don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Domenica, 16 Novembre 2025 08:05

33a Domenica T.O. (anno C)

XXXIII Domenica Tempo Ordinario C [16 Novembre 2025]

 

Prima Lettura dal libro del profeta Malachia (3,19-20 a)

Quando Malachia scrive queste parole, verso il 450 a.C., il popolo è scoraggiato: la fede sembra spegnersi, persino tra i sacerdoti di Gerusalemme, che ormai celebrano il culto in modo superficiale. Tutti si chiedono: “Che cosa fa Dio? Ci ha dimenticati? La vita è ingiusta! Ai malvagi tutto riesce, a che serve essere il popolo eletto e osservare i comandamenti? Dov’è la giustizia di Dio?”. Il profeta allora compie il suo compito: risvegliare la fede e le energie interiori. Rimprovera sacerdoti e laici, ma soprattutto proclama che Dio è giusto e che il suo progetto di giustizia sta avanzando irresistibilmente. “Ecco, sta per venire il giorno del Signore”: la storia non è un ciclo che si ripete, ma cammina verso un compimento. Per chi crede, questa è una verità di fede: il giorno del Signore viene. Secondo l’immagine che ciascuno ha di Dio, questa venuta può far paura o suscitare attesa ardente. Ma per chi riconosce che Dio è Padre, il giorno del Signore è una buona notizia, un giorno di amore e di luce. Malachia usa l’immagine del sole: “Ecco, viene il giorno del Signore, ardente come un forno”. Non è una minaccia! All’inizio del libro Dio dice: “Vi amo” (Ml 1,2) e “Io sono Padre” (Ml 1,6). La “il forno” non è punizione, ma simbolo dell’amore incandescente di Dio. Come i discepoli di Emmaus sentivano il cuore ardere nel petto, così chi incontra Dio è avvolto nel calore del suo amore. Il “sole di giustizia” è dunque fuoco d’amore: nel giorno dell’incontro con Dio saremo immersi in questo oceano ardente di misericordia. Dio non può che amare, soprattutto tutto ciò che è povero, nudo, senza difesa. È il senso stesso della misericordia: un cuore che si piega sulla miseria. Malachia parla anche di giudizio. Il sole, infatti, può bruciare o guarire: è ambivalente. Allo stesso modo, il “Sole di Dio” rivela tutto, illumina senza lasciare zone d’ombra: nessuna menzogna o ipocrisia può nascondersi davanti alla sua luce. Il giudizio di Dio non è distruzione, ma rivelazione e purificazione. Il sole “brucerà” gli arroganti e gli empi, ma “guarirà” coloro che temono il suo nome. L’arroganza, il cuore chiuso, si consumeranno come paglia; l’umiltà e la fede saranno trasfigurate. In ciascuno di noi convivono orgoglio e umiltà, egoismo e amore. Il giudizio di Dio avverrà dentro di noi: ciò che è “paglia” brucerà, ciò che è “buon seme” germoglierà al sole di Dio. Sarà un processo di purificazione interiore, fino a che in noi risplenderà l’immagine e somiglianza di Dio. Malachia usa anche altre due immagini: quella del fonditore, che purifica l’oro non per distruggerlo, ma perché brilli di tutta la sua bellezza; e quella del candeggiatore, che non rovina la veste, ma la rende splendente. Così, il giudizio di Dio è un’opera di luce: tutto ciò che è amore, servizio e misericordia sarà esaltato; tutto ciò che non è amore sparirà. Alla fine resterà solo ciò che riflette il volto di Dio. Il contesto storico: ci aiuta a capire questo testo: Israele vive una crisi di fede e di speranza dopo l’esilio; i sacerdoti sono tiepidi e il popolo è disilluso. Messaggio del profeta: Dio non è assente né ingiusto. Il suo “giorno” verrà: è il momento in cui la sua giustizia e il suo amore si manifesteranno pienamente. Immagine centrale è il Sole di giustizia, simbolo dell’amore purificatore di Dio. Come il sole, l’amore divino brucia e guarisce, consuma il male e fa fiorire il bene. In ognuno di noi Dio non condanna, ma trasforma tutto in salvezza compiendo un discernimento che glorifica l’amore e dissolve l’orgoglio. Il fuoco, il sole, il fonditore e il candeggiatore indicano la purificazione che porta alla bellezza originaria dell’uomo creato a immagine di Dio. Infine: non c’è nulla da temere: per chi crede, il giorno del Signore rivela è l’amore. “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (Ml 3,20).

 

Salmo Responsoriale (97/98, 5-6, 7-8, 9)

Questo salmo ci trasporta idealmente alla fine dei tempi, quando tutta la creazione rinnovata acclama con gioia l’avvento del Regno di Dio. Il testo parla infatti del mare e delle sue ricchezze, del mondo e dei suoi abitanti, dei fiumi e dei monti: tutta la creazione è coinvolta. San Paolo, nella Lettera agli Efesini (1,9-10), ricorda che questo è il disegno eterno di Dio: «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra». Dio vuole riunire tutto, creare una comunione piena fra il cosmo e le creature, instaurare l’armonia universale. Nel salmo questa armonia è già cantata come realizzata: il mare rimbomba, i fiumi battono le mani, le montagne esultano. È il sogno di Dio, annunciato già dal profeta Isaia (11,6-9): «Il lupo dimorerà con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto… nessuno farà più del male né distruzione su tutto il mio monte santo». Ma la realtà è ben diversa: l’uomo conosce i pericoli del mare, i conflitti con la natura e con i suoi simili. La creazione è segnata da lotta e disarmonia. Tuttavia, la fede biblica sa che verrà il giorno in cui il sogno diventerà realtà, perché è il progetto di Dio stesso. l ruolo dei profeti, come Isaia, è quello di ravvivare la speranza di questo Regno messianico di giustizia e fedeltà. Anche i Salmi ripetono instancabilmente i motivi di questa speranza: nel Salmo 97(98) si canta il Regno di Dio come ristabilimento dell’ordine e della pace universale. Dopo tanti re ingiusti, si attende un Regno di giustizia e rettitudine. Il popolo canta come se tutto fosse già compiuto“Cantate inni al Signore che viene a giudicare la terra…e i popoli con rettitudine” All’inizio del salmo si ricordano le meraviglie del passato — l’esodo dall’Egitto, la fedeltà di Dio nella storia d’Israele — ma ora si proclama che Dio viene: il suo Regno è certo, anche se non ancora pienamente visibile. L’esperienza del passato diventa garanzia dell’avvenire: Dio ha già mostrato la sua fedeltà, e ciò permette al credente di anticipare con gioia l’avvento del Regno.Come dice il Salmo 89(90): “Mille anni ai tuoi occhi sono come il giorno di ieri”. E san Pietro (2 Pt 3,8-9) ricorda che Dio non ritarda la sua promessa, ma attende la conversione di tutti. Questo salmo dunque fa eco alle promesse del profeta Malachia: “Sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (Ml 3,20). I cantori di questo salmo sono i poveri del Signore, coloro che attendono la venuta del Cristo come luce e calore.Un tempo era Israele solo a cantare: “Acclama al Signore, terra intera, acclama il tuo re!” Ma nei tempi ultimi sarà tutta la creazione a unirsi in questo canto di vittoria, non più soltanto il popolo eletto. In ebraico, il verbo “acclamare” evoca il grido di trionfo del vincitore sul campo di battaglia (“teru‘ah”). Ma nel mondo nuovo, questo grido non sarà più di guerra, bensì di gioia e salvezza, perché — come dice Isaia (51,8): “La mia giustizia durerà per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione”.Gesù ci insegna a pregare: “Venga il tuo Regno”, che è il compimento del sogno eterno di Dio: la riconciliazione e la comunione universale, in cui tutta la creazione canterà all’unisono la giustizia e la pace del suo Signore.

 

Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (3, 7-12)

San Paolo scrive: “Chi non vuole lavorare, neppure mangi” (2 Ts 3,10). Questa frase, oggi, non potrebbe essere ripetuta alla lettera, perché non si riferisce ai disoccupati di buona volontà del nostro tempo, ma a una situazione del tutto diversa. Paolo non parla di chi non può lavorare, ma di chi non vuole lavorare, approfittando dell’attesa della venuta imminente del Signore per vivere nell’inerzia. Nel mondo di Paolo il lavoro non mancava. Egli stesso, arrivato a Corinto, trovò facilmente impiego presso Priscilla e Aquila, che esercitavano il suo stesso mestiere: fabbricanti di tende (At 18,1-3). Il suo lavoro manuale, tessere tele di capra, un’arte imparata a Tarso in Cilicia, era faticoso e poco redditizio, ma gli permetteva di non essere di peso a nessuno: «Nella fatica e nella pena, notte e giorno abbiamo lavorato per non essere di peso a nessuno» (2 Ts 3,8). Questo lavoro continuo, sostenuto anche dall’aiuto economico dei Filippesi, diventa per Paolo una testimonianza viva contro l’ozio di coloro che, convinti dell’imminente ritorno di Cristo, avevano abbandonato ogni impegno. La sua frase «chi non vuole lavorare, non mangi» non è un’invenzione personale, ma un detto rabbinico corrente, espressione di una saggezza antica che univa fede e responsabilità concreta. Il primo motivo che Paolo addduce è il rispetto degli altri: non approfittare della comunità, non vivere a spese altrui.La fede nell’avvento del Regno non deve diventare un pretesto per la passività. Al contrario, l’attesa del Regno si traduce in un impegno operoso e solidale: il cristiano collabora alla costruzione del mondo nuovo con le proprie mani, la propria intelligenza, la propria dedizione. Paolo ricorda implicitamente il mandato della Genesi:«Dominate la terra e sottomettetela» (Gn 1,28), che non significa sfruttare, ma prendere parte al progetto di Dio, trasformando la terra in un luogo di giustizia e di amore, anticipo del suo Regno. Il Regno non nasce fuori dal mondo, ma cresce dentro la storia, attraverso la collaborazione degli uomini. Come canta il padre Aimé Duval: “Il tuo cielo si farà sulla terra con le tue braccia”. E come scrive Khalil Gibran ne Il Profeta: “Quando lavorate, realizzate una parte del sogno della terra… Il lavoro è l’amore reso visibile”. In questa prospettiva, ogni gesto di amore, di cura, di servizio, anche se non retribuito, è una partecipazione alla costruzione del Regno di Dio. Lavorare, creare, servire, è collaborare con il Creatore. San Pietro ricorda: «Per il Signore, un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno… Egli non ritarda nel compiere la sua promessa, ma usa pazienza, volendo che tutti giungano alla conversione» (2 Pt 3,8-9). Questo significa che il tempo dell’attesa non è un vuoto, ma un tempo affidato alla nostra responsabilità. Ogni atto di giustizia, ogni opera buona, ogni gesto d’amore accelera la venuta del Regno. Perciò — conclude il testo — se desideriamo davvero che il Regno di Dio arrivi più presto, non abbiamo un minuto da perdere. Ecco una piccola sintesi spirituale: L’ozio non è semplice mancanza di lavoro, ma rinuncia alla collaborazione con Dio. l lavoro, in qualunque forma, è parte del sogno divino: rendere la terra luogo di comunione e di giustizia. Attendere il Regno non significa evadere dal mondo, ma impegnarsi a trasfigurarlo. Ogni gesto d’amore è una pietra posata per il Regno che viene. Chi lavora con cuore puro accelera l’alba del “Sole di giustizia” promesso dai profeti.

 

Dal Vangelo secondo Luca (21, 5-19)

“Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” Qui c’è un linguaggio profetico, non letterale. Constatiamo ogni giorno che i capelli si perdono davvero! Ciò dimostra che le parole di Gesù non vanno prese alla lettera, ma come un linguaggio simbolico. Gesù, come i profeti prima di lui, non fa predizioni sul futuro: fa predicazioni. Non annuncia cronache di avvenimenti, ma chiavi di fede per interpretare la storia. Anche il suo discorso sulla fine del Tempio va compreso così: non è un oroscopo dell’apocalisse, ma un insegnamento per vivere con fede il presente, soprattutto quando tutto sembra crollare. Il messaggio è chiaro: “Qualunque cosa accada… non abbiate paura!» Gesù invita a non fondare la vita su ciò che passa. Il Tempio di Gerusalemme, restaurato da Erode e coperto d’oro, era splendido, ma destinato a crollare. Ogni realtà terrena, anche la più sacra o solida, è provvisoria. La vera stabilità non sta nelle pietre, ma in Dio. Gesù non offre dettagli sul “quando” o sul “come” del Regno; egli sposta la questione: “Fate attenzione a non lasciarvi ingannare…” Non ci serve conoscere il calendario del futuro, ma vivere il presente nella fedeltà. Gesù avverte i suoi discepoli: “Prima di tutto questo vi perseguiteranno, vi trascineranno davanti ai re e ai governatori a causa del mio Nome». Luca, che scrive dopo anni di persecuzioni, sa bene quanto questo si sia avverato: da Stefano a Giacomo, da Pietro a Paolo, fino a tanti altri. Ma anche nelle persecuzioni, Gesù promette: «Io vi darò una parola e una sapienza alla quale nessuno potrà resistere». Questo non significa che i cristiani saranno risparmiati dalla morte — «uccideranno alcuni di voi» —, ma che nessuna violenza potrà distruggere ciò che siete in Dio :«Neppure un capello del vostro capo andrà perduto». È un modo per dire: la vostra vita è custodita nelle mani del Padre. Anche attraverso la morte, rimanete vivi della vita di Dio Gesù pronuncia due volte l’espressione «a causa del mio Nome». Nel linguaggio ebraico, “Il Nome” indica Dio stesso: dire “a causa del Nome” è dire “a causa di Dio”. Così Gesù rivela la sua stessa divinità: soffrire per il suo Nome è partecipare al mistero del suo amore. San Luca, negli Atti degli Apostoli, mostra Pietro e Giovanni che, dopo essere stati flagellati, «se ne andarono pieni di gioia, perché si erano sentiti degni di soffrire per il Nome di Gesù» (At 5,41).È la stessa certezza che san Paolo esprimerà nella Lettera ai Romani: «Né la morte né la vita, né alcuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù» (Rm 8,38-39). Le catastrofi, le guerre, le epidemie — tutte queste “scosse” del mondo — non devono toglierci la pace. Il vero segno dei credenti è la serenità che viene dalla fiducia. Nell’agitazione del mondo, la calma dei figli di Dio è già una testimonianza. Gesù lo riassume in una parola: Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Ed ecco una sintesi spirituale: Gesù non promette una vita senza prove, ma una salvezza più forte della morte. Neppure un capello…» significa: nessun frammento di te è dimenticato da Dio. La persecuzione non distrugge, ma purifica la fede. Niente potrà separarci dall’amore di Dio: la nostra sicurezza è il Cristo risorto. Credere è rimanere saldi, anche quando tutto trema.

+ Giovanni D’Ercole

Zaccheo: sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto

(Lc 19,1-10)

 

Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» (v.3): ossia, desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.

Benché abiti in ambiente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto personale diretto.

Il sicomoro è un albero molto frondoso - pensa: «Cerco di vedere senza essere visto».

Comprende di aver bisogno di un occhio immediato: deve assolutamente scartare lo sguardo moralizzatore dei conformisti.

Il turbamento indotto dai giudizi senz’appello è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore.

Una nuova percezione è allora essenziale: infatti, malgrado la gazzarra attorno a sé, Gesù vede proprio il piccolo, disprezzato e mortificato.

Se il mondo severo lo notasse, leggerebbe una macchia; la visuale di Gesù è differente. Viene attratto proprio da colui che ha persino vergogna di sé e disagio di essere scrutato.

Non solo: il Signore lo chiama per nome, e in aramaico Zachàr significa Giusto, Puro!

Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, Dio coglie in ciascuno una purezza innata e le possibilità di bene. Anche di quanti si nascondono.

 

Allorché il Signore si trova insieme a chi nella vita ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore, non giudice o padrone.

Allo stesso modo guarda anche Zaccheo: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).

I “piccoli di statura” possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti che vengono subito messi in riga o in buca.

Ma Chi è Dio? Colui che riposa col piccolo - deturpato più dal pregiudizio che dal suo malcostume.

Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola le sentenze della buoncostume di paese, Dio ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene, il senso di legame e giustizia.

Infatti il Padre ha fretta d’incontrarci, proprio come un innamorato perduto. Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia - oggi (vv.5.9).

Quindi non frappone il tempo delle pratiche, di trafile o adempimenti che dimostrino la conversione, prima: un Padre simile non sarebbe amabile.

 

Ogni disciplina tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni puntigliose.

Gesù mira il presente e l’a-capo, non il fatto distante.

Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» [cf. Fratelli Tutti n.30].

L’Altissimo punta in basso: desidera condividere la sua presenza vivificante con l'anomalo e isolato.

Ne ha bisogno subito, anche se alcuni ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).

Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.

Proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) furfante che ci possa essere, diventa l’unico cuore recuperabile.

Insomma, nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.

 

Anche noi, dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.

 

 

[Martedì 33.a sett. T.O.  18 novembre 2025]

Zaccheo: Sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto

(Lc 19,1-10)

 

In che senso bisogna “migliorare” - e cosa devo fare? Oppure siamo segnati per sempre?

Come incontrare Cristo autenticamente? Da cosa scaturisce un percorso da salvati e la sua incomparabile gioia che si riflette nelle opere?

Come posso cambiare vita e dare un colpo d’ali? Più volte ho tentato e non riesco: la felicità è un’illusione?

E... come relazionarsi con gli esclusivisti del sacro e della disciplina [o delle idee in voga]?

Davvero il Volto del Padre ha quei tratti graffianti, spietati, forensi o unilaterali ch’essi proclamano?

La soluzione di Lc è quella di non avere a che fare coi moralismi o l’opinione corrente, perché la testa piena di vento e le manfrine ci risucchierebbero.

Bisogna sorvolare, guardando la realtà da un punto di vista inedito e non soggetto a manipolazioni - quindi cogliendo se stessi, in Cristo.

E non farsi plagiare o intralciare.

Per questo motivo l’episodio è situato a Gerico (ultima tappa dell’Esodo) che un tempo aveva fatto da soglia decisiva alla conquista della Terra Promessa.

 

Gesù attraversa anche la nostra città (Lc 19,1), per mostrare il volto del Padre, che persino nel [considerato] antipatico, furfante e ricco riesce a scorgere un figlio pieno di risorse.

Zaccheo sono io stesso quando mi lascio coinvolgere dalla gara dell’avere, e perciò divento un caso quasi disperato.

Avendo già molto, potrei probabilmente starmene per i fatti miei. Invece dentro sento un malessere.

L’inquietudine, l’insoddisfazione, mettono in moto: sintomi dell’anima riarsa, indizi da non tacitare.

Il traguardo professionale o ministeriale che avevo in testa forse l’ho raggiunto, ma mi accorgo che sebbene non sia un totalmente fallito, dietro la maschera che indosso resto un angosciato: mi rendo conto di aver smarrito l’obiettivo.

Il mio cuore voleva ben altro, per questo non colgo sintonie radicali con la mia essenza profonda, con l’Oro del mio dna.

Allora devo rimettermi in campo, perché qualcosa nel mio Centro non va - malgrado l’eventuale ruolo conquistato, o gioie parziali.

Non mi sento riuscito, non posso tirare avanti così. Devo smuovermi. Come iniziare?

Il Vangelo ci dice: da una rinnovata Percezione. Bisogna affinare lo sguardo!

 

Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» [Lc 19,3 testo greco]: desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.

Benché abiti in ambiente formalmente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto franco e diretto.

La massa dei seguaci consolidati non fa che accentuare lacci e affanno, anche perché nessuno gli avrebbe consentito di salire su una scala o sul tetto della propria abitazione (in quel territorio, tutte senza falde).

Ospitando un pubblico peccatore, si credeva che la stessa abitazione divenisse impura: non poteva nemmeno sfiorarla, né calcare i pioli di una scala esterna; figuriamoci andare in terrazza.

In colui che viene socialmente additato, il problema si accentua, e con esso la convinzione che non ci sia nulla da fare, ormai.

La gente non di rado intralcia la crescita e l’esistenza altrui con fissazioni puriste o ideologiche.

Giudizi gretti che rivelano l’incapacità di accogliere, di ascoltare, comprendere, avanzare, far crescere, promuovere davvero.

Siccome a causa delle saccenti moltitudini non c’è modo per via diretta, bisogna inventarsi qualcosa - anche a costo del disonore d’una corsa avanti [in ambiente orientale, particolarmente disdicevole: v.4].

«Poiché sulla strada principale tutti hanno lo sguardo cattivo che mi fa pentire di esistere - ma voglio vedere coi miei occhi (e non solo farmelo raccontare) - cerco di vedere senza esser visto».

 

Il sicomoro è un albero molto frondoso - e pensa Zaccheo:

«Siccome dovrei salire ma non mi danno possibilità di raggiungere nessun ripiano (per timore che li contamini) - e poiché gli sguardi sono così cupi da infastidire e ossessionare, mi nascondo da qualche parte… anche nel fogliame... in modo che nessuno mi noti».

Il turbamento indotto dai giudizi è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore. Come regolarsi?

Semplicemente, non bisogna “regolarsi”.

Malgrado la gazzarra attorno, il Maestro vede proprio il piccolo, il disprezzato e mortificato.

Se il mondo severo lo notasse, noterebbe solo una macchia, guarderebbe senza tante sottigliezze

Lo sguardo di Gesù è differente. Non ci mortifica, né fa disperare.

Viene attratto proprio da chi ha persino imbarazzo di sé e disagio di essere notato.

Non solo: lo chiama per nome, e in aramaico «Zachàr» [ebraico  «Zakkài»] significa Giusto, Puro!

 

Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, il Figlio coglie in ciascun malfermo e curioso una purezza innata e le possibilità di bene.

Anche di chi si nasconde.

Mentre le persone chic ti scansano, Dio ti cerca. Anzi, la mèta del suo passaggio è proprio la tua dimora [Lc 19,4: «doveva»].

Il Disegno su di noi è che nessuno si perda, perciò il Signore scorge sapientemente i doni e le occasioni che si celano anche dietro lati in affanno della nostra personalità.

Sembra trasgressivo?

Ma mentre i discepoli rimangono a bocca aperta di fronte allo spettacolo dei sacerdoti paludati e delle magnificenze del Tempio nella città eterna e santa, Cristo vede il gesto insignificante della vedovella (Mc 12,41-44).

Insomma, quando il Signore si trova insieme a chi nella vita è in difficoltà o ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore; non giudice e padrone.

Così nell’episodio dell’adultera [Gv 8,3-11 testo greco], e allo stesso modo guarda anche l’emarginato: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).

Anche le buone guide spirituali fanno lo stesso: attratte da chi soffre a causa d’una vita isolata e deturpata perché sotto condanna.

I ridicoli schematismi - quelli che invitano a innalzare impalcature esterne e scalarle - ci procurano un assurdo dispendio di energie

Lo spreco vano di attenzione, facoltà e impegni va ad incidere non solo sullo stile e i dettagli - persino sulle linee portanti della personalità.

Invece Gesù impone a Zaccheo (a tutti noi) di scendere, affinché egli - continuando a trascurare tutte le opinioni - potesse realizzare il suo destino.

Terra promessa che nell’animo già gli palpitava dentro. Senza prima le rinunce, né sforzo ascetico particolare.

 

«Percepire e scendere» invece di «farsi guardare e salire». Ecco la “regola” non regola, indispensabile.

Essere fedeli a se stessi, all’Amico innato - invece di lasciarsi condizionare dai “migliori” del club [capirai che straordinario beneficio e redenzione!].

Ciò che non è spazzatura di se stessi, accade spontaneamente; avviene senza artifici, né propositi inculcati.

Tutto, aderendo in modo genuino all’impulso dell’Incontro schietto.

Lasciandosi sorprendere: affacciati dal belvedere del «nuovo occhio».

Punto di svolta che trasmette come interiorizzare una vita in crescita, scandita da genesi evolutive - che preparano la Nuova Nascita.

La trasformazione poi avviene a terra, nella vita pratica - smettendo di farsi dire come avrebbe (avremmo) dovuto essere.

Del resto, un’elaborazione arcaica o una configurazione troppo sofisticata, entrambe condite d’esteriorità perbenista - ci farebbero solo ammalare.

Zaccheo non ha voluto assomigliare a nessuno degli attori intorno.

Quindi si è realizzato sul serio - accorgendosi dei suoi e altrui bisogni, spazzando via le banalità dei giudizi e i piagnistei dei luoghi comuni eticisti.

 

I «piccoli di statura» possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti, i caratterizzati da scarse conoscenze ed energie.

Coloro che hanno un briciolo di Fede, e ci provano ad affacciarsi in comunità, ma vengono subito messi in riga o in buca.

E spesso rimangono scandalizzati proprio dagli adultoidi: ossia quanti restano appiccicati alla pratica abitudinaria e impersonale - o i sofisticati à la page.

Però non sono quelli i veri discepoli, bensì massa che offusca.

Guarda caso, è gente che adempie, osserva, obbedisce, e dalla vita sì sterilizzata, ma pettegola, condizionante - e sempre di malumore (Lc 19,7).

Sebbene facciano spesso ressa attorno a Gesù, sono lì solo per abitudine, o per timore che scappi e combini qualche sproposito imprevisto - rallegrante i malfermi e fuori del “giro”.

Come con Zaccheo. I diversi dai primi della classe [loro] sono minimi cui tenersi alla larga, quelli che fanno quasi ribrezzo.

Valutati al pari di vermi striscianti, o non adeguati; pertanto indegni di venire considerati.

Invece sono Appelli alla missione, un Richiamo ad approfondire e stare più attenti.

Nell’atteggiarsi, i promotori del proprio look si comportano come fossero sfingi o intoccabili.

E in tal guisa credono l’Eterno proprio nel modo che fa rimanere perplessi.

 

Sembrano non avere contrasti, ma guarda caso non vedono l’ora di proiettare sui diversi le proprie voglie inespresse.

Perciò vedono colui che si occulta per vergogna di sé - non per recuperarlo, ma per sotterrarlo bene.

Illudendosi così di annientare i loro stessi volti reconditi, che però - sotto la bella reputazione - covano (e cronicizzano).

 

Chi è dunque Dio (cf. v.3)?

Colui che riposa col piccolo e microbo - deturpato più dal giudizio esterno che dal suo malcostume.

Dentro, i “santi” e non segnati a vita [i “vorrei ma non posso” - immacolati per una questione di perbenismo di facciata] sono uguali uguali a lui.

Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola i pregiudizi [devoti o modernissimi] e le sentenze della buoncostume di paese, Cristo ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene.

Il Maestro ha fretta d’incontrare ogni disorientato; proprio come un innamorato perduto.

Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia oggi (vv.5.9).

Quindi non frappone il tempo delle pratiche, delle trafile, o adempimenti che dimostrino conversione artificiosa: un Padre simile non sarebbe amabile.

Non susciterebbe trasformazione, né senso di legame e giustizia.

 

Dice il Tao Tê Ching (xxvii): «Chi ben lega non usa corde né vincoli, eppur non si può sciogliere».

 

La religione tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni esterne puntigliose.

L’ideologia woke contemporanea vaneggia il futuro edonista, situazionalista, relativo, sradicato e disincarnato; senza spina dorsale, senza pensiero profondo, né bene duraturo.

Gesù mira il presente e l’a-capo. Non il fatto distante.

Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» (cf. Fratelli Tutti n.30).

L’Altissimo punta nel profondo e in basso: desidera condividere la sua Presenza vivificante con l'anomalo e l’isolato.

Ne ha bisogno «subito», anche se i suoi “amici” [non di rado i più “intimi”] ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).

 

Insomma, la Famiglia autentica del Signore non è fatta di persone diffidenti. Egli sta dentro e in mezzo a situazioni di Libertà.

Non osserva prima chi è già introdotto - e chi è ancora fuori. Così ci ridona statura, gratuitamente, senza condizione alcuna.

Certo, nella testa dei capi della religione antica o astratta un Dio tale non vale nulla: non sa neanche distinguere gli “amici-nostri” e i “meriti-miei”.

Le autorità e i fenomeni lo rifiutano, certo. Ma finalmente hanno capito Chi è (v.3).

Anche Zac-euro è stato curato dall’antica cecità: prima vedeva in Dio un notaio, e nel prossimo solo gente da sfruttare - tanto più perché scontrosa, sgradevole, odiosa, insopportabile.

Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.

 

Il super trasgressore si cela dunque alla vista altrui… perché nella scoperta dei codici che lo abitano, non vuole più farsi plagiare.

Desidera un occhio che veda il Volto di Dio e si guardi dentro, senza più zavorre apparentemente ovvie, ma che non gli corrispondono.

Zaccheo non vuole più guardare come e dove guardano gli altri, anzitutto quelli sicuri in sella; branco di disturbanti - che non recuperano e non consentono di riparare.

Essi non fanno realizzare alcun sogno che collimi dentro, e che possa ancora guidarci.

La persona autentica vuole allora incamminarsi sulla “sua” strada.

Rimettendo in discussione le certezze di tutti, fa scendere in campo la personale essenza recondita, il motivo per cui è nato.

Il proprio destino non vuole le certezze esterne, le vicende comuni, i giudizi e gli accadimenti che non gli appartengono davvero.

 

La visione intima del Zaccheo in noi non è innestata e identificata; neppure quella che avevamo forse scelto, per diventare straricchi.

Ci bastava distogliere la visuale da quello stesso progetto, come dai propositi della religiosità che si adattava, o troppo alternativa (da non sfiorare la carne).

E allontanarci persino dall’idea scontata della vita, che ci eravamo fatti - dentro la solita «angolazione».

Zaccheo [ciascuno] trova libertà solo nel suo “rifugio”.

Nascondendosi, si defila dall’obbligo di apparire. Fugge dalle passerelle conformi all’ambiente.

Palcoscenici ingannatori - perché interferiscono, e chiudono assai più che lo stare con se stessi e con l’unica Relazione fondante.

Nessun altro poteva occuparsene, a parte un Sé superiore, quello dei labirinti interiori che si percorrono in prima persona, i quali si oppongono ai conformismi.

Essi che accentuano la curiosità e il mai visto prima, anche per noi.

Sembrano allontanarci dalla scansione ordinaria dei soliti obbiettivi intermedi. Ma ci somigliano.

 

Zaccheo comprende che il primo dei suoi compiti era «vegliare», spalancando la percezione elementare (ma non grossolana).

Stimolando processi intuitivi; non spersonalizzanti, né cerebrali.

Senza neppure cambiare mestiere. Senza mandar via le sue emozioni: veri segnali da notare, che lo guidavano all’autenticità della sua sorte.

 

Cristo ha qualcosa da dirci solo se lo esploriamo senza la scorza delle precomprensioni omologanti: nulla hanno a che fare con Lui e il nostro carattere, in essenza.

Le cose del Padre vanno ricercate, colte, ospitate e comprese come sono - incontrando i disagi.

Senza neppure lottare con sforzo estremo contro i lati di sé che avrebbero dovuto non appartenerci.

È vero: elementi di discernimento raramente insegnati in modo esplicito: ad es. “come cambiare” nome e destino.

Ma il rapporto logorante con “eletti” tanto gretti facilita paradossalmente. Fa cogliere anche ciò che la nostra stessa ostinazione - unica cosa da disturbare - non ci faceva mettere a fuoco e considerare.

Cose mai sospettate, che non “conoscevamo”, mai viste... In realtà, forze che non utilizziamo.

Mentre lo Sconosciuto avanza (vv.1.4-5) affinché le scopriamo insieme a Lui, e le facciamo emergere.

 

A nostro favore Egli desidera prendere il timone della rotta decisiva che mai avremmo saputo tracciare. E portarci avanti, rigenerarci ancora.

Saremo posti in contatto con il Fuoco della Chiamata primordiale, che tirerà fuori meraviglie proprio dai lati sconosciuti, in penombra; dagli stati profondi e opposti.

Appello per tutti i figli che non vogliono perdersi in superficie, nel giudizio poco ampio di veterani o anteposti che smarriscono le persone, e tutto il popolo.

Interessante che anche nei racconti dei Chassidim riportati da Buber, persino in occasione dell’Annuncio della Torah si raccomandava la ricerca di una sorta di vuoto nelle idee che facesse posto a un altro Eros.

E in particolare di «non sentire più affatto se stessi [ossia la propria formazione e visione del mondo], non essere più che un orecchio che ascolta ciò che il mondo del Verbo dice in Lui. Non appena si cominciano a sentire le proprie parole, si cessi».

 

Ciò che non piace e mai avremmo scelto, diventa Voce che senza mortificare interroga, e umanizza.

Facendoci scoprire - attraverso gravidanze ininterrotte - la nostra e altrui dimensione piena.

Privi di cappe, faremo scattare quell’energia antica, futura e intelligente che guida al viaggio imprevedibile.

Alla Mèta della Vita totale. Alla Casa che è davvero nostra. Alla Dimora di una vita da salvati, in pienezza di essere.

Tenda che ancora fa emergere la naturalezza spontanea dei fiori che vengono su, senza sfiancarci con sudori artificiosi.

 

Curata la vista - sia dei pii che del caduto - proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) trasgressore che ci possa essere, diventa l’unico caso recuperabile.

Gesù sgretola l’dea che costituiva la trama della profonda zavorra sacrale archetipa.

Ora nel rapporto da pari a pari col suo Logos fondante, il peccatore si accorge che non è la “perfezione” incontaminata che dà una patente d’immunità per (poi) avere diritto d’incontrare il Padre.

È il rapporto immediato e gratuito col Risorto che lo purifica, abilitando il cuore a godere già qui una vita esponenziale e feconda.

 

Nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, un estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.

 

Tutto forse possiamo aspettarci, meno che qualcuno ci dica: dentro sei indefettibile, hai la chiave che spalanca il portone che appare serrato...

Se Zaccheo avesse preteso di “migliorare”, intossicandosi secondo un modello culturale, comportamentale e religioso, si sarebbe arenato, divenendo insignificante.

Tutta la vita precedente è stata invece recuperata e reinvestita, da un’Amicizia immediata; senza prima il cliché della “perfezione”.

La persona cruda ma spontanea non si è lasciata prendere in ostaggio da falsi maestri, che lo avrebbero introdotto nelle loro assurde etichette [i codici-labirinto su come si deve “stare al mondo”].

Anche nel caso di questo strozzino, i disagi non sono stati vinti opponendosi, ma accogliendo.

Nel loro accadere dentro, quei malumori hanno stimolato il riconoscimento di un profilo unico; della propria anima così diversa. 

Sarebbe stato deleterio combatterla coi muscoli della volontà, e osservanze asettiche, dottrine cerebrali, mortificazioni, ripetizioni a fotocopia.

 

Quella delle deviazioni indotte da condizionamenti è una cosmesi velenosa per l’anima e per le opere che siamo chiamati a far sgorgare dalla nostra anima irripetibile.

Le altrui convinzioni guidano l’io inferiore fuori dai binari dell’orientamento che profondamente e unicamente gli appartiene.

L’essenza profonda chiama all’immediatezza, più che all’identità. Alla spontaneità (particolare ma colma) del nostro Germe, il quale matura a tappe e balzi, e farà il nostro destino dissimmetrico.

Condurrà però alla vera Mèta: non è «il problema» - come spesso s’immagina.

È tale Nido che dentro non diverge, poi a proteggerci - nell’alleanza con il sé e nell’esuberanza del nostro fiorire.

Condotti a noi stessi, sentiremo la nostra natura anche relazionale, prima soffocata dalla cappa d’un perbenismo omologante, che zampilla di suo.

Adeguarsi a una mentalità e vita religiosa da logica o chiacchiericcio esterni, spersonalizzante o convenzionale, distanzia dall’autentica purificazione e dai salti di qualità che ci equivalgono sul serio.

Essi sì innescano i codici d’una guarigione che si sviluppa non da stati parossistici, né da pratiche tutte uguali. Ma da un faccia a faccia con il nostro nocciolo costituente, colmo di forze benefiche; energetico e passionale.

Con Gesù il nostro divenire non sarà mai in un rapporto banale con ciò che siamo stati o come dovremmo essere: non una concatenazione formale.

Passeremo attraverso Genesi inattese e meravigliose, che sorvolano qualsiasi organigramma di previsioni e sviluppo lineare.

 

La differenza tra religiosità e Fede?

È esplicita nella vicenda imprevedibile di Zaccheo, che decide di non stare lì dove lo hanno messo, a ricalcare pedissequamente una disciplina impossibile e che non voleva.

Ha capito che non sarebbe stato in grado di “migliorare”: ha scelto di non farsi infettare tutta la vita.

È prima una inquieta insoddisfazione, poi un coinvolgente tentativo di Visione genuina, quindi un semplice Incontro da uomo a uomo, che ha preparato le sue decisioni.

Anche se non siamo considerati “pronti” [da un esperto e dal suo codice], è con immediatezza e senza troppe lotte o lacerazioni interiori che possiamo raggiungere un altro Territorio.

E far cambiare aria anche agli altri, sorelle e fratelli - partendo semplicemente dalla «percezione senza condizioni» di un nuovo Volto di Dio.

Lo scopriremo affatto ficcanaso e arcigno, né paternalista.

Egli trasmette invece quell’assurda autostima che modifica la nostra sorte, e il destino del mondo.

Dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai uno sguardo personale su Gesù che passa, o lo prendi in prestito dall’opinione di esperti che lacerano l’anima di accuse?

In quale occasione il Cristo ti ha trasmesso un’assurda autostima, che ha aperto nuovi spazi di vita e rimesso i conti a posto?

 

 

Antivedere: nuova Estetica che salverà chiesa e mondo

 

Bisogno di vederlo. Antivedere: pienezza, non bellezza tra le altre

 

Il cristiano, colui che vuole essere seguace di Cristo, colui che sente il bisogno di stringersi a Lui mediante i vincoli della sua autenticità e della propria certezza, avrà sempre, come uomo, come uomo specialmente del nostro tempo tanto nutrito dell’immagine visiva, il bisogno istintivo di vederlo, Lui, Gesù il Cristo, com’era nel volto, nell’aspetto, nel portamento, nella persona. L’abbiamo detto altra volta. Ma questo desiderio rimane, e ricorre quando sorgono questioni circa l’interpretazione genuina del suo messaggio, e circa il dovere d’uniformare la nostra condotta al suo insegnamento. Non è, del resto, questa aspirazione sempre presente nei personaggi del Vangelo? Prendiamo Zaccheo, nel racconto di S. Luca: «voleva vedere Gesù, chi fosse»; e, piccolo di statura come era, in mezzo alla folla non vi riusciva; salì allora sopra un albero di sicomoro; e di là vide, anzi fu visto dal Signore che lo chiamò e gli disse di discendere volendo Egli essere in quel giorno ospite suo (Luc. 19, 1 ss.).

Ma la fortuna dei contemporanei di Gesù, che lo videro con i loro occhi (Cfr. 1 Io. 1, 1) non è la nostra. Come non è di tutta l’umanità venuta dopo di Lui. Già S. Ireneo, Vescovo di Lione (alla fine del II secolo) avverte che sono apocrife le immagini corporee che fin d’allora si tentava divulgare di Cristo (Adv. Haereses, 1, 25; PG 7, 685). S. Agostino è categorico: «Noi del tutto ignoriamo» quale fosse il volto corporeo di Gesù, come pure quello della Madonna (De Trinit. 8, 5; PL 42, 952). Dobbiamo formarci la figura partendo da elementi comuni alla natura umana e dai riflessi immaginativi che le notizie da noi possedute su di Lui, leggendo il Vangelo o credendo alla sua parola, provocano nel nostro spirito. Arte e pietà si aiutano in questa non facile elaborazione.

Essa non è vana fantasia; è uno sforzo meritevole, e in certo senso indispensabile, per chiunque voglia avere di Cristo un concetto concreto e fedele, che senza mitico artificio si presenta ideale.

Proviamo noi stessi a chiederci: come ci raffiguriamo Cristo Gesù? Cioè: qual è l’aspetto caratteristico di Lui, che risulta dal Vangelo? Come, a prima vista, si presenta Gesù? Una volta ancora le sue stesse parole ci aiutano: «Io sono mite ed umile di cuore» (Matth. 11, 29). Gesù vuol essere guardato così, veduto così. Se noi lo vedessimo, ci apparirebbe così, anche se la visione, che di Lui ci dà l’Apocalisse, riempie di forma e di luce la sua figura celeste (Apoc. 1, 12 , ss.). Questo aspetto dolce, buono e soprattutto umile si impone come essenziale. Meditando si avverte che esso manifesta ed insieme nasconde un mistero fondamentale relativo a Cristo, quello dell’Incarnazione, quello del Dio umile, mistero che governa tutta la vita e tutta la missione di Cristo: «Il Christus humilis è il centro della cristologia» di S. Agostino (Cfr. POKTALIÉ, D. Th. C. 1, II, 2372); e che impronta tutto l’insegnamento evangelico a nostro riguardo: «Che cosa d’altro insegnò, se non questa umiltà? . . . in questa umiltà noi ci possiamo avvicinare a Dio», dice ancora il dottore d’Ippona (En. in Ps. 31, 18; PL 36, 270). Del resto, S. Paolo non ha un termine, che sa di assoluto, quando ci dice che Cristo si è «annientato»: semetipsum exinanivit? (Phil. 2, 7) Gesù è l’uomo buono per eccellenza; ed è per ciò ch’Egli è disceso al livello infimo anche della scala umana; si è fatto bambino, si è fatto povero, si è fatto paziente, si è fatto vittima, affinché nessuno dei suoi fratelli in umanità potesse sentirlo superiore e lontano; si è messo ai piedi di tutti. Egli è per tutti. Egli è di tutti; anzi di ciascuno di noi, al singolare; lo dice San Paolo: «Egli ha amato me e si è sacrificato per me» (Gal. 2, 20).

Non è da stupire se l’iconografia di Cristo abbia sempre cercato d’interpretare questa mansuetudine, questa estrema bontà. L’intelligenza mistica di Lui è arrivata a contemplarlo nel cuore, e a fare, per noi moderni, sentimentali e psicologi, sempre polarizzati verso la metafisica dell’amore, del culto al Sacro Cuore, il focolare ardente e simbolico della devozione e dell’attività cristiana.

Qui sorge, oggi specialmente, un’obiezione: questa immagine di Cristo, che realizza in se stesso la propria parola, cioè le beatitudini della povertà, della mitezza, della non resistenza (Cfr. Matth. 5, 38, ss.), è il Cristo vero? È il Cristo per noi? Dov’è il Cristo Pantocratore, il Cristo forte, il Re dei re, il Signore dei dominanti? (Cfr. Apoc. 19, 11, ss.) Il Cristo riformatore? («Ego autem dico vobis . . .», Matth. 5) il Cristo polemico, con le sue contestazioni (P. es. Matth. 5, 20) e con i suoi anatemi? (Cfr. Matth. 23) Il Cristo liberatore, il Cristo della violenza? (Cfr. Matth. 11, 12) Oggi non si parla del cristianesimo della violenza e della teologia della rivoluzione? Dopo tanto parlare di pace la tentazione della violenza, come suprema affermazione di libertà e di maturità, come unico mezzo di riforma e di redenzione, è così forte che si parla di teologia della violenza e della rivoluzione; e spesso alle eccitanti teorie i fatti, o almeno le tendenze della riscossa al «disordine costituito», corrispondono. Si cerca allora di avere Cristo per sé, e di giustificare certi atteggiamenti disordinati, demagogici e ribelli, con gli atteggiamenti e con le parole di Lui.

Il discorso è di molti. Noi stessi vi abbiamo altre volte accennato. Un solo consiglio per ora. Dinanzi a questa supposta contraddizione fra la figura del Cristo mite e soave, del Cristo buon Pastore, del Cristo crocifisso per amore e la figura del Cristo virile e severo, sdegnato e pugnace, occorrerà riflettere bene, e vedere come stanno le cose nei documenti originari, i Vangeli, il Nuovo Testamento, la Tradizione autentica e coerente, e nella loro genuina interpretazione. Ci sembra doveroso reclamare a tale riguardo onesta attenzione. Specialmente sulla complessità della figura di Cristo: Egli è certamente al tempo stesso mite e forte, com’è al tempo stesso uomo e Dio; e poi sulla vera reazione, non certo politica, non certo anarchica, che l’energia riformatrice di Cristo immette nel mondo decaduto e corrotto; cioè sulle vere speranze ch’Egli propone all’umanità.

Vedremo allora che la figura di Cristo presenta, sì, senza alterare l’incanto della sua misericordiosa dolcezza, anche un aspetto grave e forte, formidabile, se volete, contro la viltà, le ipocrisie, le ingiustizie, le crudeltà, ma non mai disgiunto da una sovrana irradiazione di amore.

Solo l’amore lo definisce Salvatore. E solo per le vie dell’amore lo potremo avvicinare, imitare, inserire nelle nostre anime e nella sempre drammatica vicenda della storia umana.

Sì, potremo vedere Lui, che ha abitato con noi, e ha condiviso la nostra sorte terrena, per infondere in questo il suo vangelo di salvezza, e per predisporci a questa piena salvezza; lo vedremo «pieno di grazia e di verità» (Io. 1, 14).

Fede ed amore sono gli occhi che ora a noi servono per poterlo in qualche modo vedere; cioè antivedere.

(Papa Paolo VI, Udienza Generale 27 gennaio 1971)

Lunedì, 10 Novembre 2025 03:20

Cosa spinge: riempire la vita

Cominciamo dall’acqua – come appare logico per molti versi. L’acqua è simbolo ambivalente: di vita, ma anche di morte; lo sanno bene le popolazioni colpite da alluvioni e maremoti. Ma l’acqua è anzitutto elemento essenziale per la vita. Venezia è detta la “Città d’acqua”. Anche per voi che vivete a Venezia questa condizione ha un duplice segno, negativo e positivo: comporta molti disagi e, al tempo stesso, un fascino straordinario. L’essere Venezia “città d’acqua” fa pensare ad un celebre sociologo contemporaneo, che ha definito “liquida” la nostra società, e così la cultura europea: una cultura “liquida”, per esprimere la sua “fluidità”, la sua poca stabilità o forse la sua assenza di stabilità, la mutevolezza, l’inconsistenza che a volte sembra caratterizzarla. E qui vorrei inserire la prima proposta: Venezia non come città “liquida” – nel senso appena accennato –, ma come città “della vita e della bellezza”. Certo, è una scelta, ma nella storia bisogna scegliere: l’uomo è libero di interpretare, di dare un senso alla realtà, e proprio in questa libertà consiste la sua grande dignità. Nell’ambito di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli.

[Papa Benedetto, Incontro con il mondo della cultura… Venezia 8 maggio 2011]

 

Gratitudine e gioia sono perciò i sentimenti che caratterizzano questo nostro incontro. Esso si svolge nello spazio sacro, colmo di arte e di memoria, della Basilica di San Marco, dove la fede e la creatività umana hanno dato origine ad una eloquente catechesi per immagini. Il Servo di Dio Albino Luciani, che fu vostro indimenticabile Patriarca, così descrisse la sua prima visita in questa Basilica, da giovane sacerdote: “Mi trovai immerso in un fiume di luce … Finalmente potevo vedere e godere con i miei occhi tutto lo splendore di un mondo di arte e di bellezza unico e irripetibile, il cui fascino ti penetra nel profondo” (Io sono il ragazzo del mio Signore, Venezia-Quarto d’Altino, 1998). Questo tempio è immagine e simbolo della Chiesa di pietre vive, che siete voi, cristiani di Venezia.

“Oggi devo fermarmi a casa tua. In fretta scese e l’accolse” (Lc 19,5-6). Quante volte, durante la Visita pastorale, avete ascoltato e meditato queste parole, rivolte da Gesù a Zaccheo! Esse sono state il motivo conduttore dei vostri incontri comunitari, offrendovi uno stimolo efficace ad accogliere Gesù Risorto, via sicura per trovare pienezza di vita e felicità. Infatti, l’autentica realizzazione dell’uomo e la sua vera gioia non si trovano nel potere, nel successo, nel denaro, ma soltanto in Dio, che Gesù Cristo ci fa conoscere e ci rende vicino. E’ questa l’esperienza di Zaccheo. Egli, secondo la mentalità corrente, ha tutto: potere e denaro. Può dirsi un “uomo arrivato”: ha fatto carriera, ha raggiunto ciò che voleva e potrebbe dire, come il ricco stolto della parabola evangelica, “anima mia hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (Lc 12,19). Per questo il suo desiderio di vedere Gesù è sorprendente. Che cosa lo spinge a ricercare l’incontro con Lui? Zaccheo si rende conto che quanto possiede non gli basta, sente il desiderio di andare oltre. Ed ecco che Gesù, il profeta di Nazaret, passa da Gerico, la sua città. Di Lui gli è giunta l’eco di alcune parole inconsuete: beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia. Parole per lui strane, ma forse proprio per questo affascinanti e nuove. Vuole vedere questo Gesù. Ma Zaccheo, seppure ricco e potente, è piccolo di statura. Perciò corre avanti, sale su un albero, un sicomoro. Non gli importa di esporsi al ridicolo: ha trovato un modo per rendere possibile l’incontro. E Gesù arriva, alza lo sguardo verso di lui, lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5). Nulla è impossibile a Dio! Da questo incontro scaturisce per Zaccheo una vita nuova: accoglie Gesù con gioia, scoprendo finalmente la realtà che può riempire veramente e pienamente la sua vita. Ha toccato con mano la salvezza, ormai non è più quello di prima e come segno di conversione si impegna a donare metà dei suoi beni ai poveri e a restituire il quadruplo a chi aveva derubato. Ha trovato il vero tesoro, perché il Tesoro, che è Gesù, ha trovato lui!

Amata Chiesa che sei in Venezia! Imita l’esempio di Zaccheo e vai oltre! Supera e aiuta l’uomo di oggi a superare gli ostacoli dell’individualismo, del relativismo; non lasciarti mai trarre verso il basso dalle mancanze che possono segnare le comunità cristiane. Sforzati di vedere da vicino la persona di Cristo, che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Come successore dell’Apostolo Pietro, visitando in questi giorni la vostra terra, ripeto a ciascuno di voi: non abbiate paura di andare controcorrente per incontrare Gesù, di puntare verso l’alto per incrociare il suo sguardo. Nel “logo” di questa mia Visita pastorale è rappresentata la scena di Marco che consegna il Vangelo a Pietro, tratta da un mosaico di questa Basilica. Oggi, simbolicamente, vengo a riconsegnare il Vangelo a voi, figli spirituali di san Marco, per confermarvi nella fede e incoraggiarvi dinanzi alle sfide del momento presente. Avanzate fiduciosi nel sentiero della nuova evangelizzazione, nel servizio amorevole dei poveri e nella testimonianza coraggiosa all’interno delle varie realtà sociali. Siate consapevoli d’essere portatori di un messaggio che è per ogni uomo e per tutto l’uomo; un messaggio di fede, di speranza e di carità.

[Papa Benedetto, chiusura della visita pastorale Venezia 8 maggio 2011]

Lunedì, 10 Novembre 2025 03:17

Grazie alla vicinanza, e l’Oggi

1. "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).

San Luca, nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, ci mostra l’incontro di Gesù con un uomo chiamato Zaccheo, capo dei pubblicani, molto ricco. Dato che era basso di statura, salì su un albero per vedere Cristo. Udì allora le parole del Maestro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Gesù aveva notato il gesto di Zaccheo: interpretò il suo desiderio e anticipò l’invito. Destò perfino la meraviglia di qualcuno il fatto che Gesù andasse a trovare un peccatore. Zaccheo, felice per la visita “accolse pieno di gioia Cristo” (cfr Lc 19, 6), cioè aprì generosamente la porta della sua casa e del suo cuore all’incontro con il Salvatore.

3. “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri” ( Lc 19, 8). Desidero tornare alla lettura dal Vangelo di San Luca: Cristo “la luce del mondo” (cfr Gv 8, 12), ha portato la sua luce nella casa di Zaccheo, e in modo particolare nel suo cuore. Grazie alla vicinanza di Gesù, delle sue parole e del suo insegnamento comincia a compiersi la trasformazione del cuore di quest’uomo. Già sulla soglia della propria casa Zaccheo dichiara: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituirò quattro volte tanto” (Lc 19, 8). Sull’esempio di Zaccheo vediamo come Cristo rischiari le tenebre della coscienza umana. Alla sua luce si allargano gli orizzonti dell’esistenza: uno comincia a rendersi conto degli altri uomini e delle loro necessità. Nasce il senso del legame con l'altro, la consapevolezza della dimensione sociale dell’uomo e di conseguenza il senso della giustizia. “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità - insegna San Paolo (Ef 5, 9). La svolta verso l’altro uomo, verso il prossimo, costituisce uno dei principali frutti di una conversione sincera. L’uomo esce fuori dal suo egoistico “essere per se stesso” e si volge verso gli altri, sente il bisogno di “essere per gli altri”, di essere per i fratelli.

Una tale dilatazione del cuore nell’incontro con Cristo è il pegno della salvezza, come mostra il seguito del colloquio con Zaccheo: “Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa (...) il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto»” (Lc 19, 9-10).

Anche oggi, la descrizione che Luca fa dell’evento che ebbe luogo a Gerico, non ha perso di importanza. Porta con sé l’esortazione da parte di Cristo, che “è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1, 30). E come una volta di fronte a Zaccheo, così in questo istante Cristo si presenta davanti all’uomo del nostro secolo. Sembra presentare a ciascuno separatamente la sua proposta: “Oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).

Cari Fratelli e Sorelle, importante è questo «oggi». Costituisce come un sollecito. Nella vita ci sono delle questioni talmente importanti e talmente urgenti che non possono essere posticipate e non possono essere lasciate per il domani. Devono essere affrontate già oggi. Esclama il Salmista: “Ascoltate oggi la sua voce: «Non indurite il cuore»” (Sal 94[95], 8). “Il lamento dei poveri” (Gb 34, 28) di tutto il mondo si alza incessantemente da questa terra e giunge a Dio. E’ il grido dei bambini, delle donne, degli anziani, dei profughi, di chi ha subito torto, delle vittime di guerra, dei disoccupati. I poveri sono anche in mezzo a noi: i senza casa, i mendicanti, gli affamati, i disprezzati, i dimenticati dalle perone più care e dalla società, i degradati e gli umiliati, le vittime di vari vizi. Molti di essi tentano perfino di nascondere la loro miseria umana, ma bisogna saperli riconoscere. Ci sono anche persone sofferenti negli ospedali, i bambini orfani oppure i giovani che sperimentano le difficoltà e i problemi della loro età.

4. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3).

Sin dall’inizio della sua attività messianica, parlando nella sinagoga di Nazaret, Gesù disse: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). Riteneva i poveri i più privilegiati eredi del regno. Ciò significa che soltanto “i poveri in spirito” sono in grado di ricevere il regno di Dio con tutto il cuore. L’incontro di Zaccheo con Gesù mostra che anche un uomo ricco può diventare partecipe della beatitudine di Cristo per i poveri in spirito.

Povero in spirito è colui che è disposto ad usare con generosità la propria ricchezza a favore di chi è nel bisogno. In tal caso si vede che non è attaccato a quelle ricchezze. Si vede che comprende bene l’essenziale finalità di esse. I beni materiali infatti sono per servire gli altri, specialmente chi si trova nella necessità. La Chiesa ammette la proprietà personale di questi beni, se vengono usati a questo fine.

Oggi ricordiamo Sant’Edvige regina. E’ conosciuta la sua generosità verso i poveri. Benché fosse ricca, non dimenticava gli indigenti. E’ per noi esempio e modello, come bisogna vivere e mettere in pratica l’insegnamento di Cristo sull’amore e sulla misericordia e rendersi simili a colui che, come dice San Paolo “essendo ricco si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr 2 Cor 8, 9).

“Beati i poveri in spirito”. E’ il grido di Cristo che oggi dovrebbe ascoltare ogni cristiano, ogni uomo credente. C’è tanto bisogno di uomini poveri in spirito, cioè aperti ad accogliere la verità e la grazia, aperti alle grandi cose di Dio; di uomini dal cuore grande che non si lasciano incantare dallo splendore delle ricchezze di questo mondo e non permettono che esse abbiano il dominio sui loro cuori. Sono veramente forti, perché colmi della ricchezza della grazia di Dio. Vivono nella consapevolezza di ricevere da Dio incessantemente e senza fine.

“Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3, 6) - con queste parole gli Apostoli Pietro e Giovanni rispondono alla richiesta dello zoppo dello storpio. Gli donarono il sommo bene che egli avrebbe potuto desiderare. Poveri trasmisero al povero la più grande ricchezza: nel nome di Cristo gli restituirono la salute. Mediante ciò confessarono la verità che attraverso le generazioni è la parte dei confessori di Cristo.

Ecco i poveri in spirito, senza possedere essi stessi né argento né oro, grazie a Cristo hanno un potere maggiore di quello che possono dare tutte le ricchezze del mondo.

Davvero, sono felici e beati questi uomini, perché ad essi appartiene il regno dei cieli. Amen.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Elk 8 giugno 1999]

Il Vangelo di oggi ci presenta un fatto accaduto a Gerico, quando Gesù giunse in città e fu accolto dalla folla (cfr Lc 19,1-10). A Gerico viveva Zaccheo, il capo dei “pubblicani”, cioè degli esattori delle tasse. Zaccheo era un ricco collaboratore degli odiati occupanti romani, uno sfruttatore del suo popolo. Anche lui, per curiosità, voleva vedere Gesù, ma la sua condizione di pubblico peccatore non gli permetteva di avvicinarsi al Maestro; per di più, era piccolo di statura, e per questo sale su un albero di sicomoro, lungo la strada dove Gesù doveva passare.

Quando arriva vicino a quell’albero, Gesù alza lo sguardo e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Possiamo immaginare lo stupore di Zaccheo! Ma perché Gesù dice «devo fermarmi a casa tua»? Di quale dovere si tratta? Sappiamo che il suo dovere supremo è attuare il disegno del Padre su tutta l’umanità, che si compie a Gerusalemme con la sua condanna a morte, la crocifissione e, al terzo giorno, la risurrezione. E’ il disegno di salvezza della misericordia del Padre. E in questo disegno c’è anche la salvezza di Zaccheo, un uomo disonesto e disprezzato da tutti, e perciò bisognoso di convertirsi. Infatti il Vangelo dice che, quando Gesù lo chiamò, «tutti mormoravano: “E’ entrato in casa di un peccatore!”» (v. 7). Il popolo vede in lui un furfante, che si è arricchito sulla pelle del prossimo. E se Gesù avesse detto: “Scendi, tu, sfruttatore, traditore del popolo! Vieni a parlare con me per regolare i conti!”. Di sicuro il popolo avrebbe fatto un applauso. Invece incominciarono a mormorare: “Gesù va a casa di lui, del peccatore, dello sfruttatore”.

Gesù, guidato dalla misericordia, cercava proprio lui. E quando entra in casa di Zaccheo dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (vv. 9-10). Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi. E questo è importante! Dobbiamo impararlo. Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi; vede la persona con gli occhi di Dio, che non si ferma al male passato, ma intravede il bene futuro; Gesù non si rassegna alle chiusure, ma apre sempre, sempre apre nuovi spazi di vita; non si ferma alle apparenze, ma guarda il cuore. E qui ha guardato il cuore ferito di quest’uomo: ferito dal peccato della cupidigia, da tante cose brutte che aveva fatto questo Zaccheo. Guarda quel cuore ferito e va lì.

A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che Dio continua a vedere malgrado tutto, malgrado tutti i suoi sbagli. Questo può provocare una sorpresa positiva, che intenerisce il cuore e spinge la persona a tirare fuori il buono che ha in sé. È il dare fiducia alle persone che le fa crescere e cambiare. Così si comporta Dio con tutti noi: non è bloccato dal nostro peccato, ma lo supera con l’amore e ci fa sentire la nostalgia del bene. Tutti abbiamo sentito questa nostalgia del bene dopo uno sbaglio. E così fa il nostro Padre Dio, così fa Gesù. Non esiste una persona che non ha qualcosa di buono. E questo guarda Dio per tirarla fuori dal male.

La Vergine Maria ci aiuti a vedere il buono che c’è nelle persone che incontriamo ogni giorno, affinché tutti siano incoraggiati a far emergere l’immagine di Dio impressa nel loro cuore. E così possiamo gioire per le sorprese della misericordia di Dio! Il nostro Dio, che è il Dio delle sorprese!

[Papa Francesco, Angelus 30 ottobre 2016]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:43

Il movimento del sacerdozio di Cristo

Le nostre cecità, tra senso religioso e Fede

(Lc 18,35-43)

 

Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.

Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.

Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il ‘figlio di Davide’ (vv.38-39) - che non dà, bensì toglie vita.

L’equivoco ha pesanti conseguenze.

Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici ad es. nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.

Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.

Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.

Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.

Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.

Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.

Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.

Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.

Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.

La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.

Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale - trasmettendo un modello diametralmente opposto di uomo riuscito.

Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo ‘posto’.

Religiosità o Fede personale: è scelta dirimente. Per partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.

Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.

In tal guisa, il Vangelo invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.

Anche l’enciclica Fratelli Tutti propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di ‘passaggio’ e Speranza.

 

Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del Sacerdozio di Cristo.

Con ‘percezione sana.

 

 

[Lunedì 33.a sett. T.O. 17 novembre 2025]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:40

Le nostre cecità, tra senso religioso e Fede

Il movimento del sacerdozio di Cristo

(Lc 18,35-43)

 

L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.

Papa Francesco propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di “passaggio” e Speranza.

Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55) [cit. da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].

Affranto, Paolo VI ammetteva:

«Sì, vi sono molti cristiani mediocri; e non solo perché sono deboli o mancanti di formazione, ma perché vogliono essere mediocri e perché hanno le loro così dette buone ragioni del giusto mezzo, del ne quid nimis, quasi che il Vangelo fosse una scuola d’indolenza morale, o quasi che esso autorizzasse servire al conformismo. Non è ipocrisia? Incoerenza? Relativismo secondo il vento che tira?» [passim].

 

Sembra il ritratto della vita scadente e cieca che talora ci coglie: “nulla di troppo”, “mai l’eccessivo”.

Una sorta di esistenza alla don Abbondio, a contrasto del quale Manzoni delinea l’icona dell’uomo di Fede - che appunto spicca sul mediocre devoto - nella solenne e decisa figura del cardinal Federigo.

Prelato che invece «ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti».

Non il qualunquismo rassicurato d’un pio vigliacco e situazionalista, che finge di non vedere, si accontenta della sua nicchia da mezza tacca; si siede nell’aia scadente del minimo sindacale, si barcamena e non s’espone.

 

Il passo di Lc è un insegnamento che trae spunto dalle primissime forme di liturgia battesimale riservate ai nuovi credenti, chiamati photismòi-illuminati [coloro che dal buio della vita pagana aprivano finalmente gli occhi alla Luce].

Il brano illustra cosa accade a una persona quando incontra Cristo e ne riceve l’orientamento esistenziale: abbandona le posizioni consolidate ma non personalmente rielaborate, e diviene testimone critico.

La narrazione è impostata sul confronto tra sguardi materiali verso il basso (come quelli dei pagani o dei seguaci arroganti) e sguardi aperti, in grado di sollevare l’occhio dell’uomo da pastoie di sembianti, abitudinarietà e potenze esteriori o interiori distruttive.

La comparazione fa affiorare ciò che conta nella vita, quel che ha peso e non viene spazzato via dagli impedimenti d’una spiritualità vuota, rapita o attratta da brame epidermiche; imbrigliate su falsarighe di ruoli sociali o conformismi culturali e spirituali - da consuetudini ereditate ma non vagliate.

Insomma: il Signore ci vuol far comprendere che il conformismo all’ambiente e la vuota devozione inculcano un intendere paludoso, esanime, poco rilevante.

Cosa dunque è necessario per «vedere» con la percezione di Dio, oltre le apparenze, e risollevarsi da una grigia vita di elemosine, letteralmente a terra? E come curare la visuale di chi non si raccapezza?

Anche i “vicini” hanno aspettative più o meno chiare su come entrare nel Movimento del sacerdozio di Cristo.

I discepoli stessi sono suggestionati da una folla spesso qualunquista attorno che si attende ben poco, se non quiete, svago e favori; e che preme perché si entri «ne’ loro limiti».

 

Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.

Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.

Condizionato da falsi maestri e guide spirituali approssimative, anch’egli è bloccato da uno spirito di letargo che punta la sua esistenza a ribasso.

Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il figlio di Davide (v.38) - che non dà, bensì toglie vita.

 

Gesù somiglia e rimanda al Padre, non a un sovrano abile e svelto, che sa addomesticare le masse [figura di uno stile di dominio subdolo o violento, e di continua rivalsa].

L’equivoco ha pesanti conseguenze.

Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.

Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.

Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.

 

Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.

Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.

[Mentre scrivevo un mio prof del liceo, persona di gran fede e dinamismo - mi ha inviato un proverbio indiano: «se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l’elefante»].

Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.

Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.

Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.

Eppure sono dotati d’uno spiccato senso religioso antico; ma proprio per questo - mancando del balzo di Fede - centrati su di sé e sulle idee che sono state trasmesse.

Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.

 

La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.

La sua nuova attitudine diventa piuttosto quella del “neonato”. Si adopera in un modello di vita industrioso, creativo, pratico - avveniristico.

Risorge dinamico, sbarazzandosi degli stracci sui quali si attendeva che altri deponessero qualcosa in suo favore.

L’abito vecchio finisce nella polvere - gettato lontano come nelle antiche liturgie battesimali: a qualsiasi età intraprende, surclassando sicurezze di piccolo cabotaggio.

Cambia vita, la guarda in faccia; sebbene sappia di complicarsela, rendendola impegnativa e controcorrente.

Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale.

In tal guisa, egli comprendere il senso primordiale e rigenerante - anzi, ricreante - della Novità di Dio.

L’Incontro faccia a faccia gli ha trasmesso un modello diametralmente opposto di uomo riuscito; non sottomesso al tatticismo.

Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo posto.

 

“Il vento che tira” c’infonde un letale veleno: quello rinunciatario dell’identificarci-e-assomigliare, che fa rima con l’arrenderci e invecchiare.

La guarigione da tale cecità non può essere un... Miracolo! Religiosità o Fede: è scelta dirimente.

Significa adattarsi pigramente alle mode di circostanza o al vestito vecchio dei comportamenti già “detti” e solite amicizie, aspettando solo qualche soluzione-fulmine che non coinvolga troppo...

Ovvero partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.

Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.

Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del sacerdozio di Cristo. Con percezione sana.

Infatti - come in questo episodio - non di rado i Vangeli insistono sul criterio (devotamente assurdo) che il nemico di Dio non sia il peccato, bensì la vita media e passiva dell’ormai identificato e piazzato.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

L’incontro con Cristo ti ha tolto come un velo dagli occhi? Hai colto l’occasione per nascere come uomo nuovo, e sollevare lo sguardo? O rimani miope e inerte?

 

 

Il Passaggio della Pasqua

Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr Lc 18,35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr v. 35). Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata, assorta nei propri pensieri e in tante cose...E la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa...E lui è solo.

E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15,7.11). E’ stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere, come se non avesse diritto di parlare. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada – gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”.

Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr Es 12,23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione: quando passa Gesù, sempre c’è liberazione, sempre c’è salvezza! Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr Is 35,5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche noi, quando siamo stati in situazioni brutte, anche situazioni di peccato, com’è stato proprio Gesù a prenderci per mano e a toglierci dal margine della strada e donarci la salvezza. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, Il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione. Anche nella nostra vita Gesù passa; e quando passa Gesù, e io me ne accorgo, è un invito ad avvicinarmi a Lui, a essere più buono, a essere un cristiano migliore, a seguire Gesù.

Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Lui, Gesù, Dio, dice: “Ma cosa vuoi che io ti faccia? Come tu vuoi che io ti serva?” Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo. Da mendicante a discepolo, anche questa è la nostra strada: tutti noi siamo mendicanti, tutti. Abbiamo bisogno sempre di salvezza. E tutti noi, tutti i giorni, dobbiamo fare questo passo: da mendicanti a discepoli. E così, il cieco si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li fa venire a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso. Lasciamoci anche noi chiamare da Gesù, e lasciamoci guarire da Gesù, perdonare da Gesù, e andiamo dietro Gesù lodando Dio. Così sia!

[Papa Francesco, Udienza Generale 15 giugno 2016]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:36

L’uomo è fatto per vedere la luce

Questi figli prediletti del Padre celeste sono come il cieco del Vangelo, Bartimeo, che “sedeva lungo la strada a mendicare” (Mc 10,46), alle porte di Gerico. Proprio per quella strada passa Gesù Nazareno. E’ la strada che conduce a Gerusalemme, dove si consumerà la Pasqua, la sua Pasqua sacrificale, alla quale il Messia va incontro per noi. E’ la strada del suo esodo che è anche il nostro: l’unica via che conduce alla terra della riconciliazione, della giustizia e della pace. Su quella via il Signore incontra Bartimeo, che ha perduto la vista. Le loro vie si incrociano, diventano un’unica via. “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”, grida il cieco con fiducia. Replica Gesù: “Chiamatelo!”, e aggiunge: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio è luce e creatore della luce. L’uomo è figlio della luce, fatto per vedere la luce, ma ha perso la vista, e si trova costretto a mendicare. Accanto a lui passa il Signore, che si è fatto mendicante per noi: assetato della nostra fede e del nostro amore. “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio sa, ma chiede; vuole che sia l’uomo a parlare. Vuole che l’uomo si alzi in piedi, che ritrovi il coraggio di domandare ciò che gli spetta per la sua dignità. Il Padre vuole sentire dalla viva voce del figlio la libera volontà di vedere di nuovo la luce, quella luce per la quale lo ha creato. “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù a lui: “Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc 10,51-52).

“Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52). Sì, la fede in Gesù Cristo – quando è bene intesa e praticata – guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Bartimeo che, guarito, segue Gesù lungo la strada, è immagine dell’umanità che, illuminata dalla fede, si mette in cammino verso la terra promessa. Bartimeo diventa a sua volta testimone della luce, raccontando e dimostrando in prima persona di essere stato guarito, rinnovato, rigenerato. Questo è la Chiesa nel mondo: comunità di persone riconciliate, operatrici di giustizia e di pace; “sale e luce” in mezzo alla società degli uomini e delle nazioni.

La Chiesa, comunità che segue Cristo sulla via dell’amore, ha una forma sacerdotale. La categoria del sacerdozio, come chiave interpretativa del mistero di Cristo e, di conseguenza, della Chiesa, è stata introdotta nel Nuovo Testamento dall’Autore della Lettera agli Ebrei. La sua intuizione prende origine dal Salmo 110, citato nel brano odierno, là dove il Signore Dio, con solenne giuramento, assicura al Messia: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (v. 4). Riferimento che ne richiama un altro, tratto dal Salmo 2, nel quale il Messia annuncia il decreto del Signore che dice di lui: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (v. 7). Da questi testi deriva l’attribuzione a Gesù Cristo del carattere sacerdotale, non in senso generico, bensì “secondo l’ordine di Melchisedek”, vale a dire il sacerdozio sommo ed eterno, di origine non umana ma divina. Se ogni sommo sacerdote “è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1), solo Lui, il Cristo, il Figlio di Dio, possiede un sacerdozio che si identifica con la sua stessa Persona, un sacerdozio singolare e trascendente, da cui dipende la salvezza universale. Questo suo sacerdozio Cristo l’ha trasmesso alla Chiesa mediante lo Spirito Santo; pertanto la Chiesa ha in se stessa, in ogni suo membro, in forza del Battesimo, un carattere sacerdotale. Ma – qui c’è un aspetto decisivo – il sacerdozio di Gesù Cristo non è più primariamente rituale, bensì esistenziale. La dimensione del rito non viene abolita, ma, come appare chiaramente nell’istituzione dell’Eucaristia, prende significato dal Mistero pasquale, che porta a compimento i sacrifici antichi e li supera. Nascono così contemporaneamente un nuovo sacrificio, un nuovo sacerdozio ed anche un nuovo tempio, e tutti e tre coincidono con il Mistero di Gesù Cristo. Unita a Lui mediante i Sacramenti, la Chiesa prolunga la sua azione salvifica, permettendo agli uomini di essere risanati mediante la fede, come il cieco Bartimeo. Così la Comunità ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l’amore di Dio e così seminare speranza.

[Papa Benedetto, omelia per la chiusura del Sinodo speciale per l’Africa 25 ottobre 2009]

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Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
The story of the healed blind man wants to help us look up, first planted on the ground due to a life of habit. Prodigy of the priesthood of Jesus
La vicenda del cieco risanato vuole aiutarci a sollevare lo sguardo, prima piantato a terra a causa di una vita abitudinaria. Prodigio del sacerdozio di Gesù.
Firstly, not to let oneself be fooled by false prophets nor to be paralyzed by fear. Secondly, to live this time of expectation as a time of witness and perseverance (Pope Francis)
Primo: non lasciarsi ingannare dai falsi messia e non lasciarsi paralizzare dalla paura. Secondo: vivere il tempo dell’attesa come tempo della testimonianza e della perseveranza (Papa Francesco)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manilla]
The more we do for others, the more we understand and can appropriate the words of Christ: “We are useless servants” (Lk 17:10). We recognize that we are not acting on the basis of any superiority or greater personal efficiency, but because the Lord has graciously enabled us to do so [Pope Benedict, Deus Caritas est n.35]
Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono [Papa Benedetto, Deus Caritas est n.35]
A mustard seed is tiny, yet Jesus says that faith this size, small but true and sincere, suffices to achieve what is humanly impossible, unthinkable (Pope Francis)
Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili (Papa Francesco)
Each time we celebrate the dedication of a church, an essential truth is recalled: the physical temple made of brick and mortar is a sign of the living Church serving in history (Pope Francis)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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