Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
[Quello di Lazzaro è] l’ultimo grande "segno" compiuto da Gesù, dopo il quale i sommi sacerdoti riunirono il Sinedrio e deliberarono di ucciderlo; e decisero di uccidere anche lo stesso Lazzaro, che era la prova vivente della divinità di Cristo, Signore della vita e della morte. In realtà, questa pagina evangelica mostra Gesù quale vero Uomo e vero Dio. Anzitutto l’evangelista insiste sulla sua amicizia con Lazzaro e le sorelle Marta e Maria. Egli sottolinea che a loro "Gesù voleva molto bene" (Gv 11,5), e per questo volle compiere il grande prodigio. "Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo" (Gv 11,11) – così parlò ai discepoli, esprimendo con la metafora del sonno il punto di vista di Dio sulla morte fisica: Dio la vede appunto come un sonno, da cui ci può risvegliare. Gesù ha dimostrato un potere assoluto nei confronti di questa morte: lo si vede quando ridona la vita al giovane figlio della vedova di Nain (cfr Lc 7,11-17) e alla fanciulla di dodici anni (cfr Mc 5,35-43). Proprio di lei disse: "Non è morta, ma dorme" (Mc 5,39), attirandosi la derisione dei presenti. Ma in verità è proprio così: la morte del corpo è un sonno da cui Dio ci può ridestare in qualsiasi momento.
Questa signoria sulla morte non impedì a Gesù di provare sincera com-passione per il dolore del distacco. Vedendo piangere Marta e Maria e quanti erano venuti a consolarle, anche Gesù "si commosse profondamente, si turbò" e infine "scoppiò in pianto" (Gv 11,33.35). Il cuore di Cristo è divino-umano: in Lui Dio e Uomo si sono perfettamente incontrati, senza separazione e senza confusione. Egli è l’immagine, anzi, l’incarnazione del Dio che è amore, misericordia, tenerezza paterna e materna, del Dio che è Vita. Perciò dichiarò solennemente a Marta: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno". E aggiunse: "Credi tu questo?" (Gv 11,25-26). Una domanda che Gesù rivolge ad ognuno di noi; una domanda che certamente ci supera, supera la nostra capacità di comprendere, e ci chiede di affidarci a Lui, come Lui si è affidato al Padre. Esemplare è la risposta di Marta: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo" (Gv 11,27). Sì, o Signore! Anche noi crediamo, malgrado i nostri dubbi e le nostre oscurità; crediamo in Te, perché Tu hai parole di vita eterna; vogliamo credere in Te, che ci doni una speranza affidabile di vita oltre la vita, di vita autentica e piena nel tuo Regno di luce e di pace.
Affidiamo questa preghiera a Maria Santissima. Possa la sua intercessione rafforzare la nostra fede e la nostra speranza in Gesù, specialmente nei momenti di maggiore prova e difficoltà.
[Papa Benedetto, Angelus 9 marzo 2008]
1. “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” (Gv 11, 21.32).
Queste parole, che avete sentito leggere nel Vangelo della messa odierna, sono pronunciate prima da Marta, poi da Maria, le due sorelle di Lazzaro, e sono rivolte a Gesù di Nazaret, che era amico loro e del fratello.
L’odierna liturgia presenta alla nostra attenzione il tema della morte. Questa è ormai la quinta domenica di Quaresima e si avvicina il tempo della passione di Cristo. Il tempo della morte e della risurrezione. Oggi guardiamo a questo fatto attraverso la morte e la risurrezione di Lazzaro. Nella missione messianica di Cristo questo evento sconvolgente serve di preparazione alla Settimana santa e alla Pasqua.
2. “. . . mio fratello non sarebbe morto”.
Risuona in queste parole la voce del cuore umano, la voce di un cuore che ama e che dà testimonianza di ciò che è la morte. Continuamente sentiamo parlare di morte e leggiamo notizie circa la morte di diverse persone. Esiste una sistematica informazione su questo tema. Esiste anche la statistica della morte. Sappiamo che la morte è un fenomeno comune e incessante. Se ogni giorno muoiono sul globo terrestre circa 145.000 persone, si può dire che ad ogni istante muoiono delle persone. La morte è un fenomeno universale e un fatto ordinario. L’universalità e la normalità del fatto confermano la realtà della morte, l’inevitabilità della morte, ma, al tempo stesso, cancellano in un certo senso la verità sulla morte, la sua penetrante eloquenza.
Non basta qui il linguaggio delle statistiche. È necessaria la voce del cuore umano: la voce di una sorella, come nell’odierno Vangelo, la voce di una persona che ama. La realtà della morte può essere espressa in tutta la sua verità solo col linguaggio dell’amore.
L’amore infatti resiste alla morte, e desidera la vita . . .
Ognuna delle due sorelle di Lazzaro non dice “mio fratello è morto”, ma dice: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”.
La verità sulla morte può essere espressa solamente a partire da una prospettiva di vita, da un desiderio di vita: cioè dalla permanenza nella comunione amorosa di una persona.
La verità sulla morte viene espressa nell’odierna liturgia in rapporto con la voce del cuore umano.
3. Contemporaneamente essa viene espressa in rapporto con la missione di Cristo, il redentore del mondo.
Gesù di Nazaret era amico di Lazzaro e delle sue sorelle. La morte dell’amico si è fatta sentire anche nel suo cuore con un’eco particolare. Quando giunse a Betania, quando udì il pianto delle sorelle e di altre persone affezionate al defunto, Gesù “si commosse profondamente, si turbò”, e in questa disposizione interiore chiese: “Dove l’avete posto?” (Gv 11, 33).
Gesù di Nazaret è al tempo stesso il Cristo, colui che il Padre ha mandato al mondo: è l’eterno testimone dell’amore del Padre. È il definitivo Portavoce di questo amore di fronte agli uomini. È in un certo senso l’Ostaggio di esso riguardo a ciascuno e a tutti. In lui e per lui l’eterno amore del Padre si conferma e compie nella storia dell’uomo, si conferma e compie in modo sovrabbondante.
E l’amore si oppone alla morte e vuole la vita.
La morte dell’uomo, fin da Adamo, si oppone all’amore: si oppone all’amore del Padre, il Dio della vita.
La radice della morte è il peccato, il quale pure si oppone all’amore del Padre. Nella storia dell’uomo la morte è unita al peccato e come il peccato si oppone all’amore.
4. Gesù Cristo è venuto nel mondo per redimere il peccato dell’uomo; ogni peccato che è radicato nell’uomo. Per questo egli si è posto di fronte alla realtà della morte; la morte infatti è unita al peccato nella storia dell’uomo: è frutto del peccato. Gesù Cristo divenne il redentore dell’uomo mediante la sua morte in croce, la quale è stata il sacrificio che ha riparato ogni peccato.
In questa sua morte Gesù Cristo ha confermato la testimonianza dell’amore del Padre. L’amore che resiste alla morte, e desidera la vita, si è espresso nella risurrezione di Cristo, di colui che, per redimere i peccati del mondo, liberamente accettò la morte sulla croce.
Questo evento si chiama Pasqua: il mistero pasquale. Ogni anno ci prepariamo ad essa mediante la Quaresima, e l’odierna domenica ci mostra ormai da vicino questo mistero, nel quale si sono rivelati l’amore e la potenza di Dio, poiché la vita ha riportato la vittoria sulla morte.
5. Ciò che è avvenuto a Betania presso il sepolcro di Lazzaro, fu quasi l’ultimo annuncio del mistero pasquale.
Gesù di Nazaret si fermò accanto al sepolcro del suo amico Lazzaro, e disse: “Lazzaro, vieni fuori!” (Gv 11, 43). Con queste parole, piene di potenza, Gesù lo risuscitò alla vita e lo fece uscire dalla tomba.
Prima di compiere questo miracolo, Cristo “alzò gli occhi e disse: "Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato"” (Gv 11, 41-42).
Presso il sepolcro di Lazzaro avvenne un particolare confronto della morte con la missione redentrice di Cristo. Cristo era il testimone dell’eterno amore del Padre, di quell’amore che resiste alla morte e desidera la vita. Risuscitando Lazzaro, rese testimonianza a quest’amore. Rese anche testimonianza all’esclusiva potenza di Dio sulla vita e sulla morte.
Al tempo stesso, presso la tomba di Lazzaro, Cristo fu il profeta del suo proprio mistero: del mistero pasquale, nel quale la morte redentrice sulla croce divenne la sorgente della nuova vita nella risurrezione.
8. Il pellegrinaggio, che oggi avete intrapreso a motivo del Giubileo, vi introduce, cari militari qui convenuti da Paesi differenti, nel mistero della redenzione, mediante la liturgia dell’odierna domenica di Quaresima, la quale ci invita a fermarci, direi, sulla frontiera della vita e della morte, per adorare la presenza e l’amore di Dio.
Ecco le parole del profeta Ezechiele: “Dice il Signore Dio: "Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio"” (Ez 37, 12.13).
Queste parole si sono compiute presso il sepolcro di Lazzaro in Betania. Si sono compiute definitivamente presso il sepolcro di Cristo sul Calvario. Di questo ci rende consapevoli l’odierna liturgia.
Nella risurrezione di Lazzaro si è manifestata la potenza di Dio sullo spirito e sul corpo dell’uomo.
Nella risurrezione di Cristo è stato concesso lo Spirito Santo come sorgente della nuova vita: la vita divina. Questa vita è l’eterno destino dell’uomo. È la sua vocazione ricevuta da Dio. In questa vita si realizza l’eterno amore del Padre.
L’amore infatti desidera la vita e si oppone alla morte.
Cari fratelli! Viviamo di questa vita! Che in noi non domini il peccato! Viviamo di questa vita, il prezzo della quale è la redenzione mediante la morte sulla croce di Cristo!
“E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 11).
Che lo Spirito Santo abiti in voi sempre per mezzo della grazia della redenzione di Cristo. Amen.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia per il Giubileo dei Militari 8 aprile 1984]
Il Vangelo […] è quello della risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). Lazzaro era fratello di Marta e Maria; erano molto amici di Gesù. Quando Lui arriva a Betania, Lazzaro è morto già da quattro giorni; Marta corre incontro al Maestro e gli dice: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21). Gesù le risponde: «Tuo fratello risorgerà» (v. 23); e aggiunge: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà» (v. 25). Gesù si fa vedere come il Signore della vita, Colui che è capace di dare la vita anche ai morti. Poi arrivano Maria e altre persone, tutti in lacrime, e allora Gesù – dice il Vangelo - «si commosse profondamente e […] scoppiò in pianto» (vv. 33.35). Con questo turbamento nel cuore, va alla tomba, ringrazia il Padre che sempre lo ascolta, fa aprire il sepolcro e grida forte: «Lazzaro, vieni fuori!» (v. 43). E Lazzaro esce con «i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario» (v. 44).
Qui tocchiamo con mano che Dio è vita e dona vita, ma si fa carico del dramma della morte. Gesù avrebbe potuto evitare la morte dell’amico Lazzaro, ma ha voluto fare suo il nostro dolore per la morte delle persone care, e soprattutto ha voluto mostrare il dominio di Dio sulla morte. In questo passo del Vangelo vediamo che la fede dell’uomo e l’onnipotenza di Dio, dell’amore di Dio si cercano e infine si incontrano. È come una doppia strada: la fede dell’uomo e l’onnipotenza dell’amore di Dio che si cercano e alla fine si incontrano. Lo vediamo nel grido di Marta e Maria e di tutti noi con loro: “Se tu fossi stato qui!...”. E la risposta di Dio non è un discorso, no, la risposta di Dio al problema della morte è Gesù: “Io sono la risurrezione e la vita… Abbiate fede! In mezzo al pianto continuate ad avere fede, anche se la morte sembra aver vinto. Togliete la pietra dal vostro cuore! Lasciate che la Parola di Dio riporti la vita dove c’è morte”.
Anche oggi Gesù ci ripete: “Togliete la pietra”. Dio non ci ha creati per la tomba, ci ha creati per la vita, bella, buona, gioiosa. Ma «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 2,24), dice il Libro della Sapienza, e Gesù Cristo è venuto a liberarci dai suoi lacci.
Dunque, siamo chiamati a togliere le pietre di tutto ciò che sa di morte: ad esempio, l’ipocrisia con cui si vive la fede, è morte; la critica distruttiva verso gli altri, è morte; l’offesa, la calunnia, è morte; l’emarginazione del povero, è morte. Il Signore ci chiede di togliere queste pietre dal cuore, e la vita allora fiorirà ancora intorno a noi. Cristo vive, e chi lo accoglie e aderisce a Lui entra in contatto con la vita. Senza Cristo, o al di fuori di Cristo, non solo non è presente la vita, ma si ricade nella morte.
La risurrezione di Lazzaro è segno anche della rigenerazione che si attua nel credente mediante il Battesimo, con il pieno inserimento nel Mistero Pasquale di Cristo. Per l’azione e la forza dello Spirito Santo, il cristiano è una persona che cammina nella vita come una nuova creatura: una creatura per la vita e che va verso la vita.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere compassionevoli come il suo Figlio Gesù, che ha fatto suo il nostro dolore. Ognuno di noi sia vicino a quanti sono nella prova, diventando per essi un riflesso dell’amore e della tenerezza di Dio, che libera dalla morte e fa vincere la vita.
[Papa Francesco, Angelus 29 marzo 2020]
(Mt 13,31-35)
Gesù aiuta le persone a scoprire le cose di Dio e dell’uomo nella vita di ogni giorno.
Il Maestro insegna che lo straordinario del mondo eterno si cela nelle cose comuni: la vita stessa è trasparenza del Mistero.
Egli rivela il Regno che si fa Presente, descrivendo appunto le caratteristiche essenziali della comunità dei discepoli - e utilizzando qui i semplici raffronti del «granello di senapa» e del «lievito».
A dire: la Chiesa autentica è a portata di mano di tutti, ovunque - nondimeno esigua; inapparente, eppur intimamente dinamica.
In essa viviamo un contrasto fra inizi e termine: facciamo esperienza di Regno ‘dentro’ ciascuno che accoglie il carattere d’una Parola-evento dimessa, ma che attiva capacità trasformative e ospitali.
Il primo termine di paragone legato alla vita della gente [il semino] cita la vicenda di un grano ben piccolo: vicenda concreta comune, che non si nota granché.
Intorno al lago di Galilea gli arbusti di senape possono giungere al massimo a un’altezza di 3 metri, non più.
Non si tratta dello sviluppo di maestosi cedri del Libano - piuttosto d’un alberetto qualsiasi dell’orto di casa (v.32) però in grado di dare un poco di ristoro ai volatili che vi si rifugiano.
Sta a indicare una Presenza di scarso clamore: del tutto normale, frammista tra melanzane, zucchine e cetrioli…
Nulla di grande, eppur ospitale per coloro che soffrono la potente calura di quei luoghi.
Insomma, le fraternità che il Signore sogna non avranno nulla di magnifico ed esteriore, però sapranno donare riparo e riposo.
La forza del «granellino di senape» è intima, tuttavia caparbia: crescerà - anche se non di molto.
Ossia, la Chiesa autentica non dovrà somigliare a un transatlantico maestoso.
Magari sarà più simile a una barchetta: niente di che - eppure potrà suscitare speranze di vita.
Lo farà attraverso la testimonianza discreta di evangelizzatori amabili, che ancora annunciano e operano, irradiando luce, affascinando persone.
Chiunque si accostasse alle soglie delle chiese - il riferimento è ai lontani e pagani - dovrà sentirsi a suo agio, a casa propria.
Anche i ‘vaganti’ avranno pieno diritto di prendervi posizione e costruire il loro nido [proprio in tale Dimora comune] perfino se poi decidessero di riprendere il volo non appena se ne saranno serviti.
Il paragone successivo - del «lievito» (v.33) - insiste sulla cura degli obbiettivi di vita di altri fratelli, rispetto alla Comunità dei credenti.
In tal guisa, essa è chiamata a essere segno delle premure del Padre verso tutti i suoi figli.
Il lievito non è utile a se stesso, bensì alla massa.
Allo stesso modo, la Chiesa non dovrà servire se stessa; non sarà in ordine alla propria celebrazione e sviluppo [materiale, o in proselitismi; così via].
Ogni Fraternità in Cristo è funzione della sola vita della gente, dove e come si trova - così com’è.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale seme avevi trascurato per la sua piccolezza, e poi si è rivelato essenziale per la tua crescita e le esigenze anche altrui?
[Lunedì 17.a sett. T.O. 28 luglio 2025]
(Mt 13,31-35)
Gesù aiuta le persone a scoprire le cose di Dio e dell’uomo nella vita di ogni giorno.
Il Maestro insegna che lo straordinario del mondo eterno si cela nelle cose comuni: la vita stessa è trasparenza del Mistero.
Egli rivela il Regno che si fa Presente, descrivendo appunto le caratteristiche essenziali della comunità dei discepoli - e utilizzando qui i semplici raffronti del «granello di senapa» e del «lievito».
A dire: la Chiesa autentica è a portata di mano di tutti, ovunque - nondimeno esigua; inapparente, eppur intimamente dinamica.
In essa viviamo un contrasto fra inizi e termine: facciamo esperienza di Regno ‘dentro’ ciascuno che accoglie il carattere d’una Parola-evento dimessa, ma che attiva capacità trasformative e ospitali.
Il primo termine di paragone legato alla vita della gente [il semino] cita la vicenda di un grano ben piccolo: vicenda concreta comune, che non si nota granché.
Intorno al lago di Galilea gli arbusti di senape possono giungere al massimo ad un’altezza di 3 metri, non più.
Non si tratta dello sviluppo di maestosi cedri del Libano - piuttosto d’un alberetto qualsiasi dell’orto di casa (v.32) però in grado di dare un poco di ristoro ai volatili che vi si rifugiano.
Sta a indicare una Presenza di scarso clamore: del tutto normale, frammista tra melanzane, zucchine e cetrioli…
Nulla di grande, eppur ospitale per coloro che soffrono la potente calura di quei luoghi.
Insomma, le fraternità che il Signore sogna non avranno nulla di magnifico ed esteriore, però sapranno donare riparo e riposo.
La forza del «granellino di senape» è intima, tuttavia caparbia: crescerà - anche se non di molto.
Ossia, la Chiesa autentica non dovrà somigliare a un transatlantico maestoso.
Magari sarà più simile a una barchetta: niente di che - eppure potrà suscitare speranze di vita.
Lo farà attraverso la testimonianza discreta di evangelizzatori amabili, che ancora annunciano e operano, irradiando luce, affascinando persone.
Chiunque si accostasse alle soglie delle chiese - il riferimento è ai lontani e pagani - dovrà sentirsi a suo agio, a casa propria.
Anche i ‘vaganti’ avranno pieno diritto di prendervi posizione e costruire il loro nido [proprio in tale Dimora comune] perfino se poi decidessero di riprendere il volo non appena se ne saranno serviti.
Il paragone successivo - del «lievito» (v.33) - insiste sulla cura degli obbiettivi di vita di altri fratelli, rispetto alla Comunità dei credenti.
In tal guisa, essa è chiamata ad essere segno delle premure del Padre verso tutti i suoi figli.
Il lievito non è utile a se stesso, bensì alla massa.
Allo stesso modo, la Chiesa non dovrà servire se stessa; non sarà in ordine alla propria celebrazione o sviluppo (materiale, in proselitismi, così via).
Ogni Fraternità in Cristo è funzione della sola vita della gente, dove e come si trova - così com’è.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale seme avevi trascurato per la sua piccolezza, e poi si è rivelato essenziale per la tua crescita e le esigenze anche altrui?
[Parabole: Narrazione per la trasmutazione]
Il mistero della comune cecità. Smarriti? Pronti per la trasformazione
(Mt 13,34-35)
San Paolo esprime il senso del “mistero della cecità” che gli fa contrasto nel cammino con la celebre espressone «spina nel fianco»: dovunque andasse, erano già pronti i nemici; e disaccordi inattesi.
Così anche per noi: eventi funesti, catastrofi, emergenze, disgregazione delle antiche certezze rassicuranti - tutte esterne e paludose; sino a poco prima valutate con senso di permanenza.
Forse nell’arco della nostra esistenza, già ci siamo resi conto che le incomprensioni sono state i modi migliori per riattivarci, e introdurre le energie della Vita rinnovata.
Si tratta di quelle risorse o situazioni che forse mai avremmo immaginato alleate della nostra e altrui realizzazione.
Dice Erich Fromm:
«Vivere significa nascere in ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere. La nascita non è quindi un atto; è un processo ininterrotto. Lo scopo della vita è di nascere pienamente, ma la tragedia è che la maggior parte di noi muore prima di essere veramente nato».
Infatti, nel clima dei disordini o delle divergenze assurde [che ci obbligano a rigenerare] si affacciano talora le più trascurate virtù intime.
Energie nuove - che cercano spazio - e potenze esterne. Entrambi plasmabili; inconsuete, inimmaginabili, eterodosse.
Ma che trovano le soluzioni, la vera via d’uscita ai nostri problemi; la strada per un futuro che non sia un semplice riassetto della situazione precedente, o di come abbiamo immaginato “si sarebbe dovuti essere e fare”.
Concluso un ciclo, iniziamo una nuova fase; forse con maggiore rettitudine e franchezza - più luminosa e naturale, umanizzante, vicina al ‘divino’.
Il contatto autentico e coinvolgente con i nostri stati dell’essere profondi viene generato in modo acuto proprio dai distacchi.
Essi ci portano al dialogo dinamico con le riserve eterne di forze trasmutatrici che ci abitano, e più ci appartengono.
Esperienza primordiale che arriva dritta al cuore.
Dentro di noi tale via “pesca” l’opzione creativa, fluttuante, inedita.
In tal guisa il Signore trasmette e apre la sua proposta servendosi di ‘immagini’.
Freccia di Mistero che va oltre i frammenti della coscienza, della cultura, delle procedure, di ciò che è comune.
Per una conoscenza di se stessi e del mondo che travalica quella della storia e della cronaca; per la consapevolezza attiva di altri contenuti.
Sino a che il travaglio e il caos stesso guidano l’anima e la obbligano a un Altro inizio, a un differente sguardo (tutto spostato), a un’inedita comprensione di noi stessi e del mondo.
Ebbene, la trasformazione dell’universo non può esser frutto di un insegnamento cerebrale o dirigista; piuttosto, di una esplorazione narrativa - che non allontana la gente da se stessa.
E Gesù lo sa.
Parlare di Dio vuol dire anzitutto avere ben chiaro ciò che dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo: non un Dio astratto, una ipotesi, ma un Dio concreto, un Dio che esiste, che è entrato nella storia ed è presente nella storia; il Dio di Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del come vivere. Per questo, parlare di Dio richiede una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, suppone una nostra personale e reale conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza, senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio stesso. Il metodo di Dio è quello dell’umiltà – Dio si fa uno di noi – è il metodo realizzato nell’Incarnazione nella semplice casa di Nazaret e nella grotta di Betlemme, quello della parabola del granellino di senape. Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33). Nel parlare di Dio, nell’opera di evangelizzazione, sotto la guida dello Spirito Santo, è necessario un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia di un Dio che è reale e concreto, un Dio che si interessa di noi, un Dio-Amore che si fa vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce e che nella Risurrezione ci dona la speranza e ci apre ad una vita che non ha fine, la vita eterna, la vita vera. Quell’eccezionale comunicatore che fu l’apostolo Paolo ci offre una lezione che va proprio al centro della fede del problema “come parlare di Dio” con grande semplicità.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 28 novembre 2012]
Se in Cristo il Regno di Dio “è vicino” e anzi presente, in modo definitivo nella storia dell’uomo e del mondo, nello stesso tempo il suo compimento continua ad appartenere al futuro. E perciò Gesù ci comanda di pregare il Padre “Venga il tuo Regno” (Mt 6, 10).
4. Bisogna avere presente questa questione mentre stiamo occupandoci del Vangelo di Cristo come “buon annuncio” del Regno di Dio. Questo era il tema “guida” dell’annuncio di Gesù che parla del Regno di Dio soprattutto nelle sue numerose parabole. Particolarmente significativa è quella che ci presenta il Regno di Dio simile al seme, che il seminatore semina nella terra da lui coltivata (cf. Mt 13, 3-9). Il seme è destinato “a produrre frutto”, per una sua virtù interna, senza dubbio, ma il frutto dipende anche dalla terra nella quale è caduto (cf. Mt 13, 19-23).
5. Un’altra volta Gesù paragonava il Regno di Dio (il “Regno dei cieli” secondo Matteo) ad un granello di senape che “è il più piccolo di tutti i semi”, ma una volta cresciuto diventa un albero fronzuto, sui cui rami trovano rifugio gli uccelli dell’aria (cf. Mt 13, 31-32). E ancora paragona la crescita del Regno di Dio al “lievito” che fermenta la farina perché si trasformi in pane che serva come cibo per gli uomini (cf. Mt 13, 33). Tuttavia al problema della crescita del Regno di Dio nel terreno che è questo mondo, Gesù dedica anche un’altra parabola, quella del buon grano e della zizzania sparsa dal “nemico” sul campo seminato con buon grano (cf. Mt 13, 24-30) così sul campo del mondo il bene e il male, simboleggiati dal grano e dalla zizzania, crescono insieme “fino alla mietitura”, cioè fino al giorno del giudizio divino: altra significativa allusione alla prospettiva escatologica della storia umana. In ogni caso ci fa sapere che la crescita del seme, quale è la “parola di Dio”, è condizionata dal come essa verrà accolta nel campo dei cuori umani: da questo dipende se produce frutto e rende “ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta” (cf. Mt 13, 23) secondo le disposizioni e la corrispondenza di coloro che la ricevono.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 27 aprile 1988]
I cristiani «credono davvero» nella «forza dello Spirito Santo» che è in loro? E hanno il coraggio di «gettare il seme», di mettersi in gioco, o si rifugiano in una «pastorale di conservazione» che non lascia che «il Regno di Dio cresca»? Sono le domande poste da Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta martedì 31 ottobre, nella quale ha tracciato un orizzonte di «speranza», per ogni singolo uomo e per la Chiesa come comunità: quello della piena realizzazione del Regno di Dio, che ha due pilastri: la «forza» dirompente dello Spirito e il «coraggio» di lasciar scatenare questa forza.
Lo spunto è giunto al Pontefice dalla lettura del brano evangelico (Luca, 13, 18-21) in cui «sembra che Gesù faccia un po’ di fatica: “Ma come posso spiegare il Regno di Dio? A che cosa lo posso paragonare?”» e utilizza «due esempi semplici della vita quotidiana»: quelli del granello di senape e del lievito. Sono, ha spiegato Francesco, entrambi piccoli, sembrano innocui, «ma quando entrano in quel movimento, hanno dentro una potenza che esce da se stessi e cresce, va oltre, anche oltre quello che si possa immaginare». Proprio «questo è il mistero del Regno».
La realtà, infatti, è che «il grano ha la potenza dentro, il lievito ha la potenza dentro», e anche «la potenza del Regno di Dio viene da dentro; la forza viene da dentro, il crescere viene da dentro». Non è, ha aggiunto il Papa con un paragone che rimanda all’attualità, «un crescere come per esempio si verifica nel caso di una squadra di calcio quando aumenta il numero dei tifosi e fa più grande la squadra», ma «viene da dentro». Un concetto che, ha aggiunto, viene ripreso da Paolo nella Lettera ai Romani (8, 18-25) in un passo «che è pieno di tensioni», perché «questa crescita del Regno di Dio dal di dentro, dall’interno, è una crescita in tensione».
Ecco allora che l’apostolo spiega: «Quante tensioni ci sono nella nostra vita e dove ci conducono», e dice che «le sofferenze di questa vita non sono paragonabili alla gloria che ci aspetta». Ma anche lo stesso «aspettare», ha detto il Pontefice rileggendo l’epistola, non è un attendere «tranquillo»: Paolo parla «di ardente aspettativa. C’è un’ardente aspettativa in queste tensioni». Inoltre quest’ultima non è solo dell’uomo, ma «anche della creazione» che è «protesa verso la rivelazione dei figli di Dio». Infatti «anche la creazione, come noi, è stata sottoposta alla caducità» e procede nella «speranza che sarà liberata dalla schiavitù della corruzione». Quindi, «è tutta la creazione che dalla caducità esistenziale che percepisce, va proprio alla gloria, alla libertà dalla schiavitù; ci porta alla libertà. E questa creazione — e noi con essa, con la creazione — geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi».
La conclusione di questo ragionamento ha portato il Papa a rilanciare il concetto di «speranza»: l’uomo e la creazione intera posseggono «le primizie dello Spirito», ovvero «la forza interna che ci porta avanti e ci dà la speranza» della «pienezza del Regno di Dio». Perciò l’apostolo Paolo scrive «quella frase che ci insegna tanto: “Nella speranza infatti siamo stati salvati”».
Essa, ha continuato il Pontefice, è un «cammino», è «quella che ci porta alla pienezza, la speranza di uscire da questo carcere, da questa limitazione, da questa schiavitù, da questa corruzione e arrivare alla gloria». Ed è, ha aggiunto, «un dono dello Spirito» che «è dentro di noi e porta a questo: a una cosa grandiosa, a una liberazione, a una grande gloria. E per questo Gesù dice: “Dentro il seme di senape, di quel grano piccolino, c’è una forza che scatena una crescita inimmaginabile”».
Ecco allora la realtà prefigurata dalla parabola: «Dentro di noi e nella creazione — perché andiamo insieme verso la gloria — c’è una forza che scatena: c’è lo Spirito Santo. Che ci dà la speranza». E, ha aggiunto Francesco, «Vivere in speranza è lasciare che queste forze dello Spirito vadano avanti e ci aiutino a crescere verso questa pienezza che ci aspetta nella gloria».
Successivamente, la riflessione del Pontefice ha preso in esame un altro aspetto, perché nella parabola si aggiunge che «il granello di senape viene preso e gettato. Un uomo prese e lo gettò nel giardino» e che anche il lievito non viene lasciato inerme: «una donna prende e mescola». Si capisce cioè che «se il grano non è preso e gettato, se il lievito non è preso dalla donna e mescolato, rimangono lì e quella forza interiore che hanno rimane lì». Allo stesso modo, ha spiegato Francesco, «se noi vogliamo conservare per noi il grano, sarà un grano solo. Se noi non mescoliamo con la vita, con la farina della vita, il lievito, rimarrà solo il lievito». Occorre perciò «gettare, mescolare, quel coraggio della speranza». Che «cresce, perché il Regno di Dio cresce da dentro, non per proselitismo». Cresce «con la forza dello Spirito Santo».
A tale riguardo il Papa ha ricordato che «sempre la Chiesa ha avuto sia il coraggio di prendere e gettare, di prendere e mescolare», sia, anche, «la paura di farlo». E ha notato: «Tante volte noi vediamo che si preferisce una pastorale di conservazione» piuttosto che «lasciare che il Regno cresca». Quando accade così «rimaniamo quelli che siamo, piccolini, lì», forse «stiamo sicuri», ma «il Regno non cresce». Mentre «perché il Regno cresca ci vuole il coraggio: di gettare il granello, di mescolare il lievito».
Qualcuno potrebbe obbiettare: «Se io getto il granello, lo perdo». Ma questa, ha spiegato il Papa, è la realtà di sempre: «Sempre c’è qualche perdita, nel seminare il Regno di Dio. Se io mescolo il lievito mi sporco le mani: grazie a Dio! Guai a quelli che predicano il Regno di Dio con l’illusione di non sporcarsi le mani. Questi sono custodi di musei: preferiscono le cose belle» al «gesto di gettare perché la forza si scateni, di mescolare perché la forza faccia crescere».
Tutto questo è racchiuso nelle parole di Gesù e di Paolo proposte dalla liturgia: la «tensione che va dalla schiavitù del peccato» alla «pienezza della gloria». E la speranza che «non delude» anche se è «piccola come il grano e come il lievito». Qualcuno, ha ricordato il Pontefice, «diceva che è la virtù più umile, è la serva. Ma lì c’è lo Spirito, e dove c’è speranza c’è lo Spirito Santo. Ed è proprio lo Spirito Santo che porta avanti il Regno di Dio». E ha concluso suggerendo ai presenti di ripensare «al granello di senape e al lievito, al gettare e al mescolare» e di domandarsi: «Come va, la mia speranza? È un’illusione? Un “magari”? O ci credo, che lì dentro c’è lo Spirito Santo? Io parlo con lo Spirito Santo?».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 01/11/2017]
(Lc 11,1-13)
Insegnaci a pregare: sguardo non più posizionato all’esterno
«Pregando, non blaterate come i pagani, infatti essi credono di venire esauditi per la loro verbosità» (Mt 6,7; cf. Lc 11,1).
Il Dio delle religioni era nominato con sovrabbondanza di epiteti onorifici altisonanti, come se bramasse schiere sempre più nutrite d’incensatori.
Il «Padre» non si fa accompagnare da titoli prestigiosi. Un figlio non si rivolge al genitore come a un altissimo, eterno o eccelso, ma come a colui che gli trasmette vita.
E il figlio non immagina di dover porgere grida e riconoscimenti esterni: il Padre guarda i bisogni, non i meriti.
«Et ne nos inducas in tentationem»: antica Preghiera dei figli
«Non c’indurre» è [nel senso latino e greco: «introdurre sino in fondo»] un antico Simbolo dei ‘rinati in Cristo’, nell’esperienza della vita reale.
Nelle religioni esistono demoni e angeli nettamente contrapposti: potenze disordinate e oscure, contrarie a quelle luminose e “a posto”.
Ma a forza di far retrocedere le prime, le peggiori continuamente riaffiorano, sino a vincere la partita e dilagare.
Nelle vite dei santi vediamo questi grandi uomini stranamente sempre sotto tentazione - perché disdegnano il male, quindi non lo conoscono. Man mano, i continui assilli diventano però frotte incontenibili.
La donna e l’uomo di Fede non agiscono secondo corrivi e superficiali modelli prestabiliti, neppure religiosi; hanno consapevolezza di non essere eroi o fenomeni da paradigma.
Ecco perché si affidano. Essi lasciano trascorrere i problemi intimi: ne hanno compreso la forza!
È questo il significato della formula del Padre Nostro, nel suo senso originario: «non portarci sino in fondo nella prova, perché conosciamo la nostra debolezza».
Se viceversa la nostra ‘controparte’ diventa protagonista, perno unilaterale, costante retropensiero, e blocco, siamo fritti.
Dolori, fallimenti, tristezze, frustrazioni, debolezze, mille angosce, troppe cadute, ci abituano a vivere il male come parte di noi stessi: Condizione da valutare, non “colpa” da tagliare in orizzontale.
Nel processo di vera trasmutazione salvifica, quel segnale parla di noi: dentro una deviazione o l’eccentricità c’è un segreto o una conoscenza da rinvenire, per ‘ri-nascere personalmente’.
Posando lo sguardo sui disagi e le opposizioni, ci accorgiamo che questi lati critici dell’essere diventano come un magma plasmabile, il quale più speditamente accosta la guarigione. Come attraverso una conversione, permanente, radicale… perché coinvolge e ci appartiene; non artificiosa e di periferia, ma di fondo, di Seme e Natura.
Schemi e convinzioni assorbite non lasciano comprendere che la vita appassionata è composta di stati contrapposti, di energie competitive - che non bisogna mascherare per farci considerare gente perbene.
Percependo e integrando tali profondità, deponiamo l’idea e l’atmosfera di pericolo incombente, privo d’ulteriori occasioni; solo per la morte.
Diventiamo maturi, senza dissociazioni o stati isterici derivanti da identificazioni artificiose, né disistima per una parte importante di noi.
Insomma, le ristrettezze e le “croci” hanno qualcosa da dirci.
Esse scuotono l’anima alla radice, spazzano via le maschere assorbite, accendono la persona, e salvano la vita.
In tal guisa, gli inconvenienti e le ansie ci aiutano. Nascondono capacità e possibilità che ancora non vediamo.
Nella virtù dell’eccezionalità malferma eppure unica per ciascuno, ecco aprirsi la vera strada.
Percorso del Padre e del cuore, Via che vuole guidarci verso traiettorie alternative, nuove dimensioni dell’esistenza.
La differenza della Fede, rispetto alla religiosità antica [nel senso della ‘croce-dentro’]?
È nella coscienza che solo i malati guariscono, solo gli incompleti crescono.
Solo i claudicanti riprendono espressione, evolvono. E cadendo, scattano avanti.
(Lc 11,5-13)
A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.
Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor di una volta, o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…
Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.
All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.
Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.
Non sappiamo quanto tempo, ma il ‘Risultato’ subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.
Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.
Riceviamo il Dono massimo e completo.
E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.
Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato [come trasmesso o atteso].
Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.
Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.
Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.
Inventa orizzonti dilatati; ci fa dialogare coi nostri stati profondi, affinché cediamo il punto di vista rigido e veniamo introdotti in altro genere di programmi.
Leggere gli accadimenti secondo un punto di vista totalmente “inadeguato” può aprire la mente - e modificare i sentimenti, trasformare dentro.
Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona altre attese, più intense, che vorrebbero invadere il nostro spazio.
La preghiera allora dev’essere insistente, perché è come uno sguardo posato su di sé; non come avevamo pensato.
L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro, dentro, per accogliere la Presenza che non tira altrove l’io essenziale della persona.
Dimorando a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.
Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate viene come colmato dal dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.
In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.
Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile sfiora la condizione divina.
Attraverso il dialogo incessante col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, per una sorte differente.
Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni.
La preghiera continua [ascolto e percezione, non saltuari] scava e smaltisce il volume dei banali pensieri ridondanti.
In tale spazio si spalancano opportunità, si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - anche stravagante. Non di seconda mano.
[17.a Domenica T.O. (anno C), 27 luglio 2025]
(Lc 11,1-13)
La Croce-dentro della Preghiera: sguardo non più posizionato all’esterno
Orazione dei figli: prestazione o Ascolto?
Nelle comunità di Mt e Lc la “preghiera” dei figli - il «Padre Nostro» - non nasce come orazione, bensì come formula di accettazione delle Beatitudini (nelle sue scansioni: invocazione al Padre, situazione umana e avvento del Regno, liberazione).
In ogni caso, la piena differenza fra preghiera religiosa ed espressione animata dalla Fede è nel discrimine tra: Prestazione o Percezione.
[Come dice Papa Francesco: «Pregare non è parlare a Dio come un pappagallo». «Il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente»].
Nelle religioni - infatti - è il soggetto orante che “prega”, esternando richieste, esponendo se stesso, lodando, e così via.
Ancora nel Tomismo, si considerava la virtù di religione come un aspetto della virtù cardinale della Giustizia. Come dire: la giusta posizione dell’uomo a cospetto di Dio è quella di colui che riconosce un dovere di culto (culto che si dirige a partire da lui) verso il Creatore; e l’uomo - soggetto della preghiera - lo adempierebbe.
Viceversa, il figlio di Dio in Cristo è un «uditore» del Logos: è colui che tende l’orecchio, percepisce, accoglie: insomma, il Soggetto autentico che si esprime è Dio stesso.
Egli si rivela attraverso la Parola, nella realtà degli eventi, nelle pieghe della storia universale e personale, nella particolare Chiamata che ci concede, persino nelle immagini intime.
Esse si fanno plastiche espressioni di Mistero (e Vocazione personale) le quali onda su onda addirittura guidano l’anima.
«Pregando, non blaterate come i pagani, infatti essi credono di venire esauditi per la loro verbosità» (Mt 6,7; cf. Lc 11,1).
Nella Fede partecipiamo della preghiera autentica di Gesù stesso - Persona in noi - rivolta al Padre, anzitutto in «ascolto» delle Sue proposte provvidenti: come se uniti all’Amico e Fratello ci inserissimo in questo Dialogo - ricolmo di suggestioni persino figurative.
Ma è l’Unigenito a pregare; non siamo noi i grandi protagonisti. Solo in tal senso l’atto orante può definirsi «dei figli» o “cristiano”.
La nostra vita di preghiera non è un esercizio ascetico - tantomeno un dovere, né una lista della spesa - perché Dio non ha bisogno di essere informato su qualcosa cui prima non aveva pensato.
Come dice il Maestro, il Padre sa ciò di cui abbiamo bisogno (Mt 6,8). Quindi per rivolgersi a Lui non è necessario alcuno sforzo [ fatica lacerante per centrarsi su se stessi e uscire fuori di sé…]. Né ci obbliga a troppe (o giuste) parole.
La preghiera autentica non è un ricalcare, né un salto nel buio esteriore, bensì uno scavo e vaglio, donato. Un tuffo nel nostro essere, dove l’intimità dell’Intesa si propone di capire la firma d’Autore nel cuore delle vicende; persino delle emozioni.
L’orazione dell’uomo di Fede non ha l’obiettivo d’introdurre la volontà di Dio e la realtà delle situazioni in angusti orizzonti e giudizi già comprensibili, come spingendola a sintonie innaturali.
La preghiera è un balzo percettivo senza identità ripetitive, dal proprio Nucleo - che azzera le tossine mentali; e così diventa un’esperienza di pienezza di essere, alla ricerca di senso globale e personale.
L’uomo orante non è neppure preda d’un qualche stato parossistico eccitato (ridicolo o soporifero): sta accogliendo un’Azione - un’Opera di paradossale sospensione, nel percorso verso la propria Beatitudine.
La preghiera è persino un gesto di ordine estetico in Cristo. Appunto perché tende a speronare il nostro immaginario quotidiano, affinché esso venga plasmato secondo la visione guida che inabita. Sposta e quasi dirige l’occhio dell’anima, e l’esperienza ecclesiale.
Una virtù-evento che via via cesella quell’immagine personalissima che porta a consapevolezza un obiettivo o una realtà comunitaria di lode, ovvero una narrazione innata... Voce di energie sconosciute, per cambiamenti importanti.
Passo dopo passo tale percezione e dialogo che s’affaccia induce a interiorizzare sprazzi nascosti della via che ci appartiene: una missionarietà che cerca sintonie, la creazione d’un ambiente vivo, e così via. Anche destabilizzanti.
Solo in questo senso la preghiera è in ordine ai nostri benefici.
Né può ridursi a distintivo di gruppo, perché pur riconoscendosi in alcuni saperi ciascuno ha un suo proprio linguaggio dell’anima, una rilevante storia e sensibilità, un inedito mondo iconico (anche in termini di micro e macro relazioni sognate), nonché un compito irripetibile di salvezza.
Anche per questo motivo - sebbene in ordine alla comunità di riferimento - il Simbolo dei rinati in Cristo che si rivolgono al Padre ci è pervenuto in versioni differenti: Mt, Lc, Didaché [«Insegnamento» forse contemporaneo agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, una sorta di primo Catechismo].
Per introdurci a considerazioni specifiche, è opportuno chiedersi: perché Gesù non frequenta i luoghi di culto per recitare formule di tradizione, bensì per insegnare?
E mai risulta che gli apostoli preghino con Lui: sembra che essi volessero solo una formula per distinguersi da altre scuole rabbiniche (cf. Lc 11,1).
Il Signore tiene duro unicamente sulla mentalità e lo stile di vita: procede su opzioni fondamentali - e insiste sulla percezione tesa all’accogliere, più che al nostro dire e organizzare (poco intrisi di eternità fondata).
Padre
Il Dio delle religioni era nominato con sovrabbondanza di epiteti onorifici altisonanti, come se bramasse schiere sempre più nutrite d’incensatori.
Il Padre non si fa accompagnare da titoli prestigiosi. Un figlio non si rivolge al genitore come a un altissimo, eterno o eccelso, ma come a colui che gli trasmette vita.
E il figlio non immagina di dover porgere grida e riconoscimenti esterni - altrimenti il superiore e padrone si adonta e potrebbe castigare: il Genitore guarda i bisogni, non i meriti.
Il Dio delle religioni governa i sudditi emanando leggi, come fa un sovrano; il Padre trasmette il suo Spirito, la sua stessa Vita, che eleva e perfeziona sia le capacità di ascolto personale che l’accorgersi (ad es. dei fratelli).
Unica richiesta è quella di estendere le nostre risorse missionarie e di alimentarci del Pane-Persona che ci rimodella sulle sue stesse virtù, secondo ciò che dovremmo essere, e avremmo forse già potuto essere.
Una realtà alla nostra portata è la cancellazione dei debiti materiali che il nostro prossimo ha contratto nella necessità.
Non c’è testimonianza del Dio-Amore che non passi attraverso una comunità fraterna, in cui si vive la comunione dei beni.
La sicurezza di essere a posto con Dio è nella gioia della convivenza e della condivisione.
Nel credo religioso si confondono spesso le benedizioni materiali con quelle divine, il che accentua le competizioni, il primato artificioso e i disagi della vita reale.
Viceversa, lo spirito delle Beatitudini si rende palese in un popolo in cui sono abolite le distinzioni tra creditori e debitori.
«Non c’indurre»: antica Preghiera dei figli, nella vita reale
Essenza di Dio è: Amore che non tradisce e non abbandona; inutile, confusionario e blasfemo chiedere a un Padre: «Non abbandonarmi» [cf. testo greco]. Anche se può essere d’effetto all’orecchio esteriore.
Le false mistiche del Gesù abbandonato (addirittura dal Padre!) non educano; forse affascinano, sicuramente confondono - e plagiano.
Nella preghiera è garantito solo lo Spirito: la lucidità di comprendere la fecondità della Croce, il guadagno nella perdita, la vita non nel trionfo ma nella morte. E la forza per essere fedeli alla propria Chiamata, malgrado le persecuzioni anche “interne”.
La comunità e le singole anime chiedono tuttavia di non essere posti nelle condizioni estreme della prova, ben conoscendo il proprio limite, la personale invincibile precarietà, sebbene redenta.
Questa la soglia che distingue religiosità e Fede: da un lato la formula “sicura” dei convinti e forti; dall’altra un’orazione dimessa e in attesa: dei malfermi, riscattati per amore.
«Non c’indurre» è appunto (nel senso latino e greco: «introdurre sino in fondo») un’antico Simbolo dei rinati in Cristo, nell’esperienza della vita reale.
Nelle religioni esistono demoni e angeli nettamente contrapposti: potenze disordinate e oscure, contrarie a quelle luminose e “a posto”.
Ma a forza di far retrocedere le prime, le peggiori continuamente riaffiorano, sino a vincere la partita e dilagare.
Nelle vite dei santi vediamo questi grandi uomini stranamente sempre sotto tentazione - perché disdegnano il male, quindi non lo conoscono. Man mano, i continui assilli diventano però frotte incontenibili.
La donna e l’uomo di Fede non agiscono secondo corrivi e superficiali modelli prestabiliti, neppure religiosi; hanno consapevolezza di non essere eroi o fenomeni da paradigma.
Ecco perché si affidano. Essi lasciano trascorrere i problemi intimi: ne hanno compreso la forza!
È questo il significato della formula del Padre Nostro, nel suo senso originario: «non portarci sino in fondo nella prova, perché conosciamo la nostra debolezza».
Tale attenzione sorge affinché proprio il peccato - a furia di rinnegarlo, poi mascherarlo - non diventi paradossalmente il protagonista occulto del nostro cammino. Il perno dell’attenzione, che purtroppo ingorga i pensieri, bloccando i processi interni di crescita spontanea, percezione di Grazia e autoguarigione [in ordine alla propria irripetibile Chiamata].
Sarebbe il contrario d’una Redenzione e della Libertà, quindi dell’Amore: si annienta dove c’è un superiore che sovrasta - fosse pure Dio.
Assai proficuo è viceversa ricuperarne l’energia, che ci ha posti in contatto con i nostri strati profondi, per nuovi orizzonti. E assumerla facendola propria ospite, a pieno titolo - per (solo poi) investirla in maniera inattesa e sapiente.
Se viceversa la nostra “controparte” diventa costante retropensiero e blocco, siamo fritti.
Dolori, fallimenti, tristezze, frustrazioni, debolezze, mille angosce, troppe cadute, ci abituano a vivere il male come parte di noi stessi: Condizione da valutare, non “colpa” da tagliare in orizzontale.
Nel processo di vera trasmutazione salvifica, quel segnale parla di noi: dentro una deviazione o l’eccentricità c’è un segreto o una conoscenza da rinvenire, per rinascere personalmente.
Posando lo sguardo sui disagi e le opposizioni, ci accorgiamo che questi lati critici dell’essere diventano come un magma plasmabile, il quale più speditamente accosta la guarigione. Come attraverso una conversione, permanente, radicale… perché coinvolge e ci appartiene; non artificiosa e di periferia, ma di fondo, di Seme e Natura.
Schemi e convinzioni assorbite non lasciano comprendere che la vita appassionata è composta di stati contrapposti, di energie competitive - che non bisogna mascherare per farci considerare gente perbene.
Percependo e integrando tali profondità, deponiamo l’idea e l’atmosfera di pericolo incombente, privo d’ulteriori occasioni, solo per la morte.
Diventiamo maturi, senza dissociazioni o stati isterici derivanti da identificazioni artificiose, né disistima per una parte importante di noi.
Insomma, le ristrettezze e le “croci” hanno qualcosa da dirci.
Esse scuotono l’anima alla radice, spazzano via le maschere assorbite, accendono la persona, e salvano la vita.
In tal guisa, gli inconvenienti e le ansie ci aiutano. Nascondono capacità e possibilità che ancora non vediamo.
Nella virtù dell’eccezionalità malferma eppure unica per ciascuno, ecco aprirsi la vera strada.
Percorso del Padre e del cuore, Via che vuole guidarci verso traiettorie alternative, nuove dimensioni dell’esistenza.
La differenza della Fede, rispetto alla religiosità antica [nel senso della croce-dentro]?
È nella coscienza che solo i malati guariscono, solo gli incompleti crescono.
Solo i claudicanti riprendono espressione, evolvono. E cadendo, scattano avanti.
Preghiera continua: condizione di grazia e di forza, che non svia.
Venir meno senza venir meno. Lotta: incessante, efficace, con noi stessi e con Dio
(Lc 11,5-13)
A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.
Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor (di una volta) o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…
Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.
All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.
Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto.
I desideri di accumulo, o rivalsa e trionfo, lasciano il posto all’ascolto e alla percezione.
L’occhio che penetra si accorge di quanto è a portata di mano e dell’inusitato - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.
Non sappiamo quanto tempo, ma il “risultato” subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.
Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.
Riceviamo il Dono massimo e completo. E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.
Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato (come trasmesso dalla famiglia o atteso a contorno).
Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.
Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.
Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.
Inventa orizzonti dilatati, ma in questo travaglio dev’essere chiaro che non bisogna venir meno a noi stessi. Ossia al carattere della nostra essenza e vocazione.
Tutto ciò, proprio venendo meno a noi stessi - ossia cedendo il punto di vista rigido e dialogando coi nostri strati profondi.
Tale processo sposta l’accento condizionato.
Non è che Dio si compiace di farsi senza posa pregare e ripiegare dai poveretti.
Siamo noi ad aver bisogno di tempo per incontrare la nostra stessa anima e lasciarci introdurre in un altro genere di programmi che non siano conformisti e scontati.
Leggere gli accadimenti secondo visioni totalmente “inadeguate”, eccentriche o eccessive, meno contratte dentro le solite armature (e così via) può aprire la mente.
L’espansione dello sguardo accresce l’intuizione, modifica i sentimenti, trasforma, attiva. Coglie altri disegni, spalanca differenti orizzonti - con risultati intermedi già prodigiosi, sicuramente imprevedibili.
Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona auspici ulteriori, più intensi, che vorrebbero invadere il nostro spazio.
Questa “natura” artificiale di assetti spuri, esterni o altrui, blocca l’itinerario che va verso la natura del carattere, la vera chiamata e missione personale.
La preghiera dev’essere insistente, perché è come una visuale posata su di sé; non come avevamo pensato: autenticamente.
L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro e individuale dentro, che apre alla nostra e altrui Presenza, tutta da guardare (nel modo che conta).
Sarà il più sapiente, forte e affidabile compagno di viaggio… che porta la nostra identità-carattere e non tira altrove l’io essenziale della persona.
Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate (da noi stessi o altri) dev’essere colmato nel tempo mediante una intensità di Relazione.
Ecco il dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.
In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.
Sarà la profondità radicale del rapporto con la nostra Radice - forse smarrita in troppe aspettative regolarissime, anche elevate o funzionanti - che conferisce un’altra Via, più convincente.
E farà scoprire la tendenza e destinazione unica che ci appartiene, per la Felicità che non pensavamo.
Obbiettivi, propositi, discipline, memorie del passato, sogni di futuro, ricerche dei punti di riferimento, valutazioni abitudinarie di possibilità, cumuli di merito... talora sono zavorre.
Essi distraggono dalla terra dell’anima, dove il nostro grano vorrebbe attecchire per divenire ciò che è in cuore.
E dal Nocciolo far comprendere la proposta di Missione ricevuta - non conquistata, né posseduta - affinché conceda un’altra caratura prodigiosa (non: visibilità).
Spesso il sistema mentale e affettivo si riconosce in un album di pensieri, definizioni, gesti, forme, problemi, titoli, mansioni, personaggi, ruoli e cose già morte.
Tale morfologia d’interdizione smarrisce il presente autentico, dove viceversa attecchisce il Sogno divino che completa - realizzandoci nella specificità.
Allora, ecco la terapia dell’assoluto presentimento nell’Ascolto - della non pianificazione; a partire da ciascuno.
Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni, e asseconda banalità.
Attraverso il dialogo incessante col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, che (nel frattempo) ci sta già colmando di visuali e occasioni per una sorte differente.
Riattivando la carica esplorativa soffocata negli ingranaggi, creiamo la giusta intercapedine e ripartiamo nell’Esodo.
Accontentarsi, fermarsi, installarsi in un punto, tramuterebbe le conquiste anche qualitative in una terra di nuove schiavitù.
Obbligherebbe a recitare e ripercorrere tappe ormai acquisite - che viceversa siamo per vocazione richiamati a valicare.
Esodo… all’interno di una Relazione sorgiva, cosmica e identificativa, singolarmente fondante.
Grazie all’Ascolto protratto nella preghiera, noi figli acquisiamo il sapere dell’anima e del Mistero.
Dimoriamo a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.
Così la piantiamo - o radichiamo ancor più a fondo - per capirla e recuperarla completamente, nitida e colma.
Ormai affrancata dal destino tracciato in ambiente di ristrettezze, già segnato ma privo di sogni.
Quando saremo pronti, l’Unicità scenderà in campo con una nuova soluzione, anche stravagante.
Essa partorirà ciò che siamo davvero, al meglio - dentro quel caos che risolve i veri problemi. E di onda in onda balzerà a Traguardo.
Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in una sorta di venir meno di noi stessi - in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - daremo spazio al nuovo Germe che la sa più lunga di tutti.
Già qui e ora la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile vuole sfiorare la condizione divina.
La preghiera continua [ascolto e percezione, non saltuari] scava e smaltisce in questo spazio il volume dei banali pensieri ridondanti.
In tale interstizio e “vuoto” si spalancano opportunità. Si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - non di seconda mano.
Vogliamo una decisiva conversione? Desideriamo il richiamo alla totalità dell’esistenza umanizzante, senza limitazioni e nella nostra unicità?
[Allora l’azione divina può raggiungere chiunque? Attecchisce in qualsiasi volto? E come si fa a non spezzarla?].
Perché non ora il nuovo inizio? La preghiera e il “nuovo pieno” dello Spirito diventano per noi - figli in fase di crescita - il latte dell’anima.
[Cf. Gv 16,23-28: Preghiera nel Nome: sabato 6.a Pasqua] [Cf. Mt 11,25-27: L’unica preghiera di Gesù poco insegnata: Mercoledì 15.a T.O]
La seconda caduta
Pro e contro
Lc 11,14-23 (14-26)
Il pregiudizio intacca l’unione, e nessuno può mettere Gesù sotto sequestro, tenendolo in ostaggio. Egli è il forte che nessuna cittadella arroccata può arginare.
Chi teme di perdere il comando e smarrire il proprio prestigio artefatto ha già perduto. Non c’è armatura o bottino che tenga.
Non c’è costume né compromesso o gendarmeria in cui confidare, che possa resistere all’assedio della Libertà in Cristo.
Le Scritture formano una unità inscindibile. Tuttavia, solo in Lui la Tradizione non blocca i carismi, non ci sminuisce, non causa ansietà, né porta allo scrupolo - bensì acquista il suo risvolto vitale.
L’amicizia col Risorto è infatti straordinariamente originale, e ha rispetto delle unicità. Sta in una continuità e insieme nella rottura con la mente antica. Monoteismo vitale d’uno Spirito nuovo, che accoglie i Doni.
Chi non s’impegna a dilatare l’opera creativa del Padre, chi non ce la mette tutta a capire e vivificare situazioni o persone - persino nel rispetto delle eccentricità che prima non avevano campo e sembravano incomunicabili - aleggia sulle illusioni, disperde se stesso e intacca tutto l’ambiente.
Dice il Tao Tê Ching (LXV): «In antico chi ben praticava il Tao, con esso non rendeva perspicace il popolo, ma con esso si sforzava di renderlo ottuso: il popolo con difficoltà si governa, perché la sua sapienza è troppa».
La gente normale accetta il caos, non elude la vita. I missionari sono allenati a trovare in ogni fatica, in qualsiasi errore o imperfezione, un nuovo assetto, ordinato e segreto. Nulla di esteriore.
In ogni incertezza sussiste una certezza, in ogni insicurezza una sicurezza maggiore, in qualsiasi lato in ombra una perla inattesa, in ciascun disordine un cosmo: è il segreto della vita, della felicità, dell’esperienza di Fede.
Le autorità erano attaccate al finto prestigio conquistato e preoccupatissime del fatto che Gesù fosse fedele al proprio compito unico, e potesse riuscire a sottrarre loro il popolo adescato - ma ora liberato - dalla religione delle paure.
Egli (la sua comunità) rimaneva più convincente perché avverava il Regno, iniziava a mostrarlo; non in fantasie di cataclismi che mettessero le anime a guinzaglio, ma vivo ed efficiente, passo dopo passo, persona persona.
Esso veniva incontro al desiderio di completezza umana che abitava ogni cuore, così non faceva leva su ossessioni e parossismi o sulla Legge, bensì sul bene reale, la guarigione, la vita (sempre diversa).
La cura delle infermità individuali e di relazione non era più un fatto secondario: così ad es. la liberazione d’un singolo infelice iniziava a sembrare che avesse valore assoluto, definitivo.
La scena della terra non poteva più essere dominata da catechismi adattati e da una consuetudine pia che negasse tutto meno i timori.
Insomma, Cristo stesso è l’uomo forte che vede lontano, segno della venuta efficace di Dio tra gli uomini.
Con lui declina il regno delle illusioni e posizioni fisse; subentra il mondo contrario al disfacimento dell’esistenza concreta, nel rispetto dell’unicità e convivialità delle differenze.
L’attività della sua Chiesa opera esorcismi: emancipa da forze-condizionamenti-strutture disumanizzanti. Si muove non su un piano legalista, ma di credo-amore operante che garantisce a ciascuno quel cammino di spontaneità e pienezza desiderate nell’intimo.
Anche oggi la comunità fraterna deve farsi consapevole d’essere strumento di redenzione e presenza energica di Dio fra le donne e gli uomini normali, di ogni estrazione culturale, per condurli, accompagnarli verso un presente-futuro che doni respiro non solo al gruppo, ma anche all’inclinazione individuale.
Le assemblee dei figli sono abilitate per grazia e vocazione a sciogliere nodi e superare steccati di mentalità - suscitando così un ambiente comprensivo, che accetta i viandanti: questo il principio e orizzonte non negoziabile della Fede.
Col superamento di antiche convinzioni fisse che mettono fra parentesi la realtà delle persone e ne accentuano i blocchi, la comunità dei figli nel Risorto è chiamata a diventare potenza di Dio.
Essa è sollecitata a farsi segno palese della presenza intraprendente dello Spirito Santo personale e solerte [«il dito di Dio»: v.20] che surclassa la spiritualità rassicurante e vuota, nonché la distrazione superficiale, indolente, della devozione secondo usanza imposta dalle convenzioni e dalle catene di comando.
Ma come mai Gesù sottolinea che la seconda caduta è più rovinosa della prima (vv.24-26)?
Se la mente del fedele viene svuotata del grande passo di Cristo vivo - che prima ha praticato e riconosciuto dentro sé e nella missione - essa non è più concentrata su qualcosa di utile, vitale e splendido: fiaccata, si perde.
Mentre Lc redige il Vangelo, a metà anni 80 si registravano non poche defezioni, a motivo delle persecuzioni.
I credenti avvilivano, costernati dal disprezzo sociale - così molti vedevano impallidire l’ebbrezza entusiastica dei primi tempi.
L’Amore non si poteva mettere in banca, ma diversi fratelli di comunità già provenienti dal paganesimo, dopo una prima esperienza di conversione preferivano tornare alla vita precedente, all’imitazione dei modelli, ai soliti pensieri facili, alle attrattive e al consenso delle folle.
Ripiegando e rassegnandosi alle forze in campo, alcuni abbandonavano la posizione di autonomia interiore conquistata grazie all’azione liberatrice dagli idoli, favorita dalla vita sapiente e orante nella comunità fraterna.
Poi tentavano anche la ricerca individuale d’un risarcimento e rivalsa per gli anni difficili trascorsi nell’essere stati fedeli alla propria vocazione, in quello stimolo di crescere insieme grazie allo scambio dei doni e delle risorse.
Lc avverte: è normale che ci siano tante notti quanti i giorni.
Si capisce lo stress del peregrinare per accostarsi all’infinito dell’anima, alla realtà competitiva e ai prossimi (persino di comunità) - ma attenzione... una seconda caduta sarebbe peggiore della prima.
La persona un tempo restituita a se stessa e che molla tutto demoralizzata, poi si lascerebbe andare alla disillusione generale, a una più globale mancanza di giudizio, consapevolezza e fiducia.
Tutto ciò capita ancora oggi per impellenze particolari, scoramento o precipitazioni, dopo aver visto ideali infranti da circostanze imperfette. O per la fatica di affrontare scoperte ed evoluzioni (che rimettono sempre tutto in discussione) nel lungo tempo necessario per una coerenza paziente ai propri codici profondi.
Così chi si lascia tramortire, facilmente tornerebbe a ricercare il via libera altrui e quell’allinearsi che nasconde i conflitti e fa tremare meno - perché il convincimento antico diventato modus vivendi non sposta i modi di fare né il quadro normale di riferimento.
Le difficoltà facevano cadere le braccia ad alcuni e ciò pareva mettere una pietra tombale sulla speranza di poter effettivamente edificare una società alternativa senza farsi troppo del male.
Ma il Vangelo ribadisce che non è previsto un atteggiamento neutrale (v.23) a distanza di sicurezza. Non ci sono mezze misure: solo scelte chiare, e niente esigenze represse.
Integrate sì: in cuore abitano sempre lati contraddittori, non c’è da sbigottire per questo. Gli stati opposti dell’essere sono una ricchezza che ci completa.
Anzi, si diventa nevrotici proprio quando le manie riduzioniste o le esigenze monotematiche (di club) prevaricano e soffocano la Chiamata poliedrica - che sebbene cesellata per Nome non si fa mai unilaterale.
Per vivere in modo pieno, libero e felice è bene essere noi stessi, consapevoli di ciò che siamo: figli perfetti (per il nostro compito nel mondo).
Quindi possiamo trascurare il malessere delle ingiurie di chi ci sgrida e livella, lasciarle scorrere via - e fare a meno di rincorrere lodi.
L’uomo di Fede ha sperimentato e conosce l’essenziale: è la vita che vince la morte, non il viceversa; quindi trascura le ossessioni (anche ammantate di sacro) e non si lascia sfiancare lo spirito.
Gode di una coscienza critica che sa collocare sullo sfondo i risultati immediati, così rigenera; incessantemente riattiva e non debella le forze.
Il battezzato in Cristo vive attitudini piene all’autenticità e totalità d’essere, indipendentemente da circostanze favorevoli o meno. Rimane distante da timori puerili, gode d’un cuore libero; è fermo nell’azione.
Mette in preventivo di poter essere viandante, posto sotto assedio dal sistema isterico, che non sopporta cambiamenti veri (v.22).
In ciò riposa, sempre chiamando in causa le proprie radici naturali e caratteriali - dove sono custodite le energie primordiali dell’anima e i sogni innati (non derivati) che curano e guidano.
Del resto, il suo viaggio è contromano e sarà sicuramente punteggiato di dure lezioni.
Ma il cliché è tutta solfa indotta; tenta d’invaderci con recriminazioni senza peso specifico: tentativi di blocco privi di futuro.
Non c’è da sorprendere che gli accoliti del mondo conformista si difendano in tutti i modi.
E attacchi con quel vociare standard - socialmente “apprezzabile” - che tenta di accentuare i conflitti intimi e personali. Coi grandi mezzi a disposizione, facendo leva sui sensi di colpa.
Cammineremo ugualmente spediti sulla Via del Signore, pur sollecitati da dubbi e indecisioni; senza retrocedere, persino quando ci sentiremo persi - ma col sapore del guadagno finanche nella perdita.
I momenti difficilissimi saranno ulteriori chiamate alla trasformazione.
E in ogni circostanza proveremo il gusto della vittoria della vita piena sul potere del male e sul tenore culturale imitativo, altrui, banale.
Qui - nella fedeltà al proprio mondo interiore che vuole esprimersi, e nel cambio di stile o immaginazione negli approcci - risolveremo i veri problemi e tutte le questioni, in modo ricco, personale.
Rinati in Cristo che tutela e promuove a partire dall’eccezionale originalità, non possiamo “morire” perdendo l’essenza e l’Incontro irripetibile.
Tornando a identificarci nei ruoli, quali fotocopie - senza il Viaggio dell’anima.
Liberi verso la terra promessa che ci appartiene, non cerchiamo perfezioni di circostanza, bensì pienezza.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Chi e cosa mi attiva o mi perde?
È Gesù il mio Signore o sono io (lo status, il mio gruppo, le maniere “perbene”, gli influssi anche religiosi...) il Suo padrone?
Come affronto le situazioni, apro brecce e non mi disperdo, in armonia con la Voce antica e nuova dell’anima, e nello Spirito?
In the divine attitude justice is pervaded with mercy, whereas the human attitude is limited to justice. Jesus exhorts us to open ourselves with courage to the strength of forgiveness, because in life not everything can be resolved with justice. We know this (Pope Francis)
Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia; lo sappiamo (Papa Francesco)
The Second Vatican Council's Constitution on the Sacred Liturgy refers precisely to this Gospel passage to indicate one of the ways that Christ is present: "He is present when the Church prays and sings, for he has promised "where two or three are gathered together in my name there am I in the midst of them' (Mt 18: 20)" [Sacrosanctum Concilium, n. 7]
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" [Sacrosanctum Concilium, 7]
This was well known to the primitive Christian community, which considered itself "alien" here below and called its populated nucleuses in the cities "parishes", which means, precisely, colonies of foreigners [in Greek, pároikoi] (cf. I Pt 2: 11). In this way, the first Christians expressed the most important characteristic of the Church, which is precisely the tension of living in this life in light of Heaven (Pope Benedict)
Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi] (cfr 1Pt 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo (Papa Benedetto)
A few days before her deportation, the woman religious had dismissed the question about a possible rescue: “Do not do it! Why should I be spared? Is it not right that I should gain no advantage from my Baptism? If I cannot share the lot of my brothers and sisters, my life, in a certain sense, is destroyed” (Pope John Paul II)
Pochi giorni prima della sua deportazione la religiosa, a chi le offriva di fare qualcosa per salvarle la vita, aveva risposto: "Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta" (Papa Giovanni Paolo II)
By willingly accepting death, Jesus carries the cross of all human beings and becomes a source of salvation for the whole of humanity. St Cyril of Jerusalem commented: “The glory of the Cross led those who were blind through ignorance into light, loosed all who were held fast by sin and brought redemption to the whole world of mankind” (Catechesis Illuminandorum XIII, 1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Pope Benedict]
Accettando volontariamente la morte, Gesù porta la croce di tutti gli uomini e diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità. San Cirillo di Gerusalemme commenta: «La croce vittoriosa ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, ha liberato chi era prigioniero del peccato, ha portato la redenzione all’intera umanità» (Catechesis Illuminandorum XIII,1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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