don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Sabato, 25 Ottobre 2025 04:35

Defunti, non “morti”: essi Vivono

In occasione della recente scomparsa dei miei genitori, allo strazio della malattia e della perdita di entrambi (a breve) si è aggiunto il fastidio di un ambiente che continuava a farmi le “condoglianze”.

Come per buona educazione, certo, ma chi ha assimilato il linguaggio della Fede non fa cordoglio alcuno, né parla di “morti” bensì di Defunti. Essi vivono.

Non da sopravvissuti ai colpi che la vita riserva, ma come dei ‘dilatati’, autentici, adorni - e finalmente realizzati appieno.

Donne e uomini ‘fioriti’ in tutto, che hanno sperimentato un nuovo genere di essere nella propria essenza; un’esistenza differente.

Come in una atmosfera d’amore puro, dove come Gesù non si vive più per se stessi, ma uno con l’altro e uno per l’altro.

Senza i cronometri pressanti, né gli abbandoni.

 

Il termine Defunti deriva dal verbo latino «defungor» [infinito «defungi»] il quale indica il termine parziale di una vicenda, non un compimento totale.

Non un confine definitivo che si aprirebbe sull’abisso nullificante e cavernicolo di ombre smarrite o larve senza slancio, prive d’identità e futuro - dopo il transito nel tempo.

Le condoglianze [dal latino «cum-dolēre»] si porgevano volentieri all’interno di una mentalità prettamente pagana o legata a un senso archetipo di religiosità.

Quel genere di convinzioni induceva nei parenti e amici un affliggersi - un piangere senza speranza - che Gesù rimprovera apertamente [Gv 11,33 testo greco; la traduzione italiana è incerta].

Credere che con la morte tutto finisca significa immaginare che l’esistenza sia un progressivo decadere nel vuoto.

Tale convinzione fa ritenere assurdo ogni cammino di crescita anche spirituale. E postula l’insensatezza di coinvolgersi, d’impegnarsi nell’ideale del Bene duraturo - per un Bello che prosegua oltre la nostra vicenda terrena e in favore del prossimo.

Le “condoglianze” stanno quindi per sé a indicare che tutto è finito.

 

In epigrafe al portale di un cimitero di una cittadina non troppo lontana da me si legge una scritta in caratteri cubitali: «qui nei secoli posano affetti vanità speranze».

Il freddo della fine di tutte le cose belle, e il “ghiaccio” del neoclassico rivisitato in stile primo Novecento... perfettamente abbinati su rivestimento di travertino imbiancato.

Invece la Speranza ci attira e rinfranca lo spirito, supera l’oltraggio, dona senso al nostro andare.

Già i credenti dei primi secoli avevano soppiantato l’idea pagana dell’appuntamento di nostra sorella morte quale «dies infaustus», sostituendolo nel suo opposto: «dies Natalis».

Giorno della vera Nascita, all’interno di una stessa Vita; ora completa, risanata.

Vita, che appunto continua - oltre i parametri temporali o di località. 

Senza la fatica dell’esistere che sperimentiamo. Immersi nella vastità dell’essere.

Vita senza le lotte contro di sé, e che prosegue nell’Abbraccio appagante, benedicente, di un Padre che non spersonalizza ma dilata l’esistere caratteriale, le qualità dei suoi figli.

In tale sbocciare pieno di luce e calore siamo come rifoggiati sul prototipo-Progetto dell’autentico Figlio.

Tratto di Alleanza che dovevamo e forse potevamo essere.

 

Sopraffatti di Felicità beata, perché la nostra parte-ombra è ora inclusa; priva di giudizi e commenti.

 

 

[Tutti i Fedeli Defunti, 2 novembre]

Sabato, 25 Ottobre 2025 04:31

Defunti, non “morti”: essi Vivono

(Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti)

 

«Io vedo questi paurosi spazi dell’universo che mi circondano, ed io mi trovo attaccato ad un cantuccio di questa immensità, senza ch’io sappia perché io sia collocato in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché il poco tempo che m’è dato da vivere mi sia assegnato a questo punto, piuttosto che in un altro da tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi succede. Io non vedo che estensioni infinite da ogni parte, che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto ciò ch’io conosco è che devo ben presto morire; ma ciò ch’io più ignoro è questa morte stessa, a cui non mi è dato sfuggire» [Pascal, Pensées, 194].

In occasione della recente scomparsa dei miei genitori, allo strazio della malattia e della perdita di entrambi (a breve) si è aggiunto il fastidio di un ambiente che continuava a farmi le “condoglianze”.

Come per buona educazione, certo, ma chi ha assimilato il linguaggio della Fede non fa cordoglio alcuno, né parla di “morti” bensì di Defunti. Essi vivono.

Non da sopravvissuti ai colpi che la vita riserva, ma come dei dilatati, autentici, adorni e finalmente realizzati appieno.

Donne e uomini fioriti in tutto, che hanno sperimentato un nuovo genere di essere nella propria essenza, un’esistenza differente.

Come in una atmosfera d’amore puro, dove (come Gesù) non si vive più per se stessi, ma uno con l’altro e uno per l’altro.

Senza i cronometri pressanti, né gli abbandoni.

 

Il termine Defunti deriva dal verbo latino «defungor» [infinito «defungi»] il quale indica il termine parziale di una vicenda, non un compimento totale.

Non un confine definitivo che si aprirebbe sull’abisso nullificante e cavernicolo di ombre smarrite o larve senza slancio, prive d’identità e futuro - dopo il transito nel tempo.

Le “condoglianze” [dal latino «cum-dolēre»] si porgevano volentieri all’interno di una mentalità prettamente pagana o legata a un senso archetipo di religiosità.

Quel genere di convinzioni induceva nei parenti e amici un affliggersi - un piangere senza speranza - che Gesù rimprovera apertamente [Gv 11,33 testo greco; la traduzione italiana è incerta].

Credere che con la morte tutto finisca significa immaginare che l’esistenza sia un progressivo decadere nel vuoto.

Tale convinzione fa ritenere assurdo ogni cammino di crescita anche spirituale. E postula l’insensatezza di coinvolgersi, d’impegnarsi nell’ideale del Bene duraturo - per un Bello che prosegua oltre la nostra vicenda terrena (e in favore del prossimo).

Le condoglianze stanno quindi per sé a indicare che tutto è finito.

 

In epigrafe al portale di un cimitero di una cittadina non troppo lontana da me si legge una scritta in caratteri cubitali: «qui nei secoli posano affetti vanità speranze».

Il freddo della fine di tutte le cose belle, e il “ghiaccio” del neoclassico rivisitato in stile primo Novecento... perfettamente abbinati su rivestimento di travertino imbiancato.

Invece la Speranza ci attira e rinfranca lo spirito, supera l’oltraggio, dona senso al nostro andare.

Già i credenti dei primi secoli avevano soppiantato l’idea pagana dell’appuntamento di nostra sorella morte quale «dies infaustus», sostituendolo nel suo opposto: «dies Natalis».

Giorno della vera Nascita, all’interno di una stessa Vita; ora completa, risanata.

Vita, che appunto continua - oltre i parametri temporali o di località. 

Senza la fatica dell’esistere che sperimentiamo. Immersi nella vastità dell’essere.

Vita senza le lotte contro di sé, e che prosegue nell’Abbraccio appagante, benedicente, di un Padre che non spersonalizza ma dilata l’esistere caratteriale, le qualità dei suoi figli.

In tale sbocciare pieno di luce e calore siamo come rifoggiati sul prototipo-Progetto dell’autentico Figlio.

Tratto di Alleanza che dovevamo e forse potevamo essere.

Sopraffatti di Felicità beata, perché la nostra parte-ombra è ora inclusa; priva di giudizi e commenti.

 

In «Speranza del grano di senape» leggiamo una gemma di Joseph Ratzinger, che ha avuto il fegato di scrivere parole da scolpire seriamente sui fregi delle trabeazioni (in luogo di altre superficialità a effetto - purtroppo diffuse):

«Oggi appare chiaro che il fuoco del Giudizio di cui parla la Bibbia non indica una specie di prigione dell’aldilà, bensì il Signore stesso che nel momento del giudizio si incontra con l’uomo [...]».

«Nell’uomo che si presenta allo sguardo del Signore tutto ciò che nella sua vita è ‘paglia e fieno’ brucia e rimane soltanto ciò che può davvero avere consistenza. E significa che attraverso l’incontro con Cristo l’uomo viene rifuso e rimodellato secondo ciò che egli doveva e poteva propriamente essere. L’opzione fondamentale di un tale uomo è il Sì che lo rende capace di accogliere la misericordia di Dio; ma questa decisione fondamentale è molte volte intorpidita e intirizzita, fa capolino soltanto faticosamente dai ceppi dell’egoismo da cui l’uomo non ha mai potuto liberarsi. L’incontro con il Signore è questa trasformazione, il fuoco che lo brucia e lo scioglie, facendolo diventare quella figura, quella forma senza scorie che può divenire recipiente dell’eterna Gioia».

 

 

Il fuoco che brucia: Cristo stesso

 

Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).

 

[Papa Benedetto, enciclica Spe Salvi n.47]

Sabato, 25 Ottobre 2025 04:28

Sconosciuta realtà conosciuta

12. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.

[Papa Benedetto, Spe salvi]

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Dopo aver celebrato ieri la Solennità di Tutti i Santi, oggi, due novembre, il nostro sguardo orante si volge a coloro che hanno lasciato questo mondo e attendono di raggiungere la Città celeste. Da sempre la Chiesa ha esortato a pregare per i defunti. Essa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna. "Mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno - leggiamo nel prefazio odierno -, viene preparata un’abitazione eterna nel Cielo".

2. E’ importante e doveroso pregare per i defunti, perché anche se morti nella grazia e nell’amicizia di Dio, essi forse abbisognano ancora di un’ultima purificazione per entrare nella gioia del Cielo (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1030). Il suffragio per loro si esprime in vari modi, tra i quali anche la visita ai cimiteri. Sostare in questi luoghi sacri costituisce un’occasione propizia per riflettere sul senso della vita terrena e per alimentare, al tempo stesso, la speranza nell'eternità beata del Paradiso.

Maria, Porta del cielo, ci aiuti a non dimenticare e a non perdere mai di vista la Patria celeste, meta ultima del nostro pellegrinaggio qui sulla Terra.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 2 novembre 2003]

Sabato, 25 Ottobre 2025 04:08

Sconfitta e Speranza

Giobbe sconfitto, anzi, finito nella sua esistenza, per la malattia, con la pelle strappata via, quasi sul punto di morire, quasi senza carne, Giobbe ha una certezza e la dice: «Io so che il mio Redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!» (Gb 19,25). Nel momento in cui Giobbe è più giù, giù, giù, c’è quell’abbraccio di luce e calore che lo assicura: Io vedrò il Redentore. Con questi occhi lo vedrò. «Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (Gb 19,27).

Questa certezza, nel momento proprio quasi finale della vita, è la speranza cristiana. Una speranza che è un dono: noi non possiamo averla. È un dono che dobbiamo chiedere: “Signore, dammi la speranza”. Ci sono tante cose brutte che ci portano a disperare, a credere che tutto sarà una sconfitta finale, che dopo la morte non ci sia nulla… E la voce di Giobbe torna, torna: «Io so che il mio Redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! […] Io lo vedrò, io stesso», con questi occhi.

«La speranza non delude» (Rm 5,5), ci ha detto Paolo. La speranza ci attira e dà un senso alla nostra vita. Io non vedo l’aldilà, ma la speranza è il dono di Dio che ci attira verso la vita, verso la gioia eterna. La speranza è un’ancora che noi abbiamo dall’altra parte, e noi, aggrappati alla corda, ci sosteniamo (cfr Eb 6,18-20). “Io so che il mio Redentore è vivo e io lo vedrò”. E questo, ripeterlo nei momenti di gioia e nei momenti brutti, nei momenti di morte, diciamo così.

Questa certezza è un dono di Dio, perché noi non potremo mai avere la speranza con le nostre forze. Dobbiamo chiederla. La speranza è un dono gratuito che noi non meritiamo mai: è dato, è donato. È grazia.

E poi, il Signore conferma questo, questa speranza che non delude: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me» (Gv 6,37). Questo è il fine della speranza: andare da Gesù. E «colui che viene a me, io non lo caccerò fuori perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,37-38). Il Signore che ci riceve là, dove c’è l’ancora. La vita in speranza è vivere così: aggrappati, con la corda in mano, forte, sapendo che l’ancora è laggiù. E quest’ancora non delude, non delude.

Oggi, nel pensiero di tanti fratelli e sorelle che se ne sono andati, ci farà bene guardare i cimiteri e guardare su. E ripetere, come Giobbe: “Io so che il mio Redentore è vivo, e io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. E questa è la forza che ci dà la speranza, questo dono gratuito che è la virtù della speranza. Che il Signore la dia a tutti noi.

[Papa Francesco, omelia 2 novembre 2020]

Venerdì, 24 Ottobre 2025 04:42

Hanno fatto passare la Luce

Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede

(Mt 5,1-12)

 

Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra ‘sentire religioso’ comune, e ‘vivere di Fede’.

Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».

Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.

Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale.

 

In Cristo l’uomo vero è un «distaccato» [‘santo’] dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.

E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.

A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.

In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di ‘scendere’ per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.

In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.

Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici forti, e ‘migliori’ degli altri.

 

L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].

Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente ‘natura’, quindi il loro essere nel mondo è condizionato, persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).

Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.

Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.

La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.

Per una Nuova Alleanza.

 

Con Gesù la Perfezione non riguarda il ‘pensiero’, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.

Nella Scrittura i Santi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana, la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.

E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.

Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].

‘Peccato’ è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non-parziali.

Ciò, armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.

Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.

 

A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.

Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi: «sperimentando che gli altri sono “nostra stessa carne”» (FT n.84).

 

 

[1 Novembre, Ognissanti]

Venerdì, 24 Ottobre 2025 04:38

Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede

Hanno fatto passare la Luce

 

Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra “sentire religioso” comune, e “vivere di Fede”.

Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».

Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.

Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale, moralistica o sentimentale.

Nella lingua latina perfìcere significa condurre a termine, andare sino in fondo.

In tale accezione completa e integrale, “perfetto” diventa un valore incarnato autentico: attributo possibile - d’ogni persona consapevole della propria condizione di vulnerabilità, e non la disprezza.

La donna e l’uomo di Fede valorizzano ogni occasione o emozione che mettono a nudo la condizione di nudità [non colpa] per aprire nuove strade e rinnovarsi.

In ottica di vita nello Spirito il santo [in ebraico Qadosh, attributo divino] è sì l’uomo «distacccato», ma non in senso parziale o fisico, bensì ideale.

Non è la persona che a un certo punto della vita prende le distanze dalla famiglia umana per intraprendere un sentiero di purificazione che la innalzerebbe. Illudendosi di migliorare.

Come sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti: «Un essere umano [...] non si realizza, non sviluppa, non può trovare la propria pienezza [... e] non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (n.87).

Il testimone autentico non è animato dal disprezzo del caos esistenziale - né desideroso di appaltare le difficoltà di gestione della propria libertà consegnandola a un’agenzia alienante, dalla mentalità appartata (che risolva il dramma delle scelte personali).

In Cristo l’uomo è un «disgiunto» dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.

E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.

A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.

Tutto per la Comunione globale, e in Verità anche con il proprio intimo seme caratteriale - evitando proselitismi e il farsi notare nelle passerelle.

Il vero credente conosce il suo limite redento, vede le possibilità dell’imperfezione... Così sostituisce i presupposti del trattenere per sé, del salire sugli altri e del dominarli, con un fondamentale trittico umanizzante: elargire, libertà di “scendere”, collaborare.

Questo l’autentico Distacco, che non fugge le proprie e altrui inclinazioni, né disprezza il tratto complesso della condizione umana.

In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di “abbassarsi” per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.

In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.

Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici “forti”, e “migliori” degli altri.

Solo quest’orizzonte di Focolare ci spinge a partire.

Di conseguenza, contrario di Santo non è «peccatore», bensì irrealizzato o incompiuto.

 

Vediamone ancora il motivo (vocazionale e per strade personali).

Gesù era amico di pubblicani e pubblici peccatori non perché migliori dei buoni, ma perché in religione i «giusti» risultano non di rado poco spontanei; rendendosi impermeabili, chiusi, refrattari all’azione dello Spirito.

Con sorpresa, il Signore stesso ha fatto ripetuta esperienza che proprio le persone devotamente carenti erano volte a interrogarsi, accorgersi, rielaborare, deviare dall’assuefazione - per l’edificazione di nuovi sentieri, anche procedendo a tastoni.

Non potendo godere del mantello perbenista di paraventi sociali, dopo una presa di coscienza della propria situazione (e nel tempo) - rispetto a coloro che si ritenevano “arrivati” e amici di Dio - da “lontani” diventavano persone più degli “impeccabili” disposte ad amare.

 

Il mettersi in discussione è fondamentale in ottica biblica.

Ad ogni pie’ sospinto la Scrittura ci propone una spiritualità dell’Esodo, ossia una strada di liberazione da pastoie e percorsa come a piedi, passo dopo passo. Quindi che valorizza sentieri di ricerca, esplorazione, scoperta di sé e della Novità di un Dio che non ripete, ma crea.

L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].

 

Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente “natura”, quindi il loro essere nel mondo è condizionato [ricordo che il mio professore di antropologia teologica Ignazio Sanna diceva addirittura «de-centrato»], persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).

Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.

Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.

 

Per giungere a essere immagine e somiglianza del Signore, dobbiamo sviluppare capacità di risposta a una Vocazione che ci rende non dei fenomeni, né “perfetti” eccezionali, bensì Testimoni particolari.

Scelti per Nome, così come siamo; che abbracciano il loro essere profondo - anche inespresso - fino a riconoscerlo nel Tu, e dispiegarlo nel Noi.

La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.

Per una Nuova Alleanza.

 

Nell’Antico Testamento il credente entrava in contatto con la purità divina frequentando luoghi sacri, adempiendo prescrizioni, recitando preghiere, rispettando tempi e spazi, scansando situazioni imbarazzanti; così via.

La nostra esperienza e coscienza attestano infallibilmente che l’osservanza rigorosa è troppo rara, o di maniera: dentro, spesso non ci corrisponde - né umanizza.

Essa diventa presto o tardi un castello di carte, malfermo tanto più punta “in alto”. Basta disporne una sola in modo maldestro, e la costruzione artificiosa crolla.

Ci rendiamo conto della nostra naturale impossibilità a soddisfare sterilizzazioni, mappe (altrui) e standard così elevati.

Con Gesù la Perfezione non riguarda il “pensiero”, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.

In antichi contesti il cammino dei figli è stato ammantato d’una proposta misticheggiante o rinunciataria fatta di astinenze, digiuni, ritiri, vita appartata, adempimenti cultuali ossessivi... che in molte situazioni hanno costituito la trama portante della spiritualità pre-Conciliare.

Ma nella Scrittura i Santi non hanno l’aureola e neppure le ali.

Non sono tali per aver compiuto miracoli di guarigione incomparabili e stupefacenti: bensì donne e uomini inseriti nel mondo comune e negli aspetti più ordinari. 

Essi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana; la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.

E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.

 

Nel Primo Testamento «Qadosh» designava esclusivamente un attributo dell’Eterno [unica Persona non intermittente] - e la sua separatezza dall’intreccio delle spesso confuse ambizioni terrene.

Malgrado i difetti, però, in Cristo diventiamo capaci di ascolto, di percezione; quindi abilitati a cogliere ogni opportunità per rendere testimonianza della Gratuità innata, vitale, dell’iniziativa divina e reale.

Incessantemente la vita provvidente si propone e viene incontro per aprire varchi impensabili, che fanno breccia.

I suoi inediti tragitti di crescita rinnovano l’esistere tutto concatenato e conforme.

Ciò anche facendoci stupire delle risorse intime, prima inconsapevoli o inconfessate e sottaciute, ovvero imprevedibilmente nascoste dietro lati oscuri.

 

Quel ch’è Insigne non viene più spostato dietro nuvolette e collocato in recinti muniti.

Pertanto, avversario di Dio non sarà la trasgressione: diventa viceversa la mancanza di spirito di Comunione, nelle differenze.

Nemico della storia di Salvezza non è l’incompletezza religiosa, ma il divario dalle Beatitudini - e dallo spirito in fieri del «viandante» per il quale “peregrinare” è sinonimo [non paradossale] anche di “errare”.

Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].

“Peccato” è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non parziali. Ciò armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.

Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.

Infatti Gesù non raccomanda dottrine, né di parcellizzare la propria vicenda con etilismi puntuali. Neppure prospetta alcuna religiosa scalata [in termini di progressività] condita di sforzi.

A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.

Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi.

 

Il Santo è il piccolo, non l’eroe tutto d’un pezzo, uniforme, pronosticabile, scontato.

Santo è colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto, ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).

Venerdì, 24 Ottobre 2025 04:34

Città superna dai tratti caratteristici

Fratelli e sorelle amatissimi, noi oggi contempliamo il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra! La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino verso il Regno, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. Disponiamoci a celebrare il grande mistero della fede e dell'amore, confessandoci bisognosi della misericordia di Dio.

Cari fratelli e sorelle,

la nostra celebrazione eucaristica si è aperta con l'esortazione "Rallegriamoci tutti nel Signore". La liturgia ci invita a condividere il gaudio celeste dei santi, ad assaporarne la gioia. I santi non sono una esigua casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio.

Quest'oggi la Chiesa festeggia la sua dignità di "madre dei santi, immagine della città superna" (A. Manzoni), e manifesta la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Non le mancano certo figli riottosi e addirittura ribelli, ma è nei santi che essa riconosce i suoi tratti caratteristici, e proprio in loro assapora la sua gioia più profonda. Nella prima Lettura, l'autore del libro dell'Apocalisse li descrive come "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). Questo popolo comprende i santi dell'Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell'inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la volontà di incarnare nella loro esistenza il Vangelo, sotto l'impulso dell'eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo.

Ma "a che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?". Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. E attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: "I nostri santi - egli dice - non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri" (Disc. 2; Opera Omnia Cisterc. 5, 364ss). Ecco dunque il significato dell'odierna solennità: guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il grande desiderio di essere come i santi: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere Santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione.

Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? All'interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà. "Se uno mi vuol servire - Egli ci ammonisce - mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Gv 12, 26). Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (Cfr Gv 12, 24-25). L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, "sono passati attraverso la grande tribolazione - si legge nell'Apocalisse - e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello" (v. 14). I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cfr Ap 20, 12); loro eterna dimora è il Paradiso. L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l'unica vera causa di tristezza e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.

La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell'uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6, 3). Nella seconda Lettura, l'apostolo Giovanni osserva: "Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1 Gv 3, 1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all'amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il "perdere se stessi", e proprio così ci rende felici.

Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all'annuncio delle Beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare in questa Basilica. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cfr Mt 5, 3-10). In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l'afflitto, il mite, l'affamato e l'assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l'operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di Morte e Risurrezione, di Passione e di gioia della Risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle sue circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con Lui l'impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell'ago (cfr Mc 10, 25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cfr Mt 5, 48).

Cari fratelli e sorelle, entriamo ora nel cuore della Celebrazione eucaristica, stimolo e nutrimento di santità. Tra poco si farà presente nel modo più alto Cristo, vera Vite, a cui, come tralci, sono uniti i fedeli che sono sulla terra ed i santi del cielo. Più stretta pertanto sarà la comunione della Chiesa pellegrinante nel mondo con la Chiesa trionfante nella gloria. Nel Prefazio proclameremo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino ad imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Lei, la Tutta Santa, ci faccia fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo! Amen.

[Papa Benedetto, omelia 1 novembre 2006]

Venerdì, 24 Ottobre 2025 04:29

Condizione di pellegrini. Fatti per il Cielo

1. Al termine di questa solenne Celebrazione in onore di Tutti i Santi, il nostro sguardo si volge verso l'alto. La festa odierna ci ricorda che noi siamo fatti per il Cielo, dove la Madonna è già giunta e ci attende.

La vita cristiana è camminare quaggiù col cuore rivolto verso l'Alto, verso la Casa del Padre celeste. Così hanno camminato i santi e così, in primo luogo, ha fatto la Vergine Madre del Signore. Il Giubileo ci richiama a questa dimensione essenziale della santità: la condizione di pellegrini, che cercano ogni giorno il Regno di Dio confidando nella divina Provvidenza. Questa è l'autentica speranza cristiana, che non ha nulla a che vedere col fatalismo né con la fuga dalla storia. Al contrario, è stimolo all'impegno concreto, guardando a Cristo, Dio fatto uomo, che ci apre la via del Cielo.

2. In questa prospettiva ci disponiamo a celebrare domani la Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Ci rechiamo spiritualmente presso le tombe dei nostri cari, che ci hanno preceduto con il segno della fede e che attendono il sostegno della nostra preghiera. Assicuro un ricordo per quanti, nel corso di quest'anno, hanno perso la vita; specialmente penso alle vittime dell'umana violenza: possa ciascuno trovare nel seno di Dio la sospirata pace.

3. In questa luce, Maria ci appare ancor più quale Regina dei Santi e Madre della nostra speranza. E' a Lei che ci rivolgiamo, perché ci guidi sulla via della santità e ci assista in ogni momento della vita, adesso e nell'ora della nostra morte.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 1 novembre 2000]

Venerdì, 24 Ottobre 2025 04:18

Ciascuno secondo la propria tonalità

La solennità di Tutti i Santi è la “nostra” festa: non perché noi siamo bravi, ma perché la santità di Dio ha toccato la nostra vita. I santi non sono modellini perfetti, ma persone attraversate da Dio. Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria “tonalità”. Ma tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce gentile di Dio. Questo è lo scopo della vita: far passare la luce di Dio, e anche lo scopo della nostra vita.

Infatti, oggi nel Vangelo Gesù si rivolge ai suoi, a tutti noi, dicendoci «Beati» (Mt 5,3). È la parola con cui inizia la sua predicazione, che è “vangelo”, buona notizia perché è la strada della felicità. Chi sta con Gesù è beato, è felice. La felicità non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno, no, la felicità vera è stare col Signore e vivere per amore. Voi credete questo? La felicità vera non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno; la felicità vera è stare con il Signore e vivere per amore. Credete questo? Dobbiamo andare avanti, per credere a questo. Allora, gli ingredienti per la vita felice si chiamano beatitudini: sono beati i semplici, gli umili che fanno posto a Dio, che sanno piangere per gli altri e per i propri sbagli, restano miti, lottano per la giustizia, sono misericordiosi verso tutti, custodiscono la purezza del cuore, operano sempre per la pace e rimangono nella gioia, non odiano e, anche quando soffrono, rispondono al male con il bene.

Ecco le beatitudini. Non richiedono gesti eclatanti, non sono per superuomini, ma per chi vive le prove e le fatiche di ogni giorno, per noi. Così sono i santi: respirano come tutti l’aria inquinata dal male che c’è nel mondo, ma nel cammino non perdono mai di vista il tracciato di Gesù, quello indicato nelle beatitudini, che sono come la mappa della vita cristiana. Oggi è la festa di quelli che hanno raggiunto la meta indicata da questa mappa: non solo i santi del calendario, ma tanti fratelli e sorelle “della porta accanto”, che magari abbiamo incontrato e conosciuto. Oggi è una festa di famiglia, di tante persone semplici e nascoste che in realtà aiutano Dio a mandare avanti il mondo. E ce ne sono tanti, oggi! Ce ne sono tanti. Grazie a questi fratelli e sorelle sconosciuti che aiutano Dio a portare avanti il mondo, che vivono tra di noi; salutiamoli tutti con un bell’applauso!

Anzitutto – dice la prima beatitudine – sono «poveri in spirito» (Mt 5,3). Che cosa significa? Che non vivono per il successo, il potere e il denaro; sanno che chi accumula tesori per sé non arricchisce davanti a Dio (cfr Lc 12,21). Credono invece che il Signore è il tesoro della vita, e l’amore al prossimo l’unica vera fonte di guadagno. A volte siamo scontenti per qualcosa che ci manca o preoccupati se non siamo considerati come vorremmo; ricordiamoci che non sta qui la nostra beatitudine, ma nel Signore e nell’amore: solo con Lui, solo amando si vive da beati.

Vorrei infine citare un’altra beatitudine, che non si trova nel Vangelo, ma alla fine della Bibbia e parla del termine della vita: «Beati i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14,13). Domani saremo chiamati ad accompagnare con la preghiera i nostri defunti, perché godano per sempre del Signore. Ricordiamo con gratitudine i nostri cari e preghiamo per loro.

La Madre di Dio, Regina dei Santi e Porta del Cielo, interceda per il nostro cammino di santità e per i nostri cari che ci hanno preceduto e sono già partiti per la Patria celeste.

[Papa Francesco, Angelus 1 novembre 2017]

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The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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