Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XIV Domenica Tempo Ordinario (anno C) [6 luglio 2025]
Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga! Anche se entriamo nel tempo delle vacanze continuerò a farvi avere i commenti ai testi biblici di ogni domenica
*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66, 10-14)
Quando un profeta parla tanto di consolazione, significa che le cose vanno molto male per cui avverte il bisogno di consolare e tener viva la speranza: questo testo è dunque stato scritto in un momento difficile. L’autore, il Terzo Isaia, è uno dei lontani discepoli del grande Isaia e sta predicando agli esuli tornati dall’esilio babilonese verso il 535 a.C. Il loro ritorno, tanto sognato, si è rivelato deludente sotto ogni aspetto perché dopo 50 anni tutto era cambiato. Gerusalemme portava le cicatrici della catastrofe del 587 quando fu distrutta da Nabucodonosor; il Tempio era in rovina come buona parte della città e gli esuli non avevano ricevuto l’accoglienza trionfale come speravano. Il profeta parla di lutto e di consolazione, ma a fronte dello scoraggiamento dominante, non si accontenta di parole di conforto, ma osa persino un discorso quasi trionfale: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto” (v10). Da dove trarre quest’ottimismo? La risposta è semplice: dalla fede, o meglio dall’esperienza d’Israele che continua a sperare in ogni epoca perché ha certezza che Dio è sempre presente e, anche quando tutto sembra perduto, sa che nulla è impossibile a Dio. Già nei tempi di forte scoraggiamento durante l’Esodo si proclamava: “il braccio del Signore si è forse raccorciato? (Nm 11,23), immagine che ricorre più volte nel libro di Isaia. Durante l’esilio, quando vacillava la speranza, il Secondo Isaia comunicava a nome di Dio: “È forse troppo corta la mia mano per liberare?» (Is 50,2) e dopo il ritorno, in un periodo di forte preoccupazione, il Terzo Isaia, che leggiamo oggi, riprende due volte la stessa immagine sia nel capitolo 59,1 sia nell’ultimo versetto dell’odierna lettura: “La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi” (v.14). Dio che ha liberato il suo popolo tante volte in passato, mai l’abbandonerà. Anche da solo il termine “mano” è un’allusione all’uscita dall’Egitto, quando Dio intervenne con mano potente e braccio teso. Il versetto 11 dell’odierno testo: “Sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni” richiama la terribile prova di fede che il popolo visse nel deserto quando ebbe fame e sete, e anche allora Dio gli assicurò ciò che era necessario. Questo richiamo al libro dell’Esodo offre due lezioni: da una parte, Dio ci vuole liberi e sostiene tutti i nostri sforzi per instaurare la giustizia e la libertà; ma d’altra parte è importante e necessaria la nostra collaborazione. Il popolo è uscito dall’Egitto grazie all’intervento di Dio e questo Israele non lo dimentica mai, ma ha dovuto camminare verso la terra promessa a volte con grande fatica. Quando poi al versetto 13 Isaia promette da parte di Dio: “Io farò scorrere verso di essa come un fiume la pace” non significa che la pace si instaurerà magicamente. Il Signore è sempre fedele alle sue promesse: occorre continuare a credere che egli resta ed opera al nostro fianco in ogni situazione. Al tempo stesso è indispensabile che noi agiamo perché la pace, la giustizia, la felicità hanno bisogno del nostro apporto convinto e generoso.
*Salmo responsoriale (65/66, 1-3a, 4-5, 6-7a, 16.20)
Come spesso accade, l’ultimo versetto dà il senso di tutto il salmo: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Il vocabolario impiegato mostra che questo salmo è un canto di ringraziamento: “Acclamate, cantate, dategli gloria… a te si prostri tutta la terra… narrerò quanto per me ha fatto” composto probabilmente per accompagnare i sacrifici nel Tempio di Gerusalemme e a parlare non è un individuo, bensì l’intero popolo che rende grazie a Dio. Israele ringrazia come sempre per la liberazione dall’Egitto con cenni molto chiari: “Egli cambiò il mare in terraferma… passarono a piedi il fiume”; oppure: “Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini”. Anche l’espressione “le opere di Dio” nella Bibbia, indica sempre la liberazione dall’Egitto. Colpisce, del resto, la somiglianza tra questo salmo e il cantico di Mosè dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15), evento che illumina l’intera storia di Israele: l’opera di Dio per il suo popolo non ha altro scopo che liberarlo da ogni forma di schiavitù. Questo è il senso del capitolo 66 di Isaia che leggiamo questa domenica nella prima lettura: in un’epoca molto buia della storia di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, il messaggio è chiaro: Dio vi consolerà. Non si sa se questo salmo sia stato composto nella stessa epoca, in ogni caso il contesto è lo stesso perché è scritto per essere cantato nel Tempio di Gerusalemme e i fedeli che vi affluiscono per il pellegrinaggio prefigurano l’umanità intera che salirà a Gerusalemme alla fine dei tempi. E se il testo di Isaia annuncia la nuova Gerusalemme dove affluiranno tutte le nazioni, il salmo risponde: “Acclamate Dio, voi tutti tutta della terra… a te si prostri tutta la terra…a te canti inni al tuo nome”. La gioia promessa è il tema centrale di questi due testi: quando i tempi sono duri, occorre ricordarsi che Dio non vuole altro che la nostra felicità e un giorno la sua gioia riempirà tutta la terra, come scrive Isaia a cui il salmo risponde in eco: “Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio e narrerò quanto per me ha fatto” (vv16.20). I testi del profeta Isaia e del salmista sono immersi nella stessa atmosfera, ma non si trovano sullo stesso registro: il profeta esprime la rivelazione di Dio, mentre il salmo è la preghiera dell’uomo. Quando Dio parla si preoccupa della gloria e della felicità di Gerusalemme. Quando il popolo, attraverso la voce del salmista, parla rende a Dio la gloria che a lui solo spetta: “Acclamate Dio, voi tutti della terra, cantate la gloria del suo nome, dategli gloria con la lode” (vv1-3). Infine il salmo diventa voce di tutto Israele: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Un modo meraviglioso per dire che sarà l’amore ad avere l’ultima parola
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Galati (6, 14-18)
“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce “. Il fatto che Paolo insiste sulla croce come unico vanto, lascia intuire che c’è un problema. In effetti la lettera ai Galati inizia con un forte rimprovero perché molto in fretta i credenti erano passati da Cristo a un altro vangelo e alcuni seminavano confusione volendo capovolgere il vangelo di Cristo. A seminare zizzania erano ebrei convertiti al cristianesimo (giudeo-cristiani) che volevano obbligare tutti a praticare tutte le prescrizioni della religione ebraica, compresa la circoncisione. Paolo allora li mette in guardia perché teme che dietro la discussione sul sì o no alla circoncisione si nasconda una vera eresia dato che ci salva solo la fede in Cristo concretizzata dal Battesimo e imporre la circoncisione equivarrebbe a negarlo, ritenendo la croce di Cristo non sufficiente. Per questo ricorda ai Galati che il loro unico vanto è la croce di Cristo. Ma, per comprendere Paolo, bisogna precisare che per lui la croce è un evento e non si concentra solo sulle sofferenze di Gesù: per lui è l’evento centrale della storia del mondo. La croce –cioè Cristo crocifisso e risorto - ha riconciliato Dio e l’umanità, e ha riconciliato gli uomini tra loro. Scrivendo che per mezzo della croce di Cristo, “il mondo per me è stato crocifisso” intende dire che a a partire dall’evento della croce il mondo è definitivamente trasformato e nulla sarà più come prima, come scrive anche nella lettera ai Colossesi (Col 1, 19-20). La prova che la croce è l’evento decisivo della storia è che la morte è stata vinta: Cristo è risorto. Per Paolo, croce e risurrezione sono inseparabili trattandosi di un solo medesimo evento. Dalla croce è nata la creazione nuova, contrapposta al mondo antico. In tutta questa lettera, Paolo ha contrapposto il regime della Legge mosaica con il regime della fede; la vita secondo la carne e la vita secondo lo Spirito; l’antica schiavitù e la libertà che riceviamo da Gesù Cristo. Aderendo per fede a Cristo, diventiamo liberi di vivere secondo lo Spirito. Il mondo antico è in guerra e l’umanità non crede che Dio sia amore misericordioso e di conseguenza, disobbedendo ai suoi comandamenti, crea rivalità e guerre per il potere e per il denaro. La creazione nuova, al contrario, è l’obbedienza del Figlio, la sua fiducia totale, il perdono ai suoi carnefici, la sua guancia tesa a chi gli strappa la barba, come scrive Isaia. La Passione di Cristo è stata un culmine di odio e di ingiustizia perpetrati in nome di Dio; Cristo però ne ha fatto un culmine di non-violenza, di dolcezza, di perdono. E noi, a nostra volta, innestati nel Figlio, siamo resi capaci della stessa obbedienza e dello stesso amore. Questa conversione straordinaria, che è opera dello Spirito di Dio, ispira a Paolo una formula particolarmente incisiva: Per mezzo della croce, il mondo è crocifisso per me e io per il mondo che vuol dire: Il modo di vivere secondo il mondo è abolito, ormai viviamo secondo lo Spirito e questo diventa motivo di vanto per i cristiani. Proclamare la croce di Cristo non è facile e quando dice: “io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo” allude alle persecuzioni che egli stesso ha subito per aver annunciato il vangelo. Un’annotazione finale: questo è l’unico scritto paolino che termina con la parola “fratelli”. Dopo aver dibattuto polemicamente con i Galati alla fine Paolo ritrova nella sua comunità la fraternità che lega evangelizzatori a evangelizzati e l’unica sorgente dell’amore ritrovato è “nella grazia del Signore nostro Gesù Cristo” (v.18).
*Dal vangelo secondo Luca (10, 1- 20)
Questa pagina del vangelo presenta Gesù mentre si dirige verso Gerusalemme. Dopo aver superato tutte le tentazioni e aver vinto il principe di questo mondo, gli resta da trasmettere il testimone ai suoi discepoli che a loro volta dovranno consegnarlo ai loro successori. La missione è troppo importante e preziosa e va condivisa. In primo luogo c’è l’invito a pregare “il signore della messe perché mandi operai nella sua messe” (v.2). Dio conosce tutto ma c’invita a pregare perché ci lasciamo illuminare da Lui. La preghiera non mira mai a informare Dio: sarebbe ben presuntuoso da parte nostra, ma ci prepara a lasciarci trasformare da lui. Invia così il folto gruppo dei discepoli in missione fornendo loro tutti i consigli necessari per affrontare prove e ostacoli a lui ben noti. Quando saranno rifiutati, come Gesù ha sperimentato in Samaria, non dovranno scoraggiarsi ma partendo annunceranno a tutti: “E’ vicino a voi il Regno di Dio” (v.9). E aggiungeranno: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi” (v.11). Ecco inoltre alcune specifiche consegne per i discepoli. “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (v.3) e questo indica che occorre restare sempre miti come agnelli essendo la missione del discepolo recare la pace: “in qualsiasi casa entriate, dite prima: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui” (vv.5-6). Bisogna cioè credere a tutti i costi nel potere contagioso della pace perché quando auguriamo sinceramente la pace, realmente la pace cresce. E se qualcuno non vi accetta non lasciatevi appesantire dagli insuccessi e dai rifiuti. Ogni discepolo avrà vita difficile perché, se Gesù stesso non aveva dove posare il capo, questo toccherà pure ai suoi discepoli. E per questo dovranno imparare a vivere giorno per giorno senza preoccuparsi del domani, accontentandosi di mangiare e bere quello che sarà servito, come nel deserto il popolo di Dio poteva raccogliere la manna solo per il giorno stesso. Per evangelizzare porteranno con sé solo l’essenziale: “senza borsa, né sacca, né sandali” (v.4) e non passate di casa in casa.” (v.7). Ci saranno spesso scelte dolorose da compiere a causa dell’urgenza della missione e sarà importante resistere alla tentazione della vanità del successo: ”Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (v.20). Da sempre il desiderio di notorietà insidia i discepoli, ma i veri apostoli non sono necessariamente i più famosi. Si può pensare che i settantadue discepoli abbiano superato bene la prova perché al ritorno, Gesù potrà dire: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore” (v.18). Intraprendendo la sua ultima marcia verso Gerusalemme, Gesù sente per questo un grande conforto; tanto che subito dopo Luca ci dice: “In quello stesso istante, esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”
+Giovanni D’Ercole
Festa dei Santi Pietro e Paolo apostoli [29 giugno 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Un ricordo particolare in questa domenica per Papa Leone XIV e per il suo ministero non facile in questo tempo di gravi crisi umane e spirituali nel mondo
*Prima lettura dagli Atti degli Apostoli (12, 1–11)
Gesù fu probabilmente giustiziato nell’aprile del 30. All’inizio, i suoi discepoli erano pochissimi e non davano fastidio, ma la situazione si complica quando iniziano a operare guarigioni e miracoli. Pietro fu imprigionato due volte dalle autorità religiose: la prima con Giovanni e si concluse con una comparizione davanti al tribunale e con minacce; la seconda con altri apostoli che Luca non nomina, liberati in modo miracoloso da un angelo (At 5, 17-20). In seguito le autorità religiose fanno uccidere Stefano e scatenano una vera persecuzione che spinge i più minacciati tra i cristiani chiamati “ellenisti” a lasciare Gerusalemme per la Samaria e la costa mediterranea. Giacomo, Pietro e Giovanni e l’insieme dei Dodici rimasero a Gerusalemme. Nell’episodio odierno il potere politico fa imprigionare Pietro sotto Erode Agrippa che regnò dal 41 al 44 d.C. Nipote di Erode il Grande, che regnava al momento della nascita di Gesù, Erode Agrippa era attento a non scontentare né il potere romano, né gli ebrei, tanto che si diceva che era romano a Cesarea e giudeo a Gerusalemme. Cercando però di piacere agli uni o agli altri, non poteva che essere nemico dei cristiani ed è in tale contesto che per farsi benvolere dagli ebrei, fece giustiziare Giacomo (figlio di Zebedeo) e imprigionò Pietro. Pietro scampa ancora miracolosamente, ma ciò che interessa a Luca, molto più del destino personale di Pietro, è la missione di evangelizzazione: se gli angeli vengono a liberare gli apostoli è perché il mondo ha bisogno di loro e Dio non permetterà che un potere ostacoli l’annuncio del vangelo. Una nota storica: Gli ebrei, ridotti in schiavitù e minacciati da un vero e proprio genocidio, vennero più volte liberati miracolosamente e nel corso dei secoli hanno annunciato al mondo che questa liberazione è sempre opera di Dio. Purtroppo, in un misterioso rovesciamento, può capitare che coloro che sono incaricati di annunciare e compiere essi stessi l’opera liberatrice di Dio, finiscano per farsi complici di una nuova forma di dominio, come avvenne per Gesù, vittima della perversione del potere religioso del suo tempo. Luca, nel racconto della sua morte e resurrezione, mise bene in luce questo paradosso: fu nel contesto della Pasqua ebraica, memoriale del Dio liberatore, che il Figlio di Dio venne soppresso dai difensori di Dio. Tuttavia l’amore e il perdono del Dio “mite e umile di cuore” ebbero l’ultima parola: Gesù è risorto. Ed ecco che, a sua volta, la giovane Chiesa si trova ad affrontare la persecuzione dei poteri religiosi e politici, proprio come Gesù e anche questa volta, avviene nel contesto della Pasqua ebraica, a Gerusalemme. Pietro fu arrestato durante la settimana di Pasqua che inizia con il pasto pasquale e continua con la settimana degli Azzimi. Le parole che l’angelo dice a Pietro somigliano agli ordini dati al popolo la notte dell’uscita dall’Egitto (Es 12, 11): “Alzati in fretta! Mettiti la cintura, e legati i sandali” . Luca fa capire che Dio prosegue la sua opera di liberazione e l’intero racconto di questo miracolo è scritto sul modello e con il vocabolario della passione e resurrezione di Cristo. Simili gli scenari: è notte, c’è la prigione, ci sono i soldati, Pietro dorme a differenza di Gesù, ma per entrambi si leva nella notte la luce di Dio che agisce. Nell’oscurità della prova non viene meno la promessa di Cristo a Pietro perché le forze della morte e del male non prevarranno. La Chiesa nel travaglio della storia ripete spesso con Pietro la sua professione di fede: “Ora so veramente che il Signore ha mandato un angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode” (v.11)
*Salmo responsoriale (33/34, 2-9)
“L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li libera”. Cantiamo questo salmo dopo aver ascoltato il racconto della liberazione di Pietro e sappiamo che tutta la giovane Chiesa era in preghiera per lui. “Questo povero grida; il Signore lo ascolta”: la fede è gridare a Dio e sapere che ci ascolta, come ascoltò il grido della comunità, e Pietro fu liberato. Gesù però sulla croce non è sfuggito alla morte e anche Pietro di nuovo prigioniero a Roma sarà ucciso. Si dice spesso che con la preghiera tutto si risolverà e invece non è così perché anche chi prega e fa novene e pellegrinaggi non sempre ottiene la grazia domandata. Dunque Dio a volte non ascolta oppure, quando non veniamo esauditi come vorremmo è perché abbiamo pregato male o non abbastanza? La risposta sta in tre punti: 1. Sì,Dio ascolta sempre il nostro grido; 2. risponde donandoci il suo Spirito; 3. suscita accanto a noi dei fratelli. 1.Dio sempre ascolta il nostro grido. Nell’episodio del roveto ardente (Es 3) leggiamo: “Dio disse a Mosè: Sì, davvero, ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, e ho udito il suo grido sotto i colpi dei suoi sorveglianti. Sì, conosco le sue sofferenze”. Il vero credente sa che il Signore ci è vicino nella sofferenza perché è “dalla nostra parte”, come leggiamo qui nel salmo 33/34: Ho cercato il Signore: mi ha risposto…mi ha liberato…ascolta…salva… il suo angelo si accampa attorno e libera quelli che lo temono, è un rifugio. 2. Dio ci risponde donandoci il suo Spirito come si capisce quando si ascolta ciò che Gesù dice nel vangelo di Luca: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Chiunque infatti chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi bussa, sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà invece un serpente? O se chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono. » (Lc 11, 9-13). Dio non fa sparire ogni preoccupazione per magia, ma ci riempie del suo Spirito e la preghiera ci apre all’azione dello Spirito che suscita in noi la forza per modificare la situazione e superare la prova. Non siamo più soli: leggiamo nel salmo responsoriale che “Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce… Ho cercato il Signore, mi ha risposto e da ogni paura mi ha liberato” (vv. 6-7). Credere che il Signore ci ascolta fa spegnere la paura e svanire l’angoscia. 3.Dio suscita accanto a noi dei fratelli. Quando nell’episodio del roveto ardente Dio dice che ha visto la miseria del popolo in Egitto e udito il suo grido, suscita in Mosè l’impulso a liberare il popolo: “E ora, poiché il grido degli Israeliti è giunto fino a me… va’ dunque; io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo” (Es 3, 9-10). Quante volte nell’esperienza dalla sofferenza, Dio ha suscitato i profeti e i capi di cui il popolo aveva bisogno per prendere in mano il proprio destino. Infondo il salmo responsoriale esprime l’esperienza storica di Israele dove la fede appare come un duplice grido: l’uomo grida la sua angoscia come Giobbe e sempre Dio ascolta e lo libera. L’uomo poi prega rendendo grazie come Israele che, pur fra mille vicissitudini, mai ha perso la speranza cantando: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino!”(vv. 2-3)
*Seconda lettura dalla seconda Lettera di san Paolo a Timoteo (4, 6 -8.17-18)
Si pensa che le due lettere a Timoteo furono forse scritte qualche anno dopo da un discepolo di Paolo, invece tutti concordano nel riconoscere che è suo il testo che oggi leggiamo; anzi rappresenta il suo testamento e l’ultimo saluto a Timoteo. Prigioniero a Roma, Paolo è consapevole che sarà giustiziato ed è arrivato il momento della grande partenza, certo di dover comparire davanti a Dio. Guarda quindi retrospettivamente al passato da quando sulla via di Damasco Cristo l’ha impugnato come una spada e traccia un bilancio utilizzando in flashback quattro immagini che ben disegnano l’itinerario della sua missione. 1. La prima immagine è legata al culto: “Io sto già per essere versato in offerta” (v.6), allude a un’antica usanza cultuale chiamata libazione che consisteva nel versare un liquido (vino, olio, acqua latte o miele) come offerta sacra, simbolo del dono totale della vita alla divinità. Paolo usa quest’immagine per dire che la sua esistenza è un totale sacrificio a Cristo. 2. La seconda immagine é legata alla navigazione: “è giunto il momento che io lasci questa vita” (v.6). Paolo sa che il suo viaggio è quasi giunto al porto dopo tempeste e problemi d’ogni genere. Ha scelto la parola greca “analusis” (scioglimento, liberazione) usata in ambito nautico e militare sia per indicare lo scioglimento delle corde che tengono la nave ancorata per salpare verso mare aperto; sia in ambito militare per indicare lo smontaggio delle tende di un accampamento quando i soldati partono per una nuova missione. Paolo vuol dire che la sua vita sta per essere liberata dai legami terreni per salpare verso la patria, la casa del Padre. 3. La terza immagine è legata alla lotta, non violenta ma interiore e spirituale, per evangelizzare: “Ho combattuto la buona battaglia” (v.7). La sua vita è segnata da combattimenti, persecuzioni, aspri confronti e tradimenti, eppure, come scrive più avanti, è sempre stata liberato “dalla bocca del leone” (v.17). 4.La quarta immagine è connessa allo sport: “Ho terminato la corsa” (v.7). La corsa praticata negli stadi nell’antichità è simbolo del cristiano che mai abbandona il percorso missionario e al termine, se conserva la fede, riceve la “corona” che il Signore riserva ai veri discepoli di Cristo. Questa corsa non è competizione fra atleti perché ognuno al suo ritmo avanza verso Cristo e “la sua manifestazione”. Ed allora, come Gesù e Stefano, al momento dell’esecuzione, Paolo perdona coloro che lo hanno abbandonato certo della forza del Signore liberatrice da ogni male. E il pericolo vero da cui Dio lo ha preservato è quello di rinunciare alla sua missione fino alla morte. Non è però questo un motivo di vanto perché sa che Dio l’ha salvato e per questo intona il canto di gloria mentre nasce alla vera vita: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”
*Dal Vangelo secondo Matteo (16, 13 –19)
Questo episodio segna una svolta nella vita di Gesù e di Pietro perché appena Simone proclama chi è Gesù, riceve da lui la missione per la Chiesa. Cristo costruisce la sua Chiesa su un uomo la cui unica virtù è quella di aver proclamato ciò che il Padre gli ha rivelato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”(v16) . Questo significa che l’unico vero pilastro della Chiesa è sua la fede in Cristo, il quale subito risponde: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (v.18). Questo celebre testo “petrino” è costruito su tre simboli: Il primo è la “pietra” che si lega al nome aramaico Kefa: “Tu sei Pietro”. In greco: “Σὺ εἶ Πέτρος (Petros)” significa “tu sei Pietra” o “Roccia”. Gesù cambia il nome di Simone in Pietro, dandogli una missione e un’identità nuova. In ambito semitico cambiare il nome indica cambiamento del destino e della realtà della persona. Simone diventa così la roccia sulla quale Cristo pone la base della Chiesa che resta sua e di cui è per sempre la “pietra angolare” insostituibile. Nell’antichità, la pietra era simbolo di stabilità e sicurezza per cui edificare sulla pietra significa costruire su un fondamento saldo e inamovibile e su Pietro il Signore inizia a dare una forma visibile alla sua comunità. Promette che la sua Chiesa, fondata su questa pietra- la fede e la sua missione di Pietro(v. 6),- resisterà alle forze del male e Pietro diventa così il primo pastore visibile della comunità, anche se il vero fondamento ed eterno Pastore è Cristo (cfr. 1 Cor 3,11). Secondo simbolo, le chiavi: “A te darò le chiavi del regno dei cieli”. Le chiavi, segno di autorità e responsabilità su una casa, rendono un’immagine efficace della potestà che Cristo trasmette a Pietro. Affidare le chiavi equivale a conferire il potere di aprire e chiudere, di permettere o vietare l’accesso. Pietro non è il fondatore e il sovrano di un regno, ma il responsabile immediato che esercita il potere in modo delegato guidando la comunità dei credenti, insegnando e prendendo decisioni vincolanti in materia di fede e di morale. Il terzo simbolo s’esprime nel binomio legare e sciogliere: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto in cielo” (v19). Le espressioni “legare” e “sciogliere” erano comuni nel linguaggio rabbinico e indicavano il potere di dichiarare qualcosa lecito o illecito, di permettere o proibire determinate azioni. Applicate a Pietro, sottolineano la sua autorità nel prendere decisioni dottrinali e disciplinari in piena fedeltà alla parola di Dio (Gv 20,23), autorità che condivide nella Chiesa con gli altri apostoli (Mt. 18,18), anche se Pietro conserva un ruolo di unico e preminente rilievo. Infine Gesù dice: “Io edificherò la mia Chiesa”: è dunque lui che costruisce e guida la Chiesa che resta per sempre sua, per cui possiamo camminare sicuri perché “le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.” (v.18)
+ Giovanni D’Ercole
(Mt 8,23-27)
La nostra vita procede come su una barchetta sballottata da sismi. Andiamo speranzosi, ma talora le avversità rischiano di farci annegare, e con noi sembra trascinino giù tutta la vita.
Usando parafrasi del libro dell’Esodo, Mt cerca di aiutare le sue comunità a comprendere il Mistero della Persona di Gesù.
Non pochi giudei convertiti ritenevano Cristo un personaggio tutto sommato in linea con la loro mentalità e tradizione, concorde con profezie e figure del Primo Testamento.
Altrove, alcuni pagani che avevano accettato il Signore propugnavano un’intesa con la mentalità mondana - una sorta di accordo fra Gesù e Impero.
Ma Chi poteva placare le tempeste?
La situazione delle minuscole famiglie cristiane di Galilea e Siria era ancora buia. Cristo pareva non del tutto presente, e il mare agitato, il vento contrario.
Si poteva ri-creare l’Esodo?
Proprio nella condizione di pellegrini sballottati, nell’accostarsi alla sua Persona si faceva esperienza di una strana e diversa stabilità: il perdurare controcorrente.
Una traversata verso la libertà che proveniva dall’aggrapparsi al solo Gesù, nel caos delle sicurezze. Per una discorde permanenza.
Mentre i discepoli accarezzavano desideri nazionalisti, il Maestro inizia a far capire che Egli non è il Messia volgarmente atteso, restauratore del defunto impero di Davide o dei Cesari.
Il Regno di Dio è aperto a tutta l'umanità, che in quei tempi di sballottamento cercava sicurezze, accoglienza, punti di riferimento. Ciascuno poteva trovarvi casa e riparo (Mt 13,32c; Mc 4,32b).
Ma gli apostoli e i veterani di chiesa sembravano avversi alle proposte di Cristo; rimanevano insensibili a un’idea troppo larga di fraternità - che li spiazzava.
L’insegnamento e richiamo imposto ai discepoli è quello di passare all’altra riva (cf. Mc 4,35; Lc 8,22) ossia di non trattenere per sé.
Gli Apostoli hanno il compito di comunicare le ricchezze del Padre anche ai pagani, considerati impuri e malfamati.
Eppure proprio gli intimi del Maestro non ne volevano sapere di sproporzioni rischiose, che facessero effettivamente risaltare l’azione a maglie larghe del Figlio di Dio.
Erano volentieri tarati su consuetudini di religiosità comune, e un’ideologia di potere circoscritta.
La resistenza all’incarico divino nonché il dibattito interno lacerante che ne era derivato, già negli anni 70 aveva scatenato una grande tempesta nelle assemblee dei credenti.
«Ed ecco venne una grande agitazione nel mare, così che la barca veniva coperta dalle onde» (Mt 8,24).
La bufera riguardava i soli discepoli, unici sgomenti; non Gesù: «ma dormiva» (v.24c) [si tratta del Risorto].
Quel che accadeva “dentro” la barchetta della Chiesa non era il semplice riflesso di ciò che capitava “fuori”! Questo l’errore da correggere.
Le situazioni emotivamente rilevanti hanno il loro senso, recano un appello significativo, introducono una diversa introspezione, il cambiamento decisivo; una nuova ‘genesi’.
La prova infatti attiva le anime nel modo più efficace, perché ci sgancia dall’idea di stabilità, e pone in contatto con energie sottaciute, avviando il nuovo dialogo con gli eventi.
In Lui, eccoci dunque intrisi d’una diversa visione del pericolo.
[Martedì 13.a sett. T.O. 1 luglio 2025]
(Mt 8,23-27)
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni
“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni” – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente […]
Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio: che Egli venisse e proteggesse gli uomini da tutte queste minacce.
“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”. Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera […] Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso.
Excita – la preghiera ricorda il grido rivolto al Signore, che stava dormendo nella barca dei discepoli sbattuta dalla tempesta e vicina ad affondare. Quando la sua parola potente ebbe placato la tempesta, Egli rimproverò i discepoli per la loro poca fede (cfr Mt 8,26 e par.). Voleva dire: in voi stessi la fede ha dormito. La stessa cosa vuole dire anche a noi. Anche in noi tanto spesso la fede dorme. PreghiamoLo dunque di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti – cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo.
[Papa Benedetto, alla Curia romana 20 dicembre 2010]
La nostra vita procede come su una barchetta sballottata da sismi. Andiamo speranzosi, ma talora le avversità rischiano di farci annegare, e con noi sembra trascinino giù tutta la vita.
Episodi che tuttavia fanno capire quanto vale l’amicizia di Cristo per noi e cosa ci trasmette.
Sperimentiamo infatti che solo il Signore vince lo spavento degli sconvolgimenti.
Ma lo fa senza precipitarsi, e privo di schemi assodati che lo inquadrino per sempre (sarebbe come farlo perire).
Se lo ospitiamo in modo semplice e schietto, ci rendiamo conto che esiste un altro regno, che ogni elemento è in suo potere.
Su tale onda divenuta vitale, tutto servirà per riattivarci - anche il vento contrario e le insidie del male.
L’Amico invisibile ci guida e realizza infallibilmente. E fa giungere a Riva. Approdo che è condizione definitiva.
Terraferma che la forza delle onde non può intaccare, neanche quando avessimo la sensazione di essere trascinati altrove dai flutti.
Usando parafrasi del libro dell’Esodo, Mt cerca di aiutare le sue comunità a comprendere il Mistero della Persona di Gesù.
Non pochi giudei convertiti ritenevano Cristo un personaggio tutto sommato in linea con la loro mentalità e tradizione, concorde con profezie e figure del Primo Testamento.
Altrove, alcuni pagani che avevano accettato il Signore propugnavano un’intesa con la mentalità mondana - una sorta di accordo fra Gesù e Impero.
Ma Chi poteva placare le tempeste?
La situazione delle minuscole famiglie cristiane di Galilea e Siria era ancora buia. Cristo pareva non del tutto presente, e il mare agitato, il vento contrario.
Si poteva ri-creare l’Esodo?
La Fede in Lui era scossa, non distesa. I discepoli non possedevano la medesima fiducia tranquilla del Maestro nei confronti del Padre.
Eppure, proprio nella condizione di pellegrini sballottati, nell’accostarsi alla sua Persona si faceva esperienza di una strana e diversa stabilità: il perdurare controcorrente.
Una traversata verso la libertà che proveniva dall’aggrapparsi al solo Gesù, nel caos delle sicurezze. Per una discorde permanenza.
Ancora oggi, è il cammino di crescita non abitudinario e critico che Lo svela in grado di manifestare la sua forza quieta, restituendo gli elementi sconvolti alla calma.
Il senso di marcia imposto da Gesù ai suoi sembra contromano, e infrange sfacciatamente le regole accettate da tutti.
Mentre i discepoli accarezzavano desideri nazionalisti, il Maestro inizia a far capire che Egli non è il Messia volgarmente atteso, restauratore del defunto impero di Davide o dei Cesari.
Il Regno di Dio è aperto a tutta l'umanità, che in quei tempi di sballottamento cercava sicurezze, accoglienza, punti di riferimento. Ciascuno poteva trovarvi casa e riparo (Mt 13,32c; Mc 4,32b).
Ma gli apostoli e i veterani di chiesa sembravano avversi alle proposte di Cristo; rimanevano insensibili a un’idea troppo larga di fraternità - che li spiazzava. È un problema ancora vivo e gravissimo.
L’insegnamento e richiamo imposto ai discepoli è quello di passare all’altra riva (Mc 4,35; Lc 8,22) ossia di non trattenere per sé.
Gli Apostoli hanno il compito di comunicare le ricchezze del Padre ai pagani, considerati impuri e malfamati.
Eppure proprio gli intimi del Maestro non ne volevano sapere di sproporzioni rischiose, che facessero effettivamente risaltare l’azione a maglie larghe del Figlio di Dio.
Erano volentieri tarati su consuetudini di religiosità comune, e un’ideologia di potere circoscritta.
La resistenza all’incarico divino nonché il dibattito interno lacerante che ne era derivato, già negli anni 70 aveva scatenato una grande tempesta nelle assemblee dei credenti.
«Ed ecco venne una grande agitazione nel mare, così che la barca veniva coperta dalle onde» (Mt 8,24).
La bufera riguardava i soli discepoli, unici sgomenti; non Gesù: «ma dormiva» (v.24c) [si tratta del Risorto].
Quel che accadeva “dentro” la barchetta della Chiesa non era il semplice riflesso di ciò che capitava “fuori”! Questo l’errore da correggere.
Anche per noi, tale identificazione può bloccare e rendere cronica la vita, proprio a partire dalla gestione delle situazioni emotivamente rilevanti - che hanno il loro senso.
Esse sempre recano un appello significativo, introducono un diverso occhio, introspezione, dialogo.
Insomma, dalla pace della condizione divina che domina il caos, il Signore richiama l’attenzione e rimprovera gli apostoli, accusandoli di non avere Fede.
Pur devoti, mancano d’un briciolo di rischio. Mancano d’amore - come un granello di senape (v.26) - da portare all’umanità per rinnovarla.
E noi credenti siamo ancora confusi, nell’imbarazzo? Tuttora infuria il caos degli schemi - non escluso l’egoismo, che inesorabilmente fa capolino?
Andiamo paradossalmente sulla strada dell’Esodo, dell’esperienza dei primi; “conoscenza” giusta, perché diretta. Unica avvertenza: non bisogna farsi prendere dal timore.
In Lui, eccoci intrisi d’una diversa visione del pericolo.
Dice il Tao Tê Ching (xxii): «Il santo non da sé vede, perciò è illuminato». Anche nelle strettoie.
In ogni tempo sembra infatti che Gesù voglia espressamente per gli apostoli i momenti scuri del confronto e del dubbio (Mc 4,35; Lc 8,22b). In primis saranno alcuni responsabili di chiesa, i chiamati a far pulizia da convinzioni ripetitive. Solo così il loro Annuncio non resterà tarato.
Infatti le attese da manuale (e l’abitudine ad allestire armonie conformiste) bloccano la fioritura di ciò che siamo e speriamo.
Soprattutto quel che è seccante o addirittura “contro” ha qualcosa di decisivo da dirci.
Anche nella barchetta delle assemblee [cf. Mc 4,36] il disagio deve esprimersi.
«E avvicinatisi lo svegliarono dicendo: Signore, salva, siamo perduti!» (v.25).
Il periglio è occasione per far rinascere l’essenza di ciascuno e della stessa comunità.
La prova introduce il cambiamento (nascosto o represso) e lo attiva nel modo più efficace.
La Novità viene dal naturale contatto con energie sottaciute, primordiali.
Più degli opposti attriti e degli eventi esterni in conflitto, l’ansia, l’impressione, l’angoscia, sorgono infatti dal timore stesso di affrontare le normali o decisive questioni dell’esistenza.
Ciò può accadere per sfiducia: sentendo il pericolo forse solo perché ci cogliamo intimamente poco cresciuti, e incapaci di altro colloquio; di scoprire e rielaborare, convertirci, o rimodulare.
La fatica di mettersi in discussione e la sofferenza che l’avventura della Fede riservano, sfumeranno anche tra i fastidi del mare mosso - che appunto non vuole farci tornare “quelli di prima”.
Basta sganciarsi dall’idea di stabilità, anche religiosa, e ascoltare la vita così com’è, abbracciandola.
Perfino nella sua folla di urti, amarezze, speranze di armonia infrante, dispiaceri - intrattenendosi con questa fiumana di nuove emergenze, e incontrando la propria natura profonda.
Il miglior vaccino contro gli affanni dell’avventura insieme a Cristo sulle onde mutevoli dell’inatteso. sarà proprio di non evitare a monte le preoccupazioni - anzi, andare loro incontro e accoglierle; riconoscersi, lasciarle fare.
Anche nel tempo della crisi globale, le apprensioni che sembra vogliano devastarci, vengono a noi come energie preparatorie di altre gioie che desiderano irrompere. Nuove sintonie cosmiche; per lo stupore a partire da noi stessi - e guida dell’aldilà.
La nostra barchetta è in una stabilità invertita, capovolta, non pareggiabile; incerta, sconveniente - eppure energica, pungente, capace di reinventarsi.
E sarà perfino eccessiva, ma dai dissesti.
Per una proposta di Tenerezza (non corrispondente) che non è zona relax, perché fa rima con ansia terribile e... ancora disattese periferie!
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In quali occasioni hai trovato facile ciò che prima sembrava impossibile? Alzi mai la voce con Gesù? Con quale Nome ti si è rivelato? Con quale titolo lo definiresti? Hai attraversato acque che non prevedevi nei tuoi piani e propositi? Chi ha calmato le tue tempeste? Come vivi l’armonia?
Qualche altra provvidenza, che tu ignori
«È bene non cadere, oppure cadere e risollevarsi. E se accade di cadere, è bene non disperare e non rendersi estranei all’amore che il Sovrano ha per l’uomo. Se lo vuole può infatti fare misericordia alla nostra debolezza. Soltanto non allontaniamoci da lui, non sentiamoci angustiati se siamo forzati dai comandamenti e non avviliamoci se non arriviamo a niente (…).
Non dobbiamo né aver fretta né ripiegarci, ma sempre ricominciare di nuovo (…).
Aspettalo, ed egli ti farà misericordia, sia con la conversione sia con delle prove, sia con qualche altra provvidenza che tu ignori».
[Pietro Damasceno, libro secondo, ottavo discorso, in La Filocalia, Torino 1982, I,94]
“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni” – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente […]
Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio: che Egli venisse e proteggesse gli uomini da tutte queste minacce.
“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”. Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera […] Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso.
Excita – la preghiera ricorda il grido rivolto al Signore, che stava dormendo nella barca dei discepoli sbattuta dalla tempesta e vicina ad affondare. Quando la sua parola potente ebbe placato la tempesta, Egli rimproverò i discepoli per la loro poca fede (cfr Mt 8,26 e par.). Voleva dire: in voi stessi la fede ha dormito. La stessa cosa vuole dire anche a noi. Anche in noi tanto spesso la fede dorme. PreghiamoLo dunque di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti – cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo.
[Papa Benedetto, alla Curia romana 20 dicembre 2010]
La tempesta sedata sul lago di Genesaret può essere riletta come “segno” di una costante presenza di Cristo nella “barca” della Chiesa, che molte volte nel corso della storia viene esposta alla furia dei venti nelle ore di tempesta. Gesù, svegliato dai discepoli, comanda ai venti e al mare e si fa una grande bonaccia. Poi dice loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?” (Mc 4, 40). In questo, come in altri episodi, si vede la volontà di Gesù di inculcare negli apostoli e nei discepoli la fede nella sua presenza operatrice e protettrice anche nelle ore più tempestose della storia, nelle quali potrebbe infiltrarsi nello spirito il dubbio sulla sua divina assistenza. Di fatto nella omiletica e nella spiritualità cristiana il miracolo è stato spesso interpretato come “segno” della presenza di Gesù e garanzia della fiducia in lui da parte dei cristiani e della Chiesa.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 dicembre 1987]
Nella liturgia di oggi si narra l’episodio della tempesta sedata da Gesù (Mc 4,35-41). La barca su cui i discepoli attraversano il lago è assalita dal vento e dalle onde ed essi temono di affondare. Gesù è con loro sulla barca, eppure se ne sta a poppa sul cuscino e dorme. I discepoli, pieni di paura, gli urlano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38).
E tante volte anche noi, assaliti dalle prove della vita, abbiamo gridato al Signore: “Perché resti in silenzio e non fai nulla per me?”. Soprattutto quando ci sembra di affondare, perché l’amore o il progetto nel quale avevamo riposto grandi speranze svanisce; o quando siamo in balìa delle onde insistenti dell’ansia; oppure quando ci sentiamo sommersi dai problemi o persi in mezzo al mare della vita, senza rotta e senza porto. O ancora, nei momenti in cui viene meno la forza di andare avanti, perché manca il lavoro oppure una diagnosi inaspettata ci fa temere per la salute nostra o di una persona cara. Sono tanti i momenti nei quali ci sentiamo in una tempesta, ci sentiamo quasi finiti.
In queste situazioni e in tante altre, anche noi ci sentiamo soffocare dalla paura e, come i discepoli, rischiamo di perdere di vista la cosa più importante. Sulla barca, infatti, anche se dorme, Gesù c’è, e condivide con i suoi tutto quello che sta succedendo. Il suo sonno, se da una parte ci stupisce, dall’altra ci mette alla prova. Il Signore è lì, presente; infatti, attende – per così dire – che siamo noi a coinvolgerlo, a invocarlo, a metterlo al centro di quello che viviamo. Il suo sonno provoca noi a svegliarci. Perché, per essere discepoli di Gesù, non basta credere che Dio c’è, che esiste, ma bisogna mettersi in gioco con Lui, bisogna anche alzare la voce con Lui. Sentite questo: bisogna gridare a Lui. La preghiera, tante volte, è un grido: “Signore, salvami!”. Stavo vedendo, nel programma “A sua immagine”, oggi, Giorno del Rifugiato, tanti che vengono in barconi e nel momento di annegare gridano: “Salvaci!”. Anche nella nostra vita succede lo stesso: “Signore, salvaci!”, e la preghiera diventa un grido.
Oggi possiamo chiederci: quali sono i venti che si abbattono sulla mia vita, quali sono le onde che ostacolano la mia navigazione e mettono in pericolo la mia vita spirituale, la mia vita di famiglia, la mia vita psichica pure? Diciamo tutto questo a Gesù, raccontiamogli tutto. Egli lo desidera, vuole che ci aggrappiamo a Lui per trovare riparo contro le onde anomale della vita. Il Vangelo racconta che i discepoli si avvicinano a Gesù, lo svegliano e gli parlano (cfr v. 38). Ecco l’inizio della nostra fede: riconoscere che da soli non siamo in grado di stare a galla, che abbiamo bisogno di Gesù come i marinai delle stelle per trovare la rotta. La fede comincia dal credere che non bastiamo a noi stessi, dal sentirci bisognosi di Dio. Quando vinciamo la tentazione di rinchiuderci in noi stessi, quando superiamo la falsa religiosità che non vuole scomodare Dio, quando gridiamo a Lui, Egli può operare in noi meraviglie. È la forza mite e straordinaria della preghiera, che opera miracoli.
Gesù, pregato dai discepoli, calma il vento e le onde. E pone loro una domanda, una domanda che riguarda anche noi: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). I discepoli si erano fatti catturare dalla paura, perché erano rimasti a fissare le onde più che a guardare a Gesù. E la paura ci porta a guardare le difficoltà, i problemi brutti e non a guardare il Signore, che tante volte dorme. Anche per noi è così: quante volte restiamo a fissare i problemi anziché andare dal Signore e gettare in Lui i nostri affanni! Quante volte lasciamo il Signore in un angolo, in fondo alla barca della vita, per svegliarlo solo nel momento del bisogno! Chiediamo oggi la grazia di una fede che non si stanca di cercare il Signore, di bussare alla porta del suo Cuore. La Vergine Maria, che nella sua vita non ha mai smesso di confidare in Dio, ridesti in noi il bisogno vitale di affidarci a Lui ogni giorno.
[Papa Francesco, Angelus 20 giugno 2021]
His slumber causes us to wake up. Because to be disciples of Jesus, it is not enough to believe God is there, that he exists, but we must put ourselves out there with him; we must also raise our voice with him. Hear this: we must cry out to him. Prayer is often a cry: “Lord, save me!” (Pope Francis)
Il suo sonno provoca noi a svegliarci. Perché, per essere discepoli di Gesù, non basta credere che Dio c’è, che esiste, ma bisogna mettersi in gioco con Lui, bisogna anche alzare la voce con Lui. Sentite questo: bisogna gridare a Lui. La preghiera, tante volte, è un grido: “Signore, salvami!” (Papa Francesco)
Evangelical poverty - it’s appropriate to clarify - does not entail contempt for earthly goods, made available by God to man for his life and for his collaboration in the design of creation (Pope John Paul II)
La povertà evangelica – è opportuno chiarirlo – non comporta disprezzo per i beni terreni, messi da Dio a disposizione dell’uomo per la sua vita e per la sua collaborazione al disegno della creazione (Papa Giovanni Paolo II)
May we obtain this gift [the full unity of all believers in Christ] through the Apostles Peter and Paul, who are remembered by the Church of Rome on this day that commemorates their martyrdom and therefore their birth to life in God. For the sake of the Gospel they accepted suffering and death, and became sharers in the Lord's Resurrection […] Today the Church again proclaims their faith. It is our faith (Pope John Paul II)
Ci ottengano questo dono [la piena unità di tutti i credenti in Cristo] gli Apostoli Pietro e Paolo, che la Chiesa di Roma ricorda in questo giorno, nel quale si fa memoria del loro martirio, e perciò della loro nascita alla vita in Dio. Per il Vangelo essi hanno accettato di soffrire e di morire e sono diventati partecipi della risurrezione del Signore […] Oggi la Chiesa proclama nuovamente la loro fede. E' la nostra fede (Papa Giovanni Paolo II)
Family is the heart of the Church. May an act of particular entrustment to the heart of the Mother of God be lifted up from this heart today (John Paul II)
La famiglia è il cuore della Chiesa. Si innalzi oggi da questo cuore un atto di particolare affidamento al cuore della Genitrice di Dio (Giovanni Paolo II)
The liturgy interprets for us the language of Jesus’ heart, which tells us above all that God is the shepherd (Pope Benedict)
La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore (Papa Benedetto)
In the heart of every man there is the desire for a house [...] My friends, this brings about a question: “How do we build this house?” (Pope Benedict)
Nel cuore di ogni uomo c'è il desiderio di una casa [...] Amici miei, una domanda si impone: "Come costruire questa casa?" (Papa Benedetto)
Try to understand the guise such false prophets can assume. They can appear as “snake charmers”, who manipulate human emotions in order to enslave others and lead them where they would have them go (Pope Francis)
Chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti? Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro (Papa Francesco)
Every time we open ourselves to God's call, we prepare, like John, the way of the Lord among men (John Paul II)
Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini (Giovanni Paolo II)
don Giuseppe Nespeca
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