieli, della vita eterna (Mt 25,1-13). E’ un’immagine felice, con cui però Gesù insegna una verità che ci mette in discussione; infatti, di quelle dieci ragazze: cinque entrano alla festa, perché, all’arrivo dello sposo, hanno l’olio per accendere le loro lampade; mentre le altre cinque rimangono fuori, perché, stolte, non hanno portato l’olio. Che cosa rappresenta questo «olio», indispensabile per essere ammessi al banchetto nuziale? Sant’Agostino (cfr Discorsi 93, 4) e altri antichi autori vi leggono un simbolo dell’amore, che non si può comprare, ma si riceve come dono, si conserva nell’intimo e si pratica nelle opere. Vera sapienza è approfittare della vita mortale per compiere opere di misericordia, perché, dopo la morte, ciò non sarà più possibile. Quando saremo risvegliati per l’ultimo giudizio, questo avverrà sulla base dell’amore praticato nella vita terrena (cfr Mt 25,31-46). E questo amore è dono di Cristo, effuso in noi dallo Spirito Santo. Chi crede in Dio-Amore porta in sé una speranza invincibile, come una lampada con cui attraversare la notte oltre la morte, e giungere alla grande festa della vita.

A Maria, Sedes Sapientiae, chiediamo di insegnarci la vera sapienza, quella che si è fatta carne in Gesù. Lui è la Via che conduce da questa vita a Dio, all’Eterno. Lui ci ha fatto conoscere il volto del Padre, e così ci ha donato una speranza piena d’amore. Per questo, alla Madre del Signore la Chiesa si rivolge con queste parole: “Vita, dulcedo, et spes nostra”. Impariamo da lei a vivere e morire nella speranza che non delude.

[Papa Benedetto, Angelus 6 novembre 2011]

1. Cristo insegnava in parabole, che erano comprensibili per i suoi ascoltatori. Il loro contenuto poteva essere facilmente assimilato dall’immaginazione. Nello stesso tempo, il loro messaggio apriva l’animo di chi le ascoltava a un’altra realtà: il regno dei cieli. La realtà divina, soprannaturale. L’uomo è chiamato a questa realtà. È chiamato al regno di Dio, che inizia qui in terra, ma che troverà la sua realizzazione definitiva nell’eterna città di Dio, nel cielo. Il regno di Dio costituisce pure il futuro escatologico dell’uomo. Di esso Cristo è il testimone oculare: egli è sul trono del Padre, come Figlio consostanziale ed eterno.

Nella parabola delle dieci vergini, che abbiamo ascoltato, Gesù concentra la sua attenzione soprattutto sull’uomo invitato al banchetto celeste, chiamato a partecipare al futuro divino.

2. La parabola delle dieci vergini non cessa di essere attuale. Certamente oggi le tradizioni legate alla celebrazione del matrimonio hanno assunto forme esterne diverse. Tuttavia la parabola è sempre attuale. Si può dire che quanto in essa è raccontato accade anche ai nostri giorni. Accade qui a Napoli; accade nella città e in ognuno dei suoi quartieri; accade in ogni parrocchia, in ogni famiglia, in ogni uomo.

Di quali nozze si tratta? Chi è lo sposo a cui siamo chiamati ad andare incontro? La parabola ci permette di avvicinarci al mistero di Dio, espresso con l’immagine delle nozze. Si tratta delle nozze di Cristo: Egli è lo Sposo. È Sposo anzitutto in quanto Verbo incarnato: il Figlio di Dio ha sposato l’umanità, la nostra natura umana, facendosi uomo nel seno della Vergine Maria per opera dello Spirito Santo.

In virtù di queste prime nozze Cristo, Dio-Uomo, sposa tutti gli uomini: poiché per tutti si è fatto Uomo, per redimere e salvare tutti. Cristo è l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. La sua Sposa è la Chiesa, che egli ha istituito, perché cooperi con lui nell’opera della salvezza. È in essa che nascono e maturano i figli dell’adozione divina, chiamati a partecipare alla vita di Dio a somiglianza dell’eterno e unigenito Figlio.

6. Carissimi fratelli e sorelle, l’odierna liturgia ci ricorda che tutta la nostra vita è vigile preparazione all’incontro con lo Sposo. “Vegliate e state pronti”!

Qui dobbiamo scendere nell’intimo di ogni uomo. Il Salvatore ce ne mostra la via. In che consiste questo “vegliate” evangelico, in che consiste la disponibilità delle vergini sagge, di cui parla la parabola, se non appunto in ciò che il Salmo proclama? “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua” (Sal 62, 2).

La sensibilità verso Dio; la consapevolezza che egli è presente nel mondo, in questa città, in ciascuno di noi. “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17, 28). Da lui siamo usciti venendo alla luce. E la nostra vita è una via che non può condurre in nessun altro luogo se non a lui.

Siamo consapevoli che questa è la via della nostra vita? Ci siamo forse persi per luoghi scoscesi? O forse cominciamo ora a uscire da questa strada maestra? Siamo, forse, simili a quelle vergini della parabola che si assopirono e dormirono? Esse continuano a dormire e non avvertono la venuta dello sposo. Non c’è il rischio che nemmeno la potente scossa della sua morte e della sua risurrezione possa svegliarle?

Sì. Ammiriamo pure le opere del genio umano, ma i nostri occhi siano ben aperti per riconoscere le opere della divina Sapienza. Le nostre orecchie siano ben aperte per ascoltare la voce dello Sposo. Non lasciamo spegnere le nostre lampade, offuscate da una colluvie di informazioni che conducono verso il nulla. Esse non ci aprono le prospettive divine, anzi ci impediscono di percepire la voce dello Sposo e non ci fanno ascoltare la Chiesa che grida: “Andategli incontro!”.

7. Non possiamo restare nell’ignoranza. Non possiamo nemmeno restare nell’ignoranza circa quelli che muoiono (cf. 1 Ts 4, 13) . . . circa quelli che sono morti nelle vostre famiglie, nelle vostre parrocchie, nella vostra città. Novembre è il mese nel quale si ricordano i morti! Non possiamo restare nell’ignoranza. Non basta un’afflizione senza speranza.

L’umanità sembra oggi sottovalutare il significato della morte. Quando si svaluta il senso della morte, quando si svaluta anche quello della vita umana sin dal primo momento del concepimento, l’uomo cade in un sonno pericoloso. Cerca di assopirsi per non affrontare le responsabilità che gli derivano dalla grandezza della sua vocazione e dalla dignità conferitagli da Dio. Cerca di non percepire la voce dello Sposo! Novembre è il mese dei morti che vivono in Dio.

“Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risorto; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui” (1 Ts 4, 14). Vegliate! Ricordate che viviamo immersi nella Comunione dei santi. Manteniamoci quindi pronti - come le vergini sagge della parabola - ad entrare insieme con Cristo alle nozze del regno di Dio.

La voce della Chiesa ripete: “Ecco lo Sposo, andategli incontro!”. Vegliate, pertanto, e state pronti. Amen!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Napoli 11 novembre 1990]

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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