Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Uno sguardo nel «buio».
Come ho già detto in precedenza molti poeti e scrittori hanno descritto il fluire dell’animo umano.
Eugenio Montale lo esprime in una sua poesia del 1925, sul male di vivere, fornendoci l’immagine di un ruscello che non riesce a far scorrere le sue acque, di una foglia accartocciata dal troppo calore, di un cavallo sfinito a terra.
Immagini che nella nostra mente non passano senza lasciare una riflessione e qualche interrogativo.
Momenti di “buio” nella nostra vita ce ne sono stati e forse ci saranno ancora.
Sensazioni di scoraggiamento e di non sapere quale strada prendere - ognuno di noi lo ha sperimentato sulla propria pelle.
L’intensità e la durata del “buio” variano a seconda delle circostanze e dalle capacità di reagire personali.
Di fronte a sconfitte o delusioni reagiamo in modo differente; ciò che disturba un soggetto, può lasciare un altro individuo del tutto indifferente.
Un incontro col “ buio” può essere usuale di fronte a gravi difficoltà come un lutto, la perdita del lavoro, l’insorgere di una malattia, la fine di relazioni affettive, e altro.
Tale stato d’animo è provvisorio e finisce spontaneamente, senza portare cambiamenti nella vita di una persona.
In casi diversi è bene non sottovalutare lo stato d’animo, perché potrebbe essere un segno di una sofferenza psicosomatica o psichica.
In questi casi spesso si provano delle sensazioni inspiegabili di preoccupazione, di apatia; e ci sentiamo più affaticati.
Ricordiamoci che la reazione al “buio” segue sovente un’esperienza traumatica, la quale in circostanze ordinarie della vita non avrebbe causato nessuna sensazione temporanea di cattivo umore.
Una reazione maggiore e più protratta nel tempo, una reazione che l’individuo non riesce a superare da solo, è una condizione non usuale.
Nelle persone anziane le scosse emotive possono far insorgere momenti di “buio” più facilmente che nei giovani.
Talora gli anziani vengono messi da parte, hanno meno relazioni sociali, e spesso ne viene a soffrire il loro prestigio; principalmente quando viene meno la speranza.
Ma anche gli adolescenti [con la loro precarietà] non sono immuni a questi momenti di inquietudine.
Non è vero che l’adolescenza è un periodo felice della vita; anzi, forse è uno dei più travagliati.
In questi momenti di “buio” che la clinica chiama «depressione», notiamo: le persone che attraversano questa fase riducono di molto le loro attività, hanno meno fiducia in se stessi, si intesseranno a poche cose.
Sono capaci di conservare il lavoro anche se devono intensificare gli sforzi. Di solito la memoria e il rapporto con la realtà non sono alterati - a meno che non è insorto uno stato grave («psicosi»).
Arieti parla della depressione che qui abbiamo chiamato “buio” come una combinazione di tristezza e pessimismo.
Quest’ultimo costituisce l’elemento essenziale della combinazione; l’idea non sana sta nel credere che ciò che è accaduto a una persona gli succederà sempre, o che lo stato d’animo in cui si trova non muterà mai.
Il disfattismo, l’illusione di saper cosa ci succederà in futuro, consolida la tristezza in “buio”.
Spesso il “buio” dell’anima viene scaricato sul corpo.
Possiamo subire perdita di peso, sensazioni di oppressione a livello cardiaco; diminuzione delle secrezioni corporee; insonnia; e sovente mal di testa.
Nel comportamento con gli altri il “buio” ci fa tendere a sfruttare e condizionare il prossimo; ci fa essere poco inclini a essere persuasi. Difficilmente diamo soddisfazione al prossimo, e spesso l’ostilità ci invade.
Faber Andrew ha scritto una poesia intitolata ‘A chi sta attraversando il suo buio’…
Il poeta invita il lettore a «credere nella poesia. Negli occhi di chi quella strada l’ha già ritrovata».
Poi ancora: «C’è un cielo di qua che vi aspetta, con un panorama di sogni da togliere il fiato».
Per un poeta la poesia è la strada maestra, ma noi che non siamo poeti abbiamo qualcosa in cui Credere, e che costituisce il pilastro della nostra realtà.
Ricordiamoci sempre che quando la notte raggiunge il suo punto più oscuro, lì inizia l’alba di un nuovo giorno.
Francesco Giovannozzi psicologo psicoterapeuta.
XXII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [31 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Sta per chiudersi per molti il tempo delle ferie e ci si prepara a riprendere il ritmo abituale della vita. La Parola di Dio ci viene incontro con appropriati consigli.
*Prima Lettura dal libro del Siracide (3, 17-18. 20. 28-29 NV 3,19-21.30.31)
Questo testo si illumina se si comincia a leggerlo dalla fine: “Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio” (v.29). Quando la Bibbia parla di saggezza intende l’arte di vivere felici. Essere un “un uomo saggio” è l’ideale di tutti in Israele: un popolo così piccolo, nato come “popolo” solo al momento dell’uscita dall’Egitto, ha il privilegio, grazie alla Rivelazione, di sapere che “ogni sapienza viene dal Signore” (Sir 1,1), nel senso che solo Dio conosce i misteri della vita e il segreto della felicità. È dunque al Signore che bisogna chiedere la sapienza perché, nella sua libertà sovrana, Egli ha scelto Israele per essere il depositario della sua sapienza. Yeshua Ben Sira (Gesù figlio di Sira), l’autore del libro, fa parlare la sapienza stessa come se fosse una persona (cf. Sir 24,8); Israele ricerca ogni giorno la sapienza (cf. Sir 51,14) e, secondo il Salmo 1, in essa trova la sua felicità: “Beato l’uomo che medita la legge del Signore giorno e notte (1,2). “Giorno e notte” significa sempre. Chi cerca trova, dirà più tardi Gesù: ma bisogna cercare, cioè riconoscere di non possedere tutto e bisognosi sempre di qualcosa. Ben Sira aveva aperto a Gerusalemme verso il 180 a.C. una scuola di teologia (beth midrash) e per promuoverla diceva: “Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola” (Sir 51,23). Un vero figlio d’Israele sa che la sapienza viene da Dio, si lascia istruire da Lui, medita le massime della sapienza e il suo ideale è un orecchio che ascolta. Israele ha talmente fatto tesoro di questa lezione che recita più volte al giorno lo “Shema‘ Israel, Ascolta, Israele” (Dt 6,4). Un’“orecchio aperto” significa ascoltare consigli, indicazioni, comandamenti; il superbo invece crede di sapere tutto e chiude le orecchie, ma dimentica che, se la casa ha le imposte chiuse, il sole non potrà entrarvi. Leggiamo al v. 28: ”Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. In altre parole, il superbo è un malato incurabile perché, essendo pieno di sé, chiude il cuore. Interessante al riguardo la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18): il pubblicano si è limitato ad essere vero perché l’umile ha i piedi per terra e per questo si riconosce povero e conta solo su Dio. Il fariseo, autosufficiente in tutto, tornò a casa come era venuto mentre il pubblicano trasformato. Isaia descrive la gioia di questi umili: “Gli umili si rallegreranno sempre di più nel Signore, e i poveri esulteranno a causa del Santo d’Israele” (Is 29,19) e Gesù esclamerà: “Ti rendo lode, Padre…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.” (Mt 11,25 // Lc 10,21). Dio può realizzare grandi cose con gli umili, facendoli servitori del suo progetto, come con Mosè, grande e instancabile suo servitore, il cui segreto, come leggiamo nel libro dei Numeri, è che era uomo molto umile, più di ogni altro sulla terra” (12,3) e Gesù, il Servo di Dio, dice di sé:” Io sono mite e umile di cuore.» (Mt 11,29), mentre Paolo scrive: “Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza… Il Signore mi ha detto…la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.» (2Cor 11,30; 12,9). In definitiva, l’umiltà è più che una virtù: è un minimo vitale e condizione preliminare.
*Salmo responsoriale (67/68)
”Signore è il suo nome” (v.5), questa frase piccolissima fa capire il tono dell’insieme: “Signore” è il nome tetragramma (YHWH) rivelato a Mosè che esprime la presenza permanente di Dio in mezzo ai suoi “Ehyeh-Asher-Ehyeh”(Io sono colui che sono). E poiché Egli ci circonda in ogni tempo della sua sollecitudine, ciascuno dei versetti può essere letto a più livelli e la ricchezza e complessità di questo salmo sta nel poterlo cantare in ogni epoca sentendosi coinvolti. “I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia. Cantate a Dio, inneggiate al suo nome. Signore è il suo nome” (vv4-5). Anche Davide danza davanti all’Arca, ma qui si parla della gioia del popolo liberato dall’Egitto: il canto di Mosè dopo il passaggio del mare; Miriam, sorella di Aronne (e di Mosè), prese in mano il tamburello e tutte le donne uscirono dietro a lei, danzando e suonando il tamburello. In seguito durante l’Esodo molteplici furono i motivi per cantare e danzare. Questo emerge nei seguenti versetti: “fa uscire con gioia i prigionieri” (7). “Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio” (10-11). Qui si sovrappongono diversi livelli di lettura, ma ogni allusione alla liberazione riguarda sempre sia l’uscita dall’Egitto, sia il ritorno dall’esilio babilonese e anche le altre liberazioni, cioè ogni volta che persone o interi popoli avanzano verso più giustizia e libertà e infine la liberazione definitiva, che ancora attendiamo. “Fa uscire con gioia i prigionieri”: per noi cristiani è il richiamo alla Risurrezione di Cristo pensando alla nostra. “Pioggia abbondante hai riversato” questo richiamo all’Esodo offre più letture: la manna nel deserto (cf. Es 16, 4.13-15) e molto probabilmente pure la pioggia benefica da cui dipende ogni vita perché senza “l’abbondante pioggia” la terra promessa non stilla «latte e miele». Nel passato ci sono state siccità (e quindi carestie) memorabili: i sette anni di carestia che portarono i figli di Giacobbe con il padre a scendere in Egitto da Giuseppe; la siccità al tempo di Elia (1Re 17-18) con il duro confronto tra Elia e la regina Gezabele, adoratrice di Baal, il dio della fecondità, della tempesta e della pioggia; la carestia sotto l’imperatore Claudio quando le comunità cristiane del bacino del Mediterraneo, regioni non colpite, furono invitate a soccorrere economicamente i sinistrati e san Paolo fece un richiamo alla comunità di Corinto per la lentezza a dare il loro contributo (cf. 2Cor 8-9). Infine anche noi abbiamo motivo di rendere grazie per la nuova manna, nostro pane quotidiano: Gesù Cristo, pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,48-51).
*Seconda Lettura dalla lettera agli Ebrei (12, 18-19. 22-24a)
Essendo indirizzata a cristiani di origine ebraica, la Lettera agli Ebrei ha come obiettivo di collocare correttamente la Nuova Alleanza rispetto all’Antica. Con la vita terrena, passione, morte e risurrezione di Cristo, l’intero passato è considerato dai cristiani come una tappa necessaria nella storia della salvezza, ma ormai superata anche se non annullata per cui tra la Prima e la Nuova Alleanza c’è sia continuità ma anche radicale novità. A favore della continuità ci sono elementi familiari a Israele: Sinai, fuoco, oscurità, tenebre, uragano, trombe, Sion, Gerusalemme, i nomi scritti nei cieli, giudice e giustizia, alleanza con un linguaggio che evoca tutta l’esperienza spirituale del popolo dell’Alleanza e di certo ben familiare agli ascoltatori di allora. (cf. Es 19,16-19;20,18.21; Dt 4,11). Israele si nutre di questi racconti essendo titoli di gloria del popolo dell’Alleanza. La Lettera agli Ebrei sembra però sminuire questa esperienza memorabile perché quell’Alleanza è ora completamente rinnovata. Mosè si avvicinava a Dio, ma il popolo restava a distanza; nella Nuova Alleanza i battezzati sono introdotti in una vera intimità con Dio e l’autore descrive questa nuova esperienza spirituale come ingresso in un mondo nuovo di bellezza e di festa (cf. vv. 22-24). La “paura di Dio” nell’AT era timore dinanzi a manifestazioni di potenza, tanto che il popolo arrivò a chiedere di non udire più la voce di Dio ma in seguito, a poco a poco, il rapporto con Dio si è trasformato e il timore è diventato fiducia filiale. Coloro che hanno conosciuto Gesù hanno scoperto in Lui il vero volto del Padre: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15-16). Gesù, dunque, svolge pienamente il ruolo di mediatore della Nuova Alleanza e permette a tutti i battezzati di accostarsi a Dio e di diventare “primogeniti” (nel senso di “consacrati”). Così, l’antica promessa a Mosè sul Sinai: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli… sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,4) si realizza finalmente in Cristo e per questo anche noi “accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16).
*Dal vangelo secondo Luca (14, 1a. 7 – 14)
Nel Vangelo di Luca si trovano spesso scene di pasti: a casa di Simone il fariseo (7,36); da Marta e Maria (10,38); di nuovo a casa di un fariseo (11,37); da Zaccheo (19); il pasto pasquale (22). L’importanza che Gesù attribuiva ai pasti faceva perfino dire ai malintenzionati: “Ecco un mangione e un beone” (Lc 7,34). Tre di questi pasti si svolgono in casa di farisei e diventano occasione di disaccordo. Durante il primo, a casa di Simone (Lc 7,36), una donna di cattiva reputazione si era gettata ai piedi di Gesù e, contro ogni aspettativa, Egli l’aveva presa come esempio. Il secondo (Lc 11,37) fu ugualmente occasione di un grave malinteso, questa volta perché Gesù non si era lavato le mani prima di mettersi a tavola: la discussione degenera e Gesù ne approfitta per intavolare una severa diatriba tanto che l’episodio si chiude con gli scribi e i farisei che cominciano ad accanirsi contro di lui tendendogli insidie per sorprenderlo in fallo (cf. Lc 11,53). Oggi il terzo pasto in casa di un fariseo avviene di sabato, giorno di riposo (“shabbat” in ebraico significa cessare ogni attività) e di festa: memoria della creazione del mondo, della liberazione del popolo dall’Egitto e attesa della grande festa del Giorno in cui Dio rinnoverà l’intera creazione. Il sabato prevedeva un pasto solenne, spesso occasione per invitare correligionari, anche se i divieti rituali della Legge erano così numerosi che il rispetto delle prescrizioni aveva, per alcuni, oscurato l’essenziale: la carità fraterna. Quel sabato Gesù aveva guarito un malato di idropisia (scena che non figura nella nostra lettura liturgica: cf.Lc14, 2-6) e si aprono vive discussioni perché si accusa Gesù di aver infranto il sabato. Qui mi fermo e pongo una domanda: i rapporti tra Gesù e i farisei sono sempre uno scontro? In verità sono un misto di simpatia e di severità: simpatia perché il loro movimento religioso, nato verso il 135 a.C. da un desiderio di conversione, era stimato e il nome “fariseo”, che significa “separato”, esprimeva il rifiuto di ogni compromesso politico, di ogni lassismo nella pratica religiosa, due problemi allora assai presenti. Al tempo di Cristo se ne apprezzava la fervente fede e il coraggio per il rispetto della tradizione, da non intendere in senso peggiorativo, ma come la ricchezza ricevuta dai padri e trasmessa sotto forma di precetti concernenti i minimi dettagli della vita quotidiana. Queste norme, messe per iscritto dopo il 70 d.C., somigliano a quelle di Gesù stesso e per questo erano rispettabili tanto che Gesù non rifiutava di parlare con loro come dimostrano questi pasti e l’incontro con Nicodemo (cf. Gv 3). Sotto Erode il Grande (39-4 a.C.), seimila di loro, per restare ligi alla Legge, rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Roma e a Erode e furono puniti con pesanti ammende. Tuttavia il rigore nell’osservanza generava talora eccessiva sicurezza di sé e disprezzo per gli altri e Gesù a questo reagiva perché creava alcune ambiguità e deviazioni ben simboleggiate nella parabola della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5; Lc 6,41-42). Nel testo odierno Gesù invita a non occupare i primi posti non per richiamare una norma di buona educazione e di filantropia, ma, alla maniera dei profeti, cerca di aprire i loro occhi prima che sia troppo tardi perché un eccessivo compiacimento di sé può condurre alla cecità. E quindi, proprio perché persone di valore e fedeli praticanti della religione giudaica, Gesù smaschera il rischio del loro disprezzo verso gli altri ricordando che per entrare nel Regno bisogna farsi come bambini (cf Lc 9,46-48; Mt 18,4), accogliendoli e rispettandoli senza attendere nulla in cambio e anzi aprendo il cuore a poveri, storpi, zoppi, ciechi (v.13). Una lezione per i farisei di ieri e di oggi tenendo ben presente quel che san Giacomo scrive: non mescolare mai favoritismi personali con la fede nel Cristo (cf. Gc 2,1).
+ Giovanni D’Ercole
Gesù in sinagoga: la Liberazione dal quietismo
(Lc 4,31-37)
Nel terzo Vangelo i primi ‘segni’ del Signore sono il tranquillo scampare alle minacce di morte [agitate dalla sua gente!] e la guarigione del posseduto.
In tale modo di narrare la vicenda di Gesù, Lc indica le priorità che le sue comunità vivevano: anzitutto, bisognava sospendere le lotte intime, inculcate dalla tradizione giudaizzante e dal suo “saper stare al mondo”.
Nel paesino cocciuto e conformista di Nazaret il Maestro non riesce a comunicare la sua novità, e si vede costretto a cambiare residenza.
Non si rassegna, anzi: Cafarnao era all’incrocio di strade importanti, il che facilitava contatti e divulgazione.
Fra persone di tutti i ceti, il Figlio di Dio desiderava creare una coscienza fortemente critica verso le dottrine omologate dei capi religiosi.
Egli non citava meccanicamente gl’insegnamenti - modesti - delle autorità, ma partiva dalla sua esperienza di vita e dal rapporto vivo col Padre.
Così creava menti sgombre e un fremito inconsueto, non riduttivo; che mirava a far raggiungere un livello superiore alle anime vessate dalla mentalità automatica del quieto vivere.
Il Maestro ancora oggi fronteggia il potere che riduce le persone in una condizione senza originalità, allergica alle differenze.
Nel Vangelo, la persona che d’improvviso fa scintille era da sempre un tranquillo frequentatore di assemblea, che stancamente trascinava la sua vita spirituale in piccoli ambiti senza colore, privi di largo respiro e ritmo.
Ma la Parola del Signore ha in sé una carica reale: la forza della beatitudine del vivere, del creare, dell’amare in verità - che non odia le caratteristiche eccentriche.
Dove giunge tale Appello vengono smascherati e saltano fuori dalle tane tutti i demoni che non t’aspetti.
Chi incontra Cristo è rovesciato; vede le sue certezze buttate all’aria.
Rivolgimento che consente alle sfaccettature celate o represse di fare la loro parte - anche se non sono “come dovrebbero essere”.
Insomma, il Vangelo invita ad accogliere tutto ciò che c’è in noi, così com’è, non attenuato; moltiplicando le energie - perché dentro si annida il meglio della nostra Chiamata alla personale Missione.
In Cristo, i nostri poliedrici volti [pur contraddittori] possono scendere in campo insieme, senza più reprimere i territori preziosi dell’anima, dell’essenza, del carattere; di un’altra persuasione - anche lontana o irripetibilmente singolare.
L’habitué delle assemblee viene sì scomodato e interpellato, ma non permane abulico; anzi, fa un progresso vistoso dall’esistenza assopita e rituale - piegata, ripetitiva, spenta e finta.
È liberato faccia a faccia da tutti i luoghi comuni che prima lo tenevano buono, soggiogato e a guinzaglio.
Persino attraverso una protesta che rompe l’apatia, il Richiamo divino ci costringe a una vita da salvati, di nuova testimonianza che sembrava impossibile.
Ora non più in disparte, ma in mezzo alla gente (v.35), nello stupore d’una Felicità profonda, personale, inattesa.
Differenza tra religiosità comune e Fede viva.
[Martedì 22.a sett. T.O. 2 settembre 2025]
Sciolti dalla mentalità automatica
(Lc 4,31-37)
Nel terzo Vangelo i primi segni del Signore sono il tranquillo scampare alle minacce di morte [agitate dalla sua gente!] e la guarigione del posseduto.
In tale modo di narrare la vicenda di Gesù, Lc indica le priorità che le sue comunità vivevano: anzitutto, bisognava sospendere le lotte intime, inculcate dalla tradizione giudaizzante e dal suo “saper stare al mondo”.
Nel paesino cocciuto e conformista di Nazaret il Maestro non riesce a comunicare la sua novità, e si vede costretto a cambiare residenza.
Non si rassegna, anzi: Cafarnao era all’incrocio di strade importanti, il che facilitava contatti e divulgazione.
Fra persone di tutti i ceti, il Figlio di Dio desiderava creare una coscienza fortemente critica verso le dottrine omologate dei capi religiosi.
Egli non citava meccanicamente gl’insegnamenti - modesti - delle autorità, ma partiva dalla sua esperienza di vita e dal rapporto vivo col Padre.
Non cercava appoggi, né per vivere sicuro e neppure per l’Annuncio - così creava menti sgombre e un fremito inconsueto.
In tal modo, nelle anime sospendeva i consueti dubbi di coscienza, le solite battaglie inoculate dalla cappa costume-dottrina-morale, e le sue lacerazioni interiori.
In modo trasparente e totalmente non artificioso, ancora oggi Cristo [nei suoi] scampa il male e lotta contro le forze plagianti, riduttive della nostra personalità.
Nella mentalità degli automatismi privi di Fede personale, a quel tempo sembrava che ci si trovasse quasi a dover subire le potenze del convincimento esterno.
Tutto ciò per evitare di esser emarginati dalla ‘nazione’ [e da gruppi regolati sul conformismo].
Vale anche per noi.
Il dovere di partecipare a rituali collettivi - qui il sabato in sinagoga - rischia di attenuare la nostalgia intima del «noi stessi» che fornisce nutrimento all’eccezionalità vocazionale.
Originalità della storia della salvezza che viceversa potremmo diventare, senza la palla al piede di alcune regole del quieto vivere, al minimo - ritmato di momenti sociali consuetudinari e giorni simbolici [talora svuotati di senso].
(Tutto nei modi trasandati e meccanici che sappiamo a memoria, e non vogliamo più, perché sentiamo che non ci fanno raggiungere un livello superiore).
Il Maestro in noi ancora oggi fronteggia il potere che riduce le persone nella condizione di faciloneria senza originalità: un grigio e perpetuo tran-tran allergico alle differenze.
Apatia che produce paludi e camposanti anticipati, dove nessuno protesta ma neppure stupisce.
Nel Vangelo, la persona che d’improvviso fa scintille era da sempre un tranquillo frequentatore di assemblea, che stancamente trascinava la sua vita spirituale in piccoli ambiti senza colore, privi di largo respiro e ritmo.
Ma la Parola del Signore ha in sé una carica reale: la forza della beatitudine del vivere, del creare, dell’amare in verità - che non odia le caratteristiche eccentriche.
Dove giunge tale Appello vengono smascherati e saltano fuori dalle tane [prima simulate, concordiste, assuefatte, artificiosamente omologate] tutti i demoni che non t’aspetti.
Chi incontra Cristo è rovesciato dallo strapuntino abulico, capovolto seduta stante; vede le sue certezze buttate all’aria
Rivolgimento che consente alle sfaccettature celate o represse di fare la loro parte - anche se non sono “come dovrebbero essere”.
Insomma, il Vangelo invita ad accogliere tutto ciò che c’è in noi, così com’è, non attenuato; moltiplicando le energie - perché dentro si annida il meglio della nostra Chiamata alla personale Missione.
In Cristo, i nostri poliedrici volti [pur contraddittori] possono scendere in campo insieme, senza più reprimere i territori preziosi dell’anima, dell’essenza, del carattere, di un’altra persuasione - anche lontana o irripetibilmente singolare.
L’habitué delle assemblee viene sì scomodato e interpellato, ma almeno non rimane imbambolato come prima: fa un progresso vistoso dall’esistenza assopita e rituale - piegata, ripetitiva, spenta e finta.
È liberato faccia a faccia da tutte le propagande e luoghi comuni che prima lo tenevano buono, soggiogato, a guinzaglio delle “autorità” e dell’ambiente conservativo che respingeva ogni entusiasmo.
La nenia del luogo e tempo sacri era una litania che tutto sommato ci poteva stare, ma la proposta critica di Gesù restituisce coscienza e libertà da territori inculcati, infondendo stima, capacità di pensiero e voglia di fare.
Ora non più in disparte, ma in mezzo alla gente (v.35).
Dalla stanchezza dell’assuefazione prettamente cultuale, e persino attraverso una protesta che rompe l’apatia, la Persona divina e il suo Richiamo ci destano.
Costringono a una vita da salvati, di nuova testimonianza che sembrava impossibile.
Senza tanti complimenti e per farci correre privi d’ipocrisie celate dentro, anche a noi il Signore tira fuori tutte le rabbie, i disaccordi, le alienazioni attenuanti l’anima.
Non basta più fare numero [allineati e coperti], ormai bisogna scegliere.
La differenza tra religiosità comune e Fede viva? Lo stupore d’una Felicità profonda, personale, inattesa.
Infatti, via da pesi abitudinari e mentali, spegneremo le guerre con noi stessi e andremo a braccetto perfino coi nostri difetti - scoprendone la nascosta fecondità.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
L’incontro con Gesù vivo nella Chiesa ti ha liberato da forme di alienazione e restituito a te stesso o ti ha fatto tornare a chiedere appoggi, conferme sacrali, e quiete - come frequentassi una zona-relax?
Fiuto senza cittadinanza
100. Neppure sto proponendo un universalismo autoritario e astratto, dettato o pianificato da alcuni e presentato come un presunto ideale allo scopo di omogeneizzare, dominare e depredare. C’è un modello di globalizzazione che «mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. [...] Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo». Questo falso sogno universalistico finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e in definitiva della sua umanità. Perché «il futuro non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!»
(Papa Francesco FT n.100).
«Nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre […] Non siate disincantati, preparatevi alle sorprese»
(Papa Francesco, Discorso alla Diocesi di Roma 18/09/ 2021).
Gesù non solo scaccia i demoni dalle persone, liberandole dalla peggiore schiavitù, ma impedisce ai demoni stessi di rivelare la sua identità. Ed insiste su questo "segreto" perché è in gioco la riuscita della sua stessa missione, da cui dipende la nostra salvezza. Sa infatti che per liberare l’umanità dal dominio del peccato, Egli dovrà essere sacrificato sulla croce come vero Agnello pasquale. Il diavolo, da parte sua, cerca di distoglierlo per dirottarlo invece verso la logica umana di un Messia potente e pieno di successo. La croce di Cristo sarà la rovina del demonio, ed è per questo che Gesù non smette di insegnare ai suoi discepoli che per entrare nella sua gloria deve patire molto, essere rifiutato, condannato e crocifisso (cfr Lc 24,26), essendo la sofferenza parte integrante della sua missione.
Gesù soffre e muore in croce per amore. In questo modo, a ben vedere, ha dato senso alla nostra sofferenza, un senso che molti uomini e donne di ogni epoca hanno capito e fatto proprio, sperimentando serenità profonda anche nell’amarezza di dure prove fisiche e morali.
[Papa Benedetto, Angelus 1 febbraio 2009]
1. Come abbiamo considerato nelle precedenti catechesi, il nome “Cristo” significa nel linguaggio dell’Antico Testamento “Messia”. Israele, il popolo di Dio dell’antica alleanza, visse nell’attesa della realizzazione della promessa del Messia, che ebbe compimento in Gesù di Nazaret. Per questo fin dall’inizio Gesù è stato chiamato Cristo, cioè “Messia”, e come tale accettato da tutti coloro che “l’hanno accolto” (Gv 1, 12).
2. Abbiamo visto che, secondo la tradizione dell’antica alleanza, il Messia è re e che questo Re messianico viene anche chiamato Figlio di Dio, nome che nell’ambito del monoteismo jahvistico dell’Antico Testamento ha un significato esclusivamente analogico, o addirittura metaforico. Non si tratta in quei libri del figlio “generato” da Dio, ma di qualcuno che Dio sceglie affidandogli una particolare missione o ministero.
3. In questo senso anche tutto il popolo viene talvolta denominato “figlio” come per esempio nelle parole di Jahvè indirizzate a Mosè: “Tu dirai al faraone: . . . Israele è il mio figlio primogenito . . . lascia partire il mio figlio perché mi serva!” (Es 4, 22-23; cf. anche Os 11, 1; Gen 31, 9). Se dunque il re viene chiamato nell’antica alleanza “figlio di Dio”, è perché, nella teocrazia israeliana, egli è un rappresentante particolare di Dio.
Lo vediamo, ad esempio, nel salmo 2, in relazione all’intronizzazione del re: “Egli mi ha detto: Tu sei il mio figlio, io oggi ti ho generato” (Sal 2, 7). Anche nel salmo 88/89 leggiamo: “Egli (Davide) mi invocherà: Tu sei mio padre . . . Io lo costituirò mio primogenito, il più alto tra i re della terra” (Sal 89, 27-28). In seguito il profeta Natan così dirà a proposito della discendenza di Davide: “Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò . . .” (2 Sam 7, 14).
Tuttavia, nell’Antico Testamento, attraverso il significato analogico e metaforico dell’espressione “figlio di Dio”, sembra ne penetri un altro, che rimane oscuro. Così nel citato salmo 2, Dio dice al re: “Tu sei mio figlio: oggi ti ho generato” (Sal 2, 7), e nel salmo 109/110: “Dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato” (Sal 110, 3).
4. Bisogna aver presente questo sfondo biblico-messianico per rendersi conto che il modo di agire e di esprimersi di Gesù indica la consapevolezza di una realtà completamente nuova.
Anche se nei vangeli sinottici Gesù non si definisce mai Figlio di Dio (come non si chiama Messia), tuttavia in diversi modi afferma e fa capire di essere il Figlio di Dio, e non in senso analogico o metaforico, ma naturale.
5. Egli anzi sottolinea la esclusività della sua relazione di Figlio di Dio. Mai dice di Dio: “nostro Padre”, ma solo “mio Padre”, oppure distingue: “Padre mio, Padre vostro”. Non esita ad affermare: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio” (Mt 11, 27).
Questa esclusività del rapporto filiale con Dio si manifesta particolarmente nella preghiera, quando Gesù si rivolge a Dio come a Padre, usando la parola aramaica “abbà”, che indica una particolare vicinanza filiale e in bocca di Gesù costituisce un’espressione della sua totale dedizione alla volontà del Padre: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice” (Mc 14, 36).
Altre volte Gesù usa l’espressione “il Padre vostro”; per esempio: “come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6, 36); “il Padre vostro che è nei cieli” (Mc 11, 25). Egli sottolinea in questo modo la specificità della propria relazione al Padre, pur desiderando che questa divina paternità si comunichi ad altri, come attesta la preghiera del “Padre nostro” che Gesù insegnò ai suoi apostoli e seguaci.
6. La verità sul Cristo come figlio di Dio è il punto di convergenza di tutto il Nuovo Testamento. I Vangeli, e specialmente il Vangelo di Giovanni, e gli scritti degli apostoli, in modo particolare le Lettere di san Paolo, ci offrono testimonianze esplicite. Nella presente catechesi ci concentriamo soltanto su alcune affermazioni particolarmente significative, che in certo senso ci “aprono la strada” verso la scoperta della verità su Cristo come Figlio di Dio e ci avvicinano alla retta percezione di questa “figliolanza”.
7. È importante costatare che la convinzione della figliolanza divina di Gesù è stata confermata da una voce dal cielo durante il battesimo nel Giordano (cf. Mc 1, 11) e sul monte della trasfigurazione (cf. Mc 9, 7). In entrambi i casi gli evangelisti ci parlano della proclamazione fatta dal Padre circa Gesù “(suo) Figlio prediletto” (cf. Mt 3, 17; Lc 3, 22).
Un’analoga conferma gli apostoli la ebbero anche dagli spiriti maligni che inveivano contro Gesù: “Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio” (Mc 1, 24). “Che hai tu in comune con me . . . Figlio del Dio altissimo?” (Mc 5, 7).
8. Se poi ascoltiamo la testimonianza degli uomini, merita un’attenzione particolare la professione di Simon Pietro vicino a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Si noti che questa professione è stata confermata in modo insolitamente solenne da Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16, 17).
Non si tratta di un fatto isolato. Nello stesso Vangelo di Matteo leggiamo che al vedere Gesù camminare sulle acque del lago di Genezaret, calmare il vento e salvare Pietro, gli apostoli si prostrarono davanti al Maestro, dicendo: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!” (Mt 14, 33).
9. Così dunque ciò che Gesù faceva e insegnava alimentava negli apostoli la convinzione che egli era non solo il Messia, ma anche il vero “Figlio di Dio”. E Gesù confermò tale convinzione.
Furono proprio alcune delle affermazioni proferite da Gesù a suscitare contro di lui l’accusa di bestemmia. Ne scaturirono momenti particolarmente drammatici, come attesta il Vangelo di Giovanni, dove si legge che i Giudei “cercavano . . . di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5, 18).
Il medesimo problema venne risollevato nel processo intentato a Gesù davanti al sinedrio: Caifa, sommo sacerdote, lo interpellò: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. A questa domanda Gesù risponde semplicemente: “Tu l’hai detto”, cioè “Sì, io lo sono” (cf. Mt 26, 63-64). E anche nel processo davanti a Pilato, pur essendo un altro il capo d’accusa, quello cioè di essersi proclamato re, tuttavia i Giudei ripeterono l’imputazione fondamentale: “Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio” (Gv 19, 7).
10. Così possiamo dire che in definitiva Gesù morì sulla croce per la verità circa la sua figliolanza divina. Anche se l’iscrizione collocata sulla croce a dichiarazione ufficiale della condanna diceva: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”, tuttavia, fa rilevare san Matteo, “quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: . . . Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce” (Mt 27, 39-40). E ancora: “Ha confidato in Dio: lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!” (Mt 27, 43).
Questa verità si trova al centro dell’avvenimento del Golgota. Nel passato era stata oggetto della convinzione, della proclamazione e della testimonianza resa dagli apostoli, ora è divenuta oggetto di scherno. E tuttavia anche qui, il centurione romano che sorveglia l’agonia di Gesù e sente le parole, con le quali egli si rivolge al Padre, al momento della morte, dà un’ultima sorprendente testimonianza, lui pagano, all’identità divina di Cristo: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15, 39).
11. Le parole del centurione romano sulla verità fondamentale del Vangelo e di tutto il Nuovo Testamento intero, ci richiamano a quelle che l’angelo rivolse a Maria al momento dell’annunciazione: “Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo . . .” (Lc 1, 31-32). E quando Maria chiede: “Come è possibile?”, il messaggero le risponde: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio” (Lc 1, 34-35).
12. In forza della consapevolezza che Gesù ebbe di essere Figlio di Dio nel senso reale naturale della parola, egli “chiamava Dio suo Padre . . .” (Gv 5, 18). Con la medesima convinzione non esitò a dire ai suoi avversari ed accusatori: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono” (Gv 8, 58).
In questo “Io sono” c’è la verità sulla figliolanza divina che precede non soltanto il tempo di Abramo, ma ogni tempo e ogni esistenza creata.
Dirà san Giovanni a conclusione del suo Vangelo:“Questi (segni compiuti da Gesù) sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20, 31).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 13 maggio 1987]
Il Vangelo […] fa parte della più ampia narrazione indicata come la “giornata di Cafarnao”. Al centro dell’odierno racconto sta l’evento dell’esorcismo, attraverso il quale Gesù è presentato come profeta potente in parole e in opere.
Egli entra nella sinagoga di Cafarnao di sabato e si mette a insegnare; le persone rimangono stupite delle sue parole, perché non sono parole ordinarie, non assomigliano a quanto loro ascoltano di solito. Gli scribi, infatti, insegnano ma senza avere una propria autorevolezza. E Gesù insegna con autorità. Gesù, invece, insegna come uno che ha autorità, rivelandosi così come l’Inviato di Dio, e non come un semplice uomo che deve fondare il proprio insegnamento solo sulle tradizioni precedenti. Gesù ha una piena autorevolezza. La sua dottrina è nuova e il Vangelo dice che la gente commentava: «Un insegnamento nuovo, dato con autorità» (v. 27).
Al tempo stesso, Gesù si rivela potente anche nelle opere. Nella sinagoga di Cafarnao c’è un uomo posseduto da uno spirito immondo, che si manifesta gridando queste parole: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» (v. 24). Il diavolo dice la verità: Gesù è venuto per rovinare il diavolo, per rovinare il demonio, per vincerlo. Questo spirito immondo conosce la potenza di Gesù e ne proclama anche la santità. Gesù lo sgrida, dicendogli: «Taci! Esci da lui» (v. 25). Queste poche parole di Gesù bastano per ottenere la vittoria su Satana, il quale esce da quell’uomo «straziandolo e gridando forte», dice il Vangelo (v. 26).
Questo fatto impressiona molto i presenti; tutti sono presi da timore e si chiedono: «Ma, chi è mai questo? […] Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (v. 27). La potenza di Gesù conferma l’autorevolezza del suo insegnamento. Egli non pronuncia solo parole, ma agisce. Così manifesta il progetto di Dio con le parole e con la potenza delle opere. Nel Vangelo, infatti, vediamo che Gesù, nella sua missione terrena, rivela l’amore di Dio sia con la predicazione sia con innumerevoli gesti di attenzione e soccorso ai malati, ai bisognosi, ai bambini, ai peccatori.
Gesù è il nostro Maestro, potente in parole e opere. Gesù ci comunica tutta la luce che illumina le strade, a volte buie, della nostra esistenza; ci comunica anche la forza necessaria per superare le difficoltà, le prove, le tentazioni. Pensiamo a quale grande grazia è per noi aver conosciuto questo Dio così potente e così buono! Un maestro e un amico, che ci indica la strada e si prende cura di noi, specialmente quando siamo nel bisogno.
La Vergine Maria, donna dell’ascolto, ci aiuti a fare silenzio attorno e dentro di noi, per ascoltare, nel frastuono dei messaggi del mondo, la parola più autorevole che ci sia: quella del suo Figlio Gesù, che annuncia il senso della nostra esistenza e ci libera da ogni schiavitù, anche da quella del Maligno.
[Papa Francesco, Angelus 28 gennaio 2018]
In Sinagoga e dal precipizio
(Lc 4,16-30)
Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.
Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.
Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva la segregazione dettata dalla politica di Erode, e pativa l'oppressione della religiosità ufficiale.
La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi su problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.
Situazione che stava portando al collasso le fasce di popolazione meno tutelate.
Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della Fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.
Così, secondo Lc la prima volta che Gesù entra in una Sinagoga combina un bel pasticcio.
Non va a pregare, ma a Insegnare cosa sia la Grazia di Dio [non svigorita da chiose o false istruzioni] nell’esistenza reale delle persone.
Sceglie un passo che riflette la situazione della sua gente, oppressa dal potere dei dominatori, che ai deboli stava facendo patire confusione e povertà.
Ma la sua prima Lettura non tiene conto del calendario liturgico.
Poi osa predicare a modo suo e personalizzando il brano d’Isaia, da cui si permette di censurare il versetto che annuncia la “vendetta” di Dio.
Quindi neanche proclama il passo previsto della Legge.
Inoltre per il Figlio di Dio lo Spirito non si rivela nei fenomeni straordinari del cosmo, ma nell’Anno di Grazia [«un anno accetto al Signore»: v.19].
Possibile che la Somiglianza divina possa manifestarsi in un uomo premuroso verso i meno facoltosi, che disattende le consuetudini ufficiali, non crede alle ritorsioni, e palesa forme di spontaneità incontrollata?
È un richiamo per noi.
Al pari del Maestro, invece di ragionare con pensieri indotti e farci sequestrare dalla pesantezza di rifiuti e timori, in Lui iniziamo a pensare con i codici empatici della nostra Chiamata che irrompe.
La Visione-Relazione (v.18a) irripetibile e a maglie larghe - senza riduzioni - diventa allora strategica, perché possiede in se stessa il ‘richiamo’ dell’essenza radicale, e tutte le risorse per risolvere i veri problemi.
Ascoltare la proclamazione dei Vangeli (v.18b) è ascoltare l’eco di se stessi e del popolo minuto: scelta intima e fraterna.
E starci dentro senza le foglie morte dell’unilateralità - per vagare liberamente in quel medesimo Appello; non trascurando parti preziose di sé, né amputando le eccentricità, o l’intuito proprio dei ceti subalterni.
In tal guisa, permaniamo nell’istinto di essere e fare felici, senza mai lasciarsi imprigionare dalla brama di sicurezze a contorno: ricerca stagnante.
Il Regno nello Spirito (cf. vv.14.18) sa cosa ci serve. Esso ha cessato di essere una mèta di semplice avvenire.
È la sorpresa che Cristo in noi suscita grazie al suo Sogno, intorno alla sua proposta dalla marcia in più.
Il Signore non ci trascura: spegne il rimuginare accusatorio e ridisegna in modo creativo.
Egli fa nascere ancora e motiva, recupera le dispersioni e rinsalda la trama.
È divina perché personale e sociale l’Energia nuova, abilitata a creare l’uomo autentico.
Questa la piattaforma che opera la svolta.
[Lunedì 22.a sett. T.O. 1 settembre 2025]
Lc 4,16-30 (16-37)
Trasgressioni di Gesù e nostre (che rinsaldano la trama)
(Lc 4,14-22)
«Lo Spirito del Signore su di me, perciò mi ha unto per annunciare la Buona Notizia ai poveri» (Lc 4,18).
Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.
Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.
Difendere il clan era anche un modo concreto di confermare la Prima Alleanza.
Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva sia la segregazione dettata dalla politica di Erode Antipas che l'oppressione della religiosità ufficiale.
Il collaborazionismo smidollato del sovrano aveva accentuato il numero dei senza tetto e privi d’impiego.
La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi su problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.
Un tempo, il collante identitario del clan e della comunità garantivano un carattere (interno) di nazione solidale, espresso nella difesa e soccorso prestati ai meno abbienti del popolo.
Ora tale legame fraterno risultava indebolito, un po’ ingessato, quasi contraddetto - anche a motivo dell’atteggiamento severo delle autorità religiose, fondamentaliste e amanti d’un purismo saccente, contrario al mischiarsi coi ceti meno agiati.
La Legge [scritta e orale] finiva per essere usata non per favorire l’accoglienza degli emarginati e bisognosi, ma per accentuare i distacchi e la ghettizzazione.
Situazioni che stavano portando al collasso le fasce di popolazione meno tutelate.
Insomma la devozione tradizionale - amante dell’alleanza fra trono e altare - invece di rafforzare il senso comunitario veniva usata per accentuare le gerarchie; come arma che legittimasse tutta una mentalità di esclusioni (e confermasse la logica imperiale del dividi et impera).
Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.
Per questo il suo criterio non fugace era quello di allacciare la Parola di Dio alla vita della gente, e in tal modo superare le divisioni.
Così, secondo Lc la prima volta che Gesù entra in una Sinagoga combina un bel pasticcio.
Non va a pregare, ma a Insegnare cosa sia la Grazia di Dio [non svigorita da chiose e false istruzioni] nell’esistenza reale delle persone.
Sceglie un passo che riflette appunto la situazione della gente di Galilea, oppressa dal potere dei dominatori, che ai deboli stava facendo patire confusione e povertà.
Ma la sua prima Lettura non tiene conto del calendario liturgico.
Poi osa predicare a modo suo e personalizzando il brano d’Isaia, da cui si permette di censurare il versetto che annuncia la Vendetta di Dio.
Quindi neanche proclama il passo previsto della Legge.
E si atteggia come fosse Lui il padrone del luogo di culto - in realtà lo è: il Risorto che «siede» sta dando un insegnamento ai suoi [ancora giudaizzanti].
Inoltre - si comprende dal tono del passo di Vangelo - per il Figlio di Dio lo Spirito non si rivela nei fenomeni straordinari del cosmo, ma nell’Anno di Grazia («un anno accetto al Signore»: v.19).
È divina perché personale e sociale l’energia nuova, che crea l’uomo autentico.
Questa la piattaforma che opera la svolta.
Essa si fa motore, motivo e contesto, per una trasformazione dell’anima e dei rapporti - a quel tempo appesantiti dal servilismo anche teologico [dei meriti].
In un ordito di relazioni vitali, la migliore capacità di comprensione del Dono si fa molla per un futuro armonico, di liberazione e giustizia.
Cristo ritiene che il Regno del Padre sorga facendo crescere dal di dentro il presente, allora impastato di oppressione, angoscia e schiavitù.
Dice il Tao Tê Ching (XLVI): «Quando nel mondo vige la Via, i cavalli veloci sono mandati a concimare i campi».
L’emancipazione offerta dallo Spirito è indirizzata non ai grandi, ma proprio a chi subisce forme di necessità, difetto e penuria: in Gesù... ora tutti aperti alla cifra giubilare della nuova Creazione.
Insomma, sembra ci sia totale antagonismo e inadattabilità fra il Signore e i praticanti della religione tradizionale - pesante, selettiva, votata a legalismi e rappresaglie; piramidale, senza possibilità d’uscita.
Ovvio che sia i capi che gli abitudinari si chiedano - su base rituale e veneranda: possibile che la somiglianza divina possa manifestarsi in un uomo premuroso verso i meno facoltosi, che disattende le consuetudini ufficiali, non crede alle ritorsioni, e palesa forme di spontaneità incontrollata?
È un richiamo per noi. La persona di Fede autentica non si lascia condizionare dalle conformità all’abitudine, inutile e quieta.
Il pensiero comune - assuefatto e concordato ma sottilmente competitivo - diventa un’energia al contrario, troppo normale e paludosa; non propulsiva per l’anima personale e sociale.
Se invece ci lasciamo accompagnare dal Sogno d’una sovreminente gestazione dal Padre, saremo animati attraverso la Presenza regale e Sacra che orienta a sorvolare ripetizioni, o selezioni, emarginazioni e recriminazioni fallaci.
Come se spostassimo il nostro essere in un orizzonte e in un mondo di relazioni amicali che poi fa da calamita alla realtà e anticipa futuro.
Al pari del Maestro e Signore, invece di ragionare con pensieri indotti e farci sequestrare dalla pesantezza di rifiuti e timori, iniziamo a pensare con le immagini della Vocazione personale, con i codici empatici della nostra Chiamata che irrompe.
Le risorse evolutive sconosciute che scattano, immediatamente dipanano una rete di percorsi che ai “locali” forse non piacciono, ma evitano il conflitto perenne con l’identità missionaria e il proprio carattere.
La Visione-Relazione (v.18a) irripetibile e a maglie larghe - senza riduzioni - diventa allora strategica, perché possiede in se stessa il richiamo della Quintessenza, e tutte le risorse per risolvere i veri problemi.
Ascoltare la proclamazione dei Vangeli (v.18b) è ascoltare l’eco di se stessi e del popolo minuto: scelta intima e sociale.
E starci dentro senza le foglie morte dell’unilateralità - per vagare liberamente in quel medesimo Appello; non trascurando parti preziose di sé, né amputando le eccentricità, o l’intuito proprio dei ceti subalterni.
Ciò per poter manifestare la Radice quieta (ma nel suo stato energico), il nostro Personaggio (nell’Amico amabile e non separatista) - per evitare di stordirlo con un’altra schiavitù.
Tutto nell’istinto di essere e fare felici, senza mai lasciarsi imprigionare dalla brama di sicurezze a contorno; ricerca stagnante.
Il Regno nello Spirito (cf. vv.14.18) - che sa cosa ci serve - ha cessato di essere una mèta di semplice avvenire.
È la sorpresa che Cristo in noi suscita intorno alla sua proposta dalla marcia in più.
Egli non ci trascura: spegne il rimuginare accusatorio e ridisegna in modo creativo.
Fa nascere ancora e motiva, recupera le dispersioni, e rinsalda la trama.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come allaccio la Fede con la situazione culturale e sociale?
Qual è l’Oggi di Cristo con il tuo oggi, nello Spirito?
Qual è la tua forma di apostolato che libera i fratelli dall’avvilimento della dignità e li promuove?
Lo Spirito del Signore è sopra di me (et vult Cubam)
3. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare un lieto messaggio» (Lc 4, 18). Ogni ministro di Dio deve far sue nella propria vita queste parole pronunciate da Gesù di Nazareth. Per questo, trovandomi qui tra voi, voglio recarvi la buona notizia della speranza in Dio. Come servitore del Vangelo, vi porto questo messaggio d'amore e di solidarietà che Gesù Cristo, con la sua venuta, offre agli uomini di ogni tempo. Non si tratta né di un'ideologia né di un sistema economico o politico nuovo, bensì di un cammino di pace, giustizia e libertà autentiche.
4. I sistemi ideologici ed economici succedutisi negli ultimi secoli hanno spesso enfatizzato lo scontro come metodo, poiché contenevano nei propri programmi i germi dell'opposizione e della disunione. Questo ha condizionato profondamente la concezione dell'uomo e i rapporti con gli altri. Alcuni di questi sistemi hanno preteso anche di ridurre la religione alla sfera meramente individuale, spogliandola di ogni influsso o rilevanza sociale. In tal senso, è bene ricordare che uno Stato moderno non può fare dell'ateismo o della religione uno dei propri ordinamenti politici. Lo Stato, lontano da ogni fanatismo o secolarismo estremo, deve promuovere un clima sociale sereno e una legislazione adeguata, che permetta ad ogni persona e ad ogni confessione religiosa di vivere liberamente la propria fede, esprimerla negli ambiti della vita pubblica e poter contare su mezzi e spazi sufficienti per offrire alla vita della Nazione le proprie ricchezze spirituali, morali e civiche.
D'altro canto, in vari luoghi si sviluppa una forma di neoliberalismo capitalista che subordina la persona umana e condiziona lo sviluppo dei popoli alle forze cieche del mercato, gravando dai propri centri di potere sui popoli meno favoriti con pesi insopportabili. Avviene così che, spesso, vengono imposti alle Nazioni, come condizione per ricevere nuovi aiuti, programmi economici insostenibili. In tal modo si assiste, nel concerto delle Nazioni, all'arricchimento esagerato di pochi al prezzo dell'impoverimento crescente di molti, cosicché i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
5. Carissimi fratelli: la Chiesa è maestra in umanità. Perciò, di fronte a questi sistemi, essa propone la cultura dell'amore e della vita, restituendo all'umanità la speranza e il potere trasformante dell'amore, vissuto nell'unità voluta da Cristo. Per questo è necessario percorrere un cammino di riconciliazione, di dialogo e di accoglienza fraterna del prossimo, chiunque esso sia. Questo si può dire il Vangelo sociale della Chiesa.
La Chiesa, nel portare a termine la propria missione, propone al mondo una giustizia nuova, la giustizia del Regno di Dio (cfr Mt 6, 33). In diverse occasioni ho fatto riferimento ai temi sociali. È necessario continuarne a parlare fino a quando nel mondo ci sarà un'ingiustizia, per piccola che sia, dato che in caso contrario la Chiesa non si dimostrerebbe fedele alla missione affidatale da Gesù Cristo. La posta in gioco è l'uomo, la persona in carne ed ossa. Anche se i tempi e le circostanze cambiano, ci sono sempre persone che hanno bisogno della voce della Chiesa perché vengano riconosciute le loro angosce, i loro dolori e le loro miserie. Coloro che si trovano in simili situazioni possono essere sicuri che non verranno defraudati, poiché la Chiesa è con loro e il Papa abbraccia, con il cuore e con la sua parola di incoraggiamento, tutti coloro che subiscono l'ingiustizia.
(Giovanni Paolo II, dopo essere stato a lungo applaudito, ha aggiunto)
Io non sono contrario agli applausi, perché quando applaudite il Papa può riposarsi un po'.
Gli insegnamenti di Gesù conservano integro il loro vigore alle soglie dell'anno 2000. Sono validi per tutti voi, miei cari fratelli. Nella ricerca della giustizia del Regno, non possiamo fermarci di fronte a difficoltà e incomprensioni. Se l'invito del Maestro alla giustizia, al servizio e all'amore viene accolto come Buona Novella, allora il cuore si allarga, si trasformano i criteri e nasce la cultura dell'amore e della vita. Questo è il grande cambiamento che la società attende e di cui ha bisogno; lo si potrà raggiungere solo se prima avrà luogo la conversione del cuore di ognuno come condizione per i necessari mutamenti nelle strutture della società.
6. «Lo Spirito del Signore mi ha mandato per proclamare ai prigionieri la liberazione (...) per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4, 18). La buona novella di Gesù deve essere accompagnata da un annuncio di libertà, basato sul solido fondamento della verità: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32). La verità a cui si riferisce Gesù non è solo la comprensione intellettuale della realtà, bensì la verità sull'uomo e la sua condizione trascendente, sui suoi diritti e doveri, sulla sua grandezza e i suoi limiti. È la stessa verità che Gesù proclamò con la sua vita, riaffermò di fronte a Pilato e, con il suo silenzio, di fronte ad Erode; è la stessa che lo portò alla croce salvifica e alla risurrezione gloriosa.
La libertà che non è fondata sulla verità condiziona l'uomo a tal punto che a volte lo rende oggetto anziché soggetto del contesto sociale, culturale, economico e politico, lasciandolo quasi totalmente privo d'iniziativa riguardo allo sviluppo personale. Altre volte, questa libertà è di tipo individualistico e, non tenendo conto della libertà degli altri, chiude l'uomo nel proprio egoismo. La conquista della libertà nella responsabilità rappresenta un compito imprescindibile per ogni persona. Per i cristiani, la libertà dei figli di Dio non è soltanto un dono e un compito; il suo conseguimento implica pure un'inestimabile testimonianza e un genuino contributo nel cammino di liberazione di tutto il genere umano. Questa liberazione non si riduce agli aspetti sociali e politici, ma raggiunge la sua pienezza nell'esercizio della libertà di coscienza, base e fondamento degli altri diritti umani.
(Rispondendo all'invocazione elevata dalla folla: «Il Papa vive e ci vuole tutti liberi!», Giovanni Paolo II ha aggiunto:)
Sì, vive con quella libertà alla quale Cristo vi ha liberato.
Per molti dei sistemi politici ed economici vigenti oggi, la sfida più grande continua ad essere rappresentata dal coniugare libertà e giustizia sociale, libertà e solidarietà, senza che nessuna di esse venga relegata ad un livello inferiore. In tal senso, la Dottrina sociale della Chiesa costituisce uno sforzo di riflessione e una proposta che cerca di illuminare e di conciliare i rapporti tra i diritti inalienabili di ogni uomo e le esigenze sociali, in modo che la persona porti a compimento le sue aspirazioni più profonde e la propria realizzazione integrale secondo la sua condizione di figlio di Dio e di cittadino. Di conseguenza, il laicato cattolico deve contribuire a questa realizzazione mediante l'applicazione degli insegnamenti sociali della Chiesa nei diversi ambienti, aperti a tutti gli uomini di buona volontà.
7. Nel Vangelo proclamato oggi la giustizia appare intimamente legata alla verità. È quello che si osserva anche nel pensiero lucido dei padri della Patria. Il Servo di Dio Padre Félix Varela, animato dalla fede cristiana e dalla fedeltà al ministero sacerdotale, pose nel cuore del popolo cubano i semi della giustizia e della libertà che egli sognava di veder germogliare in una Cuba libera e indipendente.
La dottrina di José Martí sull'amore tra tutti gli uomini ha radici profondamente evangeliche, superando così il falso conflitto tra la fede in Dio e l'amore e il servizio alla Patria. Scrive Martí: «Pura, disinteressata, perseguitata, martirizzata, poetica e semplice, la religione del Nazareno ha sedotto tutti gli uomini onesti... Ogni popolo ha bisogno di essere religioso. Lo deve essere non solo nella sua essenza, ma anche per sua utilità... Un popolo non religioso è destinato a morire, poiché in esso nulla alimenta la virtù. Le ingiustizie umane la disprezzano; è necessario che la giustizia celeste la garantisca».
Come sapete, Cuba possiede un'anima cristiana, e questo l'ha portata ad avere una vocazione universale. Chiamata a vincere l'isolamento, deve aprirsi al mondo e il mondo deve avvicinarsi a Cuba, al suo popolo, ai suoi figli, che ne rappresentano senza dubbio la maggiore ricchezza. È giunta l'ora di intraprendere i nuovi cammini che i tempi di rinnovamento in cui viviamo esigono, all'approssimarsi del Terzo millennio dell'era cristiana!
8. Carissimi fratelli: Dio ha benedetto questo popolo con autentici formatori della coscienza nazionale, chiari e fermi esponenti della fede cristiana, che è il più valido sostegno della virtù e dell'amore. Oggi i Vescovi, insieme ai sacerdoti, ai consacrati, alle consacrate e ai fedeli laici, si sforzano di costruire ponti per avvicinare le menti e i cuori, propiziando e consolidando la pace, preparando la civiltà dell'amore e della giustizia. Sono qui fra voi come messaggero della verità e della speranza. Per questo desidero ripetere il mio appello a lasciarvi illuminare da Gesù Cristo, ad accettare senza riserve lo splendore della sua verità, affinché tutti possano seguire il cammino dell'unità attraverso l'amore e la solidarietà, evitando l'esclusione, l'isolamento e lo scontro, che sono contrari alla volontà del Dio-Amore.
Che lo Spirito Santo illumini con i suoi doni quanti hanno responsabilità diverse nei confronti di questo popolo, che ho nel cuore. Che la «Virgen de la Caridad de El Cobre», Regina di Cuba, ottenga per i suoi figli i doni della pace, del progresso e della felicità.
Questo vento di oggi è molto significativo, perché il vento simboleggia lo Spirito Santo. «Spiritus spirat ubi vult, Spiritus vult spirare in Cuba». Le ultime parole sono in lingua latina perché Cuba appartiene anche alla tradizione latina. America latina, Cuba latina, lingua latina! «Spiritus spirat ubi vult et vult Cubam». Arrivederci.
(Giovanni Paolo II, omelia Piazza «José Martí» L’Avana 25 gennaio 1998)
Persona, estemporaneità, sinagoghe
Due Nomi di Dio
(Lc 4,21-30)
Il Vangelo di oggi – tratto dal capitolo quarto di san Luca – è la prosecuzione di quello di domenica scorsa. Ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia. Ora, dopo un periodo di assenza, Egli è ritornato in un modo nuovo: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia sul Messia e ne annuncia il compimento, lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia ha parlato di Lui. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?» (6,2). D’altra parte, però, i suoi compaesani lo conoscono troppo bene: E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione » (cfr L’infanzia di Gesù, 11). «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere?
Proprio conoscendo questa chiusura, che conferma il proverbio «nessun profeta è bene accetto nella sua patria», Gesù rivolge alla gente, nella sinagoga, parole che suonano come una provocazione. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c’è più fede al di fuori d’Israele. A quel punto la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va. A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona. E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio. Nella liturgia odierna risuonano anche queste parole di san Paolo: «La carità …non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità» (1 Cor 13,4-6). Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è rivelato: l’uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri.
In questo è illuminante l’atteggiamento di Maria. Chi più di lei ebbe familiarità con l’umanità di Gesù? Ma non ne fu mai scandalizzata come i compaesani di Nazaret. Ella custodiva nel suo cuore il mistero e seppe accoglierlo sempre di più e sempre di nuovo, nel cammino della fede, fino alla notte della Croce e alla piena luce della Risurrezione. Maria aiuti anche noi a percorrere con fedeltà e con gioia questo cammino.
[Papa Benedetto, Angelus 3 febbraio 2013]
Gesù è fastidioso e genera sospetto in coloro che amano schemi esteriori, perché proclama solo Giubileo, invece che confronto duro e vendetta.
In sinagoga il suo villaggio resta perplesso su questo amore troppo comprensivo - proprio ciò di cui abbiamo bisogno.
Il luogo di culto è quello in cui i credenti sono stati educati al contrario!
Il loro carattere scontroso è frutto acerbo d’una religiosità martellante, che nega il diritto di esprimere idee e sentimenti.
Il codice “sinagogale” ha prodotto fedeli finti, condizionati da una personalità disarmonica e scissa.
Ancora oggi e sin da piccoli, quest’intima lacerazione si manifesta nell’eccesso di controllo sull’apertura verso gli altri.
Conseguenza: un’accentuazione dell’incertezza giovanile - sotto la quale cova chissà cosa - e un carattere rigido da adulti.
Insomma, il martellamento religioso che non fa il balzo della Fede ci blocca, impedisce di capire, e inquina tutta la vita.
Anche ai tempi di Gesù l’insegnamento arcaico acuiva nazionalismi, la percezione stessa di traumi o violazioni, e paradossalmente proprio le situazioni ingabbiate da cui si voleva uscire.
Spiritualità esclusiva: è vuota - rozza o sofisticata che sia.
Il pensiero selettivo è la peggiore malattia delle visioni del mondo - che poi stanno sempre a dirci come dobbiamo essere.
Così nella vita concreta non pochi fedeli preferiscono avere amici senza cecità conformiste o gli stessi vincoli di appartenenza.
A ben guardare, persino le realtà laicali più devote manifestano un’accentuata e strana dicotomia di relazioni - tribali e altro.
Papa Francesco si è espresso in modo nitido:
«È uno scandalo quello di persone che vanno in chiesa, che stanno lì tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri e parlando male della gente: meglio vivere come ateo anziché dare una contro-testimonianza dell'essere cristiani».
Il mondo reale sveglia e stimola alla flessibilità degli standard, non inculca qualche vetero-esattezza, in clima d’ipnosi.
Oggi la realtà globale aiuta a smussare gli spigoli di conventicola [i quali hanno i loro rigurgiti, in termini di seduzione e risucchio].
Di fronte a tali convinzioni e illusioni il Profeta marca distanza; opera per diffondere consapevolezze, non immagini rassicuranti - né idee disincarnate.
Ma gli araldi critici irritano violentemente la folla degli abituali, i quali d’improvviso passano da una sorta di curiosità allo sdegno vendicativo.
Come nel paesino, così - si legge in filigrana - nella Città Santa [Monte Sion] da cui subito ti vogliono buttare giù (Lc 4,29).
Dovunque si parli di persona reale e sogni eterni: i suoi, non altrui.
Nell’ostilità che li attornia, gl’intimi del Signore sfidano a viso aperto le convinzioni normalizzate, acquisite dall’ambiente e non rielaborate.
Per loro non conta solo l’analogia calcolata a un contorno meschino. Vedono altri obbiettivi e non vogliono solo “arrivare”.
Se vengono sopraffatti, lasciano dietro sé quella scia d’intuizioni che prima o poi farà riflettere sia clan dannosissimi che opportunisti inutili.
In tal guisa, negli Amici e Fratelli è il Risorto stesso che scampa. E riprende il cammino, attraversando chi vuol farlo fuori (v. 30) per motivi d’interesse personale o tornaconto di quartiere.
In ogni tempo, i testimoni fanno pensare: non cercano complimenti e risultati piacevoli, ma recuperano i lati opposti e accettano la felicità altrui.
Sanno che l’Unicità deve fare la sua corsa: sarà ricchezza per tutti, e su questo punto non si lasciano inibire dalla nomenclatura.
Pur circondati dall’odio invidioso e mortale d’idioti astuti e sinagoghe consolidate, annunciano l’Amore in Verità - né bufale burine (approvate quanto vuote) né secondi fini (utilità in solido).
Infatti, senza mungere e tosare gli sprovveduti, tali missionari danno impulso al coraggio e alla crescita altrui, all’autonomia delle scelte.
Tutto ciò, favorendo la coesistenza degli invisibili e disprezzati; in un clima di comprensione e spontaneità.
Essi amano il rigoglio della vita, perciò discriminano tra religione e Fede: non si ergono a ripetitori di dottrine, prescrizioni, consuetudini.
Sulla base della personale esperienza del Padre, i fedeli ispirati valorizzano i diversi approcci, creando una stima sconosciuta.
Affrontano giovani mostri settari [direbbe il Pontefice], vecchi marpioni e i loro steccati, a viso aperto, caldeggiando nuovi atteggiamenti - differenti modi di rapportarsi con Dio.
Non per aggiungere proseliti e considerarsi indispensabili.
Anche se «in patria» (v. 24) sono personaggi scomodi per la mentalità ratificata, i nessuno-Profeti fanno sopravvivere il personalismo di Gesù, strappandolo da chi lo vuole sopito e sequestrato.
Come Lui, a rischio d’impopolarità e senza mendicare approvazioni.
Con le cicatrici di quel che è andato via, per un nuovo Viaggio.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In “patria” sei considerato un bambinone del luogo, o un profeta? Un personaggio ratificato, o scomodo? A modo, o impopolare?
La tua testimonianza è trasgressiva o conformista? Fa sopravvivere il personalismo di Gesù, strappandolo da chi lo vuole sopito e sequestrato?
Dio vuole la fede, loro i miracoli: Dio a proprio vantaggio
Domenica scorsa la liturgia ci aveva proposto l’episodio della sinagoga di Nazaret, dove Gesù legge un passo del profeta Isaia e alla fine rivela che quelle parole si compiono “oggi”, in Lui. Gesù si presenta come colui sul quale si è posato lo Spirito del Signore, lo Spirito Santo che lo ha consacrato e lo ha mandato a compiere la missione di salvezza in favore dell’umanità. Il Vangelo di oggi (cfr Lc 4,21-30) è la prosecuzione di quel racconto e ci mostra lo stupore dei suoi concittadini nel vedere che uno del loro paese, «il figlio di Giuseppe» (v. 22), pretende di essere il Cristo, l’inviato del Padre.
Gesù, con la sua capacità di penetrare le menti e i cuori, capisce subito che cosa pensano i suoi compaesani. Essi ritengono che, essendo Lui uno di loro, debba dimostrare questa sua strana “pretesa” facendo dei miracoli lì, a Nazaret, come ha fatto nei paesi vicini (cfr v. 23). Ma Gesù non vuole e non può accettare questa logica, perché non corrisponde al piano di Dio: Dio vuole la fede, loro vogliono i miracoli, i segni; Dio vuole salvare tutti, e loro vogliono un Messia a proprio vantaggio. E per spiegare la logica di Dio, Gesù porta l’esempio di due grandi profeti antichi: Elia ed Eliseo, che Dio aveva mandato a guarire e salvare persone non ebree, di altri popoli, ma che si erano fidate della sua parola.
Di fronte a questo invito ad aprire i loro cuori alla gratuità e alla universalità della salvezza, i cittadini di Nazaret si ribellano, e addirittura assumono un atteggiamento aggressivo, che degenera al punto che «si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero sul ciglio del monte […], per gettarlo giù» (v. 29). L’ammirazione del primo istante si è mutata in un’aggressione, una ribellione contro di Lui.
E questo Vangelo ci mostra che il ministero pubblico di Gesù comincia con un rifiuto e con una minaccia di morte, paradossalmente proprio da parte dei suoi concittadini. Gesù, nel vivere la missione affidatagli dal Padre, sa bene che deve affrontare la fatica, il rifiuto, la persecuzione e la sconfitta. Un prezzo che, ieri come oggi, la profezia autentica è chiamata a pagare. Il duro rifiuto, però, non scoraggia Gesù, né arresta il cammino e la fecondità della sua azione profetica. Egli va avanti per la sua strada (cfr v. 30), confidando nell’amore del Padre.
Anche oggi, il mondo ha bisogno di vedere nei discepoli del Signore dei profeti, cioè delle persone coraggiose e perseveranti nel rispondere alla vocazione cristiana. Persone che seguono la “spinta” dello Spirito Santo, che le manda ad annunciare speranza e salvezza ai poveri e agli esclusi; persone che seguono la logica della fede e non del miracolismo; persone dedicate al servizio di tutti, senza privilegi ed esclusioni. In poche parole: persone che si aprono ad accogliere in sé stesse la volontà del Padre e si impegnano a testimoniarla fedelmente agli altri.
Preghiamo Maria Santissima, perché possiamo crescere e camminare nello stesso ardore apostolico per il Regno di Dio che animò la missione di Gesù.
[Papa Francesco, Angelus 3 febbraio 2019]
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
These words are full of the disarming power of truth that pulls down the wall of hypocrisy and opens consciences [Pope Benedict]
Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze [Papa Benedetto]
While the various currents of human thought both in the past and at the present have tended and still tend to separate theocentrism and anthropocentrism, and even to set them in opposition to each other, the Church, following Christ, seeks to link them up in human history, in a deep and organic way [Dives in Misericordia n.1]
Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda [Dives in Misericordia n.1]
Jesus, however, reverses the question — which stresses quantity, that is: “are they few?...” — and instead places the question in the context of responsibility, inviting us to make good use of the present (Pope Francis)
Gesù però capovolge la domanda – che punta più sulla quantità, cioè “sono pochi?...” – e invece colloca la risposta sul piano della responsabilità, invitandoci a usare bene il tempo presente (Papa Francesco)
The Lord Jesus presented himself to the world as a servant, completely stripping himself and lowering himself to give on the Cross the most eloquent lesson of humility and love (Pope Benedict)
Il Signore Gesù si è presentato al mondo come servo, spogliando totalmente se stesso e abbassandosi fino a dare sulla croce la più eloquente lezione di umiltà e di amore (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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