Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Breve Commento Letture [10.11.24]
*Prima lettura 1 Re 17,10-16
Il profeta Elia si trova lontano dalla sua terra, a Sarepta, città della costa fenicia, che all’epoca faceva parte del regno di Sidone e non del regno d’Israele. Siamo nel IX.mo secolo a. c., il re Acab aveva sposato la regina Gezabele (verso l’870), non dunque una figlia d’Israele, ma figlia del re di Sidone per attuare una politica di alleanza, esponendosi però al grave rischio dell’apostasia, perché Gezabele reca con sé usanze, preghiere, statue e i sacerdoti del culto di Baal, dio della fertilità, della pioggia, del fulmine e del vento. Il re Acab, persona molto debole, finisce così per tradire la sua religione e costruisce persino un tempio di Baal. Elia e gli ebrei fedeli provano vergogna per il tradimento della loro fede conoscendo bene il primo comandamento: “Non avrai altri dei all’infuori di me!”, che è l’a. b. c. della fede ebraica: Dio solo è Dio, tutti gli altri idoli non servono a nulla. Elia si oppone a Gezabele e, per provare la falsità degli idoli, subentrando proprio allora una forte siccità in Israele, lancia la sfida: voi ritenete Baal il dio della pioggia, ma io proverò che solo il Dio d’Israele è l’unico vero Dio, padrone di tutto, della pioggia e della siccità. Lo svolgimento di questa sfida avrà luogo, ma l’odierno testo si ferma a questo punto. Avvertito da Dio, Elia profetizza che ci saranno anni di dura siccità e, seguendo un comando divino, si rifugia presso il torrente Kerith, a est del Giordano (1 Re 17, 3-4). La siccità perdura, il torrente si prosciuga e Dio gli ordina di recarsi nella lontana Sarepta dove incontra una povera vedova alla quale, come povero mendicante, domanda “un pezzo di pane”. La donna gli confessa che non ha più pane, perché le resta solo una manciata di farina in una giara con un po’ d’olio in un orcio; raccoglierà due pezzi di legna per preparare una focaccia per lei e il figlio, la mangeranno e poi si prepareranno a morire. Il profeta le ricorda che Dio tutto può e l’invita a preparare per lui un “piccolo pane” e poi condividerà quanto resta con il figlio. Assicura che il Dio d’Israele interverrà: la giara di farina non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà fino al giorno in cui il Signore farà piovere. E così avvenne:”la giara di farina non si esaurì e l’orcio dell’olio non si svuotò”. La storia della vedova di Sarepta è analoga a quella della vedova che, come leggiamo oggi nel vangelo, nel Tempio di Gerusalemme dona a Dio tutti i suoi spiccioli, chiaro esempio di una fede semplice che si priva di tutto a si fida della parola del Dio d’Israele. Chiaro il messaggio: mentre Israele ricade nell’idolatria, una donna vedova straniera e pagana viene gratificata dal Signore per la sua grande fede. C’è inoltre un dettaglio da evidenziare: la vedova ha sentito Dio ordinarle personalmente di provvedere al profeta e questo mostra che la parola di Dio risuona dove e come vuole, anche fra i pagani. A quest’episodio si riferirà Gesù parlando ai suoi compaesani a Nazaret (Lc 4, 25-26). In verità nei testi tardivi dell’Antico Testamento (e il primo libro dei Re ne fa parte), i pagani vengono citati spesso come esempio per indicare che la salvezza è promessa all’intera umanità non essendo riservata solo a Israele. Insomma, Dio è sollecito verso chi si affida a lui e la grande lezione di questo episodio biblico è che la sollecitudine del Signore non tradisce mai chi si fida di lui.
*Salmo 145 (146), 5-6a, 6c-7ab, 8bc-9a, 9b-10
Israele con questo salmo canta la propria storia rendendo grazie a Dio per la sua protezione costante. “Oppressi, afflitti, affamati”, il popolo ha conosciuto l’oppressione in Egitto dalla quale fu liberato “con mano forte e braccio teso” come più tardi avverrà dalla deportazione a Babilonia e questo salmo fu scritto proprio al ritorno dall’esilio da Babilonia, forse per la dedicazione del Tempio restaurato dopo la sua distruzione del 587 a.C. dalle truppe del re di Babilonia, Nabucodonosor. in effetti, cinquant’anni dopo (nel 538 a.C.), Ciro, re di Persia, sconfisse Babilonia, autorizzò gli ebrei a rientrare in patria e a ricostruire il Tempio la cui dedicazione venne celebrata con gioia e fervore come leggiamo nel libro di Esdra: “I figli di Israele, i sacerdoti, i leviti e il resto dei deportati fecero con gioia la dedicazione di questa Casa di Dio” (Esd 6, 16). Un salmo dunque intriso della gioia del ritorno in patria perché, ancora una volta, Dio ha mostrato fedeltà all’Alleanza con il suo popolo del quale è il padre, il vendicatore, il suo “redentore”. Rileggendo la propria storia, Israele può testimoniare che Dio l’ha sempre accompagnato nella sua lotta per la libertà: “Il SIGNORE fa giustizia agli oppressi, rialza gli afflitti”. Israele ha conosciuto la fame, nel deserto, durante l’Esodo e Dio ha mandato la manna e le quaglie per il suo cibo: “Agli affamati dà il pane” e solo dopo ha compreso che Dio sempre riscatta gli afflitti, guarisce i malati, solleva i piccoli e gli emarginati, apre gli occhi ai ciechi e si rivela progressivamente, tramite i suoi profeti, al suo popolo che lo cerca: “Dio ama i giusti”. In questo canto si noti l’insistenza sul nome “Signore” che qui traduce il famoso NOME di Dio rivelato a Mosè sul Sinai, nel roveto ardente: sono le quattro consonanti YHVH (due inspirate e due ispirate) che indicano la presenza permanente, attiva, liberante di Dio nella vita del suo popolo (Es.3, 13-15). Inoltre nella Bibbia l’espressione “il tuo Dio” è un richiamo all’Alleanza con il popolo eletto: Alleanza alla quale il Signore non è mai venuto meno e la preghiera di Israele è rivolta al futuro per cui quando evoca il passato è per rafforzare la sua attesa e la speranza. Dio comunicò il suo nome a Mosè sul Sinai in due modi. Anzitutto con le impronunciabili quattro consonanti, YHVH, che ritroviamo spesso nella Bibbia, in particolare in questo salmo e che si traduce con “il Signore”. Esiste però una formula più elaborata, “Ehiè asher ehiè” che in italiano si rende sia con “Io sono chi sono”, oppure “Io sarò chi sarò”, un modo di esprimere l’eterna presenza di Dio accanto al suo popolo. L’insistenza sul futuro, “per sempre” rafforza l’impegno del popolo che, con questo salmo, non solo riconosce l’opera di Dio a favore d’Israele, ma vuole darsi una linea di condotta: se Dio ha agito così verso noi, dobbiamo a nostra volta fare altrettanto, diventando i primi testimoni dell’amore che il Signore nutre per i poveri e gli esclusi, amore che, attraverso Israele, intende diffondere al mondo intero. La Legge di Mosè e dei Profeti fu scritta per educare il popolo a conformarsi progressivamente alla misericordia di Dio e, per tale ragione, prevedeva numerose regole di protezione per le vedove, gli orfani, gli stranieri volendo fare di Israele un popolo libero e rispettoso della libertà altrui. Infine, i richiami dei profeti si concentrano su due punti (che forse ci sorprendono): una lotta accanita contro l’idolatria, (come fece Elia) e gli appelli alla giustizia e alla cura per gli altri, fino ad arrivare a far dire a Dio: “È la misericordia che voglio, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti” (Os 6, 6); o ancora: “Ti è stato detto, o uomo, ciò che è bene, ciò che il Signore esige da te: nient’altro che rispettare il diritto, amare la fedeltà e camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6, 8). Leggiamo infine nel libro di Ben Sira: “Le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio” (Si 35, 18). Per Israele le lacrime di tutti coloro che soffrono scorrono sulle guance di Dio…e se siamo vicini a Dio, dovrebbero scorrere anche sulle nostre guance!
*Seconda Lettura Ebr. 9, 24-28
L’autore della lettera agli Ebrei, che ci accompagna da qualche domenica, si rivolge a cristiani di origine ebraica che forse provano nostalgia per l’antico culto mentre nella pratica cristiana non ci sono più templi né sacrifici cruenti. L’autore, volendo provare che tutto ormai è superato, riprende una per una le realtà e le pratiche della religione ebraica. Parla soprattutto del Tempio, definito il “santuario” e precisa che una cosa è il vero santuario, nel quale Dio risiede, cioè il cielo stesso, altro è il tempio costruito dagli uomini che del vero santuario è solo pallida copia. Gli ebrei erano particolarmente fieri, a ragione, del magnifico Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana resta umana e quindi, debole, imperfetta, peritura. Inoltre, nessuno in Israele pretendeva di racchiudere la presenza di Dio in un tempio, per quanto immenso, come già il primo costruttore del Tempio di Gerusalemme, il re Salomone affermava: “Davvero Dio potrebbe abitare sulla terra? I cieli stessi e i cieli dei cieli non possono contenerti! Quanto meno questa Casa che ho costruito.” (1 Re 8,27). Per i cristiani, il vero Tempio, il luogo dove si incontra Dio, non è un edificio perché l’Incarnazione di Cristo ha cambiato tutto: ora il luogo di incontro tra Dio e l’uomo è Gesù Cristo, il Dio fatto uomo. L’evangelista Giovanni narra che Gesù si è permesso di cacciare dall’area del Tempio i cambiavalute e i mercanti di bestiame per i sacrifici spiegando poi: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo risusciterò” e i discepoli capirono, dopo la Risurrezione, che il Il Tempio di cui parlava era il suo corpo. (Cf. Gv 2,13-21). Nel brano odierno della Lettera agli Ebrei si dice la stessa cosa: rimaniamo innestati in Gesù Cristo, nutriamoci del suo corpo, così siamo messi alla presenza di Dio in nostro favore. Con la sua morte Cristo evidenzia il ruolo centrale della croce nel mistero cristiano e poco più avanti (Eb 10), l’autore preciserà che la morte di Cristo è solo il culmine di una vita interamente offerta e che quando si parla del suo sacrificio, bisogna intendere “l’atto sacro che fu tutta la sua vita” e non solo le ore della sua Passione. Per il momento, il testo che abbiamo davanti agli occhi parla della Passione di Cristo e del suo sacrificio, senza ulteriori dettagli. Oppone il sacrificio di Cristo a quello offerto dal sommo sacerdote di Israele, nel giorno di Yom Kippur (“Giorno del Perdono”) quando il sommo sacerdote, entrato da solo nel Santo dei Santi, pronunciava il Nome sacro (YHVH) e spargeva il sangue di un toro (per i propri peccati) e quello di un capro (per i peccati del popolo), rinnovando solennemente l’Alleanza con Dio. All’uscita del sommo sacerdote dal Santo dei Santi, il popolo, raccolto fuori, sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Ma questo rinnovamento dell’Alleanza era precario, e si doveva ripetere ogni anno, invece l’Alleanza che Gesù Cristo ha concluso con il Padre in nostro nome è perfetta e definitiva: sul Volto di Cristo in croce, i credenti scoprono il vero Volto di Dio che ama i suoi fino alla fine. Ormai non possiamo più ingannarci; Dio è Padre nostro perché Padre di Gesù e nel Cristo possiamo vivere nell’Alleanza che Dio ci propone: la Nuova Alleanza in Cristo e non c’è più spazio per la paura del giudizio di Dio perché professando “Gesù ritornerà per giudicare i vivi e i morti” (nel nostro Credo), proclamiamo che il termine “giudizio” è sinonimo di salvezza: “il Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, non più per il peccato, ma per la salvezza di coloro che lo attendono” ed è giusto affermare che Gesù Cristo è “il sommo sacerdote della felicità che viene”, come l’autore afferma nel cap. 9,11, testo che si proclama nella festa del Corpo e del Sangue di Cristo, nell’anno B.
*Vangelo Marco 12, 38-44
“Guardatevi dagli scribi…” Siamo alla conclusione del 12mo capitolo e ci avviamo verso la fine del vangelo di Marco, con il racconto della Passione e Resurrezione di Cristo. Gesù dispensa gli ultimi consigli agli apostoli: ha già detto loro di aver fede in Dio e “tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (11, 22-24). Aggiungerà poi: “Badate che nessuno vi inganni” (13,5), mentre ora esorta a stare attenti agli scribi (12,38) utilizzando il linguaggio dei profeti per stigmatizzare alcune loro attitudini senza che questo significhi una totale condanna del loro operato. All’epoca gli scribi erano molto considerati perché commentavano e interpretavano la Scrittura e predicavano, sedevano nel Sinedrio, il tribunale permanente di Gerusalemme che si riuniva nei locali del Tempio due volte a settimana; si tratta dunque di laici che avevano frequentato lo studio della Legge di Mosè in scuole specializzate, diventando esperti e alcuni tra loro venivano chiamati “dottori della legge” per cui rispettando loro si rispettava la Legge stessa. Tanto rispetto faceva montare la testa ad alcuni che esigevano i primi posti nelle sinagoghe, dando le spalle alle Tavole della Legge e rivolti verso pubblico. Nell’odierno vangelo Gesù rende omaggio allo scriba che aveva risposto saggiamente: “Non sei lontano dal Regno di Dio.” (12,34), ma aggiunge una critica più generale reagendo all’ostilità che alcuni scribi, fin dall’inizio della sua vita pubblica, gli hanno mostrato invidia e gelosia. Appare chiara nel vangelo di Marco una crescente sfiducia di Cristo nei loro confronti dato che la loro gelosia diventa odio fino a progettare di uccidere Gesù dopo la cacciata dei mercanti dal Tempio. I capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani lo assediano mentre cammina nel Tempio chiedendogli con quale autorità insegni e compia i miracoli (11,27-28) e vedremo durante la passione lo stesso Pilato rendersene conto, come annota san Marco: “Pilato sapeva che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia” (15,10). Gesù però non si lascia impressionare dal loro odio e rimprovera loro qualcosa di molto più grave e cioè che sfruttano la loro posizione esigendo di essere pagati dalle povere vedove quando queste domandano consigli giuridici: “divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (12,40). E’ a questo punto che appare una povera vedova (12, 42-43) in totale indigenza (12,44) perché, non avendo diritto all’eredità del marito, dipendeva dalla carità pubblica. Essa si avvicina per deporre due spiccioli e Gesù la indica come esempio ai discepoli: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno offerto del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quanto aveva per vivere” (12, 43-44). L’evangelista non fa commenti, ma si capisce che la fiducia della vedova sarà ricompensata. Naturale il parallelo con la vedova di Sarepta: come lei offrì ad Elia le sue ultime provviste, questa vedova depone tutti i suoi risparmi nel Tempio spogliandosi di tutto. Gesù invita a rifiutare il modello dell’ostentazione di alcuni scribi con la sete di onori e privilegi, ed esorta a imitare la generosità, umile e discreta, della “vedova povera” che lascia tutto ciò che ha nel Tempio. Diversi Padri della Chiesa l’hanno interpretato come un potente simbolo di fede umile e generosa e di carità autentica, non perché dona molto ma perché offre tutto ciò che ha per vivere, fidandosi di Dio. Questo racconto, oltre ad essere una lezione di carità e fiducia, è pure un richiamo all’autentica giustizia sociale, dove l’amore per Dio deve tradursi sempre in attenzione, aiuto e amore ai bisognosi.
Le nostre cecità, tra senso religioso e Fede
(Lc 18,35-43)
Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.
Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.
Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il ‘figlio di Davide’ (vv.38-39) - che non dà, bensì toglie vita.
L’equivoco ha pesanti conseguenze.
Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici ad es. nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.
Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.
Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.
Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.
Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.
Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.
Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.
Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.
Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.
La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.
Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale - trasmettendo un modello diametralmente opposto di uomo riuscito.
Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo ‘posto’.
Religiosità o Fede personale: è scelta dirimente. Per partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.
Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.
In tal guisa, il Vangelo invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.
Anche l’enciclica Fratelli Tutti propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di ‘passaggio’ e Speranza.
Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del Sacerdozio di Cristo.
Con ‘percezione’ sana.
[Lunedì 33.a sett. T.O. 18 novembre 2024]
Il movimento del sacerdozio di Cristo
(Lc 18,35-43)
L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.
Papa Francesco propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di “passaggio” e Speranza.
Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55) [cit. da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].
Affranto, Paolo VI ammetteva:
«Sì, vi sono molti cristiani mediocri; e non solo perché sono deboli o mancanti di formazione, ma perché vogliono essere mediocri e perché hanno le loro così dette buone ragioni del giusto mezzo, del ne quid nimis, quasi che il Vangelo fosse una scuola d’indolenza morale, o quasi che esso autorizzasse servire al conformismo. Non è ipocrisia? Incoerenza? Relativismo secondo il vento che tira?» [passim].
Sembra il ritratto della vita scadente e cieca che talora ci coglie: “nulla di troppo”, “mai l’eccessivo”.
Una sorta di esistenza alla don Abbondio, a contrasto del quale Manzoni delinea l’icona dell’uomo di Fede - che appunto spicca sul mediocre devoto - nella solenne e decisa figura del cardinal Federigo.
Prelato che invece «ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti».
Non il qualunquismo rassicurato d’un pio vigliacco e situazionalista, che finge di non vedere, si accontenta della sua nicchia da mezza tacca; si siede nell’aia scadente del minimo sindacale, si barcamena e non s’espone.
Il passo di Lc è un insegnamento che trae spunto dalle primissime forme di liturgia battesimale riservate ai nuovi credenti, chiamati photismòi-illuminati [coloro che dal buio della vita pagana aprivano finalmente gli occhi alla Luce].
Il brano illustra cosa accade a una persona quando incontra Cristo e ne riceve l’orientamento esistenziale: abbandona le posizioni consolidate ma non personalmente rielaborate, e diviene testimone critico.
La narrazione è impostata sul confronto tra sguardi materiali verso il basso (come quelli dei pagani o dei seguaci arroganti) e sguardi aperti, in grado di sollevare l’occhio dell’uomo da pastoie di sembianti, abitudinarietà e potenze esteriori o interiori distruttive.
La comparazione fa affiorare ciò che conta nella vita, quel che ha peso e non viene spazzato via dagli impedimenti d’una spiritualità vuota, rapita o attratta da brame epidermiche; imbrigliate su falsarighe di ruoli sociali o conformismi culturali e spirituali - da consuetudini ereditate ma non vagliate.
Insomma: il Signore ci vuol far comprendere che il conformismo all’ambiente e la vuota devozione inculcano un intendere paludoso, esanime, poco rilevante.
Cosa dunque è necessario per «vedere» con la percezione di Dio, oltre le apparenze, e risollevarsi da una grigia vita di elemosine, letteralmente a terra? E come curare la visuale di chi non si raccapezza?
Anche i “vicini” hanno aspettative più o meno chiare su come entrare nel Movimento del sacerdozio di Cristo.
I discepoli stessi sono suggestionati da una folla spesso qualunquista attorno che si attende ben poco, se non quiete, svago e favori; e che preme perché si entri «ne’ loro limiti».
Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.
Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.
Condizionato da falsi maestri e guide spirituali approssimative, anch’egli è bloccato da uno spirito di letargo che punta la sua esistenza a ribasso.
Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il figlio di Davide (v.38) - che non dà, bensì toglie vita.
Gesù somiglia e rimanda al Padre, non a un sovrano abile e svelto, che sa addomesticare le masse [figura di uno stile di dominio subdolo o violento, e di continua rivalsa].
L’equivoco ha pesanti conseguenze.
Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.
Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.
Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.
Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.
Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.
[Mentre scrivevo un mio prof del liceo, persona di gran fede e dinamismo - mi ha inviato un proverbio indiano: «se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l’elefante»].
Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.
Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.
Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.
Eppure sono dotati d’uno spiccato senso religioso antico; ma proprio per questo - mancando del balzo di Fede - centrati su di sé e sulle idee che sono state trasmesse.
Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.
La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.
La sua nuova attitudine diventa piuttosto quella del “neonato”. Si adopera in un modello di vita industrioso, creativo, pratico - avveniristico.
Risorge dinamico, sbarazzandosi degli stracci sui quali si attendeva che altri deponessero qualcosa in suo favore.
L’abito vecchio finisce nella polvere - gettato lontano come nelle antiche liturgie battesimali: a qualsiasi età intraprende, surclassando sicurezze di piccolo cabotaggio.
Cambia vita, la guarda in faccia; sebbene sappia di complicarsela, rendendola impegnativa e controcorrente.
Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale.
In tal guisa, egli comprendere il senso primordiale e rigenerante - anzi, ricreante - della Novità di Dio.
L’Incontro faccia a faccia gli ha trasmesso un modello diametralmente opposto di uomo riuscito; non sottomesso al tatticismo.
Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo posto.
“Il vento che tira” c’infonde un letale veleno: quello rinunciatario dell’identificarci-e-assomigliare, che fa rima con l’arrenderci e invecchiare.
La guarigione da tale cecità non può essere un... Miracolo! Religiosità o Fede: è scelta dirimente.
Significa adattarsi pigramente alle mode di circostanza o al vestito vecchio dei comportamenti già “detti” e solite amicizie, aspettando solo qualche soluzione-fulmine che non coinvolga troppo...
Ovvero partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.
Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.
Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del sacerdozio di Cristo. Con percezione sana.
Infatti - come in questo episodio - non di rado i Vangeli insistono sul criterio (devotamente assurdo) che il nemico di Dio non sia il peccato, bensì la vita media e passiva dell’ormai identificato e piazzato.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
L’incontro con Cristo ti ha tolto come un velo dagli occhi? Hai colto l’occasione per nascere come uomo nuovo, e sollevare lo sguardo? O rimani miope e inerte?
Il Passaggio della Pasqua
Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr Lc 18,35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr v. 35). Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata, assorta nei propri pensieri e in tante cose...E la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa...E lui è solo.
E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15,7.11). E’ stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere, come se non avesse diritto di parlare. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada – gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”.
Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr Es 12,23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione: quando passa Gesù, sempre c’è liberazione, sempre c’è salvezza! Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr Is 35,5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche noi, quando siamo stati in situazioni brutte, anche situazioni di peccato, com’è stato proprio Gesù a prenderci per mano e a toglierci dal margine della strada e donarci la salvezza. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, Il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione. Anche nella nostra vita Gesù passa; e quando passa Gesù, e io me ne accorgo, è un invito ad avvicinarmi a Lui, a essere più buono, a essere un cristiano migliore, a seguire Gesù.
Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Lui, Gesù, Dio, dice: “Ma cosa vuoi che io ti faccia? Come tu vuoi che io ti serva?” Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo. Da mendicante a discepolo, anche questa è la nostra strada: tutti noi siamo mendicanti, tutti. Abbiamo bisogno sempre di salvezza. E tutti noi, tutti i giorni, dobbiamo fare questo passo: da mendicanti a discepoli. E così, il cieco si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li fa venire a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso. Lasciamoci anche noi chiamare da Gesù, e lasciamoci guarire da Gesù, perdonare da Gesù, e andiamo dietro Gesù lodando Dio. Così sia!
[Papa Francesco, Udienza Generale 15 giugno 2016]
Questi figli prediletti del Padre celeste sono come il cieco del Vangelo, Bartimeo, che “sedeva lungo la strada a mendicare” (Mc 10,46), alle porte di Gerico. Proprio per quella strada passa Gesù Nazareno. E’ la strada che conduce a Gerusalemme, dove si consumerà la Pasqua, la sua Pasqua sacrificale, alla quale il Messia va incontro per noi. E’ la strada del suo esodo che è anche il nostro: l’unica via che conduce alla terra della riconciliazione, della giustizia e della pace. Su quella via il Signore incontra Bartimeo, che ha perduto la vista. Le loro vie si incrociano, diventano un’unica via. “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”, grida il cieco con fiducia. Replica Gesù: “Chiamatelo!”, e aggiunge: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio è luce e creatore della luce. L’uomo è figlio della luce, fatto per vedere la luce, ma ha perso la vista, e si trova costretto a mendicare. Accanto a lui passa il Signore, che si è fatto mendicante per noi: assetato della nostra fede e del nostro amore. “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio sa, ma chiede; vuole che sia l’uomo a parlare. Vuole che l’uomo si alzi in piedi, che ritrovi il coraggio di domandare ciò che gli spetta per la sua dignità. Il Padre vuole sentire dalla viva voce del figlio la libera volontà di vedere di nuovo la luce, quella luce per la quale lo ha creato. “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù a lui: “Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc 10,51-52).
“Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52). Sì, la fede in Gesù Cristo – quando è bene intesa e praticata – guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Bartimeo che, guarito, segue Gesù lungo la strada, è immagine dell’umanità che, illuminata dalla fede, si mette in cammino verso la terra promessa. Bartimeo diventa a sua volta testimone della luce, raccontando e dimostrando in prima persona di essere stato guarito, rinnovato, rigenerato. Questo è la Chiesa nel mondo: comunità di persone riconciliate, operatrici di giustizia e di pace; “sale e luce” in mezzo alla società degli uomini e delle nazioni.
La Chiesa, comunità che segue Cristo sulla via dell’amore, ha una forma sacerdotale. La categoria del sacerdozio, come chiave interpretativa del mistero di Cristo e, di conseguenza, della Chiesa, è stata introdotta nel Nuovo Testamento dall’Autore della Lettera agli Ebrei. La sua intuizione prende origine dal Salmo 110, citato nel brano odierno, là dove il Signore Dio, con solenne giuramento, assicura al Messia: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (v. 4). Riferimento che ne richiama un altro, tratto dal Salmo 2, nel quale il Messia annuncia il decreto del Signore che dice di lui: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (v. 7). Da questi testi deriva l’attribuzione a Gesù Cristo del carattere sacerdotale, non in senso generico, bensì “secondo l’ordine di Melchisedek”, vale a dire il sacerdozio sommo ed eterno, di origine non umana ma divina. Se ogni sommo sacerdote “è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1), solo Lui, il Cristo, il Figlio di Dio, possiede un sacerdozio che si identifica con la sua stessa Persona, un sacerdozio singolare e trascendente, da cui dipende la salvezza universale. Questo suo sacerdozio Cristo l’ha trasmesso alla Chiesa mediante lo Spirito Santo; pertanto la Chiesa ha in se stessa, in ogni suo membro, in forza del Battesimo, un carattere sacerdotale. Ma – qui c’è un aspetto decisivo – il sacerdozio di Gesù Cristo non è più primariamente rituale, bensì esistenziale. La dimensione del rito non viene abolita, ma, come appare chiaramente nell’istituzione dell’Eucaristia, prende significato dal Mistero pasquale, che porta a compimento i sacrifici antichi e li supera. Nascono così contemporaneamente un nuovo sacrificio, un nuovo sacerdozio ed anche un nuovo tempio, e tutti e tre coincidono con il Mistero di Gesù Cristo. Unita a Lui mediante i Sacramenti, la Chiesa prolunga la sua azione salvifica, permettendo agli uomini di essere risanati mediante la fede, come il cieco Bartimeo. Così la Comunità ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l’amore di Dio e così seminare speranza.
[Papa Benedetto, omelia per la chiusura del Sinodo speciale per l’Africa 25 ottobre 2009]
L’odierna lettura del Vangelo […] ci ricorda l’episodio della guarigione del cieco di Gerico. Il Vangelo rivela anche il suo nome: Bartimeo, e ricostruisce la sua supplica-grido: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me” (Mc 10, 47). Infine riferisce la sua commovente supplica: “Rabbuni, che io riabbia la vista” (Mc 10,51). E la risposta di Gesù non si fa attendere: “Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52).
Ecco, uno di quei segni che Gesù di Nazaret compiva durante il suo ministero pubblico. È, questo, un segno particolarmente eloquente: ridonando la vista al cieco, Gesù getta luce sulla sua vita. L’intera missione di Cristo è piena di questo senso: Egli getta luce divina sulla vita umana per mezzo del Vangelo. Alla luce delle parole di Cristo la vita umana acquista senso: il senso ultimo, che illumina anche le diverse sfere di questa vita terrena.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 27 ottobre 1991]
Un invito a non mettere «all’asta la nostra carta d’identità» cristiana, a non uniformarci allo spirito del mondo, che quando riesce a prevalere porta all’apostasia e alla persecuzione. Lo ha individuato Papa Francesco commentando la liturgia della parola di lunedì mattina, 16 novembre, durante la consueta celebrazione della messa nella cappella di Casa Santa Marta.
Il Pontefice ha dedicato la sua riflessione interamente alla prima lettura, tratta dal primo libro dei Maccabei (1,10-15.41-43.54-57 62-64), riassumendone i contenuti «con tre parole: mondanità, apostasia, persecuzione». Rileggendolo, Francesco ha fatto notare «che il brano incomincia così: “In quei giorni uscì una radice perversa”». E ha spiegato come «l’immagine della radice che è sotto terra, non si vede, sembra non fare male, ma poi cresce e mostra, fa vedere, la propria realtà» negativa, sia presente anche nella lettera agli Ebrei, il cui «autore ammoniva i suoi nello stesso modo: “Che non spunti né cresca in mezzo a voi alcuna radice velenosa, che provochi mali e ne contagi tanti”».
In proposito il Papa ha descritto «la fenomenologia della radice», la quale «cresce, sempre cresce», anche quando — come nel caso del brano preso in esame — può sembrare una «radice ragionevole: “Andiamo e stringiamo un’alleanza con le nazioni che ci stanno attorno; perché tante differenze? Perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali. Andiamo da loro, siamo uguali”». E così, ha proseguito nella descrizione, «alcuni del popolo presero l’iniziativa e andarono dal re che diede loro facoltà di introdurre le istituzioni delle nazioni. Dove? Nel popolo eletto, cioè nella Chiesa di quel momento».
Ma, ha subito avvertito Francesco, in quell’azione «c’è la mondanità. Facciamo ciò che fa il mondo, lo stesso: mettiamo all’asta la nostra carta d’identità; siamo uguali a tutti». Proprio come gli uomini di Israele, i quali «incominciarono a fare questo: costruirono un ginnasio a Gerusalemme, secondo le usanze delle nazioni, le usanze pagane; cancellarono i segni della circoncisione, cioè rinnegarono la fede, e si allontanarono dalla santa alleanza; si unirono alle nazioni e si vendettero per fare il male». Ma, ha messo in guardia il Pontefice, proprio «questo, che sembrava tanto ragionevole, — “siamo come tutti, siamo normali” — diventò la distruzione». Perché, ha ribadito, «questa è la mondanità. Questo è il cammino della mondanità, di quella radice velenosa, perversa».
Al riguardo Francesco ha confidato come lo abbia sempre colpito il fatto «che il Signore, nell’ultima cena pregasse per l’unità dei suoi e chiedesse al Padre che li liberasse da ogni spirito del mondo, da ogni mondanità, perché la mondanità distrugge l’identità; la mondanità porta al pensiero unico, non c’è differenza».
E la prima conseguenza di ciò è l’apostasia. Il Papa lo ha dimostrato proseguendo la rilettura del brano: «Poi il re prescrisse in tutto il suo regno che tutti formassero un solo popolo — il pensiero unico, la mondanità — e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re; anche molti israeliti accettarono il suo culto: sacrificarono agli idoli e profanarono il sabato». Dunque «l’apostasia. Cioè, la mondanità ti porta al pensiero unico e all’apostasia. Non sono permesse, non ci sono permesse le differenze». Finiamo col diventare «tutti uguali. E nella storia della Chiesa, nella storia abbiamo visto, penso a un caso, che alle feste religiose è stato cambiato il nome — il Natale del Signore ha un altro nome — per cancellare l’identità».
Inoltre non bisogna dimenticare, sembra voler dire la lettura, che all’apostasia segue la persecuzione. «Il re — ha continuato il Pontefice — innalzò sull’altare un abominio di devastazione. Anche nelle vicine città di Giuda eressero altari e bruciarono incenso sulle porte delle case e nelle piazze; stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco. Se, presso qualcuno, veniva trovato il libro dell’alleanza e se qualcuno obbediva alla legge, la sentenza del re lo condannava a morte». Ecco appunto «la persecuzione», che «incomincia da una radice» anche «piccola, e finisce nell’abominazione della desolazione». Del resto, «questo è l’inganno della mondanità». E perciò nell’ultima cena Gesù domandava al Padre: «Non ti chiedo di toglierli dal mondo, ma custodiscili dal mondo», ovvero «da questa mentalità, da questo umanismo, che viene a prendere il posto dell’uomo vero, Gesù Cristo»; da questa mondanità «che viene a toglierci l’identità cristiana e ci porta al pensiero unico: “Tutti fanno così, perché noi no?”».
Ecco allora l’attualità del brano odierno, che «di questi tempi, ci deve far pensare» a com’è la nostra identità. Occorre chiedersi: «È cristiana o mondana? O mi dico cristiano perché da bambino sono stato battezzato o sono nato in un Paese cristiano, dove tutti sono cristiani?». Secondo Francesco è necessario trovare una risposta a tali domande, poiché «la mondanità che entra lentamente», poi «cresce, si giustifica e contagia». Come? «Cresce come quella radice» citata nella lettura; «si giustifica — “facciamo come tutta la gente, non siamo tanto differenti” — cerca sempre una giustificazione, e alla fine contagia, e tanti mali vengono da lì».
Al termine dell’omelia il Papa ha evidenziato come tutta «la liturgia, in questi ultimi giorni dell’anno liturgico», ci faccia pensare a queste cose, e in particolare oggi ci dica «nel nome del Signore: guardatevi dalle radici velenose, dalle radici perverse che ti portano lontano dal Signore e ti fanno perdere la tua identità cristiana». Si tratta insomma di un’esortazione a tenersi alla larga «dalla mondanità» e a chiedere nella preghiera, in particolare, che la Chiesa sia custodita «da ogni forma di mondanità. Che la Chiesa sempre abbia l’identità disposta da Gesù Cristo; che tutti noi abbiamo l’identità» ricevuta nel battesimo; «e che questa identità non venga buttata fuori» solo per voler «essere come tutti, per motivi di “normalità». In definitiva, ha concluso Francesco, «che il Signore ci dia la grazia di mantenere e custodire la nostra identità cristiana contro lo spirito di mondanità che sempre cresce, si giustifica e contagia».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/11/2015]
«Il cielo e la terra passeranno, ma le mie Parole non passeranno»
(Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32)
Anche nell’era del progresso telematico il venir meno dei livelli economici e di numerose antiche sicurezze suscita confusione e apprensioni.
Se tutto sembra rimesso in forse, ci chiediamo: come rapportarsi con i fatti che allarmano, e in che modo coinvolgerci nella cronaca di un mondo sconvolto da rivolgimenti?
L’uomo antico protesta il pericolo di degrado, o abbassa il capo, umiliato.
L’uomo di Fede prende atto; non si abbatte. Piuttosto s’impegna a scorgere nelle pieghe della storia il genio del tempo.
Così affina il suo occhio interiore - e riconoscendo i nuovi guizzi di vita, alza lo sguardo.
Vuole il Tutto, non si accontenta del nulla monocromatico.
Al tempo di Gesù gli “apocalittici” nutrivano l’opinione che le vicende del mondo volgessero al peggio.
Una terra in cui gli agnelli sono destinati a soccombere di fronte alle belve non può che retrocedere verso una disunione crescente e il collasso sociale.
Ma da tale corruzione - e constatata l’incapacità dell’uomo - Dio avrebbe fatto sorgere cieli nuovi e terra nuova; per ciascuno una realtà propizia, rigogliosa, fiorente, governata direttamente dal Signore (unico di cui ci si può fidare).
In tale cornice si colloca l’incoraggiamento della prima Lettura: nessuna lacrima, nessun sacrificio svanirà; il nostro coinvolgimento - pur nella fatica o nella beffa - non è destinato a cadere nel vuoto.
Tutto ciò sarà anche frutto di una rinnovata consapevolezza: solo Dio umanizza la terra.
L’autore biblico trasmette questo messaggio attraverso l’icona di ‘Michele’, il cui nome in ebraico מִיכָאֵל [mì-chà-Él] sta a significare «Chi (è) come Dio?».
Domanda retorica per dire che nessuno è come Dio: nessun sostituto può rimpiazzarlo o eguagliarlo.
Quando l’Angelo avrà il sopravvento - ossia quando subentrerà detta coscienza - gli uomini comprenderanno in tutte le sue sfaccettature che solo l’Eterno rende vivibile il mondo.
Egli ci risolleva dal senso di contaminazione o qualunquismo che accompagna l’itinerario del credente.
E non solo non ci lasceremo prendere dal panico dei rovesci esterni, ma neppure da un’impressione d’indegnità legata alla percezione religiosa di peccato [cf. seconda Lettura].
Calamità, rivolgimenti, insicurezze, in Cristo saranno percepiti non come fatti allarmanti e affannosi - per il dramma d’un mondo agonizzante che ci trascinerebbe alla corruzione - ma come tempi e luoghi addirittura favorevoli alla soluzione dei veri problemi.
Un popolo trascinato da spinte caotiche sbaglia, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità grandi di crescita.
L’Apostolo non si fa prendere per il collo dalle doglie di un parto vitale.
Egli vive i disagi, trasformandoli in energia; plasmata in occasione di “terapia”, crescita, e ritorno all'essenziale.
Qui le sporgenze apparentemente avverse divengono motivo e motore di Esodo. Cammino che non può essere scalfito dall’angoscia d’imperfezione.
In tal guisa, sia l’uomo genericamente pio che la persona animata da Fede possono essere considerati madri e padri di Futuro…
Ma con una differenza sostanziale:
I putiferi della realtà sono un’occasione per scoprire nuovi punti di forza interiori.
Se l’abitudine ci ha soffocati, la Provvidenza “interviene” anche buttando tutto all’aria - perché ci vede aridi.
Per questo, l’autentico fedele è sempre un passo avanti e si diversifica dall’uomo pio unilaterale, devoto o sofisticato.
Egli mette sullo sfondo le nevrosi - e non aspetta Futuro, né lo delega… ma lo ‘legge’, lo anticipa, lo costruisce.
[33.a Domenica (anno B), 17 novembre 2024]
«Il cielo e la terra passeranno, ma le mie Parole non passeranno»
(Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32)
«L’espressione “il cielo e la terra” è frequente nella Bibbia per indicare tutto l’universo, il cosmo intero. Gesù dichiara che tutto ciò è destinato a “passare”. Non solo la terra, ma anche il cielo, che qui è inteso appunto in senso cosmico, non come sinonimo di Dio. La Sacra Scrittura non conosce ambiguità: tutto il creato è segnato dalla finitudine, compresi gli elementi divinizzati dalle antiche mitologie: non c’è nessuna confusione tra il creato e il Creatore, ma una differenza netta. Con tale chiara distinzione, Gesù afferma che le sue parole “non passeranno”, cioè stanno dalla parte di Dio e perciò sono eterne. Pur pronunciate nella concretezza della sua esistenza terrena, esse sono parole profetiche per eccellenza, come afferma in un altro luogo Gesù rivolgendosi al Padre celeste: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato” (Gv 17,8). In una celebre parabola, Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr Mc 4,14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr Mc 4,20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione che si manifesta già ora». (Papa Benedetto, Angelus 15 novembre 2009)
Anche nell’era del progresso telematico il venir meno dei livelli economici e di numerose antiche sicurezze suscita confusione e apprensioni.
Se tutto sembra rimesso in forse, ci chiediamo: come rapportarsi con i fatti che allarmano, e in che modo coinvolgerci nella cronaca di un mondo sconvolto da rivolgimenti?
L’uomo antico protesta il pericolo di degrado morale e dottrinale, o abbassa il capo, umiliato.
L’uomo di Fede prende atto; non si abbatte. Piuttosto s’impegna a scorgere nelle pieghe della storia il genio del tempo.
Così affina il suo occhio interiore - e riconoscendo i nuovi guizzi di vita, alza lo sguardo.
Vuole il Tutto, non si accontenta del nulla monocromatico.
Al tempo di Gesù gli “apocalittici” nutrivano l’opinione che le vicende del mondo volgessero al peggio.
Una terra in cui gli agnelli sono destinati a soccombere di fronte alle belve non può che retrocedere verso una disunione crescente e il collasso sociale.
Ma da tale corruzione - e constatata l’incapacità dell’uomo - Dio avrebbe fatto sorgere cieli nuovi e terra nuova; per ciascuno una realtà propizia, rigogliosa, fiorente, governata direttamente dal Signore (unico di cui ci si può fidare).
In tale cornice si colloca l’incoraggiamento della prima Lettura: nessuna lacrima, nessun sacrificio svanirà; il nostro coinvolgimento - pur nella fatica o nella beffa - non è destinato a cadere nel vuoto.
Tutto ciò sarà anche frutto di una rinnovata consapevolezza: solo Dio umanizza la terra.
L’autore biblico trasmette questo messaggio attraverso l’icona di Michele, il cui nome in ebraico מִיכָאֵל (mì-chà-Él) sta a significare “chi come Dio?”.
Domanda retorica per dire che nessuno è come Dio: nessun sostituto può rimpiazzarlo o eguagliarlo.
Quando Michele avrà il sopravvento - ossia quando subentrerà detta coscienza - gli uomini comprenderanno in tutte le sue sfaccettature che solo l’Eterno rende vivibile il mondo.
Così rifiuteranno le antiche fissazioni, nonché gli idoli più recenti e sofisticati, che degradano e disumanizzano la terra.
Tale l’autenticità del Volto di Dio.
Egli ci risolleva dal senso di contaminazione o qualunquismo che accompagna l’itinerario del credente.
E non solo non ci lasceremo prendere dal panico dei rivolgimenti esterni, ma neppure da un’impressione d’indegnità legata alla percezione religiosa di peccato (cf. seconda Lettura).
Calamità, rivolgimenti, insicurezze, in Cristo saranno percepiti non come fatti allarmanti e affannosi - per il dramma d’un mondo agonizzante che ci trascinerebbe alla corruzione - ma come tempi e luoghi addirittura favorevoli alla soluzione dei veri problemi.
Un popolo trascinato da spinte caotiche sbaglia, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità grandi di crescita, che non possono essere scalfite neppure dall’angoscia d’imperfezione.
Sia l’uomo genericamente pio che la persona animata da Fede possono essere considerati madri e padri di Futuro…
Ma con una differenza sostanziale:
I putiferi della realtà sono un’occasione per scoprire nuovi punti di forza interiori.
L’uomo bigotto invece fa il paio con l’edonista: entrambi non sono che il prodotto paradossale d’una civiltà dell’esterno.
Lo si constata da come si manifestano: ossessivamente attaccati al ruolo, al posto, a modelli visibili da inseguire (condizionati dalla ricerca di circostanze brillanti).
Malgrado le apparenze, la devozione perbenista che si priva dell’autenticità viva e attuale del Cristo non estrae le persone dalla banalità della caccia a cariche e titoli.
Nelle religioni arcaiche, infatti, o nel mondo dell’utopismo disincarnato e incompetente, guai a toccare i già blasonati!
Non li si smuove da situazioni (anche di ministero ecclesiale) cui sono abituati e che contano.
(Sarebbe reato di lesa maestà smuoverli, anche dopo decenni di ufficio e qualsiasi cosa abbiano combinato).
Oggi basterebbe un minimo periscopio per cogliere che impulsi travolgenti scendono in campo a mettere in discussione situazioni che immaginavamo concluse e perfette.
Tali pungoli servono a farci riflettere su ciò che vogliamo: palesano cosa siamo.
Le nostre identificazioni rassicuranti d’improvviso evaporano, perché fossilizzate su obbiettivi che non ci appartengono profondamente... non erano i “nostri”.
Se l’abitudine ci ha soffocati, la Provvidenza “interviene” anche buttando tutto all’aria - perché ci vede aridi.
Il rattrappito è anche incapace di ottenere i veri risultati che Dio sogna in suo stesso favore.
Trascinando la vita, la persona contratta si compiace del solito becchime dell’aia, girando e rigirando solo attorno.
Ma Qualcuno dentro e fuori di noi sa molto più di noi.
Come per donarci una cascata d’autenticità, il Signore introduce negli eventi che ci scomodano un flusso di energia fresca che tende a liberarci dalle pastoie di ambizioni e schemi antichi.
Abitudine e quietismo delle mansioni non ci hanno consentito di scoprire noi stessi, figuriamoci gli altri e il mondo.
Quindi non importa se le situazioni consolidate si sgretolano e molte relazioni vecchie - pubbliche e private - rovinano.
Per voltare pagina si deve bloccare questa rincorsa delle aspettative ancestrali e (paradossalmente) accogliere la crisi - pericolo e possibilità.
Fondamentale è intuire nella problematicità degli eventi l’occasione per un colpo di mano che surclassi i sogni epidermici; essi che ci costringevano tanto a recitare.
In fondo, sono gli sconvolgimenti che risolvono i veri problemi e rimettono “le cose a posto”.
Per questo, l’autentico fedele è sempre un passo avanti e si diversifica dall’uomo pio unilaterale, devoto o sofisticato.
Egli non aspetta Futuro, né lo delega… ma lo costruisce.
Il nulla e il tutto
«Nel brano del Vangelo di questa domenica (cfr Mc 13,24-32), il Signore vuole istruire i suoi discepoli sugli eventi futuri. Non è in primo luogo un discorso sulla fine del mondo, piuttosto è l’invito a vivere bene il presente, ad essere vigilanti e sempre pronti per quando saremo chiamati a rendere conto della nostra vita. Dice Gesù: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo» (vv. 24-25). Queste parole ci fanno pensare alla prima pagina del Libro della Genesi, il racconto della creazione: il sole, la luna, gli astri, che dall’inizio del tempo brillano nel loro ordine e portano luce, segno di vita, qui sono descritti nel loro decadimento, mentre piombano nel buio e nel caos, segno della fine. Invece la luce che in quel giorno ultimo risplenderà sarà unica e nuova: sarà quella del Signore Gesù che verrà nella gloria con tutti i santi. In quell’incontro vedremo finalmente il suo Volto nella piena luce della Trinità; un Volto raggiante d’amore, di fronte al quale apparirà in totale verità anche ogni essere umano.
La storia dell’umanità, come la storia personale di ciascuno di noi, non può essere compresa come un semplice susseguirsi di parole e di fatti che non hanno un senso. Non può essere neppure interpretata alla luce di una visione fatalistica, come se tutto fosse già prestabilito secondo un destino che sottrae ogni spazio di libertà, impedendo di compiere scelte che siano frutto di una vera decisione. Nel Vangelo di oggi, piuttosto, Gesù dice che la storia dei popoli e quella dei singoli hanno un fine e una meta da raggiungere: l’incontro definitivo con il Signore. Non conosciamo il tempo né le modalità con cui avverrà; il Signore ha ribadito che «nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio» (v. 32); tutto è custodito nel segreto del mistero del Padre. Conosciamo, tuttavia, un principio fondamentale con il quale dobbiamo confrontarci: «Il cielo e la terra passeranno – dice Gesù –, ma le mie parole non passeranno» (v. 31). Il vero punto cruciale è questo. In quel giorno, ognuno di noi dovrà comprendere se la Parola del Figlio di Dio ha illuminato la propria esistenza personale, oppure se gli ha voltato le spalle preferendo confidare nelle proprie parole. Sarà più che mai il momento in cui abbandonarci definitivamente all’amore del Padre e affidarci alla sua misericordia.
Nessuno può sfuggire a questo momento, nessuno di noi! La furbizia, che spesso mettiamo nei nostri comportamenti per accreditare l’immagine che vogliamo offrire, non servirà più; alla stessa stregua, la potenza del denaro e dei mezzi economici con i quali pretendiamo con presunzione di comperare tutto e tutti, non potrà più essere usata. Avremo con noi nient’altro che quanto abbiamo realizzato in questa vita credendo alla sua Parola: il tutto e il nulla di quanto abbiamo vissuto o tralasciato di compiere. Con noi soltanto porteremo quello che abbiamo donato.
Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria, affinché la constatazione della nostra provvisorietà sulla terra e del nostro limite non ci faccia sprofondare nell’angoscia, ma ci richiami alla responsabilità verso noi stessi, verso il prossimo, verso il mondo intero». (Papa Francesco, Angelus 18 novembre 2018)
Cari fratelli e sorelle!
Siamo giunti alle ultime due settimane dell’anno liturgico. Ringraziamo il Signore che ci ha concesso di compiere, ancora una volta, questo cammino di fede – antico e sempre nuovo – nella grande famiglia spirituale della Chiesa! E’ un dono inestimabile, che ci permette di vivere nella storia il mistero di Cristo, accogliendo nei solchi della nostra esistenza personale e comunitaria il seme della Parola di Dio, seme di eternità che trasforma dal di dentro questo mondo e lo apre al Regno dei Cieli. Nell’itinerario delle Letture bibliche domenicali ci ha accompagnato il Vangelo di san Marco, che oggi presenta una parte del discorso di Gesù sulla fine dei tempi. In questo discorso, c’è una frase che colpisce per la sua chiarezza sintetica: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mc 13,31). Fermiamoci un momento a riflettere su questa profezia di Cristo.
L’espressione “il cielo e la terra” è frequente nella Bibbia per indicare tutto l’universo, il cosmo intero. Gesù dichiara che tutto ciò è destinato a “passare”. Non solo la terra, ma anche il cielo, che qui è inteso appunto in senso cosmico, non come sinonimo di Dio. La Sacra Scrittura non conosce ambiguità: tutto il creato è segnato dalla finitudine, compresi gli elementi divinizzati dalle antiche mitologie: non c’è nessuna confusione tra il creato e il Creatore, ma una differenza netta. Con tale chiara distinzione, Gesù afferma che le sue parole “non passeranno”, cioè stanno dalla parte di Dio e perciò sono eterne. Pur pronunciate nella concretezza della sua esistenza terrena, esse sono parole profetiche per eccellenza, come afferma in un altro luogo Gesù rivolgendosi al Padre celeste: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato” (Gv 17,8). In una celebre parabola, Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr Mc 4,14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr Mc 4,20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione che si manifesta già ora in una vita buona, animata dalla carità, e alla fine produrrà la risurrezione della carne. Ecco la potenza della Parola di Cristo.
Cari amici, la Vergine Maria è il segno vivente di questa verità. Il suo cuore è stato “terra buona” che ha accolto con piena disponibilità la Parola di Dio, così che tutta la sua esistenza, trasformata secondo l’immagine del Figlio, è stata introdotta nell’eternità, anima e corpo, anticipando la vocazione eterna di ogni essere umano. Ora, nella preghiera, facciamo nostra la sua risposta all’Angelo: “Avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), perché, seguendo Cristo sulla via della croce, possiamo giungere pure noi alla gloria della risurrezione.
[Papa Benedetto, Angelus 15 novembre 2009]
1. Dopo aver meditato sul traguardo escatologico della nostra esistenza, cioè sulla vita eterna, vogliamo ora riflettere sul cammino che ad esso conduce. Sviluppiamo per questo la prospettiva presentata nella Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente: “Tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, ed in particolare per il ‘figlio perduto’ (cfr Lc 15, 11-32). Tale pellegrinaggio coinvolge l’intimo della persona allargandosi poi alla comunità credente per raggiungere l’intera umanità” (n. 49).
In realtà, ciò che il cristiano vivrà un giorno in pienezza è già in qualche modo anticipato oggi. La Pasqua del Signore è infatti inaugurazione della vita del mondo che verrà.
2. L'Antico Testamento prepara l'annuncio di questa verità attraverso la complessa tematica dell'Esodo. Il cammino del popolo eletto verso la terra promessa (cfr Es 6, 6) è come una magnifica icona del cammino del cristiano verso la casa del Padre. Ovviamente la differenza è fondamentale: mentre nell’antico Esodo la liberazione era orientata al possesso della terra, dono provvisorio come tutte le realtà umane, il nuovo “Esodo” consiste nell'itinerario verso la casa del Padre, in prospettiva di definitività ed eternità, che trascende la storia umana e cosmica. La terra promessa dell’Antico Testamento fu perduta di fatto con la caduta dei due regni e con l’esilio babilonese, in seguito al quale si sviluppò l'idea di un ritorno come nuovo Esodo. Tuttavia questo cammino non si risolse unicamente in un altro insediamento di tipo geografico o politico, ma si aprì ad una visione “escatologica” che ormai preludeva alla piena rivelazione in Cristo. In questa direzione si muovono appunto le immagini universalistiche, che nel Libro di Isaia descrivono il cammino dei popoli e della storia verso una nuova Gerusalemme, centro del mondo (cfr Is 56-66).
3. Il Nuovo Testamento annuncia il compimento di questa grande attesa, additando in Cristo il Salvatore del mondo: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5). Alla luce di questo annuncio la vita presente è già sotto il segno della salvezza. Questa si realizza nell’evento di Gesù di Nazaret che culmina nella Pasqua, ma avrà la sua piena realizzazione nella “parusia”, nell’ultima venuta di Cristo.
Secondo l’apostolo Paolo questo itinerario di salvezza che collega il passato al presente proiettandolo nell'avvenire è frutto di un disegno di Dio, tutto incentrato nel mistero di Cristo. Si tratta del “mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle sulla terra” (Ef 1, 9-10; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1042s).
In questo disegno divino, il presente è il tempo del “già e non ancora”, tempo della salvezza già realizzata e del cammino verso la sua perfetta attuazione: “Finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13).
4. La crescita verso una tale perfezione in Cristo, e perciò verso l’esperienza del mistero trinitario, implica che la Pasqua si realizzerà e celebrerà pienamente solo nel regno escatologico di Dio (cfr Lc 22, 16). Ma l’evento dell’incarnazione, della croce e della risurrezione costituisce già la rivelazione definitiva di Dio. L’offerta di redenzione che tale evento implica si inscrive nella storia della nostra libertà umana chiamata a rispondere all'appello di salvezza.
La vita cristiana è partecipazione al mistero pasquale, come cammino di croce e risurrezione. Cammino di croce, perché la nostra esistenza è continuamente sotto il vaglio purificatore che porta al superamento del vecchio mondo segnato dal peccato. Cammino di risurrezione, perché risuscitando Cristo, il Padre ha sconfitto il peccato, per cui nel credente il “giudizio della croce” diventa “giustizia di Dio”, vale a dire trionfo della sua Verità e del suo Amore sulla perversità del mondo.
5. La vita cristiana è in definitiva una crescita verso il mistero della Pasqua eterna. Essa esige pertanto di tenere fisso lo sguardo alla meta, alle realtà ultime, ma al tempo stesso di impegnarsi nelle realtà ‘penultime’: tra queste e il traguardo escatologico non vi è opposizione, ma al contrario un rapporto di mutua fecondazione. Se va affermato sempre il primato dell’Eterno, ciò non impedisce che viviamo rettamente alla luce di Dio, le realtà storiche (cfr CCC, 1048s).
Si tratta di purificare ogni espressione dell’umano e ogni attività terrena, perché in esse traspaia sempre più il Mistero della Pasqua del Signore. Come infatti ci ha ricordato il Concilio, l’attività umana, che porta sempre con sé il segno del peccato, è purificata ed elevata a perfezione dal mistero pasquale, cosicché “i beni quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale” (Gaudium et spes, 39).
Questa luce d’eternità illumina la vita e l’intera storia dell’uomo sulla terra.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 agosto 1999]
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
"In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet". This refers to the solidity of the Word. It is solid, it is the true reality on which one must base one's life (Pope Benedict)
«In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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