Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
«Oggi, in questa messa, ci faremo vicini alla Chiesa di Costantinopoli, la Chiesa di Andrea, pregheremo per la Chiesa, per l’unità delle Chiese». Con queste parole, all’inizio della celebrazione di venerdì 30 a Santa Marta, Papa Francesco ha voluto ricordare la festa liturgica di sant’Andrea. E la vocazione di «Pietro e Andrea» è stata richiamata dal Pontefice con le parole dell’antifona d’ingresso: «Sulle sponde del mare di Galilea il Signore vide due fratelli, Pietro ed Andrea, e li chiamò: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” (cfr. Matteo 4, 18-19)». L’annuncio del Vangelo, ha poi affermato il Papa, è «testimonianza» e «coerenza» fino al martirio: è una missione che prevede «il biglietto di sola andata». E non ha nulla a che vedere con il «proselitismo» e la «logica del marketing».
Nell’omelia il Pontefice ha anzitutto ripreso i contenuti dalla lettera di Paolo ai Romani (10, 9-18) proposta come prima lettura. L’apostolo, ha spiegato, «dice ai romani che è importante l’annuncio del Vangelo: portare questo annuncio, che Cristo ci ha salvato, che Cristo è morto, risorto per noi». Ma l’apostolo dice anche «come questa gente deve invocare il nome del Signore per essere salvata: “come invocheranno colui nel quale non hanno creduto?”». Perché «senza fede non si può invocare». E ancora, ha proseguito il Papa ripetendo le parole di Paolo, «come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: “Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!”».
«L’annunzio di Gesù Cristo è portare, sì, una notizia, ma non una notizia semplice, comune: la buona notizia» ha spiegato Francesco, aggiungendo che in realtà non si tratta «neppure di una buona notizia» ma della notizia, «l’unica grande buona notizia».
E «questo annunciare Gesù Cristo per i discepoli dei primi tempi e anche di questo tempo — ha detto il Pontefice — non è un lavoro di pubblicità: fare pubblicità per una persona molto buona, che ha fatto del bene, ha guarito tanta gente e ci ha insegnato cose belle». L’annuncio, ha insistito, «non è pubblicità, neppure è proselitismo». Tanto che «se qualcuno va a parlare di Gesù Cristo, a predicare Gesù Cristo per fare proselitismo, no, questo non è annuncio di Cristo: questo è un lavoro di predicatore, retto dalla logica del marketing».
Dunque, si è chiesto il Papa, «che cosa è l’annuncio di Cristo, che non è né proselitismo, né pubblicità, né marketing e come descriverlo?». Si tratta, ha risposto, «prima di tutto, di essere inviato, ma non come il capo di una ditta a cercare nuovi soci», bensì come «inviato alla missione». E «il segnale proprio, che uno è inviato alla missione» è «quando entra in gioco la propria vita: l’apostolo, l’inviato, che porta avanti l’annuncio di Gesù Cristo lo fa a condizione che metta in gioco la propria vita, il proprio tempo, i propri interessi, la propria carne». E «c’è un detto che può spiegare, un detto comune detto da gente semplice della mia terra, che dice: “per fare questo ci vuole mettere la propria carne sulla griglia”». La questione, ha ripetuto Francesco, è «mettersi in gioco e questo viaggio di andare all’annuncio rischiando la vita — perché io mi gioco la mia vita, la mia carne — ha soltanto il biglietto di andata, non del ritorno». Perché «ritornare è apostasia».
«Annuncio di Gesù Cristo con la testimonianza» dunque. E «testimonianza vuol dire mettere in gioco la propria vita: quello che io dico lo faccio» ha ribadito il Pontefice. Del resto, «Gesù rimproverava i dottori della legge di quel tempo che dicevano tante cose belle, ma facevano il contrario». Non a caso, «il consiglio che Gesù dava alla gente era: “Fate tutto quello che loro dicono, ma non imitate quello che fanno”». Infatti, ha aggiunto, «la parola per essere annuncio deve essere testimonianza».
Ma «quanto scandalo diamo noi cristiani quando diciamo di essere cristiani e poi viviamo come pagani, come non credenti, come se non avessimo fede» ha riconosciuto il Papa, invitando ad avere «coerenza tra la parola e la propria vita: questo si chiama testimonianza». E così «l’apostolo, quello che porta, l’annunciatore, quello che porta la parola di Dio, è un testimone che gioca la propria vita fino alla fine». Ed «è anche un martire».
A questo punto, ha suggerito Francesco, «qualcuno può domandarsi chi ha inventato questo metodo di far conoscere una persona come Gesù: è un metodo proprio del cristianesimo. Chi lo ha inventato? Forse san Pietro o sant’Andrea? No, Dio Padre, perché è stato il proprio metodo per farsi conoscere: inviare il suo Figlio in carne, rischiando la propria vita».
Infatti, ha fatto presente il Pontefice, «il primo atto di fede è: “Io credo che il Figlio si è incarnato”». E anche questa affermazione «scandalizzava tanto e continua a scandalizzare: Dio si è fatto uno di noi». Anche questo «è stato un viaggio — ha affermato Francesco — con biglietto soltanto di andata: il diavolo ha cercato di convincerlo a prendere un’altra strada e lui non ha voluto, ha fatto la volontà del Padre fino alla fine». Ma il suo «annuncio deve andare per la stessa strada, la testimonianza, perché lui è stato il testimone del Padre fatto carne». E anche «noi dobbiamo farci carne, cioè farci testimoni: fare, fare quello che diciamo, e questo è l’annuncio di Cristo».
«I martiri sono coloro che dimostrano che l’annuncio è stato vero» ha spiegato il Papa. Sono «uomini e donne che hanno dato la vita — gli apostoli hanno dato la vita — con il sangue». Ma sono «anche tanti uomini e donne nascosti nella nostra società e nelle nostre famiglie, che danno testimonianza tutti i giorni in silenzio di Gesù Cristo, ma con la propria vita, con quella coerenza di fare quello che dicono».
«Tutti noi siamo battezzati e abbiamo con il battesimo la missione di annunciare Gesù Cristo» ha rilanciato il Pontefice. Perciò «se noi viviamo come Gesù ci ha insegnato a vivere, viviamo in armonia con quello che predichiamo, l’annuncio sarà fruttuoso». Ma «se noi viviamo senza coerenza, dicendo una cosa e facendone un’altra contraria, il risultato sarà lo scandalo; e lo scandalo dei cristiani fa tanto male, tanto male al popolo di Dio».
«Chiediamo al Signore la grazia» — ha concluso Francesco — di fare «come Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni che hanno lasciato barca, rete, padre, famiglia: lasciare tutto quello che ci impedisce di andare avanti nell’annuncio della testimonianza». Perché «tutti noi abbiamo qualcosa da lasciare dentro, tutti. Cerchiamo cosa? Lasciamo. Quell’atteggiamento, quel peccato, quel vizio: ognuno sa la sua». Per questo, ha ripetuto, chiediamo «la grazia di lasciare per essere più coerenti e annunciare Gesù Cristo, perché la gente creda con la nostra testimonianza».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 01/12/2018]
XXXIV Domenica Tempo Ordinario (anno B) [24 Novembre 2024]
Prima lettura Dn 7,13-14
*Una scena di incoronazione
Il profeta Daniele descrive una scena di incoronazione “nelle nubi del cielo”, ovvero nel mondo di Dio con un “figlio d’uomo” (in ebraico significa semplicemente un essere umano) che si avvicina al Vegliardo, che pochi versetti prima (v.9) descrive seduto su un trono: si comprende che è Dio. Il Figlio d’uomo avanza per essere consacrato re: “gli furono dati potere, gloria e regno…il suo è un potere eterno che non finirà mai”, regalità universale ed eterna che però non conquista con la forza e, come precisa Daniele, non si avvicina verso il trono di Dio di sua iniziativa. Questa domenica si ferma qui la lettura, ma per meglio capire occorre andare un po’ oltre e si comprende che questo “figlio d’uomo” non è un individuo bensì un popolo: “Io, Daniele, mi sentii agitato nell'animo..mi accostai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede questa spiegazione: "Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra; ma i santi dell'Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, in eterno"(vv15-18). In alcuni versetti più avanti ripete: “Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno" (v27). Questo figlio d’uomo è dunque “il popolo dei santi dell’Altissimo” che, nel linguaggio biblico, significa Israele e nell’epoca delle persecuzioni, è il piccolo resto fedele. Siamo nel momento più doloroso della persecuzione di Antioco Epifane intorno al 165 a.C. quando restò veramente solo un piccolo gruppo. Quando Daniele afferma che il popolo dei santi dell’Altissimo riceverà il regno, intende incoraggiarlo a resistere perché presto avverrà la liberazione definitiva e, dato che poco dopo Antioco Epifane fu cacciato, la sua profezia venne interpretata da alcuni Giudei riferita al Messia- Re atteso, che non sarebbe stato un individuo particolare, bensì un popolo. Quando secoli dopo nacque Gesù, pur se tutti in Israele attendevano il Messia, non tutti lo immaginavano allo stesso modo: alcuni attendevano un uomo, altri un Messia collettivo chiamato appunto “il piccolo Resto d’Israele” (espressione del profeta Amos 9.11-15), o “il figlio d’uomo” in riferimento al profeta Daniele. Gesù è il solo (nessun altro lo fa) a utilizzare più di 80 volte nei vangeli l’espressione “Figlio dell’uomo” che viene sulle nubi del cielo riferendola a sé stesso, ma i suoi contemporanei non potevano riconoscere nel Gesù di Nazareth, il carpentiere, il Messia cioè “il popolo dei santi dell’Altissimo”. Inoltre, Gesù modifica in maniera sostanziale la definizione perché rifacendosi a Daniele afferma: “Allora…si vedrà il Figlio dell’uomo venire, circondato da nubi, nella pienezza della potenza e della gloria” (Mc 13, 26), e sempre nel vangelo di Marco aggiunge:“Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9, 31). Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che il titolo di Figlio dell’uomo sulle nubi del cielo si attribuisce a Gesù, perché lui è insieme uomo e Dio, il primogenito della nuova umanità, il Capo che fa di noi un unico Corpo e, alla fine della storia, saremo come “un solo uomo, innestati in lui e quindi “il popolo dei santi dell’Altissimo”. Mentre Daniele diceva un “Figlio d’uomo” Gesù lo modifica in “Figlio dell’uomo””: figlio d’uomo significava “un uomo”, mentre figlio dell’uomo indica “l’Umanità” e dunque “Figlio dell’Uomo” significa l’Umanità. Attribuendo a sé stesso questo titolo, Cristo si rivela il portatore del destino di tutta l’umanità realizzando il progetto della creazione divina, fare cioè dell’umanità un solo popolo: “Dio creò l'uomo a sua immagine…maschio e femmina li creò… disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn 1, 27-28). Per san Paolo Gesù è il nuovo Adamo: ”Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm5,12-21; 1Cor. 15,21-22, 45-49), mentre nel IV vangelo colpisce sempre la frase di Piato “Ecce homo, Ecco l’uomo” (19,5).
*Salmo responsoriale 92/93 (1,2,5)
*Noi proclamiamo Dio nostro Re
Proclamando Cristo Re affermiamo la nostra fede/speranza con il coraggio di realizzare il suo regno, certi che risorgendo ha sconfitto la morte e perdonando gli uccisori ha distrutto l’odio. Mentre però osiamo dire che Cristo è già re, tutto nel mondo sembra andare al contrario: la morte uccide, l’odio dilaga in tutte le sue forme di violenza e di ingiustizia. Il salmo 92/93 proclama la vittoria di Dio sul mondo malgrado le apparenze e anche gli Ebrei celebrano Dio Re avendo la stessa fede e speranza nell’attesa del “Giorno” di Dio. Nel proclamare però la sua vittoria sulle forze del Male si basano sull’esperienza dell’Esodo adorando Dio che liberando Israele ha offerto la sua Alleanza, mentre noi cristiani poggiandoci sulla risurrezione di Cristo. Per cantare la regalità di Dio questo salmo guarda al modello dell’incoronazione dei re: nella sala del trono il nuovo re, investito del mantello regale, sedeva sul trono e, firmata la carta d’intronizzazione, entrava in possesso del palazzo reale. A questo punto il popolo gridava “Viva il Re,” acclamazione che in ebraico si chiama «térouah» ed era all’origine un grido di vittoria contro il nemico. In questo salmo il re acclamato è Dio e più di altri merita la terouah perché ha sconfitto le forze del male: “Il Signore regna, si riveste di maestà, si cinge di forza”: questi sono gli abiti del Creatore. L’espressione ebraica: “Ha cinto la sua forza” evoca lil gesto di legarsi un vestito ai fianchi, come fa il vasaio con il grembiule per lavorare l’argilla”. Cantando che il suo trono “é stabile da sempre, dall’eternità tu sei “il salmo accenna per contrasto agli idoli che sono alla portata di tutti ed evoca la fragilità dei regni terreni, in particolare dei re di Israele, alcuni dei quali hanno regnato pochi anni, persino pochi giorni. Nell’intero salmo Dio è proclamato Re dal creato perché domina le forze delle acque spesso indomabili per l’uomo: “più del fragore di acque impetuose, più potente dei flutti del mare, potente nell’alto è il Signore” (v.4). I flutti del mare richiamano il Mar dei Giunchi (in ebraico Yam Suf, e suf significa canna o giunco)) identificato con il Mar Rosso, che Dio fece attraversare dal suo popolo. Da allora la fedeltà del Signore non si è mai spenta come ben esprime il versetto 5: “Degni di fede tutti i tuoi insegnamenti”. L’espressione: “degni di fede” in altre versioni viene resa con “immutabili”, parola che ha la stessa radice di Amen ed evoca fedeltà, stabilità, verità, immutabilità, fermezza. Questa é la fedeltà di Dio verso il suo popolo, di cui era simbolo il Tempio di Gerusalemme, icona della presenza di Dio e riflesso della sua santità: “La santità si addice alla tua casa”. Nabucodosonor II conquistò Gerusalemme e abbatté il Tempio di Salomone deportando gran parte della popolazione in Babilonia, e distrutto il regno di Giuda nel 586 a.C., non ci furono più re in Israele perché l’ultimo fu Sedecia catturato, accecato e portato in esilio. Da quel momento l’espressione: “La santità si addice alla tua casa” celebrava la sovranità di Dio nell’attesa del Re-Messia, immagine fedele di Dio. Ogni anno, durante la Festa delle Capanne (in autunno), questo salmo veniva ripreso per celebrare in anticipo il compimento di tutta la storia, l’Alleanza definitiva, le Nozze tra Dio e l’Umanità: infatti Israele con l’intera umanità condivideranno un giorno la regalità del Messia, come la Regina siede accanto al Re.
Seconda Lettura Ap. 1,5-8
*Colui che è, che era e che viene
“Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti, il sovrano dei re della terra”: le frasi di questo breve testo, che è l’inizio dell’Apocalisse, sono dense ed evocano tutto il mistero di Cristo e ogni parola ne rivela un aspetto. “Gesù” è il nome di un uomo di Nazaret e significa “Dio salva”; “Cristo” indica il Messia ricolmo dello Spirito di Dio; “il testimone fedele” si collega alle parole di Gesù a Pilato che oggi ascoltiamo nel vangelo: “Io sono nato e venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità”. L’affermazione: “il primogenito dei morti” racchiude la fede dei primi cristiani che vedevano in Gesù, uomo mortale come tutti, il primogenito di una lunga serie, risuscitato da Dio per guidare tutti i suoi fratelli e la frase: “il lsovrano dei re della terra ”rafforza il concetto di Messia che ha posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, come canta il Salmo 109/110. Dato che nell’Apocalisse i numeri sono simbolici e le espressioni ternarie sono riservate a Dio, le tre qualifiche: “testimone fedele, primogenito dei morti, sovrano dei re della terra” attribuite a Gesù affermano che egli è Dio. La seconda frase riprende e amplifica la prima: “A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”. Ci sono qui i tradizionali principi della fede: l’amore di Cristo per tutti gli uomini; il dono della sua vita significato dall’espressione “sangue versato” per riscattarci dal male mentre l’affermazione: “Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” indica che in Cristo si è compiuta la promessa “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” contenuta nel libro dell’Esodo (19, 6). Nella terza frase: “Ecco, egli viene con le nubi” è il Figlio dell’uomo, di cui parla Daniele nella prima lettura, che avanza verso il trono di Dio per ricevere la regalità universale. La prima dimensione della sua regalità è il trionfo. La seconda dimensione è quella della sofferenza: ”Ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto ”, chiara allusione alla croce e al colpo di lancia del soldato (Gv.19,33-34). Qui san Giovanni fa riferimento alla profezia di Zaccaria: “io riverserò sulla casa di Davide e Gerusalemme uno spirito di benevolenza … volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto...faranno lutto per lui, come per un figlio unico…. lo piangeranno come un primogenito… una sorgente sgorgherà…come rimedio al peccato e all’impurità”. ( Zc 12, 10; 13, 1). Con lo spirito di benevolenza Dio trasformerà il cuore umano e volgendo lo sguardo verso colui che hanno trafitto, gli uomini vedranno un innocente ucciso ingiustamente in evidente contrasto con le autorità religiose dell’epoca. Osservando il Messia crocifisso d’improvviso gli occhi e i cuori si apriranno e, quando il cuore di tutti gli uomini sarà trasformato, Cristo sarà Re perché è l’apertura del cuore a introdurci nella grazia e nella pace dell’eternità in Dio: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo” (Mt 25, 34). Infine, l’’espressione finale della seconda lettura: “Colui che è, che era e che viene” (v. 8) è una delle traduzioni del nome di Dio (YHVH, Es 3, 14) nei commenti giudaici (Targum di Gerusalemme).
Vangelo Gv. 18, 33b-37
*Dunque tu sei re?
Il vangelo di Giovanni è l’unico a riferire il lungo dialogo tra Pilato e Gesù, un testo di notevole interesse per la Festa di Cristo Re perché rare sono nei vangeli le affermazioni sulla regalità di Cristo e soltanto durante la sua passione Gesù dichiara apertamente di essere re. Durante la vita pubblica ogni volta che volevano farlo re si ritirava, quando pubblicizzavano i suoi miracoli imponeva il silenzio e questo persino dopo la Trasfigurazione. Solo ora che è incatenato e condannato a morte afferma di essere re, ossia nel momento meno indicato secondo i calcoli umani. Indubbiamente ha un modo alternativo di concepire la regalità e lo ha spiegato ai discepoli: i capi dominano sulle nazioni, ma così non deve avvenire per voi; se qualcuno vuole essere grande sia vostro servitore, se vuole essere il primo sia il servo di tutti, imitando il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto (cioè liberazione) per la moltitudine (cf. Mc 10, 42-45). E’ durante l’interrogatorio di Pilato che egli si dichiara il re dell’umanità, proprio quindi nel momento in cui dà la sua vita per noi mostrando che sua unica ambizione regale è il servizio. A ben vedere nel dialogo tra Pilato, alto rappresentante dell’impero romano e un condannato a morte si capovolgono le parti: non è Pilato a giudicarlo ma è Cristo a giudicare il mondo e il potere romano finirà per riconoscere Cristo vero re. Gesù è stato catturato perché i capi religiosi, impauriti dal suo successo, agirono con menzogna paventando la loro distruzione con l’arrivo dei romani: “Se lo lasciamo fare verranno i romani e ci distruggeranno”. E’ un assassinio che nasce dalla volontà della regnante casta sacerdotale mentre per Pilato Gesù non rappresentava alcun pericolo. Oggi leggiamo nel vangelo di Giovanni il primo interrogatorio di Pilato: “Sei tu il re dei Giudei?” In questo processo non è il giudice a fare domande all’imputato ma l’inverso e la sentenza sarà emessa dall’imputato. Infatti Gesù non risponde, ma domanda. “Dici questo da te oppure altri ti hanno parlato di me?”. E Pilato: “Che cosa hai fatto? Gesù replica: “Il mio regno non è di questo mondo”. Pilato insiste: “Dunque tu sei re?” e Gesù: “Tu lo dici” nel senso che se tu lo stai affermando (su legeis) hai capito bene e quindi lo proclami. Si tratta però di un regno diverso da tutti quelli terreni difesi da soldati e basati sul potere, sul dominio e sulla menzogna. Il mio invece è il regno della verità che non conta su nessun’altra difesa che la verità: “Per questo io sono nato e sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” e aggiunge: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità”. E conclude: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Non dice: “Chi ha la verità”, ma “chi è dalla verità” poiché la verità non è una dottrina da possedere bensì lo stile di vita del credente. Nella seconda lettura tratta dall’Apocalisse, Giovanni afferma che Gesù è il “testimone fedele”, il “Figlio unigenito pieno di grazia e verità, come già leggiamo nel Prologo del suo Vangelo (Gv1,14). Se Pilato, figlio del mondo greco-romano, pone la domanda “Che cos’è la verità?” (Gv18,38), gli ebrei, invece, sapevano fin dall’inizio dell’Alleanza con Dio che la verità è Dio stesso. La verità nella Bibbia significa “salda fedeltà” di Dio ed ha in ebraico la stessa radice di “Amen” che significa stabile, fedele, vero, come appare oggi nel Salmo responsoriale 92/93. La Verità è Dio stesso per cui nessuno può pretendere di possederla ma è indispensabile ascoltarla e lasciarsi istruire da essa (cf. Gv 8, 47). Solo Dio può dirci “Ascolta”, come nella Torah ripete continuamente: “Shema Israël”.
Qualche a Testimonianza su Cristo Re dell’universo:
*Sant’Agostino, nel sermone sul Salmo 2, scrive: “Cristo non ha regno temporale, ma regna nei cuori degli uomini. Il suo trono è la croce, il suo scettro è l’amore, e la sua corona è fatta di spine. È un re che non conquista con le armi, ma con la verità e la giustizia.”
*A san Nicola Cabasilas ortodosso (XIV secolo) si attribuisce questa frase: “Cristo regna perché ha conquistato il nostro cuore, non con la violenza, ma con il sacrificio. La sua croce è il suo trono, e dalla croce egli giudica il mondo con amore, offrendo la vita eterna a chi si sottomette alla sua volontà divina.”
*Santa Caterina da Siena, nella sua opera “Il Dialogo della Divina Provvidenza” scrive:
“Cristo è dolce re, perché il suo regno non è fondato sull’orgoglio né sulla forza, ma sull’amore e sull’umiltà. Egli ha fatto della sua carne un ponte tra cielo e terra, perché l’uomo potesse attraversarlo e giungere al regno eterno. La sua corona è di spine, segno dell’amore con cui ha preso su di sé le pene dei suoi sudditi; il suo trono è la croce, da cui ha governato con misericordia e giustizia.”
*Dietrich Bonhoeffer pastore protestante nel suo libro “Discepolato” scrive: “Cristo è il Re che porta la croce, e il suo regno è il regno della croce. Chi lo segue entra nella sua signoria non con potenza o gloria, ma con l’umiltà di colui che accetta il peso del proprio giogo. Cristo regna su di noi perché ha scelto di morire per noi, e in questo è la nostra vera libertà.”
*G.K. Chesterton nel suo libro “Ortodossia” scrive: “Cristo non solo è un re, ma il re dei paradossi. La sua corona è fatta di spine, eppure è la più gloriosa; il suo trono è la croce, eppure è il più elevato; il suo potere si manifesta nella resa, eppure nessuno ha mai regnato con maggiore autorità. Egli è il re che trasforma il dolore in gioia e la morte in vita.”
Buona solennità di Cristo Re dell’universo a voi tutti !
+ Giovanni D’Ercole
Lc termina il suo Discorso Apocalittico con delle raccomandazioni sull’attenzione e lo sguardo penetrante da porre al ‘segno dei tempi’.
E - radicata nella Parola di Dio che si fa evento e dirige al futuro, la Speranza inaugura una fase nuova della storia.
La sua profondità sorpassa tutte le possibilità attuali, le quali viceversa oscillano inquiete fra segni di catastrofe.
Gesù rasserena i discepoli sui timori di fine del mondo, e impone di non guardare messaggi in codice, ma la Natura.
Solo così essi riusciranno a leggere e interpretare gli avvenimenti.
Discernimento saggio, che serve a non chiuderci nel presente immediato: esso spinge su una strada di uniformità o difesa.
Infatti, a motivo degli sconvolgimenti, una valutazione precipitosa potrebbe indurci a temere rovesci, bloccando la crescita e la testimonianza.
Il mondo e le cose camminano verso una Primavera, e anzitutto in tal senso abbiamo un ruolo di sentinella.
Sulle rovine d’un secolo che crolla, il Padre fa capire quanto succede - e continua a costruire ciò che speriamo [non secondo gusti immediati].
Qua e là possiamo coglierne i vagiti, come i germogli sul ‘fico’.
È un albero che allude al frutto d’amore che Dio attende dal suo popolo, chiamato a essere tenero e dolce: segni della nuova stagione - quella delle relazioni sane.
In tal guisa, lo spirito di dedizione manifestato dai figli sarà prefigurazione dell’avvento prossimo d’un impero completamente differente - in grado di sostituire nelle coscienze tutti gli altri di carattere competitivo.
Il fico è appunto immagine dell’ideale popolo delle benedizioni; Israele dell’esodo verso la libertà, e traccia del Padre [nella sobrietà riflessiva e condivisione del deserto].
Esso permane a lungo spoglio e scheletrito; d’improvviso le sue gemme spuntano, si schiudono e in pochi giorni si riveste di foglie rigogliose.
Tale sarà il passaggio dal caos all’ordine sensibile e fraterno prodotto dalla proclamazione e assimilazione della Parola: pensiero non uguale; passo divino nella storia.
Attraverso suggestioni che appartengono a processi di natura, siamo introdotti nel discernimento del Mistero - espresso nell’arco della fiumana di trasformazioni.
Le sue ricchezze sono contenute nei codici del Verbo e negli eventi ordinari concreti, i quali hanno un sintomatico peso. Scrigni delle realtà invisibili, che non passano.
Tale dovizia svilupperà persino (e in specie) dalla confusione e dai crolli, come per intrinseca forza ed essenza, giorno per giorno.
Non per un’astratta esemplarità, ma per pienezza della vita che ritrova le proprie radici - riscoprendole nell’errore e nel piccolo.
Un paradossale germe di speranza, e presagio di condizioni migliori.
Perché senza imperfezione e limite non esiste crescita o fioritura, né Regno vicino (vv.30-31) il quale prende sempre «contatto con le ferite» [Fratelli Tutti n.261].
Parola di Dio e ritmi della Natura sono codici che passano il tempo. Rilievi autentici, creati, donati, e rivelati.
Sorgenti di discernimento, dello sguardo penetrante, dei segni del tempo, del pensiero libero, della Speranza che non si accoda.
[Venerdì 34.a sett. T.O. 29 Novembre 2024]
Le Fonti della Speranza
(Lc 21,29-33)
I Sadducei pensavano che il loro benessere esagerato fosse il segno più espressivo dei tempi messianici.
Gli Esseni reputavano che il Regno di Dio [di cui volevano essere un anticipo] potesse manifestarsi solo quando il popolo eletto si fosse purificato completamente da ogni obbrobrio e mercato sacro.
I Farisei ritenevano che il Messia si sarebbe instaurato allorché tutti fossero tornati alle sacre tradizioni, scritte e orali.
Anche fra i primi cristiani c’era una varietà di opinioni in merito.
Fortunatamente (allora come oggi) alcuni consideravano il Risorto già del tutto Presente, mai allontanatosi.
Il suo Spirito vivente si manifesta dentro ciascun credente e in mezzo a noi - specialmente percepibile ove si lotta per la giustizia, l’emancipazione, la vita piena di tutti.
Lc termina il suo Discorso Apocalittico con delle raccomandazioni sull’attenzione e lo sguardo penetrante da porre al ‘segno dei tempi’.
E - radicata nella Parola di Dio che si fa evento e dirige al futuro, la Speranza inaugura una fase nuova della storia.
La sua profondità sorpassa tutte le possibilità attuali, le quali viceversa oscillano inquiete fra segni di catastrofe.
(Nella vecchia Europa, dopo diversi decenni di andazzo spirituale accomodante e soporifero, lo sperimentiamo per constatazione diretta).
«Quando già hanno germogliato, guardando, da voi stessi sapete che l’estate è già vicina» (Lc 21,31).
Gesù rasserena i discepoli sui timori di fine del mondo, e impone di non guardare messaggi in codice, ma la Natura.
Solo così essi riusciranno a leggere e interpretare gli avvenimenti.
Discernimento saggio, che serve a non chiuderci nel presente immediato: esso spinge su una strada di uniformità o difesa.
Infatti, a motivo degli sconvolgimenti, una valutazione precipitosa potrebbe indurci a temere rovesci, bloccando la crescita e la testimonianza.
Il mondo e le cose camminano verso una Primavera, e anzitutto in tal senso abbiamo un ruolo di sentinella.
Sulle rovine d’un secolo che crolla, il Padre fa capire quanto succede - e continua a costruire ciò che speriamo [non secondo gusti immediati].
Qua e là possiamo coglierne i vagiti, come i germogli sul ‘fico’.
È un albero che allude al frutto d’amore che Dio attende dal suo popolo, chiamato a essere tenero e dolce: segni della nuova stagione - quella delle relazioni sane.
In tal guisa, lo spirito di dedizione manifestato dai figli sarà prefigurazione dell’avvento prossimo d’un impero completamente differente - in grado di sostituire nelle coscienze tutti gli altri di carattere competitivo.
Il fico è appunto immagine dell’ideale popolo delle benedizioni; Israele dell’esodo verso la libertà, e traccia del Padre [nella sobrietà riflessiva e condivisione del deserto].
Esso permane a lungo spoglio e scheletrito; d’improvviso le sue gemme spuntano, si schiudono e in pochi giorni si riveste di foglie rigogliose.
Tale sarà il passaggio dal caos all’ordine sensibile e fraterno prodotto dalla proclamazione e assimilazione della Parola: pensiero non uguale; passo divino nella storia.
Attraverso suggestioni che appartengono a processi di natura, siamo introdotti nel discernimento del Mistero - espresso nell’arco della fiumana di trasformazioni.
Le sue ricchezze sono contenute nei codici del Verbo e negli eventi ordinari concreti, i quali hanno un sintomatico peso. Scrigni delle realtà invisibili, che non passano.
Tale dovizia svilupperà persino (e in specie) dalla confusione e dai crolli, come per intrinseca forza ed essenza, giorno per giorno.
Non per un’astratta esemplarità, ma per pienezza della vita che ritrova le proprie radici - riscoprendole nell’errore e nel piccolo.
Un paradossale germe di speranza, e presagio di condizioni migliori.
Perché senza imperfezione e limite non esiste crescita o fioritura, né Regno vicino (vv.30-31) il quale prende sempre «contatto con le ferite» [Fratelli Tutti n.261].
Dice il Tao Tê Ching (LII): «Il mondo ebbe un principio, che fu la madre del mondo; chi è pervenuto alla madre, da essa conosce il figlio; chi conosce il figlio e torna a conservar la madre, fino alla morte non corre pericolo [...] Illuminazione è vedere il piccolo; forza è attenersi alla mollezza [...] Questo dicesi praticar l’eterno».
Parola di Dio e ritmi della Natura sono codici che passano il tempo. Rilievi autentici, creati, donati, e rivelati.
Sorgenti di discernimento, dello sguardo penetrante, dei segni del tempo, del pensiero libero, della Speranza che non si accoda.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa hai imparato contemplando la natura? Una diversa Sapienza?
Come mai la si ritiene così lontana dalla dottrina usuale e dai suoi codici dirigisti o cerebrali, che nel tempo si rivelano scadenti?
Il mondo diventa libro. Arte della vigilanza
Uno degli atteggiamenti caratteristici della Chiesa dopo il Concilio è quello d’una particolare attenzione sopra la realtà umana, considerata storicamente; cioè sopra i fatti, gli avvenimenti, i fenomeni del nostro tempo. Una parola del Concilio è entrata nelle nostre abitudini: quella di scrutare «i segni dei tempi». Ecco una espressione, che ha una lontana reminiscenza evangelica: «Non sapete distinguere - chiede una volta Gesù ai suoi ostili e malfidi ascoltatori - i segni dei tempi?» (Matth. 16, 4). Il Signore alludeva allora ai prodigi ch’Egli andava compiendo, e che dovevano indicare l’avvento dell’ora messianica. Ma l’espressione ha oggi, sulla stessa linea, se vogliamo, un significato nuovo di grande importanza: la riprese infatti Papa Giovanni XXIII nella Costituzione apostolica, con la quale indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II, quando, dopo aver osservato le tristi condizioni spirituali del mondo contemporaneo, volle rianimare la speranza della Chiesa, scrivendo: «A noi piace collocare una fermissima fiducia del divino Salvatore ... che ci esorta a riconoscere i segni dei tempi», così che «vediamo fra tenebre oscure numerosi indizi, i quali sembrano annunciare tempi migliori per la Chiesa e per il genere umano» (A.A.S. 1962, p. 6). I segni dei tempi sono, in questo senso, dei presagi di condizioni migliori.
GIOVANNI XXIII E IL CONCILIO
L’espressione è passata nei documenti conciliari (specialmente nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 4; la intravediamo nella mirabile pagina del n. 10: poi nel n. 11; così nei nn. 42, 44; così nel Decreto sull’attività dei Laici, n. 14; nella Costituzione sulla S. Liturgia, n. 43; ecc.). Questa locuzione «i segni dei tempi» ha pertanto acquistato un uso corrente e un significato profondo, molto ampio e molto interessante; e cioè quello della interpretazione teologica della storia contemporanea. Che la storia, considerata nelle sue grandi linee, abbia offerto al pensiero cristiano l’occasione, anzi l’invito a scoprirvi un disegno divino, è ben saputo da sempre: che cosa è la «storia sacra», se non l’identificazione di un pensiero divino, d’un’«economia» trascendente, nello svolgimento degli avvenimenti che conducono a Cristo, e da Cristo derivano? Ma questa scoperta è postuma; è una sintesi, alle volte discutibile nelle sue formulazioni, che lo studioso compie quando gli avvenimenti sono ormai compiuti, e possono essere considerati in una prospettiva d’insieme, e talora collocati deduttivamente in un quadro ideologico derivato da altre fonti dottrinali, che non dalla analisi induttiva degli avvenimenti stessi. Ora invece è offerto al pensiero moderno l’invito a decifrare nella realtà storica, in quella presente specialmente, i «segni», cioè le indicazioni d’un senso ulteriore a quello registrato dall’osservatore passivo.
Questa presenza del «segno» nelle realtà percepite dalla nostra conoscenza immediata meriterebbe una, lunga riflessione. Nel campo religioso il «segno» tiene un posto importantissimo: il regno divino non è ordinariamente accessibile alla nostra conoscenza per via diretta, sperimentale, intuitiva, ma per via di segni (così la conoscenza di Dio è a noi possibile mediante introspezione delle cose, che assumono valore di segno [cfr. Rom. 1, 20]; così l’ordine soprannaturale ci è comunicato dai sacramenti, che sono segni sensibili d’una realtà invisibile, ecc.); anche il linguaggio umano poi avviene per via di segni fonetici o scritturali convenzionali, con cui il pensiero si trasmette; e così via. In tutto l’universo creato possiamo trovare segni d’un ordine, d’un pensiero, d’una verità, che può fare da ponte metafisico (cioè oltre il quadro della realtà fisica) al mondo ineffabile, ma surreale del «Dio ignoto» (cfr. Act. 17, 23, ss.; Rom. 8, 22; Lumen gentium, n. 16). Nella prospettiva, che ora stiamo considerando, si tratta di individuare «nei tempi», cioè nel corso degli avvenimenti, nella storia, quegli aspetti, quei «segni», che ci possono dare qualche notizia d’una immanente Provvidenza (pensiero questo abituale agli spiriti religiosi); ovvero ci possono essere indizi (ed è questo che ora c’interessa) d’un qualche rapporto col «regno di Dio», con la sua azione segreta, ovvero - ancor meglio per il nostro studio e per il nostro dovere - con la possibilità, con la disponibilità, con l’esigenza di un’azione apostolica. Questi indizi sembrano a Noi propriamente «i segni dei tempi».
IL MONDO DIVENTA LIBRO
Donde una serie di conclusioni importanti e interessanti. Il mondo per noi diventa libro. La nostra vita, oggi, è assai impegnata nella continua visione del mondo esteriore. I mezzi di comunicazione sono così cresciuti, così aggressivi, che ci impegnano, ci distraggono, ci distolgono da noi stèssi, ci svuotano dalla nostra coscienza personale. Ecco: facciamo attenzione. Noi possiamo passare dalla posizione di semplici osservatori a quella di critici, di pensatori, di giudici. Quest’attitudine di conoscenza riflessa è della massima importanza per l’anima moderna, se vuole restare anima viva, e non semplice schermo delle mille impressioni a cui è soggetta. E per noi cristiani questo atto riflesso è necessario, se vogliamo scoprire «i segni dei tempi»; perché come insegna il Concilio (Gaudium et spes, n. 4), l’interpretazione dei «tempi», cioè della realtà empirica e storica, che ci circonda e ci impressiona, deve essere fatta «alla luce del Vangelo». La scoperta dei «segni dei tempi» è un fatto di coscienza cristiana; risulta da un confronto della fede con la vita; non per sovrapporre artificiosamente e superficialmente un pensiero devoto ai casi della nostra esperienza, ma piuttosto per vedere dove questi casi postulano, per il loro intrinseco dinamismo, per la loro stessa oscurità, e talvolta per la loro stessa immoralità, un raggio di fede, una parola evangelica, che li classifichi, che li redima; ovvero la scoperta dei «segni dei tempi» avviene per farci rilevare dove essi vengono da sé incontro a disegni superiori, che noi sappiamo cristiani e divini (come la ricerca dell’unità, della pace, della giustizia), e dove un’eventuale nostra azione di carità o di apostolato viene a combaciare con una maturazione di circostanze favorevoli, indicatrici che l’ora è venuta pei- un progresso simultaneo del regno di Dio nel regno umano.
IL METODO DA SEGUIRE
Questo metodo Ci sembra indispensabile per ovviare ad alcuni pericoli, a cui l’attraente ricerca dei «‘segni dei tempi» potrebbe esporci. Primo pericolo, quello di un profetismo carismatico, spesso degenerante in fantasia bigotta, che conferisce a coincidenze fortuite e spesso insignificanti interpretazioni miracolistiche. L’avidità di scoprire facilmente «i segni dei tempi» può farci dimenticare l’ambiguità spesso possibile della valutazione dei fatti osservati; e ciò tanto più se dobbiamo riconoscere al «Popolo di Dio», cioè ad ogni credente, un’eventuale capacità di discernere «i segni della presenza o del disegno di Dio» (Gaudium et spes, n. 11): «il sensus fidei» può conferire questo dono di sapiente veggenza, ma l’assistenza del magistero gerarchico sarà sempre provvida e decisiva, quando l’ambiguità della interpretazione meritasse d’essere risolta o nella certezza della verità, o nell’utilità del bene comune.
Pericolo secondo sarebbe costituito dall’osservazione puramente fenomenica dei fatti dai quali si desidera estrarre l’indicazione dei «segni dei tempi»; ed è ciò che può avvenire quando tali fatti sono rilevati e classificati in schemi puramente tecnici e sociologici. Che la sociologia sia scienza di grande merito per se stessa e per lo scopo che qui c’interessa, cioè per la ricerca d’un senso superiore e indicativo dei fatti medesimi, volentieri noi ammettiamo. Ma la sociologia non può essere criterio morale a se stante, né può sostituire la teologia. Questo nuovo umanesimo scientifico potrebbe mortificare l’autenticità e l’originalità del nostro cristianesimo e dei suoi valori soprannaturali.
L'ARTE DELLA VIGILANZA CRISTIANA
Altro pericolo potrebbe nascere dal considerare come prevalente l’aspetto storico di questo problema. Vero è che lo studio qui verte sulla storia, verte sul tempo, e cerca di ricavarne segni propri del campo religioso, che per noi tutto è raccolto nell’avvenimento centrale della presenza storica di Cristo nel tempo e nel mondo, donde deriva il Vangelo, la Chiesa e la sua missione di salvezza. Cioè l’elemento immutabile della verità rivelata non dovrebbe soggiacere alla mutabilità .dei tempi, nei quali si diffonde e talvolta fa la sua apparizione con «segni», che non lo alterano, ma lo lasciano intravedere e lo realizzano nell’umanità pellegrina (cfr. CHENU, Les signes des temps, in Nouv. Revue Théol. 1-1-65, pp. 29-39). Ma tutto questo non fa che richiamarci all’attenzione, allo studio dei «segni dei tempi», che devono rendere sagace e moderno il nostro giudizio cristiano e il nostro apostolato in mezzo alla fiumana delle trasformazioni del mondo contemporaneo. È l’antica, sempre viva parola del Signore che risuona ai nostri spiriti: «Vigilate» (Luc. 21, 36). La vigilanza cristiana sia l’arte per noi nel discernimento dei «segni dei tempi».
[Papa Paolo VI, Udienza Generale 16 aprile 1969]
Parola e diversità
Tutte le cose umane, tutte le cose che noi possiamo inventare, creare, sono finite. Anche tutte le esperienze religiose umane sono finite, mostrano un aspetto della realtà, perché il nostro essere è finito e capisce solo sempre una parte, alcuni elementi: «latum praeceptum tuum nimis». Solo Dio è infinito. E perciò anche la sua Parola è universale e non conosce confine. Entrando quindi nella Parola di Dio, entriamo realmente nell'universo divino. Usciamo dalla limitatezza delle nostre esperienze e entriamo nella realtà, che è veramente universale. Entrando nella comunione con la Parola di Dio, entriamo nella comunione della Chiesa che vive la Parola di Dio. Non entriamo in un piccolo gruppo, nella regola di un piccolo gruppo, ma usciamo dai nostri limiti. Usciamo verso il largo, nella vera larghezza dell'unica verità, la grande verità di Dio. Siamo realmente nell'universale. E così usciamo nella comunione di tutti i fratelli e le sorelle, di tutta l'umanità, perché nel cuore nostro si nasconde il desiderio della Parola di Dio che è una. Perciò anche l'evangelizzazione, l'annuncio del Vangelo, la missione non sono una specie di colonialismo ecclesiale, con cui vogliamo inserire altri nel nostro gruppo. È uscire dai limiti delle singole culture nella universalità che collega tutti, unisce tutti, ci fa tutti fratelli. Preghiamo di nuovo affinché il Signore ci aiuti a entrare realmente nella “larghezza” della sua Parola e così aprirci all'orizzonte universale dell'umanità, quello che ci unisce con tutte le diversità.
[Papa Benedetto, Meditazione alla XII Assemblea Generale del Sinodo, 6 ottobre 2008]
All'inizio del nostro Sinodo la Liturgia delle Ore ci propone un brano del grande Salmo 118 sulla Parola di Dio: un elogio di questa sua Parola, espressione della gioia di Israele di poterla conoscere e, in essa, di poter conoscere la sua volontà e il suo volto. Vorrei meditare con voi alcuni versetti di questo brano del Salmo.
Comincia così: «In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita. Ricordiamoci della parola di Gesù che continua questa parola del Salmo: «Cieli e terra passeranno, la mia parola non passerà mai». Umanamente parlando, la parola, la nostra parola umana, è quasi un niente nella realtà, un alito. Appena pronunciata, scompare. Sembra essere niente. Ma già la parola umana ha un forza incredibile. Sono le parole che creano poi la storia, sono le parole che danno forma ai pensieri, i pensieri dai quali viene la parola. È la parola che forma la storia, la realtà.
Ancor più la Parola di Dio è il fondamento di tutto, è la vera realtà. E per essere realisti, dobbiamo proprio contare su questa realtà. Dobbiamo cambiare la nostra idea che la materia, le cose solide, da toccare, sarebbero la realtà più solida, più sicura. Alla fine del Sermone della Montagna il Signore ci parla delle due possibilità di costruire la casa della propria vita: sulla sabbia e sulla roccia. Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia. Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza. E così questi primi versetti del Salmo ci invitano a scoprire che cosa è la realtà e a trovare in questo modo il fondamento della nostra vita, come costruire la vita.
Nel successivo versetto si dice: «Omnia serviunt tibi». Tutte le cose vengono dalla Parola, sono un prodotto della Parola. “All'inizio era la Parola”. All'inizio il cielo parlò. E così la realtà nasce dalla Parola, è “creatura Verbi”. Tutto è creato dalla Parola e tutto è chiamato a servire la Parola. Questo vuol dire che tutta la creazione, alla fine, è pensata per creare il luogo dell'incontro tra Dio e la sua creatura, un luogo dove l'amore della creatura risponda all'amore divino, un luogo in cui si sviluppi la storia dell'amore tra Dio e la sua creatura. «Omnia serviunt tibi». La storia della salvezza non è un piccolo avvenimento, in un pianeta povero, nell'immensità dell'universo. Non è una cosa minima, che succede per caso in un pianeta sperduto. È il movente di tutto, il motivo della creazione. Tutto è creato perché ci sia questa storia, l'incontro tra Dio e la sua creatura. In questo senso, la storia della salvezza, l'alleanza, precede la creazione. Nel periodo ellenistico, il giudaismo ha sviluppato l'idea che la Torah avrebbe preceduto la creazione del mondo materiale. Questo mondo materiale sarebbe stato creato solo per dare luogo alla Torah, a questa Parola di Dio che crea la risposta e diventa storia d'amore. Qui traspare già misteriosamente il mistero di Cristo. È quello che ci dicono le Lettere agli Efesini e ai Colossesi: Cristo è il protòtypos, il primo nato della creazione, l'idea per la quale è concepito l'universo. Egli accoglie tutto. Noi entriamo nel movimento dell'universo unendoci a Cristo. Si può dire che, mentre la creazione materiale è la condizione per la storia della salvezza, la storia dell'alleanza è la vera causa del cosmo. Arriviamo alle radici dell'essere arrivando al mistero di Cristo, a questa sua parola viva che è lo scopo di tutta la creazione. «Omnia serviunt tibi». Servendo il Signore realizziamo lo scopo dell'essere, lo scopo della nostra propria esistenza.
Facciamo ora un salto: «Mandata tua exquisivi». Noi siamo sempre alla ricerca della Parola di Dio. Essa non è semplicemente presente in noi. Se ci fermiamo alla lettera, non necessariamente abbiamo compreso realmente la Parola di Dio. C'è il pericolo che noi vediamo solo le parole umane e non vi troviamo dentro il vero attore, lo Spirito Santo. Non troviamo nelle parole la Parola. Sant'Agostino, in questo contesto, ci ricorda gli scribi e i farisei consultati da Erode nel momento dell'arrivo dei Magi. Erode vuol sapere dove sarebbe nato il Salvatore del mondo. Essi lo sanno, danno la risposta giusta: a Betlemme. Sono grandi specialisti, che conoscono tutto. E tuttavia non vedono la realtà, non conoscono il Salvatore. Sant'Agostino dice: sono indicatori di strada per gli altri, ma loro stessi non si muovono. Questo è un grande pericolo anche nella nostra lettura della Scrittura: ci fermiamo alle parole umane, parole del passato, storia del passato, e non scopriamo il presente nel passato, lo Spirito Santo che parla oggi a noi nelle parole del passato. Così non entriamo nel movimento interiore della Parola, che in parole umane nasconde e apre le parole divine. Perciò c'è sempre bisogno dell’«exquisivi». Dobbiamo essere in ricerca della Parola nelle parole.
Quindi l'esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario, non è soltanto la lettura di un testo. È il movimento della mia esistenza. È muoversi verso la Parola di Dio nelle parole umane. Solo conformandoci al mistero di Dio, al Signore che è la Parola, possiamo entrare all'interno della Parola, possiamo trovare veramente in parole umane la Parola di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a cercare non solo con l'intelletto, ma con tutta la nostra esistenza, per trovare la parola.
Alla fine: «Omni consummationi vidi finem, latum praeceptum tuum nimis». Tutte le cose umane, tutte le cose che noi possiamo inventare, creare, sono finite. Anche tutte le esperienze religiose umane sono finite, mostrano un aspetto della realtà, perché il nostro essere è finito e capisce solo sempre una parte, alcuni elementi: «latum praeceptum tuum nimis». Solo Dio è infinito. E perciò anche la sua Parola è universale e non conosce confine. Entrando quindi nella Parola di Dio, entriamo realmente nell'universo divino. Usciamo dalla limitatezza delle nostre esperienze e entriamo nella realtà che, è veramente universale. Entrando nella comunione con la Parola di Dio, entriamo nella comunione della Chiesa che vive la Parola di Dio. Non entriamo in un piccolo gruppo, nella regola di un piccolo gruppo, ma usciamo dai nostri limiti. Usciamo verso il largo, nella vera larghezza dell'unica verità, la grande verità di Dio. Siamo realmente nell'universale. E così usciamo nella comunione di tutti i fratelli e le sorelle, di tutta l'umanità, perché nel cuore nostro si nasconde il desiderio della Parola di Dio che è una. Perciò anche l'evangelizzazione, l'annuncio del Vangelo, la missione non sono una specie di colonialismo ecclesiale, con cui vogliamo inserire altri nel nostro gruppo. È uscire dai limiti delle singole culture nella universalità che collega tutti, unisce tutti, ci fa tutti fratelli. Preghiamo di nuovo affinché il Signore ci aiuti a entrare realmente nella “larghezza” della sua Parola e così aprirci all'orizzonte universale dell'umanità, quello che ci unisce con tutte le diversità.
Alla fine ritorniamo ancora a un versetto precedente: «Tuus sum ego: salvum me fac». Il testo italiano traduce: «Io sono tuo». La parola di Dio è come una scala sulla quale possiamo salire e, con Cristo, anche scendere nella profondità del suo amore. È una scala per arrivare alla Parola nelle parole. «Io sono tuo». La parola ha un volto, è persona, Cristo. Prima che noi possiamo dire «Io sono tuo», Egli ci ha già detto «Io sono tuo». La Lettera agli Ebrei, citando il Salmo 39, dice: «Un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco, io vengo». Il Signore si è fatto preparare un corpo per venire. Con la sua incarnazione ha detto: io sono tuo. E nel Battesimo ha detto a me: io sono tuo. Nella sacra Eucaristia lo dice sempre di nuovo: io sono tuo, perché noi possiamo rispondere: Signore, io sono tuo. Nel cammino della Parola, entrando nel mistero della sua incarnazione, del suo essere con noi, vogliamo appropriarci del suo essere, vogliamo espropriarci della nostra esistenza, dandoci a Lui che si è dato a noi.
«Io sono tuo». Preghiamo il Signore di poter imparare con tutta la nostra esistenza a dire questa parola. Così saremo nel cuore della Parola. Così saremo salvi.
[Papa Benedetto, Meditazione alla XII Assemblea Generale del Sinodo 6 ottobre 2008]
1. "Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria" (Mc 13,26).
In questa penultima domenica del tempo ordinario, la Liturgia ci parla della seconda venuta di Cristo. Il Signore apparirà sulle nubi rivestito di gloria e di potenza. E' lo stesso Figlio dell'uomo, misericordioso e compassionevole, che i discepoli hanno conosciuto nel suo itinerario terreno. Quando sarà il momento della sua manifestazione gloriosa, Egli verrà a dare compimento definitivo alla storia umana.
Attraverso il simbolismo di sconvolgimenti cosmologici, l'evangelista Marco ricorda che Dio pronuncerà, nel Figlio, il suo giudizio sulle vicende degli uomini, ponendo fine ad un universo corrotto dalla menzogna e dilaniato dalla violenza e dall'ingiustizia.
3. La vostra quotidiana esperienza vi porta ad affrontare situazioni difficili e talora drammatiche, che pongono a repentaglio le sicurezze umane. Il Vangelo, però, ci conforta presentando la figura vittoriosa di Cristo giudice della storia. Egli con la sua presenza illumina il buio e persino la disperazione dell'uomo, ed offre a chi confida in Lui la consolante certezza della sua costante assistenza.
Nel Vangelo, poc'anzi proclamato, abbiamo ascoltato un significativo riferimento all'albero del fico, i cui rami, con lo spuntare delle prime gemme, annunciano il tempo primaverile ormai vicino. Con queste sue parole, Gesù incoraggia gli apostoli a non arrendersi di fronte alle difficoltà ed alle incertezze del tempo presente. Li esorta piuttosto a saper attendere e a prepararsi ad accoglierlo quando tornerà. Anche voi quest'oggi, carissimi Fratelli e Sorelle, siete invitati dalla Liturgia a saper scrutare i "segni dei tempi", secondo un'espressione cara al mio venerato predecessore, il Papa Giovanni XXIII, recentemente proclamato Beato.
Per quanto le situazioni siano complesse e problematiche, non perdete la fiducia. Nel cuore dell'uomo non deve mai morire il germe della speranza. Anzi, siate sempre attenti a scorgere e ad incoraggiare ogni segno positivo di rinnovamento personale e sociale. Siate pronti a favorire con ogni mezzo la coraggiosa costruzione della giustizia e della pace.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 19 novembre 2000]
Un invito a «pensare in cristiano», perché «un cristiano non pensa solo con la testa, pensa anche con il cuore e con lo spirito che ha dentro», è stato rivolto da Papa Francesco stamane, venerdì 29 novembre, durante la messa celebrata a Santa Marta. Un invito particolarmente attuale in un contesto sociale dove — ha fatto notare il Pontefice — si va sempre più insinuando «un pensiero debole, un pensiero uniforme, un pensiero pret-à-porter».
Il vescovo di Roma ha incentrato la propria riflessione sul brano evangelico di Luca (21, 29-33) proposto durante la liturgia, nel quale il Signore «con esempi semplici insegna ai discepoli a capire cosa succede». In questo caso Gesù invita a osservare «la pianta di fico e tutti gli alberi», perché quando germogliano si capisce che l’estate è vicina. In altri contesti il Signore usa esempi analoghi per rimproverare quei farisei che non vogliono capire «i segni dei tempi»; quelli che non vedono «il passo di Dio nella storia», nella storia del popolo d’Israele, nella storia del cuore dell’uomo, «nella storia dell’umanità».
L’insegnamento, secondo il Santo Padre, è che «Gesù con parole semplici ci incoraggia a pensare per capire». Ed è un incoraggiamento a pensare «non soltanto con la testa», ma anche «con il cuore, con lo spirito», con tutto noi stessi. È questo appunto il “pensare in cristiano”, per poter «capire i segni dei tempi». E quanti non capiscono, come avviene nel caso dei discepoli di Emmaus, sono definiti da Cristo «stolti e tardi di cuore». Perché — ha spiegato il Papa — colui che «non capisce le cose di Dio è una persona così», stolta e dura di comprendonio, mentre «il Signore vuole che noi capiamo cosa succede nel nostro cuore, nella nostra vita, nel mondo, nella storia»; e capiamo «cosa significa ciò che accade adesso». Infatti è nelle risposte a queste domande che possiamo individuare «i segni dei tempi».
Eppure non sempre le cose vanno così. C’è un nemico in agguato. È «lo spirito del mondo», che — ha ricordato il Santo Padre — «ci fa altre proposte». Perché «non ci vuole popolo, ci vuole massa. Senza pensiero e senza libertà». Lo spirito del mondo, in sostanza, ci spinge lungo «una strada di uniformità, ma senza quello spirito che fa il corpo di un popolo», trattandoci «come se noi non avessimo la capacità di pensare, come persone non libere». E in proposito Papa Francesco ha chiarito espressamente i meccanismi di persuasione occulta: c’è un determinato modo di pensare che deve essere imposto, «si fa la pubblicità di questo pensiero» e «si deve pensare» in tal modo. È «il pensiero uniforme, il pensiero uguale, il pensiero debole»; un pensiero purtroppo «così diffuso», ha commentato il vescovo di Roma.
In pratica «lo spirito del mondo non vuole che noi ci chiediamo davanti a Dio: ma perché accade questo?». E per distrarci dalle domande essenziali, «ci propone un pensiero pret-à-porter, secondo i nostri gusti: io penso come mi piace». Questo modo di pensare «va bene» allo spirito del mondo; mentre quello che lui «non vuole è ciò che ci chiede Gesù: il pensiero libero, il pensiero di un uomo e di una donna che sono parte del popolo di Dio». Del resto, «la salvezza è stata proprio questa: farci popolo, popolo di Dio. Avere libertà». Perché «Gesù ci chiede di pensare liberamente, di pensare per capire cosa succede».
Certo, ha avvertito Papa Francesco, «da soli non possiamo» fare tutto: «abbiamo bisogno dell’aiuto del Signore, abbiamo bisogno dello Spirito Santo per capire i segni dei tempi». Infatti è proprio lo Spirito a donarci «l’intelligenza per capire». Si tratta di un regalo personale fatto a ogni uomo, grazie al quale «io devo capire perché accade questo a me» e «qual è la strada che il Signore vuole» per la mia vita. Da qui l’esortazione conclusiva a «chiedere al Signore Gesù la grazia che ci invii il suo spirito di intelligenza», affinché «non abbiamo un pensiero debole, un pensiero uniforme, un pensiero secondo i nostri gusti», per avere invece «soltanto un pensiero secondo Dio». E «con questo pensiero — di mente, di cuore e di anima — che è dono dello Spirito», cercare di poter capire «cosa significano le cose, capire bene i segni dei tempi».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 30/11/2013]
Collocarsi negli sconvolgimenti “astrali”
(Lc 21,20-28)
Al tempo di Gesù la città eterna si stava autodistruggendo, ma le distanze fra cielo e terra si assottigliavano.
Parola viva e meditazione ecclesiale.
Anche oggi sperimentiamo rovesciamenti: d’improvviso il centro appagante diventa periferia malmessa, e viceversa.
A cosa è finalizzato il trauma? E la caduta di fede che ne scaturisce?
Al contrario, ciò che conta della crisi è proprio negli stati interiori che attiva - malgrado le percezioni esterne di perdita.
Bisogna sganciarsi da cause apparenti, per entrare nel profondo degli spazi che sentiamo violati.
Quel dolore è parte di noi stessi, del cammino di Fede.
Riconoscendolo e accogliendolo come vena intima, lato genuino dell’essere che ci appartiene, si riconquista integrità; si può ripartire.
La Chiesa autentica pensa al senso del cammino… anche dell’intera storia, riflettendo in particolare sull’instabilità [ciò che era in alto ora cade rovinosamente].
Sulle macerie ecco profilarsi la fine dell’assetto antico, sconvolto nell’arcaico prestigio e nello stesso ordinamento.
Il mondo nuovo avrà gerarchie rovesciate (vv.25-26).
Esse hanno finito per spegnere la loro inutile attrattiva; hanno esaurito il loro tempo.
Frutti amari generati da potenze elette, dalle ‘star’ che parevano celesti [sole, luna, stelle e potenze che hanno sempre sovrastato l’umanità: vv.25-26].
Ai loro insegnamenti è stato tolto il velo.
Avevano programmi parziali, puramente temporali. Non formavano tutta la vita.
Ed ecco finalmente l’innesco di un nuovo Regno, che s’inaugura nell’aspetto di un Figlio, d’un Amico dal cuore di uomo e non di belva (cf. Dn 7,2-14).
Sul fondo della storia istituzionale s’aggira un senso di morte, ma proprio qui l'anima si libera e sublima.
Le verità ancora consolidate saranno finalmente ‘misurate’ da una Presenza salvatrice.
‘Carne’ come noi e ‘Roccia’ come Dio.
Una Grazia impegnativa si sta ergendo sulla presunta catastrofe, tappa inesorabile per l’instaurazione di tutt’altra Fraternità - e l’apparire di una nuova Creazione.
In tal guisa, rovina e distruzione si volgeranno in alta consapevolezza; Esodo, gioia di trasformazione, senso di libertà.
Saremo senza rimpianti per il “fumo” impressionante di ciò che si è autodistrutto - a motivo della sua scarsa cifra umano-divina.
Tutto questo attiveremo, anche quando saremo ritenuti poco avveduti, per le comuni configurazioni.
Ragione in più per farci convitati che ‘si accorgono’.
In Lui gli sconvolgimenti si tramuteranno: in coscienza acuta e relazioni felici, emancipate d’infinità e giustizia.
Nuova Maestà, che non respinge la notte.
Perché quando sostiamo nel dolore che vorremmo fuggire, le distanze fra cielo e terra si stanno assottigliando.
[Giovedì 34.a sett. T.O. 28 novembre 2024]
Collocarsi negli sconvolgimenti “astrali”
(Lc 21,20-28)
«E vi saranno segni nel sole e nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di nazioni in preda allo smarrimento per il fragore del mare e dei flutti» (v.25).
«In questi anni in cui s’inscrive la realtà quotidiana del nostro secolo, tormentato già allo spuntare di un nuovo millennio, portatrice di speranze dell’umanità. Il processo storico di inculturazione del Vangelo e dell’evangelizzazione delle culture è ben lontano dall’avere esaurito tutte le sue energie latenti. L’eterna novità del Vangelo incontra le apparizioni delle culture in genesi o in fase di rinnovamento. L’emergenza delle nuove culture fa appello, con evidenza, al coraggio e all’intelligenza di tutti i credenti e di tutti gli uomini di buona volontà. Trasformazioni sociali e culturali, sconvolgimenti politici, fermenti ideologici, inquietudini religiose, ricerche etiche, è tutto un mondo in gestazione che aspira a trovare forma e orientamento, sintesi organica e nuova stagione profetica. Sappiamo attingere risposte nuove nel tesoro della nostra speranza.
Assecondati da squilibri socio-politici, dalle scoperte scientifiche non pienamente controllate, da invenzioni tecniche di un’ampiezza inaudita, gli uomini restano confusamente il crepuscolo delle vecchie ideologie e l’usura dei vecchi sistemi. I popoli nuovi provocano le vecchie società, come per svegliarle dalla loro lassezza. I giovani alla ricerca di ideali aspirano a dare un senso che abbia valore all’avventura umana. Né la droga, né la violenza né la permissività né il nichilismo possono riempire il vuoto dell’esistenza. Le intelligenze e i cuori sono alla ricerca della luce che rischiari e dell’amore che riscaldi. La nostra epoca ci rivela nel vuoto la fame spirituale e l’immensa speranza delle coscienze».
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso al Pontificio Consiglio per la Cultura 13 gennaio 1986]
Al tempo di Gesù la città eterna si stava autodistruggendo, ma la distanza fra cielo e terra si assottigliava.
Parola viva e meditazione ecclesiale.
Anche oggi sperimentiamo rovesciamenti: d’improvviso il centro appagante diventa periferia malmessa, e viceversa.
E in qualsiasi ceto sociale, ciascuno aspira, tenta, esplora, migra, vuole vivere completamente; non si accontenta più delle condizioni di partenza.
L’inquietudine si diffonde anche nell’istituzione religiosa, che pareva fissa, certa, eterna, immutabile.
Di recente lo stesso Pontefice ha parlato di «degenerazione» interna.
Come spiegare questo fatto? A cosa è finalizzato il trauma? E la caduta di fede che ne scaturisce?
Al contrario, ciò che conta della crisi è proprio negli stati interiori che attiva - malgrado le percezioni esterne di perdita.
Bisogna sganciarsi da cause apparenti, per entrare nel profondo degli spazi che sentiamo violati.
Quel dolore è parte di noi stessi, del cammino di Fede.
Riconoscendolo e accogliendolo come vena intima, lato genuino dell’essere che ci appartiene, si riconquista integrità; si può ripartire.
La Chiesa autentica pensa al senso del cammino… anche dell’intera storia.
Essa riflette in particolare sulla disfatta della città santa e sull’instabilità del suo cosmo - quello delle gerarchie vetuste: ciò che era in alto ora cade rovinosamente.
La vecchia terra delle “promesse” è d’improvviso disseminata di rovine: il suo pareva un tempo paradisiaco, spacciato per divino; invece era un attimo, forse in gran parte di terra.
Sulle macerie ecco profilarsi la fine dell’assetto antico, sconvolto nell’arcaico prestigio e nello stesso ordinamento.
Come ha dichiarato Papa Francesco [ad esempio]: «In una Chiesa per i poveri, più missionaria, non c’è spazio per chi si arricchisce o fa arricchire il suo cerchio magico indossando indegnamente l’abito talare».
Il mondo nuovo avrà gerarchie rovesciate (vv.25-26) e sta provocando già lo sgretolamento dei piedistalli della mitologia politica, devota e sociale, rivelatisi terra terra.
Hanno finito per spegnere la loro inutile attrattiva; hanno esaurito il loro tempo. Ciò mentre un «meraviglioso popolo segue Gesù Cristo».
Prima l’ossessione di peccato, la soggezione e inadeguatezza predicate a tutti, nonché le steppe disumanizzanti, aride, prodotte dal potere civile, militare e religioso.
Frutti amari generati da potenze elette, da prìncipi mondani, dalle star che parevano celesti [sole, luna, stelle e potenze che hanno sempre sovrastato l’umanità: vv.25-26].
Ai loro insegnamenti è stato tolto il velo: erano per nulla angelici, bensì di questo mondo.
Avevano programmi parziali, puramente temporali. Non formavano tutta la vita.
Ed ecco finalmente l’innesco di un nuovo Regno, che s’inaugura nell’aspetto di un Figlio, d’un Amico dal cuore di uomo e non di belva (cf. Dn 7,2-14).
Sul fondo della storia istituzionale s’aggira un senso di morte, ma proprio qui l'anima si libera e sublima.
Una nuova Chiamata suscita la coscienza personale e soppianta gli antichi principati. Vertici sociali che dettavano legge e controllavano tutto, opprimendo e stritolando ogni espressione inedita di vita che saliva dal basso.
Viceversa, la Vocazione per Nome offre l’armonia e fraternità del Disegno originario, concepito come Festa nuziale.
Le verità ancora consolidate saranno invece (finalmente) misurate da una Presenza salvatrice.
“Carne” come noi e “Roccia” come Dio.
Una Grazia impegnativa si sta ergendo sulla presunta catastrofe, tappa inesorabile per l’instaurazione di tutt’altra Fraternità - e l’apparire di una nuova Creazione.
In tal guisa, rovina e distruzione si volgeranno in alta consapevolezza; esodo, gioia di trasformazione, senso di libertà.
Speranza fanciulla che ricompone lo spavento di coloro che pensavano la Solenne Religione e le sublimi autorità talari in trono come fortilizio sicuro.
Compito delle nuove comunità in Cristo sarà l’avvio, l’edificazione e il compimento di una storia umanizzante, fonte in se stessa di Speranza; che vince il tempo del pre-umano e lo soppianta con estrema decisione.
Il rapporto tra fedeli e mondanità piramidali - un tempo spacciate per sovreminenti e quasi collocate in cielo, nell’alto - sarà di contrasto.
Quel cosmo ormai divenuto senza senso sta implodendo, nell’agonia della sua finitezza.
Per tale sommovimento c’è solo da gioire.
Lo stile di coloro che rendono umano il mondo sarà viceversa foriero di vittoria che divinizza ciascuno - trionfo questo sì ultraterreno.
Perché il lievito della storia è quello del corpo piegato nel servizio, e del capo alzato nell’attesa del Signore che Viene in continuità.
In ogni occasione l’attitudine della donna e dell’uomo di Fede rimarrà quella di chi prepara un accadimento nuovo, imprevedibile e determinante [come sempre si rivela l’appuntamento col Cristo Veniente e Viandante anche nei dettagli dell’esistenza].
Ma bisogna aiutarsi a percepire la vicinanza di tale senso impersonato: la scelta tra crollo e disperazione o felicità e liberazione avviene ora, nel tempo della vita che volge al momento dell’incontro col Risorto glorioso.
Saremo senza rimpianti per il “fumo” impressionante di ciò che si è autodistrutto - a motivo della sua scarsa cifra umano-divina.
E a tutti i costi permarremo fedeli non a ideologie o “solidi” idoli di ciccia e cartapesta, ma all’esperienza di Dio in dimensione missionaria, consapevoli che il futuro si compie giorno per giorno.
Tutto questo attiveremo, anche quando saremo ritenuti poco avveduti, per le comuni configurazioni.
Quindi - estromessi da ruoli - comprometteremo la nostra bella e più serena carriera di funzionari.
Ragione in più per farci convitati che si accorgono.
In Lui gli sconvolgimenti si tramuteranno: in coscienza acuta e relazioni felici, emancipate d’infinità e giustizia.
Nuova Maestà, che non respinge la notte.
Perché quando sostiamo nel dolore che vorremmo fuggire, le distanze fra cielo e terra si stanno assottigliando.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quanto è umano il tuo divino?
E in materia ecclesiale:
Assumendo il linguaggio di Papa Francesco, cosa pensi del «nemico invisibile» che ancora osteggia la riforma dei meccanismi interni (paganeggianti) e delle anomalie nei palazzi apostolici [e dei «finti amici laici», ovunque] che ben poco si addicono allo spirito evangelico e a un’ideale «casa di vetro»?
Crisi di una civiltà
La «paganizzazione», la «mondanità», la «corruzione» portano alla distruzione della persona. Ma il cristiano, chiamato a confrontarsi con le «prove del mondo», nelle difficoltà della vita ha un orizzonte di speranza perché è invitato alle «nozze dell’Agnello». Durante la messa celebrata a Santa Marta la mattina di giovedì 29 novembre, Papa Francesco ha continuato a seguire gli spunti della liturgia che, nella settimana conclusiva dell’anno liturgico, propone una serie di provocazioni sul tema della fine, della «fine del mondo», della «fine di ognuno di noi».
Nella liturgia della parola del giorno, ha spiegato il Pontefice all’inizio dell’omelia, le due letture tratte dall’Apocalisse (18, 1-2.21-23; 19, 1-3.9) e dal vangelo di Luca (21, 20-28) sono caratterizzate entrambe «da due parti: una parte di distruzione e poi una parte di fiducia; una parte di sconfitta, una parte di vittoria». Al centro dell’attenzione sono poste due città dalla grande potenza evocativa: Babilonia e Gerusalemme, «due città che sono sconfitte».
Innanzitutto Babilonia, «simbolo della città mondana, del lusso, dell’autosufficienza, del potere di questo mondo, ricca». Una realtà che «sembra gioiosa», eppure «sarà distrutta». Lo afferma l’Apocalisse descrivendo «un rito di vittoria: “È caduta. È caduta Babilonia, la grande. È caduta”». Ritenendola «incapace di essere fedele», il Signore la condanna: «Ha condannato la grande prostituta che corrompeva la terra con la sua prostituzione».
Sempre rifacendosi al testo biblico, il Pontefice è entrato nel dettaglio della realtà di Babilonia. «Quell’appariscenza di lusso, di gloria, di potere — ha detto — era una grande seduzione che portava la gente alla distruzione. E quella grande città così bella fa vedere la sua verità: “è diventata covo di demoni, rifugio di ogni spirito impuro, rifugio di ogni uccello impuro, rifugio di ogni bestia impura e orrenda”». Dietro la «magnificenza», quindi, si nasconde la «corruzione: le feste di Babilonia sembravano feste di gente felice», ma «erano feste finte di felicità, erano feste di corruzione». E per questo, ha spiegato il Papa, il gesto dell’angelo descritto dall’Apocalisse ha una potenza simbolica: «Prese una grande pietra, grande come una macina e la gettò nel mare esclamando: “Con questa violenza sarà distrutta Babilonia, la grande città”».
Significativo è l’elenco, ricordato dal Pontefice, delle conseguenze riservate a essa. Innanzitutto non ci saranno più le feste: «Il suono dei musicisti, dei suonatori di cetra, di flauto e di tromba, non si udrà più in te». Poi, giacché non è «una città di lavoro ma di corruzione», in essa non si troverà più «ogni artigiano di qualsiasi mestiere» e non si udrà più «il rumore della macina». E ancora: «La luce della lampada non brillerà più in te; sarà forse una città illuminata, ma senza luce, non luminosa; questa è la civiltà corrotta». Infine, «la voce dello sposo e della sposa non si udiranno più in te”. C’erano tante coppie, tanta gente, ma non ci sarà l’amore».
Un destino di distruzione, ha rimarcato il Pontefice, che «incomincia da dentro e finisce quando il Signore dice: “Basta”. E ci sarà un giorno nel quale il Signore dirà: “Basta, alle apparenze di questo mondo”». Di fatto, ha aggiunto, questa «è la crisi di una civiltà che si crede orgogliosa, sufficiente, dittatoriale e finisce così».
Ma un triste destino è riservato anche all’altra città-simbolo, Gerusalemme. Ne parla il brano evangelico nel quale Gesù — che «da buon israelita» amava Gerusalemme, ma la vedeva «adultera, non fedele alla legge» — dice: «Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina”». Cioè, ha spiegato Francesco, la città «è distrutta per un altro tipo di corruzione: la corruzione dell’infedeltà all’amore». Per questa infedeltà essa «non è stata capace di riconoscere l’amore di Dio nel suo Figlio». Anche per Gerusalemme, dunque, il destino è duro: «E cadrà, e saranno giorni di vendetta. Gerusalemme sarà calpestata dai pagani».
È proprio in questo passaggio del vangelo di Luca che il Pontefice ha individuato «una frase che aiuta a capire il senso della distruzione di ambedue le città: la città mondana e la città santa: “Finché i tempi dei pagani non siano compiuti”». La città santa sarà punita, perché ha aperto «le porte del cuore ai pagani». Il Papa ha spiegato come qui emerga «la paganizzazione della vita, nel nostro caso, cristiana»; e ha lanciato una provocazione: «Viviamo come cristiani? Sembra di sì. Ma in verità, la nostra vita è pagana». Il cristiano, cioè, entra nella medesima «seduzione della Babilonia e Gerusalemme vive come Babilonia. Vuol fare una sintesi che non si può fare. E ambedue saranno condannate». Da qui le domande: «Tu sei cristiano? Tu sei cristiana?». Allora, ha esortato, «vivi come cristiano», perché «non si può mescolare l’acqua con l’olio». Oggi invece assistiamo alla «fine di una civiltà contraddittoria in sé stessa, che dice di essere cristiana» ma «vive come pagana».
A questo punto, nella riflessione di Francesco si è aperto l’orizzonte di speranza suggerito dalle letture. Infatti, «dopo la fine della città mondana e della città di Dio paganizzata, si udrà la voce del Signore: “Dopo questo udii come una voce potente di folla immensa nel cielo che diceva: Alleluia!”». Quindi: «dopo la distruzione c’è la salvezza». Come si legge nel capitolo 19 dell’Apocalisse: «Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio, perché veri e giusti sono i suoi giudizi». E la distruzione delle due città, ha spiegato il Pontefice, è «un giudizio di Dio: Egli ha condannato la grande prostituta che corrompeva la terra con la sua prostituzione, vendicando su di lei il sangue dei suoi servi!». Quella città mondana, infatti, «sacrificava i servi di Dio, i martiri. E quando Gerusalemme si paganizza, sacrificò il grande martire: il Figlio di Dio».
La visione dell’Apocalisse è grandiosa: «E per la seconda volta dissero: “Alleluia!”. E l’angelo disse: “Venite: Beati gli invitati alle nozze dell’Agnello!”». È l’immagine della «grande festa, la vera festa. Non la festa pagana e la festa mondana». Un’immagine di vittoria e di speranza evocata anche da Gesù nel vangelo: «In quel momento di tragedia, allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi — davanti alle tragedie, alla distruzione della paganità, della mondanità, risollevatevi — alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».
Ecco il messaggio che interpella ogni cristiano: «Ci sono delle tragedie, anche nella nostra vita, ma davanti a queste, guardare l’orizzonte, perché siamo stati redenti e il Signore verrà a salvarci. E questo — ha aggiunto Francesco — ci insegna a vivere le prove del mondo non in un patto con la mondanità o con la paganità che ci porta alla distruzione, ma in speranza, distaccandoci da questa seduzione mondana e pagana, e guardando l’orizzonte, sperando Cristo, il Signore».
In questa prospettiva di speranza, il Papa ha invitato a gettare uno sguardo al passato, anche recente per rileggere la storia alla luce della parola di Dio: «Pensiamo come sono finite le “babilonie” di questo tempo. Pensiamo agli imperi del secolo scorso, per esempio: “Era la grande, la grande potenza...”. Tutto crollato. Solo, rimangono gli umili che hanno la propria speranza nel Signore. E così finiranno anche le grandi città di oggi». Allo stesso modo «finirà la nostra vita, se continuiamo a portarla su questa strada di paganizzazione. È il contrario della speranza: ti porta alla distruzione. È la seduzione babilonica della vita che ci allontana dal Signore». Invece il Signore, ha concluso il Pontefice, invita a un percorso «contrario: andare avanti, guardare con quell’Alleluia di speranza», perché «siamo, tutti noi, stati invitati alla festa di nozze del Figlio di Dio». Quindi «apriamo il cuore con speranza e allontaniamoci dalla paganizzazione della vita».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 30/11/2018]
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
"In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet". This refers to the solidity of the Word. It is solid, it is the true reality on which one must base one's life (Pope Benedict)
«In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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