Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Mt 2,13-15,19-23)
Matteo 2:13 Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo».
Matteo 2:14 Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto,
Matteo 2:15 dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio.
Per prima cosa capiamo come funziona il potere: non vuole rendere omaggio al Re appena nato, ma vuole farlo fuori. È il Rivale, colui che può togliergli il potere e il trono. Il potere, pur di far fuori il Rivale, pur di mantenere il proprio dominio, è pronto a sacrificare la vita dei suoi sudditi. È qualcosa di aberrante; il potere avrebbe il compito di difendere la vita dei sudditi, invece Erode applica la sua strategia senza scrupolo, e fa fuori tutti i bambini pur di conservare il potere.
Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe. Ci sono molti sogni che accompagnano l’infanzia di Gesù: stanno a indicare l’iniziativa e la provvidenza divina che fa fallire i progetti di Erode. L'annuncio dell'angelo ci dice dell'intervento di Dio nella storia. Notiamo come questi sogni vengono dati a Giuseppe e non a Maria. Giuseppe è il responsabile dinanzi a Dio e agli uomini della Madre e del Bambino.
A lui il Signore si rivolge nel sogno e gli trasmette un ordine perentorio, da mettere subito in atto: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò". Giuseppe viene guidato nei minimi particolari. Lui deve andare in Egitto e rimanere là finché il Signore di nuovo non lo avvertirà che può fare ritorno. Perché la salvezza si possa compiere è necessario che l'ordine venga eseguito alla lettera. Il Signore nelle sue cose è perfetto. Se l'uomo, alla perfezione del Signore vi risponde con l’obbedienza, si compie la salvezza. Tutti i mali del mondo nascono quando nella perfezione di Dio si introduce l'insipienza della creatura, la quale osa pensare di essere più saggia di quanto invece non sia.
In questa circostanza l’Egitto è un luogo di protezione. A quei tempi la Sacra Famiglia poteva facilmente trovare da vivere in mezzo alle tante colonie giudaiche, la più grande delle quali era in Alessandria. Ma l’Egitto è anche il luogo doveva aveva avuto inizio la storia d’Israele come popolo di Dio. Il bambino Gesù dovrà ripartire dall’Egitto per entrare nella sua terra. Matteo quindi ripresenta teologicamente l’esodo che compiuto da Gesù, il Messia liberatore, porterà il popolo a una nuova terra di libertà, alla vera liberazione. Partirono di “notte” (v. 14). È un ricordo della liberazione che il popolo d'Israele sperimentò nella notte di Pasqua, descritta nel libro dell’Esodo. Come il popolo fuggì alla minaccia del faraone, così ora Giuseppe porta in salvo Gesù dalla minaccia di Erode.
La salvezza ha però sempre un costo in sofferenza, in sacrificio, in dolore. Senza voler fare un’apologia del dolore, il dolore serve a dare alla persona una santità sempre più grande. Il dolore, la sofferenza è il crogiolo che purifica il nostro spirito da tutte le incrostazioni e ci avvicina alla santità di Dio.
Senza il sacrificio non c'è vera obbedienza, perché la vera obbedienza genera sempre un sacrificio purificatore della vita. È il sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, di cui parla l'apostolo Paolo. Il male del mondo di oggi è proprio nella volontà satanica di abolire dalla nostra vita ogni abnegazione, ogni rinuncia. Si vuole tutto, subito, immediatamente. Si vuole concedere al corpo ogni vizio, all'anima ogni peccato, allo spirito ogni pensiero cattivo. Si vuole vivere in un mondo senza sacrificio, senza sofferenza (per questo prenderà sempre più piede l’eutanasia e l’uccisione di quanti sono ritenuti un peso morto per la società).
Si vuole vivere in un mondo senza alcuna privazione. Una volta si nasceva e si moriva in casa e c’era partecipazione nella famiglia della più grande gioia e della più grande tristezza, ma almeno il malato moriva con il conforto dei suoi. Si vuole vivere in un mondo che nasconde il mistero della morte e del dolore togliendolo dalle case, ignorando che proprio la vista del dolore è un momento forte di apertura alla fede.
Giuseppe e la famiglia sono rimasti in Egitto fino a dopo la morte di Erode. Matteo dice che questo è avvenuto in adempimento della profezia di Os 11,1 - "Fuor d’Egitto chiamai mio figlio" - il quale parla di tutt’altra cosa, e cioè dell’esperienza storica della nazione d’Israele: l’esodo dall’Egitto. Cosa centra il Messia? L'evangelista crea una sorta di aggancio parallelo tra gli eventi dell'antico Israele e quelli di Gesù, quasi a dire che in Gesù confluisce, in qualche modo, tutta la storia del popolo di Israele, da lui rivissuta nell'obbedienza e nella piena sottomissione al Padre. In altre parole, nell’esperienza analoga di Israele figlio di Dio, e del Messia figlio di Dio, entrambi in Egitto per necessità, ed entrambi liberati dalla provvidenza divina, Matteo vede Gesù che ricapitola la storia d’Israele di cui rivive l’esperienza nella sua propria persona.
Anzi, Gesù ricapitola in sé e attua tutta la storia della salvezza. Come l’uscita dall’Egitto era l’alba della redenzione, così l’infanzia di Gesù è l’alba dell’epoca messianica, e Matteo dimostra l’avverarsi delle Scritture in Gesù. Sarà da lui che uscirà un nuovo Israele, rigenerato dallo Spirito.
Tutto ciò che è prima di Cristo è solo immagine di ciò che il Signore avrebbe compiuto per mezzo di Gesù Cristo. Le vicende del popolo d’Israele erano una preparazione alla venuta del Messia, che rappresenta il punto di convergenza di tutta la Scrittura. Il vero Figlio di Dio è Gesù Cristo. Israele è solamente segno di quanto il Signore stava per operare per la salvezza dell'umanità. È questo il motivo per cui Matteo applica a Gesù Cristo tutto ciò che nell'Antico Testamento si riferiva a Israele.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
- Apocalisse – commento esegetico
- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?
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Natale del Signore 2025 [Messa della Notte]
Dio i benedica e la Vergine ci protegga. Ogni più caro augurio per questo santo Natale di Cristo. Offro alla vostra attenzione il commento dei testi biblici della messa della notte e del giorno.
*Prima Lettura dal libro del profeta Isaia (9,1-6)
Per capire il messaggio di Isaia in questo testo, bisogna leggere questo versetto, l’ultimo del capitolo 8 che lo precede direttamente: “Dio in passato umiliò la terra di Zabulon e di Neftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti”(v.23). Il testo non permette di stabilire con precisione la data della sua redazione, ma conosciamo due cose con certezza: A quale situazione politica si riferisce, anche se il testo può essere stato scritto più tardi. E conosciamo anche il senso della parola profetica, che vuole ravvivare la speranza del popolo. All’epoca evocata, il popolo era diviso in due regni: nel Nord Israele con capitale Samarìa, politicamente instabile. Al Sud il regno di Giuda, con capitale Gerusalemme, erede legittimo della dinastia davidica. Isaia predica nel Sud, ma i luoghi citati (Zabulon, Neftali, Galilea, via del mare, oltre il Giordano) appartengono al Nord. Queste zone – Galilea, via del mare, Transgiordania – hanno subito un destino particolare tra il 732 e il 721 a.C. Nel 732, il re assiro Tiglat-Pilèser III annette queste regioni. Nel 721, cade tutto il regno del Nord. Da qui l’immagine del “popolo che cammina nelle tenebre”, forse riferita alle colonne dei deportati. A questo popolo disfatto, Isaia annuncia un radicale rovesciamento: Dio farà sorgere una luce proprio nelle regioni umiliate. Perché queste promesse riguardano anche il Sud? Gerusalemme non è indifferente a ciò che accade al Nord: perché la minaccia assira incombe anche su di essa; perché lo scisma è vissuto come una ferita e si spera nella riunificazione del popolo sotto la casa di Davide. L’avvento di un nuovo re, le parole di Isaia («Una grande luce si è levata…») appartenevano al rituale del sacro regale: ogni nuovo re era paragonato a un’alba che porta speranza di pace e di unità. Isaia annuncia dunque: la nascita di un re (“Un bambino è nato per noi…”), chiamato “Principe della pace”, destinato a ridare forza alla dinastia davidica, e a riunificare il popolo. Questa certezza nasce dalla fede nel Dio fedele, che non può tradire le sue promesse. La profezia invita a non dimenticare le opere di Dio: Mosè ricordava: «Guardati dal dimenticare» Isaia diceva ad Acaz: «Se non crederete, non resterete saldi» (Is 7,9). La vittoria promessa sarà «come al giorno di Madian» (Gdc 7): la vittoria di Dio ottenuta attraverso un piccolo resto fedele con Gedeone. Il messaggio centrale é “Non temere: Dio non abbandonerà la casa di Davide”. Oggi potremmo dire: Non temere, piccolo gregge, Dio non abbandona il suo progetto di amore sull’umanità e la luce si crede nella notte.. Complemento storico: Quando Isaia annuncia queste promesse, il re Acaz ha appena sacrificato suo figlio agli idoli per paura della guerra, minando la stessa discendenza davidica. Ma Dio, fedele alle sue promesse, annuncia un nuovo erede che ristabilirà la linea di Davide: la speranza non è annullata dal peccato umano.
Elementi più importanti. +Il contesto: annessioni assire (732–721 a.C.) che devastano le regioni del Nord. +Le parole di Isaia sono una profezia di speranza per un popolo in tenebre.
+L’annuncio è legato al sacro regale: la nascita di un nuovo re davidico. +La promessa riguarda unità, pace e fedeltà di Dio al patto con Davide. +La vittoria sarà opera divina, come la vittoria di Gedeone. +Anche il peccato di Acaz non annulla il progetto di Dio: Dio resta fedele.
*Salmo responsoriale (95/96)
Del Salmo 95/96 la liturgia propone solo pochi versetti, ma l’intero salmo è attraversato da un fremito di gioia e di esultanza. Eppure fu composto in un tempo storico che non aveva nulla di esaltante: ciò che vibra non è l’entusiasmo umano, ma la fede che spera, quella speranza che anticipa ciò che ancora non si possiede. Il salmo ci proietta alla fine dei tempi, al giorno benedetto in cui tutti i popoli riconosceranno il Signore come unico Dio e vi porranno la loro fiducia. L’immagine è grandiosa: siamo nel Tempio di Gerusalemme. La spianata è colma di un’umanità sterminata, radunata “dal capo del mondo”. Tutti cantano all’unisono: «Il Signore regna!» Non è più l’acclamazione di Israele per un re terreno, ma il grido dell’umanità intera che riconosce il Re del mondo. E non solo l’umanità acclama: anche la terra trema, i mari mugghiano, le campagne e perfino gli alberi delle foreste danzano. La creazione intera riconosce il suo Creatore, mentre l’uomo spesso ci ha messo secoli per farlo. Il salmo contiene anche una critica all’idolatria: «i dèi delle nazioni sono un nulla». Nei secoli, i profeti hanno combattuto la tentazione di affidarsi a false divinità e false sicurezze. Il salmo ricorda che solo il Signore è il vero Dio, Colui che “ha fatto i cieli”. Il motivo per cui tutti i popoli ora accorrono a Gerusalemme è che la buona notizia ha finalmente raggiunto il mondo intero. E ciò è stato possibile perché Israele l’ha proclamata ogni giorno, raccontando le opere di Dio: la liberazione dall’Egitto, le liberazioni quotidiane dalle molte forme di schiavitù, il pericolo più grave: credere in falsi valori che non salvano. Israele ha ricevuto l’immenso privilegio di conoscere il Dio unico, come proclama lo Shema‘: «Il Signore è uno solo».
Ma l’ha ricevuto per annunciarlo: «A te è stato dato di vedere, perché tu sappia… e lo faccia sapere». Grazie a questo annuncio, la buona notizia è giunta “fino ai confini della terra” e tutti i popoli si radunano nella “casa del Padre”. Il salmo vive per anticipazione questa scena finale e, in attesa che si realizzi, Israele lo canta per rinnovare la sua fede, ravvivare la sua speranza e trovare la forza di continuare la missione affidatagli.
Elementi più importanti: +Il Salmo 95/96 è un canto di speranza escatologica: anticipa il giorno in cui tutta l’umanità riconoscerà Dio. +Il racconto descrive una liturgia cosmica: umanità e creazione insieme acclamano il Signore. +Forte denuncia dell’idolatria: i “dèi delle nazioni” sono un nulla. +Israele ha il compito di annunciare ogni giorno le opere di Dio e la sua liberazione. +La sua vocazione: conoscere l’unico Dio e farlo conoscere. +Il salmo è cantato come anticipazione del futuro, per mantenere viva la fede e la missione del popolo.
*Seconda Lettura dalle lettera di san Paolo a Tito (2,11-14) e per la messa dell’Aurora (3, 4-7)
Con il Battesimo siamo immersi nella grazia di Dio. I Cretesi avevano una pessima reputazione già prima del tempo di san Paolo. Un poeta del VI sec. a.C., Epimenide di Cnosso, li definiva “bugiardi per natura, bestie malvagie, ventri pigri”. Paolo cita questa frase e aggiunge: “Questo è vero!”. Ed è proprio, ben consapevole di questa umanità difficile, che Paolo ha fondato una comunità cristiana, poi affidata a Tito perché la organizzasse e la guidasse. La Lettera a Tito raccoglie le istruzioni del fondatore ai responsabili della giovane Chiesa di Creta. Molti studiosi ritengono che la lettera sia stata scritta verso la fine del I secolo, dopo la morte di Paolo, ma rispetta lo stile ed è fedele alla sua teologia. In ogni caso, le difficoltà dei Cretesi dovevano essere ancora molto attuali. La lettera — brevissima, appena tre pagine — contiene raccomandazioni concrete per tutte le categorie della comunità: anziani, giovani, uomini, donne, padroni, schiavi e anche i responsabili che sono ammoniti ad essere irreprensibili, ospitali, giusti, padroni di sé, lontani da violenza, avidità e ubriachezze. Una lunga lista di consigli che lascia intuire quanta strada ci fosse ancora da fare. Il passaggio teologico centrale della lettera— quello proclamato nella liturgia — spiega il fondamento di tutta la morale cristiana e cioè la vita nuova nasce dal Battesimo. Paolo lega i consigli morali a un affermazione decisiva: “La grazia di Dio si è manifestata per la salvezza di tutti”. Il messaggio è questo: Comportatevi bene, perché la grazia di Dio si è manifestata e ciò comporta che il cambiamento morale non è uno sforzo umano, ma una conseguenza dell’Incarnazione. Quando Paolo dice “la grazia si è manifestata” significa: Dio si è fatto uomo e con il Battesimo, immersi in Cristo, noi siamo rinati:salvati mediante il lavacro di rigenerazione e rinnovamento nello Spirito Santo (Tt 3,5). Non siamo salvati per meriti nostri, ma per misericordia e Dio ci chiede di essere di questo tutti testimoni. Il progetto di Dio è la trasformazione dell’umanità intera, radunata attorno a Cristo come un solo uomo nuovo. Questa meta sembra lontana e gli increduli la considerano un’utopia; ma i credenti sanno e confessano che è promessa da Dio, quindi è certezza. Per questo viviamo “nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.”. Le parole che il sacerdote pronuncia dopo il Padre Nostro nella Messa riprendono proprio questa attesa: “nell’attesa che si compia la beata speranza…”. Non è fuga dalla realtà, ma atto di fede: Cristo avrà l’ultima parola sulla storia. Questa certezza alimenta tutta la liturgia e la Chiesa vive già come un’umanità già riunita in Cristo e protesa verso il futuro per cui quando verrà la fine, si potrà dire: “Si levarono come un solo uomo, e quest’uomo era Gesù Cristo”.
Nota storica: Quando nacque la comunità cristiana di Creta? Due ipotesi: Durante il trasferimento di Paolo a Roma (At 27): la nave fece scalo a “Buoni Porti”, nel sud dell’isola. Ma gli Atti non parlano della fondazione di una comunità, e Tito non era presente. Durante un quarto viaggio missionario dopo la liberazione di Paolo: la prima prigionia a Roma fu probabilmente una “residenza sorvegliata”; liberato, Paolo avrebbe evangelizzato Creta proprio in questo ultimo viaggio.
Elementi importanti da ricordare: +I Cretesi erano considerati difficili, ma Paolo fonda comunque lì una comunità. +La Lettera a Tito contiene istruzioni concrete per strutturare la Chiesa nascente. +La morale cristiana nasce dall’Incarnazione e dal Battesimo, non da semplice sforzo umano. +Dio salva per misericordia e chiede testimonianza, non meriti. +Progetto di Dio: riunire l’umanità in Cristo come un solo uomo nuovo. +L’attesa della “beata speranza” è certezza e sostiene la vita liturgica.
*Dal Vangelo secondo Luca (2,1-14)
Isaia, annunciando tempi nuovi al re Acaz, parla dell’“amore geloso del Signore” come forza capace di realizzare la promessa (Is 9,6). Questa convinzione attraversa tutto il racconto della nascita di Gesù nel Vangelo di Luca. La notte di Betlemme risuona dell’annuncio degli angeli: “Pace agli uomini amati dal Signore” che sarebbe meglio dire “Pace agli uomini perché Dio li ama”. Non esistono infatti “uomini amati e altri non amati” perché Dio ama tutti, e a tutti fa dono della sua pace. Tutto il progetto di Dio è racchiuso in questa frase che Giovanni sintetizza così: “Dio ha tanto amato il mondo da donare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Di fronte a un Dio che si presenta come un neonato, non c’è nulla da temere: forse Dio ha scelto di nascere così perché cadessero per sempre le nostre paure nei suoi confronti. Come Isaia al suo tempo, anche l’angelo annuncia la nascita del Re atteso: “Oggi vi è nato un Salvatore, Cristo Signore, nella città di Davide.” È il figlio promesso nella profezia di Natan a Davide (2Sam 7): una discendenza stabile, un regno che dura per sempre. Per questo Luca insiste sulle origini di Giuseppe: egli appartiene alla casa di Davide e per il censimento sale a Betlemme, luogo indicato anche dal profeta Michea come patria del Messia, che sarà pastore del popolo e portatore di pace (Mi 5). Gli angeli annunciano dunque una “grande gioia”. Ma ciò che sorprende è il contrasto tra la grandezza della missione del Messia e la piccolezza , la minorità delle sue condizioni: l’“erede di tutte le cose” (Eb 1,2) nasce tra i poveri, nella penombra di una stalla; la Luce del mondo appare quasi nascondendosi volontariamente; la Parola che ha creato il mondo vuole imparare a parlare come ogni neonato. E in quest’ottica non stupisce che molti “non l’abbiano riconosciuto”. Il segno di Dio non sta nell’eccezionalità ma nella quotidianità semplice e povera: è lì che si manifesta il mistero dell’Incarnazione e i primi a riconoscerlo sono i piccoli e i poveri, perché Dio, il “Misericordioso”, si lascia attirare solo dalla nostra povertà. Chinarsi allora sulla mangiatoia di Betlemme significa imparare a somigliare a Lui, perché è da questa umile “cattedra” che il Dio onnipotente ci comunica il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12).
*Nota conclusiva. Il primogenito, termine giuridico, doveva essere consacrato a Dio e nel linguaggio biblico non significa che dopo Gesù siano venuti altri figli, ma che prima non c’era nessuno. Betlemme» significa letteralmente “casa del pane”; il Pane della vita viene donato al mondo. I titoli attribuiti a Gesù richiamano quelli attribuiti all’imperatore romano venerato come “dio” e “salvatore”, ma l’unico che può portare davvero questi titoli è il neonato di Betlemme.
Elementi principali da ricordare: +Isaia e l’“amore geloso del Signore”: la promessa di un re futuro (Is 9,6). +Annuncio degli angeli: “Pace agli uomini perché Dio li ama”. +Il cuore del Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). +Il neonato elimina ogni paura di Dio: Dio sceglie la via della fragilità. +Compimento delle promesse +Profezia di Natan a Davide (2Sam 7). +Profezia di Michea su Betlemme (Mi 5). +Giuseppe: discendenza davidica. +Contrasto sorprendente: grandezza del Messia vs. estrema povertà della nascita. +Titoli cristologici: “Erede di tutte le cose” (Eb 1,2). “Luce del mondo”. “Parola” che si fa bambino. +Il segno di Dio è la normalità povera: il mistero dell’Incarnazione nella vita quotidiana +I poveri e i piccoli lo riconoscono per primi. +La nostra vocazione: diventare figli di Dio (Gv 1,12) imitando la sua misericordia.
Sant’Ambrogio di Milano – Commento breve su Lc 2,1-14 “Cristo nasce in Betlemme, la “casa del pane”, perché si comprende fin dall’inizio che Egli è il Pane disceso dal cielo. La sua mangiatoia è il segno che sarà nostro nutrimento. Gli angeli annunciano la pace, perché dove c’è Cristo, lì c’è la pace vera. E sono i pastori i primi a ricevere la notizia: ciò significa che la grazia non si dona ai superbi, ma ai semplici. Dio non si manifesta nei palazzi dei potenti, ma nella povertà; insegna così che chi vuole vedere la gloria di Dio deve partire dall’umiltà”
Natale del Signore 2025 [Messa del Giorno]
*Prima Lettura dal libro del profeta Isaia (52,7-10)
Il Signore consola il suo popolo. Il grido: “Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme” colloca con precisione il testo di Isaia nel tempo dell’Esilio babilonese (587 a.C.), quando Gerusalemme fu distrutta dall’esercito di Nabucodonosor. La città devastata, la deportazione del popolo e la lunga attesa del ritorno avevano generato scoraggiamento e perdita di speranza. In questo contesto il profeta annuncia una svolta decisiva: Dio ha già agito. Le parole «Consolate, consolate il mio popolo» diventano certezza che il ritorno è imminente. Isaia immagina due figure simboliche:il messaggero, che corre per annunciare la buona notizia, la sentinella, che dalle mura di Gerusalemme vede avanzare il popolo liberato. Nel mondo antico il messaggero a piedi era l’unico mezzo di comunicazione rapida, mentre la sentinella vigilava dall’alto delle mura o delle colline. Così Isaia canta la bellezza dei passi di chi annuncia pace, salvezza e buona notizia. Non solo il popolo è salvato, ma anche la città sarà ricostruita: per questo perfino le rovine sono invitate alla gioia. La liberazione di Israele manifesta la potenza di Dio, che mostra “il suo braccio santo”. Come nell’Esodo dall’Egitto, Dio interviene con forza per riscattare il suo popolo. Isaia usa il termine “Ha riscattato Gerusalemme” (Go’el): Dio è il parente più prossimo che libera, non per interesse, ma per amore. Durante l’esilio il popolo matura una scoperta fondamentale: l’elezione di Israele non è privilegio esclusivo, ma missione universale. La salvezza di Dio è destinata a tutte le nazioni, affinché ogni popolo riconosca il Signore come Salvatore. Riletto alla luce del Natale, questo annuncio trova il suo compimento: Dio ha mostrato definitivamente il suo braccio santo in Gesù Cristo. Oggi la missione dei credenti è quella del messaggero: annunciare la pace, la buona notizia e proclamare al mondo che Dio regna.
Elementi più importanti nel testo: +Dio (il Signore) è il vero protagonista: Go’el, liberatore, re che ritorna a Sion. + Israele Popolo eletto, liberato dall’Esilio é chiamato a una missione universale. +Il messaggero è figura dell’annunciatore della buona notizia, della pace e della salvezza. +la sentinella, colui che vigila, riconosce i segni della salvezza e annuncia l’arrivo del Signore. +Gerusalemme (la città santa) distrutta ma destinata alla ricostruzione; simbolo del popolo restaurato.
*Salmo responsoriale (97/98)
Come sempre si proclama solo qualche versetto ma il commento abbraccia tutto il salmo che ha come tema: il popolo dell’Alleanza… al servizio dell’Alleanza dei popoli. Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”: è il popolo d’Israele che parla e che dice “nostro Dio”, affermando così il legame unico e privilegiato che lo unisce al Dio dell’universo. Tuttavia Israele ha compreso progressivamente che questa relazione non è un possesso esclusivo, ma una missione: annunciare l’amore di Dio a tutti gli uomini e introdurre l’umanità intera nell’Alleanza. Il salmo esprime chiaramente quelli che si possono definire “i due amori di Dio”: l’amore fedele per il suo popolo scelto, Israele; l’amore universale per tutte le nazioni, cioè per l’intera umanità. Da un lato si proclama che il Signore ha fatto conoscere la sua vittoria e la sua giustizia alle nazioni; dall’altro si ricorda la sua fedeltà e il suo amore verso la casa d’Israele, formule che richiamano tutta la storia dell’Alleanza nel deserto, quando Dio al Sinai si è rivelato come Dio di amore e di fedeltà (Es.19-24). L’elezione di Israele, quindi, non è un privilegio egoistico, ma una responsabilità fraterna: essere strumento perché tutti i popoli entrino nell’Alleanza. Come affermava André Chouraqui, il popolo dell’Alleanza è chiamato a diventare strumento dell’Alleanza dei popoli. Questa apertura universale è sottolineata anche dalla struttura letteraria del salmo, costruita secondo il procedimento dell’“inclusione”. La frase centrale, che parla della fedeltà di Dio verso Israele, è incorniciata da due affermazioni che riguardano tutta l’umanità: all’inizio le nazioni, alla fine tutta la terra. In questo modo il testo mostra che l’elezione di Israele è centrale, ma orientata a irradiare la salvezza su tutti. Durante la festa delle Capanne a Gerusalemme, Israele acclama il Signore come re, consapevole di farlo già a nome di tutta l’umanità, anticipando il giorno in cui Dio sarà riconosciuto come re di tutta la terra. Il salmo insiste così su una seconda dimensione fondamentale: la regalità di Dio. L’acclamazione non è un semplice canto, ma un vero grido di vittoria (teru‘ah), simile a quello che si lanciava sul campo di battaglia o nel giorno dell’incoronazione di un re. Il tema della vittoria ritorna più volte: il Signore ha vinto con il suo braccio santo e la sua mano potente, ha manifestato la sua giustizia alle nazioni e tutta la terra ha visto la sua vittoria. Questa vittoria ha un duplice significato. Da una parte richiama la liberazione dall’Egitto, primo grande atto salvifico di Dio, ricordato dalle immagini del braccio potente e delle meraviglie compiute nella traversata del mare. Dall’altra parte annuncia la vittoria finale ed escatologica, quando Dio trionferà definitivamente su ogni forza del male. Per questo l’acclamazione è piena di fiducia: a differenza dei re della terra, che deludono, Dio non delude. I cristiani, alla luce dell’Incarnazione, possono proclamare con ancora maggiore forza che il Re del mondo è già venuto e che il Regno di Dio, il Regno dell’amore, è già iniziato, anche se deve ancora compiersi pienamente.
Elementi importanti del testo: +Il rapporto privilegiato tra Israele e Dio,+ La missione universale di Israele al servizio dell’umanità. +I “due amori di Dio”: per Israele e per tutte le nazioni. +L’Alleanza come fedeltà e amore di Dio nella storia. +La struttura letteraria a “inclusione”. +La proclamazione della regalità di Dio e Il grido di vittoria (teru‘ah) e il linguaggio liturgico. +La memoria della liberazione dall’Egitto e L’attesa della vittoria definitiva di Dio alla fine dei tempi. +La rilettura cristiana alla luce dell’Incarnazione. +Il riferimento agli strumenti musicali del culto. + L’immagine della forza di Dio che, nel Natale, si manifesta nella fragilità di un bambino
*Seconda Lettura dalla lettera agli Ebrei (1,1-6)
L’affermazione “Dio aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti” mostra che la Lettera agli Ebrei si rivolge a Giudei divenuti cristiani. Israele ha sempre creduto che Dio si sia rivelato progressivamente al suo popolo: poiché Dio non è accessibile all’uomo, è Lui che prende l’iniziativa di farsi conoscere. Questa rivelazione avviene con una pedagogia graduale, simile all’educazione di un figlio, come ricorda il Deuteronomio: Dio educa il suo popolo passo dopo passo. Per questo, in ogni epoca, Dio ha suscitato profeti, considerati la “bocca di Dio”, che hanno parlato in modo comprensibile al loro tempo. Egli ha parlato «a molte riprese e in molti modi», formando il suo popolo nella speranza della salvezza. Con Gesù Cristo, però, si entra nel tempo del compimento. L’autore della Lettera agli Ebrei distingue due grandi periodi: il tempo precedente a Cristo e il tempo inaugurato da Cristo. In Gesù, il progetto misericordioso di salvezza di Dio trova il suo pieno compimento: il mondo nuovo è già iniziato. Dopo la risurrezione, i primi cristiani comprendono progressivamente che Gesù di Nazaret è il Messia atteso, ma in una forma inattesa. Le attese erano diverse: un Messia-re, un Messia-profeta, un Messia-sacerdote. L’autore afferma che Gesù è tutto questo insieme.
Gesù è il profeta per eccellenza: mentre i profeti erano la voce di Dio, Gesù è la Parola stessa di Dio, per mezzo della quale tutto è stato creato. Egli è il riflesso della gloria del Padre e la sua perfetta espressione: chi vede Lui, vede il Padre. Come sacerdote, Gesù ristabilisce l’Alleanza tra Dio e l’umanità. Vivendo una relazione filiale perfetta con il Padre, realizza la purificazione dei peccati. Il suo sacerdozio non consiste in riti esterni, ma in una vita totalmente donata nell’amore e nell’obbedienza al Padre. Gesù è anche il Messia-re. A Lui sono applicate le profezie regali: siede alla destra della Maestà divina ed è chiamato Figlio di Dio, titolo regale per eccellenza. Il suo regno supera quello dei re della terra: Egli è signore di tutta la creazione, superiore persino agli angeli, che lo adorano. Questo afferma implicitamente la sua divinità. Essere Cristo significa dunque essere profeta, sacerdote e re. Questo testo rivela anche la vocazione dei cristiani: uniti a Cristo, essi partecipano della sua dignità. Nel battesimo, il credente è reso partecipe della missione di Cristo come profeta, sacerdote e re. Il fatto che questo brano sia proclamato a Natale invita a riconoscere, nel bambino della mangiatoia, tutta questa profondità: Egli porta in sé il mistero del Figlio, del Re, del Sacerdote e del Profeta, e noi viviamo in Lui, con Lui e per Lui.
Elementi più importanti del testo: +La rivelazione progressiva di Dio. +Il ruolo dei profeti nella storia di Israele. +Gesù come compimento definitivo della rivelazione. +Cristo Parola di Dio e riflesso della sua gloria. +Cristo sacerdote che ristabilisce l’Alleanza. +Cristo re, Figlio di Dio e Signore della creazione. +L’unità delle tre funzioni: profeta, sacerdote e re. +La partecipazione dei cristiani a questa missione nel battesimo
*Dal Vangelo secondo Giovanni (1,1-18)
La creazione è il frutto dell’amore. “In principio”: Giovanni riprende volutamente il primo termine della Genesi («Bereshit»). Non indica una mera successione cronologica, ma l’origine e il fondamento di tutte le cose. “In principio era il Verbo” : tutto nasce dalla Parola, Parola d’amore, dal dialogo tra il Padre e il Figlio. Il Verbo è «rivolto verso Dio» (pros ton Theon), simboleggiando l’atteggiamento del dialogo: guardare l’altro negli occhi, aprirsi all’incontro. La creazione stessa è il frutto di questo dialogo d’amore tra Padre e Figlio, e l’uomo è creato per viverlo. Siamo frutto dell’amore di Dio, chiamati a un dialogo filiale con Lui. La storia umana mostra però la rottura di questo dialogo: il peccato originale di Adamo ed Eva rappresenta la sfiducia in Dio, che interrompe la comunione. La conversione, cioè il «fare mezzo giro», permette di riconciliare il dialogo con Dio. Il futuro dell’umanità è entrare nel dialogo. Cristo vive perfettamente questo dialogo con il Padre: Egli è il «Sì» dell’umanità al Padre. Attraverso di Lui, siamo reintrodotti nel dialogo originario, diventando figli di Dio per coloro che credono in Lui. La fiducia in Dio («credere») è il contrario del peccato: significa non dubitare mai dell’amore di Dio e guardare il mondo con i Suoi occhi. Il Verbo incarnato (Il Verbo si fece carne) mostra che Dio è presente nella realtà concreta, non bisogna fuggire dal mondo per incontrarlo. Come Giovanni Battista, anche noi siamo chiamati a testimoniare questa presenza nella vita quotidiana.
Elementi principali del testo: +La creazione come frutto del dialogo d’amore tra Padre e Figlio: + In principio indica origine e fondamento, non solo cronologia. +Il Verbo come Parola creatrice e principio del dialogo. +L’uomo creato per vivere il dialogo filiale con Dio
e La rottura del dialogo nel peccato originale. +La conversione come «mezzo giro» per riconciliare il rapporto con Dio. +Cristo come perfetto dialogo e «Sì» dell’umanità al Padre. +Diventare figli di Dio attraverso la fede. +La presenza di Dio nella realtà concreta e nella carne del Verbo. +La chiamata dei credenti a essere testimoni della presenza di Dio
Sant’Agostino, commentando il Prologo di Giovanni, scrive: “Il Verbo non è stato creato; il Verbo era presso Dio e tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Non è solo un messaggio, ma la stessa Sapienza e Amore di Dio che comunica se stesso agli uomini”. Agostino sottolinea così che la creazione e l’umanità non sono un accidente, ma il frutto dell’amore eterno di Dio e che l’uomo è chiamato a rispondere a questo amore nel dialogo con Lui.
+ Giovanni D’Ercole
Collocarsi negli eventi di persecuzione
(Mt 10,17-22)
Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.
In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.
Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.
Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.
L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.
Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.
Non saremo sull’altro lato. Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.19-20).
Mt intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.
Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (vv.16-18).
I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.
Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.
Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.
Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.
In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.
Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco.
Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.
Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.
È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.
Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.22b).
La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.
Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione?
Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?
[S. Stefano protomartire, 26 dicembre]
Cari fratelli e sorelle!
All’indomani del Natale, la liturgia ci fa celebrare la "nascita al cielo" del primo martire, santo Stefano. "Pieno di fede e di Spirito Santo" (At 6,5), egli fu scelto come diacono nella Comunità di Gerusalemme, insieme con altri sei discepoli di cultura greca. Con la forza che gli veniva da Dio, Stefano compiva numerosi miracoli ed annunciava nelle sinagoghe il Vangelo con "sapienza ispirata". Fu lapidato alle porte della città e morì, come Gesù, invocando il perdono per i suoi uccisori (At 7,59-60). Il legame profondo che unisce Cristo al suo primo martire Stefano è la Carità divina: lo stesso Amore che spinse il Figlio di Dio a spogliare se stesso e a farsi obbediente fino alla morte di croce (cfr Fil 2,6-8), ha poi spinto gli Apostoli e i martiri a dare la vita per il Vangelo.
Bisogna sempre rimarcare questa caratteristica distintiva del martirio cristiano: esso è esclusivamente un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori. Perciò noi oggi, nella santa Messa, preghiamo il Signore che ci insegni "ad amare anche i nostri nemici sull’esempio di [Stefano] che morendo pregò per i suoi persecutori" (Orazione "colletta"). Quanti figli e figlie della Chiesa nel corso dei secoli hanno seguito questo esempio! Dalla prima persecuzione a Gerusalemme a quelle degli imperatori romani, fino alle schiere dei martiri dei nostri tempi. Non di rado, infatti, anche oggi giungono notizie da varie parti del mondo di missionari, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose e fedeli laici perseguitati, imprigionati, torturati, privati della libertà o impediti nell’esercitarla perché discepoli di Cristo e apostoli del Vangelo; a volte si soffre e si muore anche per la comunione con la Chiesa universale e la fedeltà al Papa. Nella Lettera Enciclica Spe salvi (cfr n. 37), ricordando l’esperienza del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin (morto nel 1857), faccio notare che la sofferenza è trasformata in gioia mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. Il martire cristiano, come Cristo e mediante l’unione con Lui, "accetta nel suo intimo la croce, la morte e la trasforma in un’azione d’amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto d’amore che si dona totalmente. La violenza così si trasforma in amore e quindi la morte in vita" (Omelia a Marienfeld - Colonia, 21 agosto 2005). Il martire cristiano attualizza la vittoria dell’amore sull’odio e sulla morte.
Preghiamo per quanti soffrono a motivo della fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Maria Santissima, Regina dei Martiri, ci aiuti ad essere testimoni credibili del Vangelo, rispondendo ai nemici con la forza disarmante della verità e della carità.
[Papa Benedetto, Angelus 26 dicembre 2007]
Fratelli e figli carissimi!
Mi è caro, anche quest’oggi, rivolgermi a voi, che siete qui convenuti per la preghiera dell’Angelus nel clima così tipico ed intimo del santo Natale. Oggi, infatti, il Natale continua la sua salutare e tonificante atmosfera, ed in essa ancora respirano le nostre anime per il senso di perdurante meraviglia e stupore dinanzi al grande evento che si è verificato e che, inesauribile nella sua efficacia, si proietta nell’intero corso del tempo. Intendo l’evento o, più esattamente, il mistero del Figlio di Dio che nasce a Betlemme come Figlio dell’uomo, per farsi a noi fratello e per noi salvatore.
Tanto augusto ed insondabile è un tale mistero, che noi non lo mediteremo mai abbastanza. Per questo, la Chiesa nella sua sapienza liturgica e catechetica ce lo ripropone ogni anno, per una commemorazione che si prolunga per non pochi giorni e si articola in uno speciale ciclo che chiamiamo “ciclo liturgico natalizio”.
2. E desidero venerare insieme con voi santo Stefano, primo martire cristiano, così come lo fa la Chiesa il giorno dopo la solennità del Natale.
“Ieri abbiamo celebrato la nascita temporale dell’eterno nostro re; oggi celebriamo la passione gloriosa di un suo soldato. Difatti, ieri il nostro re, rivestito della nobile veste della sua carne, uscendo dalla reggia del seno verginale, si è degnato di far visita al mondo; oggi un suo soldato, lasciando la tenda del corpo, è salito da trionfatore nel cielo”. Sono queste le suggestive espressioni di un santo della Chiesa antica, san Fulgenzio (S. Fulgenzio, Sermo 3, 1), ed esse conservano intatto il loro significato perché enucleano un rapporto non soltanto di continuità liturgica tra la festa di Natale e quella del protomartire, ma anche soprattutto di intrinseco collegamento nell’ordine della santità e della grazia. Cristo, re della storia e redentore dell’uomo, si pone al centro di quell’itinerario verso la perfezione, a cui chiama l’uomo, ogni uomo.
Mentre veneriamo santo Stefano e l’invitto suo esempio di testimone di Cristo, quale egli si dimostrò con la parola animosa, con la premura nel servizio dei poveri, con la sua costanza durante il processo e, soprattutto, con la sua morte eroica, noi vediamo che la sua figura s’illumina e s’ingigantisce nella luce del suo Signore e maestro, che volle seguire nel sacrificio supremo. È il Signore Gesù che solo dà il soccorso ed il conforto necessario alle anime per esser fedeli fino alla morte.
Da ciò deriva una preziosa lezione per noi: guardando a Stefano nella prospettiva del Natale, noi dobbiamo raccogliere il suo esempio ed il suo insegnamento, i quali univocamente ci riportano a Cristo che, nato nella grotta di Betlemme, è già incamminato - nell’intenzione finalistica dell’opera redentiva - verso il colle del Calvario. Fatti da lui figli di Dio, chiamati a vivere da figli di Dio, saremo anche noi coronati come Stefano lassù, nella patria, se saremo fedeli.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 26 dicembre 1980]
Si celebra oggi la festa di Santo Stefano, primo martire. Il Libro degli Atti degli Apostoli ci parla di lui (cfr cap. 6-7) e nella pagina della liturgia di oggi ce lo presenta nei momenti finali della sua vita, quando viene catturato e lapidato (cfr 6,12; 7,54-60). Nel clima gioioso del Natale, questa memoria del primo cristiano ucciso per la fede potrebbe apparire fuori luogo. Tuttavia, proprio nella prospettiva della fede, l’odierna celebrazione si pone in sintonia con il vero significato del Natale. Nel martirio di Stefano, infatti, la violenza è sconfitta dall’amore, la morte dalla vita: egli, nell’ora della testimonianza suprema, contempla i cieli aperti e dona ai persecutori il suo perdono (cfr v. 60).
Questo giovane servitore del Vangelo, pieno di Spirito Santo, ha saputo narrare Gesù con le parole, e soprattutto con la sua vita. Guardando a lui, vediamo realizzarsi la promessa di Gesù ai suoi discepoli: “Quando vi maltratteranno per causa mia, lo Spirito del Padre vi darà la forza e le parole per dare testimonianza” (cfr Mt 10,19-20). Alla scuola di Santo Stefano, diventato simile al suo Maestro sia nella vita sia nella morte, anche noi fissiamo lo sguardo su Gesù, testimone fedele del Padre. Impariamo che la gloria del Cielo, quella che dura per la vita eterna, non è fatta di ricchezze e potere, ma di amore e donazione di sé.
Abbiamo bisogno di tenere lo sguardo fisso su Gesù, «autore e perfezionatore della nostra fede» (Eb 12,2), per poter rendere ragione della speranza che ci è stata donata (cfr 1Pt 3,15), attraverso le sfide e le prove che dobbiamo affrontare quotidianamente. Per noi cristiani, il cielo non è più lontano, separato dalla terra: in Gesù, il Cielo è disceso sulla terra. E grazie a Lui, con la forza dello Spirito Santo, noi possiamo assumere tutto ciò che è umano e orientarlo verso il Cielo. Così che la prima testimonianza sia proprio il nostro modo di essere umani, uno stile di vita plasmato secondo Gesù: mite e coraggioso, umile e nobile, non violento.
Stefano era diacono, uno dei primi sette diaconi della Chiesa (cfr At 6,1-6). Egli ci insegna ad annunciare Cristo attraverso gesti di fraternità e di carità evangelica. La sua testimonianza, culminata nel martirio, è fonte di ispirazione per il rinnovamento delle nostre comunità cristiane. Esse sono chiamate a diventare sempre più missionarie, tutte protese all’evangelizzazione, decise a raggiungere gli uomini e le donne nelle periferie esistenziali e geografiche, dove più c’è sete di speranza e di salvezza. Comunità che non seguono la logica mondana, che non mettono al centro sé stesse, la propria immagine, ma unicamente la gloria di Dio e il bene della gente, specialmente dei piccoli e dei poveri.
La festa di questo primo martire Stefano ci chiama a ricordare tutti i martiri di ieri e di oggi, - oggi sono tanti! - a sentirci in comunione con loro, e a chiedere a loro la grazia di vivere e morire con il nome di Gesù nel cuore e sulle labbra. Maria, Madre del Redentore, ci aiuti a vivere questo tempo di Natale fissando lo sguardo su Gesù, per diventare ogni giorno più simili a Lui.
[Papa Francesco, Angelus 26 dicembre 2019]
IV Domenica di Avvento (anno A) [21 Dicembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Ci avviciniamo al Natale e la Parola di Dio ci ricorda la fedeltà del Signore anche quando l’infedeltà del suo popolo potrebbe stancarlo. (prima lettura). Il vangelo ci fa incontrare san Giuseppe, l’uomo che nel silenzio accetta e compie la sua missione di padre del Figlio di Dio
*Prima Lettura dal libro del profeta Isaia (7,10-14)
Siamo intorno al 735 a.C. il regno di David è da due secoli diviso in due stati: Samaria al Nord e Gerusalemme al Sud, dove regna Achaz, un giovane re di vent’anni. La situazione politica è drammatica: l’impero assiro, con capitale Ninive, domina la regione; i re di Damasco e Samaria, già sconfitti dagli Assiri, ora si ribellano e assediano Gerusalemme per sostituire Achaz con un sovrano alleato. Il re si lascia prendere dal panico: “il cuore del re e il cuore del popolo si agitarono come gli alberi della foresta per il vento” (Is 7,2). Il profeta Isaia lo invita alla calma e alla fede: Dio ha promesso di mantenere viva la dinastia di David; la stabilità dipende dalla fiducia nel Signore: se non crederete, non resterete saldi. Achaz però non ascolta: si rivolge agli idoli e arriva a compiere un gesto atroce e proibito dai profeti, sacrificando il figlio unico facendolo passare per il fuoco (cf.2Re 16,3). Poi decide di chiedere aiuto all’Assiria, scelta che comporta la perdita dell’indipendenza politica e religiosa. Isaia vi si oppone duramente: è un tradimento dell’Alleanza e della liberazione iniziata con Mosè. In questo contesto Isaia offre un segno: “Chiedi per te un segno dal Signore tuo Dio”. Achaz risponde ipocritamente fingendo per umiltà di non chiederlo per non tentare il Signore, mentre ha già deciso di affidarsi all’Assiria. Isaia replica piuttosto duramente dicendo di non stancare “il mio Dio”, quasi a indicare che Achaz si pone ormai fuori dall’Alleanza. Nonostante l’infedeltà del re, Dio rimane fedele e, dice Isaia, “il Signore stesso vi darà un segno”: la giovane donna (la regina) è incinta e il figlio si chiamerà Emmanuele, “Dio con noi”. Questo messaggio di Isaia è uno dei testi classici del messianismo biblico. Né i nemici, né il peccato del re potranno annullare la promessa fatta da Dio a David. Il bambino – probabilmente il futuro re Ezechia – saprà scegliere il bene grazie allo Spirito del Signore, e prima ancora che cresca, la minaccia di Samaria e Damasco sparirà. Infatti, poco dopo, i due regni vengono annientati dagli Assiri. La libertà degli uomini resta intatta, e anche Ezechia commetterà errori; ma la profezia di Isaia afferma che nulla può impedire la fedeltà di Dio verso la discendenza di David. Per questo, nei secoli, Israele attenderà un re che realizzi pienamente il nome di Emmanuele. La nascita del bambino è più di una buona notizia: è annuncio di perdono. Sacrificando il proprio figlio al dio Moloch, Achaz ha compromesso la promessa fatta a David; ma Dio non ritira il suo impegno. La nascita del nuovo erede mostra che la fedeltà di Dio supera l’infedeltà degli uomini.Il “segno” assume così un’altra incoraggiante dimensione messianica che vediamo meglio nel vangelo di questa domenica.
Elementi importanti da ricordare: +Contesto storico: 735 a.C., regno diviso, minacce da Siria, Samaria e Assiria. +Panico di Achaz e invito di Isaia alla fede. +Infedeltà grave del re: idolatria e sacrificio del figlio. +Scelta politica sbagliata: alleanza con l’Assiria. +Il segno di Isaia: nascita del bambino chiamato Emmanuele. +Compimento immediato: distruzione di Siria e Samaria da parte dell’Assiria. +Tema centrale: l’infedeltà degli uomini non annulla la fedeltà di Dio. +La nascita come annuncio di perdono e continuità della promessa davidica.
Salmo responsoriale (23/24, 1-2. 3-4. 5-6)
Il salmo ci porta al tempio di Gerusalemme: una grande processione arriva alle porte e due cori dialogano chiedendo: “Chi potrà salire sul monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?” L’immagine richiama Isaia che descrive il Dio tre volte santo come un fuoco divorante davanti al quale nessuno potrebbe “stare” senza il suo aiuto. Il popolo d’Israele ha scoperto che questo Dio totalmente “Altro” si fa anche il Dio totalmente “vicino”, permettendo all’uomo di restare alla sua presenza. La risposta del salmo è: “Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli”. Non si tratta prima di tutto di moralismo, perché il popolo sa di essere ammesso davanti a Dio per grazia, non per merito proprio. Qui “cuore puro” significa un cuore non mescolato, rivolto unicamente al Dio unico; “mani innocenti” sono mani che non hanno offerto sacrifici agli idoli. L’espressione “non si rivolge/letteralmente non eleva l’anima”» indica non rivolgersi a divinità vuote: “elevare gli occhi” nella Bibbia significa invocare, pregare, riconoscere qualcuno come Dio. Questo versetto richiama la grande lotta dei profeti contro l’idolatria. Isaia aveva già contrastato Achaz nel VIII secolo; e anche durante l’Esilio a Babilonia, il popolo – immerso in una cultura politeista – fu tentato di tornare agli idoli. Il salmo, cantato dopo l’Esilio, ricorda che la prima condizione dell’Alleanza è restare fedeli al Dio unico. Cercare il volto di Dio è un’immagine ripresa dal linguaggio della corte: solo chi è fedele al Re può essere ammesso alla sua presenza. Gli idoli sono definiti “dei vuoti”: il salmo 115 descrive magistralmente la loro nullità – hanno occhi, bocca, mani, ma non vedono, non parlano, non agiscono. A differenza di queste statue, Dio è vivente e opera davvero. La fedeltà al Dio unico è quindi la condizione per ricevere la benedizione promessa ai padri e per entrare nel suo progetto di salvezza. Per questo Gesù dirà: “Nessuno può servire due padroni” (Mt 6,24).
Questa fedeltà, però, non resta astratta: trasforma concretamente la vita. Il cuore puro diventa un cuore di carne capace di eliminare odio e violenza; le mani innocenti diventano mani incapaci di fare il male. Il salmo dice: “Egli otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza”: significa sia conformarsi al progetto di Dio, sia vivere relazioni giuste con gli altri. Qui si intravede già la luce delle Beatitudini: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio… beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”. L’espressione alzare gli occhi, qui espressa con “chi non si rivolge agli idoli”(v.4) ritorna in Zaccaria e nel Vangelo di Giovanni: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), segno di un nuovo incontro con Dio.
Elementi importanti da ricordare: +Scena del tempio con il dialogo dei cori. +Dio tre volte santo e insieme vicino: permette all’uomo di “stare” davanti a Lui. +“Cuore puro” e “mani innocenti” come fedeltà al Dio unico, non idolatria e lotta continua dei profeti contro le idolatrie (Achaz, Esilio). +Idoli come “dei vuoti”; critica del salmo 115. +Fedeltà al Dio unico come prima condizione dell’Alleanza che ha come conseguenze etiche la vita giusta, un cuore rinnovato, mani non violente.
Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai romani (1,1-7)
San Paolo apre la lettera ai Romani riassumendo tutta la fede cristiana: le promesse contenute nelle Scritture, il mistero di Cristo, la sua nascita e la sua risurrezione, l’elezione gratuita del popolo santo e la missione degli Apostoli verso le nazioni pagane. Scrivendo a una comunità che non ha ancora incontrato, Paolo si presenta con due titoli: “servo di Gesù Cristo e apostolo per chiamata”, cioè inviato, uno che agisce per mandato. Subito attribuisce a Gesù il titolo di Cristo, che significa Messia: dire “Gesù Cristo” equivale a professare che Gesù di Nazaret è il Messia atteso. Paolo afferma di essere stato “scelto per annunciare il Vangelo di Dio”, la Buona Notizia: annunciare il Vangelo significa annunciare che il progetto di Dio è totalmente benevolo e che questo progetto si compie in Gesù Cristo. Questa Buona Notizia, dice Paolo, era già stata promessa nei profeti. Senza l’Antico Testamento non si comprende il Nuovo perché il disegno di Dio è unico, rivelato progressivamente lungo la storia. La Risurrezione del Cristo é il centro della storia, il cuore del progetto divino fin dall’origine, come Paolo ricorda anche nella lettera agli Efesini, dove parla della volontà di Dio di ricapitolare tutte le cose in Cristo (Ef 1,9-10). “Secondo la carne”: Gesù è discendente di Davide, quindi vero uomo e Messia. “Secondo lo Spirito”: Gesù ,è costituito Figlio di Dio “con potenza” attraverso la sua Risurrezione e nella Risurrezione Dio lo intronizza come Re dell’umanità nuova. Per Paolo, questo è l’evento che cambia la storia perché “se Cristo non è risorto, è vana anche la vostra fede”(cf.1Cor 15,14). Per questo annuncia ovunque la Risurrezione, affinché “il nome di Gesù Cristo sia riconosciuto”, come scrive anche nella lettera ai Filippesi (2,9-11), Dio gli ha dato il Nome sopra ogni altro nome, quello stesso di “Signore”. Paolo sente che la sua missione apostolica è “suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti”. L’“obbedienza” non è servilismo, ma ascolto fiducioso: è l’atteggiamento del figlio che si fida dell’amore del Padre e accoglie la sua Parola. Paolo conclude con un suo augurio tipico: “Grazia a voi e pace da Dio” che è quanto viene espresso nella benedizione sacerdotale del libro dei Numeri: la grazia e la pace vengono sempre da Dio, ma tocca all’uomo accoglierle liberamente.
Elementi più importanti d ricordare: +Sintesi della fede cristiana: le promesse si realizzano in Cristo, nella Risurrezione, elezione e missione. +Titoli di Paolo sono servo e apostolo mentre il Titolo “Cristo” è “Messia”,che è una professione di fede; +Vangelo è il progetto misericordioso di Dio compiuto in Cristo. +Unità tra Antico e Nuovo Testamento e Cristo nella sua identità “Secondo la carne” e “secondo lo Spirito”: è al centro del disegno di Dio fin dall’origine. +La Risurrezione è l’evento decisivo. e l”obbedienza della fede” è l’ ascolto fiducioso. + Benedizione finale: grazia e pace, nella libertà dell’uomo.
Dal Vangelo secondo Matteo (1,18-24)
Matteo apre il suo Vangelo con l’espressione: “Genealogia di Gesù Cristo”, il libro cioè della genesi di Gesù Cristo e presenta una lunga genealogia che dimostra la discendenza davidica di Giuseppe. Seguendo la formula “A generò B”, Matteo giunge a Giuseppe, ma rompe lo schema: non può dire “Giuseppe generò Gesù”, l’evangelista scrive invece: “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo” (Mt 1,16). Questa formula mostra che la genealogia subisce una svolta: perché Gesù sia inserito nella linea di Davide non basta la sua nascita, ma occorre che Giuseppe lo adotti. Il Figlio di Dio, in un certo senso, si consegna alla libertà di un uomo: il progetto divino dipende dal “sì” di Giuseppe. Conosciamo bene l’Annunciazione a Maria nel Vangelo di Luca, ampiamente rappresentata nell’arte. Molto meno rappresentata invece è l’Annunciazione a Giuseppe, benché sia decisiva: la storia umana di Gesù inizia grazie alla libera accoglienza di un uomo giusto. L’angelo chiama Giuseppe “figlio di Davide” e gli rivela il mistero della filiazione di Gesù: concepito dallo Spirito Santo, e tuttavia riconosciuto come suo figlio. “Non temere di prendere con te Maria tua sposa” significa che Gesù entrerà nella casa di Giuseppe, e sarà lui a imporgli il nome. Matteo spiega anche il significato del nome Gesù: significa “Il Signore salva”. La sua missione non è solo liberare Israele da un potere umano, ma salvare il suo popolo dai peccati. Nella tradizione ebraica, l’attesa del Messia includeva un rinnovamento totale: nuova creazione, giustizia e pace. Tutto questo Matteo lo vede racchiuso nel nome di Gesù. Il testo precisa: “il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. I racconti della concezione verginale sono due: questo di Matteo (Annunciazione a Giuseppe) e quello di Luca (Annunciazione a Maria). La Chiesa confessa questa verità come articolo di fede: Gesù è insieme vero uomo, nato da una donna, inserito nella discendenza di Davide grazie alla libera scelta di Giuseppe; e vero Figlio di Dio, concepito dallo Spirito Santo. Matteo collega il tutto alla profezia di Isaia: “La vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa“Dio-con-noi””. La traduzione greca di Isaia (Settanta), che Matteo cita, usa il termine «vergine» (parthenos), mentre il testo ebraico usa almah che indica “giovane donna” non ancor sposata: già la traduzione antica rifletteva la convinzione che il Messia sarebbe nato da una vergine. Matteo insiste: il bambino si chiamerà Gesù (il Signore salva), ma il profeta lo chiama Emmanuele (Dio-con-noi). Non è una contraddizione: alla fine del Vangelo di Matteo Gesù dirà: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”(Mt28,20). Il suo nome e la sua missione coincidono: salvare significa essere con l’uomo, accompagnarlo, non abbandonarlo mai. Giuseppe ha creduto e accolto la presenza di Dio. Come Elisabetta disse a Maria: “Beata colei che ha creduto” (Lc 1,45), allo stesso modo possiamo dire: «Beato Giuseppe che ha creduto: grazie a lui Dio ha potuto realizzare il suo disegno di salvezza». Matteo usa per due volte la parola «genesi» (Mt 1,1.18), come nel libro della Genesi quando si parla della discendenza di Adamo. Questo suggerisce che in Gesù si ricapitola l’intera storia umana: egli è il Nuovo Adamo, come dirà san Paolo.
Elementi più importanti da ricordare: Ruptura nella genealogia: Gesù non è “generato” da Giuseppe ma per adozione realizza il progetto della salvezza. +Libertà di Giuseppe fondamentale nel compimento del disegno divino. +Titolo “figlio di Davide” e ruolo giuridico di Giuseppe. +Nome di Gesù = “Il Signore salva” missione di salvezza dai peccati. +Concezione verginale: mistero di fede, vero uomo e vero Figlio di Dio. +Citazione di Isaia 7,14 secondo la traduzione greca (“vergine”). +Gesù e Emmanuele: salvezza come presenza costante di Dio. +Parallelo con la beatitudine di Elisabetta: fede di Giuseppe. +Gesù come “Nuovo Adamo” secondo il richiamo alla “genesi”.
Commento di Sant’Agostino, Sermone 51, sull’Incarnazione
“Giuseppe fu più grande nel silenzio che molti nella parola: credette all’angelo, accolse il mistero, protesse ciò che non comprendeva pienamente. In lui vediamo come la fede non consiste nel capire tutto, ma nel fidarsi di Dio che opera in segreto.” Agostino sottolinea così il ruolo unico di Giuseppe: la sua fede è obbedienza fiduciosa; accoglie Cristo senza possederlo; diventa custode del mistero che salva il mondo.
+Giovanni D’Ercole
(Natale di Lc)
Non avrebbe senso mettere una torta farcita di candeline, davanti al Presepe. Inneggiamo ben altra Meraviglia: la scoperta di un Tesoro, nascosto dietro i nostri lati oscuri.
Natale non è una ricorrenza o compleanno, ma un evento di Rivelazione del Volto divino: non Padrone assoluto, ma povero nudo e disarmato tra gente qualsiasi, adagiato su luogo impuro.
Ci sentiamo “malfatti”? Siamo sulla strada giusta - che non è quella dei controlli esasperati.
Dio non si è “fatto superuomo”, bensì «Carne». Realtà che il Padre fa respirare, abbraccia e recupera - illumina e non scarta.
Senso del Natale è lasciare che tutte le incerte ma irripetibili implicazioni dell’imperfezione ci attraversino. Non come una colpa.
I punti “deboli” e le eccentricità diverranno punti di forza.
C’è bisogno di tempo imprevedibile, per tracciare la via della crescita - percorso inatteso; e Dio lo accetta.
Incarnazione è un’irruzione d’Eternità fra le nostre mura e le crisi, Imprevisto sognante che investe le periferie e non pone distanze.
Nei pastori - che siamo noi - i grezzi, supplenti e impuri, diventano incaricati prioritari.
Giudizio stridente rispetto all’effimero autentico: quello delle opinioni cerimoniali.
Non è una redenzione estrinseca, mirata solo per i disadattati della società, beninteso. Ci riguarda.
Sotto la momentanea scorza delle nostre “cose certe” briga un seme che farà il nostro nuovo Bimbo.
Il Gesù interiore vuole essere allattato, custodito, nutrito, affinché cresca secondo un Disegno intimo, un processo di Esodo sacro (ma non protetto) che salva.
Mistero che non è a portata naturale esterna, perché in sintonia con la Chiamata per Nome, con l’irripetibile carattere vitale innato, anche poliedrico - il quale non va spento.
Lo sviluppo delle emozioni, d’inclinazioni e passioni, delle nostre Radici, non va disturbato da tare di pensiero, da cappe di consuetudini, o condizionamenti.
[Persino le accelerazioni intralciano l’evoluzione: ad es. la voglia di affrontare l’insufficienza, onde risolverla immediatamente].
In generale, nuoce la battaglia che allestiamo con noi stessi per essere accettati - conformi al contorno.
Ma così l’impegno è a sedersi in una armatura che non ci appartiene.
Giorno dopo giorno una Fiamma sta partorendo un altro e differente Infante - in apparenza contraddittorio, squilibrato, malfermo, intaccato.
Questo gagliardo adolescente non gode di programmi laceranti, bensì d’una consapevolezza di Fede: il Creatore vuole passeggiare-con le nostre difformità.
C’è un Gesù intimo, forse non ancora svezzato: ci sorride sereno e a braccia aperte.
Non c’è verità più bella che nella vertigine di poter partorire ed esprimere il Piccolo nascosto che ciascuno è nel volto dell’anima.
Nell’ultima sua Veglia di Natale Paolo VI tenne a sottolineare che nell’arrivo del Verbo «Ciascuno può dire: per me!».
Questo Tempo ci aiuti a comprendere tale dimensione personale; non siamo coloro che devono lottare contro se stessi.
Per un Natale ch’è già Pasqua. Il bozzolo bucato farà la nostra Farfalla.
Maria, l’Arte della Percezione che rompe gli schemi
(Lc 2,19) (Lc 1,26-38)
Per una vita dall’Io autentico al Culmine sconosciuto
«Ora, Maria conservava e custodiva tutte - proprio tutte - queste parole-evento, mettendole insieme e comparandole nel suo cuore» [senso del testo greco].
Cosa ne era di lei, del Figlio e di tutti gli altri?
Voleva capire le affinità essenziali - con l'anima e altrove: il senso degli strani e semplici accadimenti. Regola d’oro anche per noi.
Nel ritratto di Gesù che allattava, il suo silenzio non permaneva collocato - e non si lasciava demotivare: scavando.
Per questo conosceva ben più cose espressive di tante menti - sublimi eppure incapaci di uscire dagli automatismi, già allagate di dottrine e tradizioni ragguardevoli.
Siamo volentieri anche noi lì, con Maria; in una cultura che c’invade i sensi e inquina l'anima di opinioni rumorose, di modelli apparentemente eloquenti ma che mettono in ginocchio: stressanti e futili.
Tutte riproduzioni enfatiche, d’impatto - ma esterne.
Eppure debordano nell’intimo, e malgrado le apparenze scintillanti, chiudono la personalità in uno spazio ristretto, di abitudini malsane, solo da esibire.
Ci costringiamo infatti a correre da una parte all’altra, spesso a recitare prototipi. Appunto, intrigati a forza da piani, organigrammi e pensieri, anche devoti, i quali divengono però forme di banalizzazione personale e sociale.
Ci stiamo abituando alla paura del nostro lato discreto, riservato, non pettegolo, appartato, nascosto, tutto nostro e vicino alla Fonte: in una parola, custode della Chiamata per Nome - che vuol fare pausa per tornare all’Ascolto antico del nuovo.
Un lato che ancora non conosciamo: esso non ha mai lo stesso tono di sempre. È tutto nostro, ma allude agli incontri veri.
Affinando la visione interiore, cogliamo la nostra scaturigine e il senso della storia; e le sue pieghe - così possiamo partorire ancora il mondo prezioso dentro e fuori di noi.
Lo facciamo a partire dall’impalpabile che fa da perno dell’essenza. E custodisce il Fuoco dentro.
Per un tratto - sempre più breve - gli opinionisti ufficiali c’illudono di stare al centro del mondo.
Vogliono inocularci il falso senso di protagonismo e permanenza che rapidamente svanisce; in realtà, ci travolgono.
Sentiamo il bisogno di una riscoperta dell’essere e dell’essenza, non dissolti nel regno della notte e dell’illusione [avere potere apparire, trattenere salire dominare]. Senza fughe, né ritmi che non ci appartengono.
Cerchiamo un coinvolgimento, e una distanza.
Vogliamo ‘percepire’ come Maria e come i pastori - sconclusionati da opinioni religiose altrui - per divenire e rinascere, e divenire ancora. Recuperando le frenesie, le sorprese, le ferite; senza disperdere il Centro.
“Rifugiarsi” in uno spazio segreto non era per Lei un ritrovare la se stessa attesa da tutti, stereotipa e adeguata come sempre.
Esprimeva piuttosto il suo essere - in fuga dai modi convenzionali.
Per vivere intensamente non desiderava entrare nella nomenclatura - poi essere normale, e asservita - piuttosto allontanarsi, ma stando lì. Perciò non escludeva nulla.
Si è riconosciuta pure in quei vagabondi.
Mai si sarebbe immaginata protagonista (recitante) d’una tradizione che l’ha collocata su piedistalli, forme, attributi solenni, e costrizioni - proprio quelle che l’avrebbero resa dolcemente ma decisamente ribelle.
Non si rivisitava per crogiolarsi, bensì per verificare e riattivare il suo ‘modo’ - che non voleva perdere: poteva essere travolto da pareri esterni e seppellito da circostanze [impellenti ma senza orizzonte].
Non voleva smarrire il proprio Indirizzo dentro mete comuni, omologate, perdendo di vista ciò che era davvero, e la introduceva nel cielo del senza tempo - né bramava assomigliare alla maggioranza, o starle sopra.
Quella che le abbiamo costruito noi, non è casa sua.
Maria non si affacciava sulla realtà e oggi dentro di noi [per aiutarci a guardare il “nostro” Mistero] col viso conforme; edulcorato e artefatto, o intimista, paludoso.
La sua anima era sempre in viaggio. Per conoscere l’inconoscibile, mai si sarebbe fermata - anche senza sapere in anticipo dove andare.
Il suo carattere non voleva le certezze della sistemazione. Senza tentennare, anche in sé preferiva intuire e vivere la Passione d’amore.
Si lasciava guidare e salvare, ma a partire dal suo stesso centro sacro, santuario del Dio-Con. Colui che sblocca, c’incammina, e libera.
Non poteva consentire che la sua Vocazione venisse coperta da idoli, né da alcuna trama, che pur si stava svolgendo.
Nel ‘qui e ora’ ritrovava la sua affinità proprio dal suo stesso essere viandante, che avanzando poneva i disagi alle spalle.
Sviluppando l’occhio interiore, trasmutava anche il suo interno per ritrovare il passo dell’Annunciazione nascosta nei disadattati, che ancora la conduceva.
Solo questo le durava negli anni - non il lato funzionale.
Non sognava di fare una vita tranquilla, bensì di capire la personale missione.
Senza ingenuità s’interrogava sul significato delle chiamate intime, degli accadimenti, delle vie traverse, e dei suoi moti - estranea solo all’ansia di piacere a tutti.
Desiderava comprendere come inserirsi al meglio, procedendo verso la nuova terra promessa [cf. Lc 1,29: «Ma fu molto turbata per la Parola e si domandava che saluto fosse questo»; Lc 1,34: «Come sarà questo?»].
La quiete dentro non era uniforme, bensì colma delle vicissitudini e di ‘notizie’ imprevedibili.
Mai avrebbe voluto diventare modello: un documento d’identità scaduto - ingessato, dogmatico. Mai icona di privilegi, e sfarzosa - come una donna che spegne la sua consapevolezza, e si rende identificata, vuota, vetusta, disgiunta.
In mezzo agli altri - persino lazzaroni, poco delicati, indiscreti - Maria lasciava fare, percependo i suoni inudibili del silenzio dell’anima.
Note che producevano la sua figura e - ancor meglio - la sua evoluzione e Destinazione, senza disturbarla con ostinazioni separate.
Togliendo lo sguardo dall’intenzione conformista.
Per esistere davvero, intensamente, cambiava o faceva breccia; recuperava la storia ma ascoltava l’interno di sé.
Cogliendo i propri strati profondi, percependosi nelle voci più intime, prendeva coscienza del senso della sua vita, e della storia che si svolgeva.
Negl’intervalli di pensiero, riattivava l’energia dello ‘sguardo’.
E senza mortificazioni portava l’attenzione su un’altra dimensione, entrando gradualmente nel Vento che incessantemente la disinnestava.
In tal guisa, imparava a non aspettarsi qualcosa di allineato ai propositi e previsioni normali, né alla graduatoria sociale e culturale: doveva introdursi nelle vicende, e staccarsi (per contemplarne l’importanza e profondità).
Misteriosamente - così scrutando senza troppo fare - leggeva le ‘note’, sceglieva i registri giusti; interpretava lo spartito.
Epifania di Dio in una creatura del tutto priva di stile ieratico o cortese; piuttosto, delicato e gitano.
Non si è precipitata a mettere a posto le cose: intuiva «dentro» la vita sommaria, invece che condurla e organizzarla, o disporla.
Attendeva che il suo Sé eminente facesse da guida allo strano percorso non dirigista né volontarista che si stava dispiegando, davvero tutto eccentrico e poco esemplare.
Non si attivava per compiacere.
Impariamo in Lei anche noi: a vedere accadere il Dio domestico, le ‘visite’ che non aspetteremmo; l'intensità delle cromie differenti.
Esse che poi ci portano a un diverso sguardo anche nell’anima; coinvolta e distaccata.
Al pari della realtà circostante, Maria non era sempre uguale.
Non aveva in mente un campione da inseguire sino in fondo, per poi trovarsi cronicizzata nell’esemplarità altrui - sradicata, esteriore, dissipata e scarica.
Situazioni ed emozioni avevano valore, non solo né anzitutto sulla base del registro a paradigmi - ormai inutile - con cui venivano interpretate.
Nella speranza delle cose presenti e nel loro sensibile Ascolto, veniva acquisendo fluidità.
In tal guisa, passando senza forzature dalla religione dei padri alla Fede, al rischio d’amicizia nell’imprevedibile proposta dell’unico Padre.
Ritirata nella Dimora dello Spirito, dentro una Speranza che si svelava onda su onda, imparava a comprendere le relazioni e le energie interiori, non impacchettate.
Una volta ascoltate e assunte, esse potevano deviare, e prendere proprio la strada inattesa.
Passo dopo passo, l’occhio, l’orecchio e il cuore attenti introducono anche noi - come Maria - in un territorio di sospensione delle intenzioni chiuse. Dove abita l’amore e il destino della Novità di Dio.
Espandeva la Visione non a partire unicamente dattorno.
Dispiegando il suo perdersi nel Noi, non selettivo, ma solo dal proprio centro sacro, anche l’orizzonte dilatava nella sensazione d’infinito in azione.
Nella contemplazione degli eventi, rendeva più corposa e persino reinventava la figura del cuore che l’aveva guidata fin lì.
Reinterpretava ancora l’immagine espressiva della sua Vocazione. E cambiava il suo destino - non dando peso alle angolazioni unilaterali.
Niente obblighi e propositi cesellati - controcorrente ma naturale, senza la lacerazione degli sforzi titanici.
Così perfino i disagi l’avvicinavano alla sua Missione di Madre della nuova umanità, nel Figlio.
E ciascuno egualmente ritrova l’energia della suggestione primordiale che lo conduce, affinché nella Meditazione riabbracci il Richiamo della Chiamata che vuole ancora strapparlo dalla palude.
Eco dell’Appello primigenio che s’intesse agli accadimenti ed è già la Destinazione.
Testimonianza ogni istante da riscoprire nel “vuoto intimo e colmo” da fare dentro, per attendere qualcosa che non sappiamo prima cosa sia.
Maria si faceva tracciare nel tempo dall’Amore senza brevetto.
Tali i Sogni delle creature totalmente immerse nelle passioni vere, che colgono, anticipano e attualizzano il senza-tempo nel tempo.
Non rinunciava a chiedersi cosa - dai molteplici aspetti - la stava abitando e silenziosamente guidava.
La immaginiamo ancora (v.19) ‘come ad occhi chiusi’: situazione che la nostra cultura spesso ignora.
Non pensava le cause efficienti: era per riscoprire altrimenti il suo aprire la porta ai visitatori, e a ogni novità da stupore.
Stava già allattando, non solo il Figlio; al contempo alimentava se stessa.
Non per vano intimismo riscopriva il Mistero sottile annidato nel diverso - e nel cangiante e crudo - imprevedibile dentro e fuori.
Senza rendersi conto, già nutriva il mondo, custodendosi.
Vera, giunge sino a noi e in noi, accudendo il nido dell’essenza e della storia... senz’apparenza alcuna di stendardi e vetrine - rispettando solo ciò che capita.
Similmente la sua intera Famiglia diventa la vera signora feconda di una Festa dell’Annuncio impossibile attorno - che non si capisce da dove sia nata (Lc 1,20).
Sicuramente da nulla di esteriore. Perciò decisivo.
Totalmente aderente alle circostanze e presente in sé, diveniva completamente - nei moti nitidi e spontanei, anche altrui.
Certo non aveva attorno gente che potesse vantare paraventi. Solo strani individui, ma che incessantemente lasciavano emergere l’istinto vitale.
Anche loro non si dicevano prima dove bisognasse andare. Per questo si ritrovavano in un’incessante gravidanza.
Avevano in serbo solo l’esperienza delle distanze; spesso gelo e rifiuto.
Mai conosciuta una figura che li aiutasse a riconoscersi completamente, e a guardare le cose dal punto di vista della soavità intramontabile scoperta.
Persino capaci di tendere al globale più largo e comprensivo [noi diremmo, all’eternità servizievole della condizione angelica].
Eccoli invece incendiati dalla Fiamma perenne - quella del mondo intero (passato, presente e futuro) che sa recuperare e stare nascostamente, a parte ma nel cosmo - come aurora e giorno del Signore.
Nella cultura del tempo, condizione degli spiriti del servizio al trono celeste, che glorificavano e lodavano Dio (v.20) «per tutto quello che avevano udito e avevano visto».
Di fronte alla Famiglia Chiesa domestica, in Maria e Gesù i pastori fanno un’esperienza decisiva.
Non più di carenza e giudizio unilaterali, ma di rinascita nella stima; di un altro mondo, disponibile e inclusivo - d’un altro regno, unisono senza uniformità.
La Madre di Dio è una possibilità di tendere all’eterno presente, non più esclusivo: ma come una danza, dove il tutto che cambia mette perfettamente a proprio agio - senza già le tracce da ricalcare.
Gli stravaganti della società, pellegrini e cani della prateria raccogliticci, abili solo nelle transumanze, forse mai avevano avuto la capacità di riconoscere l’estasi dello stare bene e intensamente nel sommario.
Forse mai avevano avuto l’esperienza di riconoscere in una creatura accurata il loro stesso lato sensibile, tenero e femminile.
Aspetto che nella Donna Chiesa autentica si fa custode e diversamente banditore [nei malfermi] dello scrigno della Vita.
Dal tepore di Maria e della Culla, fra i loro labirinti, ormai portavano nel proprio luogo appartato una benedizione entusiasmante, e il lato intimo indistruttibile; anche altrove.
Per mettere in discussione anche noi.
Cerchiamo un’anima silenziosa, per un’arte della rinascita.
Ecco Maria: ella aveva notato, mentre meditava, che di riflesso anche gli altri lo facevano.
Quando si ritagliava energie preparatorie, anche attorno ci si disponeva in modo più equilibrato, pieno all’Annuncio.
Camminava nella vita per custodire e alimentare nuovi padri e madri di umanizzazione.
Non per commentare, ma per intuire e sciogliere; per non spegnere il lato sognante con la parte “all’altezza”, vecchia.
Il suo regno della verecondia che cura l’io e il Tu era il cielo e la terra delle nuove potenze.
Virtù affidabili perché scaturite dal Silenzio della Via che la stava rinnovando completamente - amando le contraddizioni.
Perché tutto ora può accadere, rigenerare; e ogni giorno recare la sua marea (dell’inedito) nella presenza di Spirito, senza routine.
Un’anima genuina, priva di finzioni... lo può fare.
Per un’avventura che spinge via la continuità, ricolma di Eros fondante; per un’esplorazione diretta al Culmine sconosciuto.
Maria: Rallentando un po’, si Nasce
Chi non segue intuizioni innate, un richiamo più radicale del sé, o annunci sbalorditivi [Lc 1,26-38. 2,8-15] non sviluppa il suo destino, non si muove; non rimette le cose a posto.
I proclami comuni finiscono per incenerire le personalità.
È vero che i pastori non trovano nulla di straordinario e prodigioso, se non una famiglia ridotta in una condizione ordinaria, che conoscono.
Ma è quel semplice focolare a coinvolgerli nel nuovo Progetto, e nell’annuncio della sua scandalosa Misericordia senza condizioni - che non li ha fulminati per impurità.
La religione arcaica li aveva bollati per sempre: esseri persi, spregevoli, senza rimedio. Ora sono liberi dall’identificazione.
Hanno un altro occhio - come quello della prima volta. Sguardo che li porterà al cento per cento.
Esodati che si trovano davanti un’immagine di Dio indifeso, essi non si preoccupano d’impegnarsi in una disciplina etica: li avrebbe sgretolati.
Piuttosto, godono lo stupore d’una realtà semplicemente umana - in una misteriosa relazione di reciproco riconoscimento.
Un bimbo in una mangiatoia, luogo impuro dove si trastullavano le bestie.
Strano che il modesto segno li convinca, che faccia loro recuperare la stima, e li renda evangelizzatori - forse neanche assidui.
Al pari del Calvario (cui rimanda), la Manifestazione risolutiva dell’Eterno è un paradosso.
Ma la geografia affettiva di questa Betlemme priva di circuiti conformisti resta intatta, perché spontaneamente radicata in noi.
C’è un senso d’immediatezza, senza particolari intrecci o cerimonie.
Il Bambino neppure viene adorato dagli sguardi ora “puri” dei piccoli, vilipesi cani della prateria e delle transumanze - come viceversa faranno i Magi (Mt 2,11).
Loro neanche sapevano cosa significasse, riflettere cerimoniali di corte orientali - come il bacio delle pantofole rosse.
[Per questo motivo Papa Francesco le ha rifiutate, insieme all’ermellino - dopo che Paolo VI aveva avuto il coraggio di deporre il segno pluridirigista delle tiare, con le sue tre corone sovrapposte; un pochino più intricata è stata la vicenda dell’anacronistica sedia gestatoria].
I miserabili della terra e i lontani dei greggi sono coloro che ascoltano l’Annuncio, verificano prontamente, e fondano la nuova stirpe divina.
Gente non tormentata dal giudizio statico - uomini in mezzo a tutti; non più ad alta quota.
Intanto Maria ricercava il senso delle sorprese e così rigenerava, per un nuovo modo di capire e ‘stare’ insieme - per dare alla luce anche il mondo interno di tutto un diverso popolo della pienezza.
Ella metteva insieme fatti e Parola, per scoprirne il filo conduttore.
E rimanere ricettiva; non farsi condizionare dalle convinzioni dei recinti devoti - targati e inflessibili, che non le avrebbero dato scampo.
La Madre stessa, pur colta di sorpresa, si preparava all’eccentricità di Dio, senza allontanarsi dal tempo e dalla sua condizione reale.
La sua figura e quella dei pastori c’interpellano, chiedono il coraggio di una risposta - ma dopo aver lasciato fluire lo stesso genere di Presenze interiori: visitatrici degne, cui è concesso esprimersi.
Anche Lei ha dovuto come noi passare dalle credenze dei padri alla Fede nel Padre.
Dall’idea dell’amore come premio a quella del ‘dono’.
Dalla pratica dei culti e delle chiusure che non rendono affatto intimi all’Eterno, all’apertura della mente e degli usci.
Non lo ha realizzato senza fatica, bensì sopportando le resistenze del suo ambiente arido.
Gesù è stato infatti circonciso - inutile rito che secondo l’abitudine pretendeva mutare il Figlio di Dio in figlio di Abramo.
La Buona Novella proclama un capovolgimento: ciò che la religione aveva considerato lontano dall’Altissimo... è vicinissimo a Lui; anzi, gli corrisponde appieno.
Mai accaduto prima, immaginarselo.
Nelle Annunciazioni dei Vangeli è spalancata l’avventura della Fede.
E il nuovo Bimbo ha un Nome ch’esprime l’inaudita essenza di Salvatore, non giustiziere.
Tutta la sua vicenda sarà appunto pienamente istruttiva anche sotto il profilo di come interiorizzare incertezze e disagi: questi “momenti no” e le precarietà che c’insegnano a vivere.
Infatti, anche noi come Maria «andiamo riconoscendo» la presenza di Dio negli enigmi della Scrittura, nel Piccolo ‘avvolto in bende’ - persino nell’eco ancestrale dei nostri mondi interni.
E ci lasciamo andare - non sappiamo bene dove. Ma così è l’Infinito, l’immenso Segreto, l’inesplicabile Respiro, nelle sue pieghe.
Il saggio Sogno che abita l’umano sa di humus antico, ma il suo eco rinasce ogni giorno, nella marea dell’essere che orienta a ‘guardare’ davvero, senza veli.
Un contegno conformista di “vedere le cose” non risolverebbe il problema.
Talora, per non farsi condizionare bisogna riedificarsi nel silenzio, come la Vergine; costruirsi una sorta di isola ermeneutica che schiuda porte differenti, che introduca altre luci.
Entro il suo circuito sacro anche la Madre di Dio valorizzava le innate energie trasformative, proprio radicandole sugli interrogativi…
Così tornando al suo essere primordiale e al senso del Neonato - immagine intrisa di senso primigenio e onda vitale, cara a molte culture.
Maria entrava in un Altrove e non usciva dal campo del reale.
Era ‘dentro’ il suo Centro, senza fretta - ricercando il Sole annegato nel suo essere e che tornava, emergeva, risorgeva; dall’intimo, la faceva esistere oltre.
Così non si lasciava assorbire energie dalle idee conformiste altrui o da situazioni [esterne] che pure volevano rompere l’equilibrio.
Nella sua vereconda solitudine - colma di Grazia - quell’io superiore e celato nell’essenza veniva sempre più a Lei. Si faceva nuova Alba e guida.
Non voleva vivere dentro pensieri, saperi e ragionamenti dintorno - nessuno capace di amplificare la vita - tutti in mano alle droghe delle procedure, disumanizzanti l’Incanto.
La magia felice di quel Frugolo di carne portava la sua Pace.
I Sogni sostenevano e veicolavano il suo nido e intimo fulcro - facendo scorrere una vita nuova dal nucleo della sua Persona, e la giovinezza del mondo.
«Ora Maria conservava tutte Parole-evento confrontandole nel suo cuore»
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict)
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
Luke the Evangelist of the Poor celebrates the reversals of the situation: pharisee and tax collector, prodigal son and firstborn, samaritan and priest-levite, Lazarus and rich man, first and last place, Beatitudes and “woe to you”... so in the anthem of the Magnificat
Luca evangelista dei poveri celebra i ribaltamenti di situazione: fariseo e pubblicano, figlio prodigo e primogenito, samaritano e sacerdote-levita, Lazzaro e ricco epulone, primo e ultimo posto, Beatitudini e “guai”... così nell’inno del Magnificat
In these words we find the core of biblical truth about St. Joseph; they refer to that moment in his life to which the Fathers of the Church make special reference (Redemtoris Custos n.2)
In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa (Redemtoris Custos n.2)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situations
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
don Giuseppe Nespeca
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