Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XXVIII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [12 Ottobre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Riflettere sulla gratitudine che è più facile notare fra coloro che sono lontani è un invito a rivedere la nostra personale relazione con Dio.
Prima Lettura dal secondo libro dei Re (5, 14-17)
La lettura di questa domenica comincia nel momento in cui il generale Naaman, apparentemente docile come un agnello, si immerge nell’acqua del Giordano, su ordine del profeta Eliseo; ma ci manca l’inizio della storia: ve lo racconto. Naaman è un generale siriano molto stimato dal re di Aram (l’attuale Damasco). Ovviamente, per il popolo di Israele, egli è uno straniero e in certi periodi addirittura un nemico e soprattutto essendo un pagano non appartiene al popolo eletto. Ancora più grave: è lebbroso, il che significa che presto tutti lo eviteranno e per lui è una vera maledizione. Fortunatamente per lui, sua moglie ha una schiava israelita la quale dice alla padrona: “A Samaria c’è un grande profeta che potrebbe sicuramente guarire Naaman”. La padrona lo riferisce al marito Naaman, il quale lo dice al re di Aram: il profeta di Samaria può guarirmi. E poiché Naaman gode di grande favore, il re scrive una lettera di presentazione al re di Samaria raccomandando Naaman affetto da lebbra perché vada dal profeta Eliseo. Il re di Israele non sa che il profeta Eliseo può guarire anzi è nel panico perché pensa che il re di Siria sta cercando un pretesto per fargli guerra. Eliseo viene a sapere e chiede di venire Naaman che arriva con tutta la sua scorta e i bagagli pieni di doni per il guaritore. In realtà, solamente un servo socchiude la porta e si limita a dirgli che il suo padrone gli ordina di immergersi sette volte nel Giordano per essere purificato. Naaman ritiene questo offensivo e a che serve tuffarsi nel Giordano dato che in Siria ci sono fiumi ben più belli del Giordano. Infuriato riprende la strada verso Damasco, ma fortunatamente i suoi servi gli dicono: Ti aspettavi che il profeta ti chiedesse cose straordinarie per guarirti e le avresti fatte. Ora ti ordina una cosa ordinaria perché non puoi farla? Naaman si lascia convincere e comincia da questo punto la lettura di oggi. Naaman obbedisce a un ordine semplice immergendosi sette volte nel Giordano ed è guarito. A noi sembra semplice, ma per un grande generale di un esercito straniero è proprio questa obbedienza che non è affatto semplice! Il seguito del testo lo dimostra. Naaman è guarito e torna da Eliseo per dirgli due cose. La prima: “Ora so che non c’è Dio, su tutta la terra, se non in Israele” e aggiungerà dopo che tornato nel suo paese, gli offrirà sacrifici. L’autore di questo passo approfitta per dire agli Ebrei: voi avete da secoli la protezione dell’unico Dio e ora vedete che Dio è anche per gli stranieri, mentre voi continuate a lasciarvi tentare dall’idolatria. Questo straniero, invece ha capito in fretta da dove gli viene la guarigione. Inoltre Naaman dice a Eliseo che vuole dargli un dono per ringraziarlo, ma il profeta rifiuta energicamente: i doni di Dio non si comprano.. Infine perché Naaman vuol portare con sé un po’ di terra d’Israele? Egli motiva la richiesta perché non vuole offrire olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma solo al Dio d’Israele. Questo fa capire che, al tempo del profeta Eliseo, tutti i popoli vicini a Israele credevano che le divinità regnassero su territori specifici e per offrire sacrifici al Dio d’Israele, Naaman crede dunque di dover portare con sé della terra sulla quale regna questo Dio.
Salmo Responsoriale (97/98, 1-4)
Nella prima lettura Naaman, generale siriano quindi un pagano, viene guarito dal profeta Eliseo e, grazie a questo, scopre il Dio d’Israele. Naaman è dunque del tutto adatto a cantare questo salmo, nel quale si parla dell’amore di Dio sia per i pagani, quelli che la Bibbia chiama le nazioni (o le genti), sia per Israele. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2) e subito dopo (v 3): “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele”, che è l’espressione consacrata per ricordare l’elezione d’Israele, la relazione del tutto privilegiata che lega questo piccolo popolo al Dio dell’universo. Le semplici parole “la sua fedeltà”, “il suo amore” sono il richiamo all’Alleanza: è attraverso queste parole che, nel deserto, Dio si è fatto conoscere al popolo che ha scelto. La frase “Dio di amore e di fedeltà” indica che Israele è il popolo eletto ma la frase precedente ricorda che, se Israele è stato scelto, non è per godere egoisticamente del privilegio, non per considerarsi figlio unico, ma per comportarsi come fratello maggiore e il suo ruolo è annunciare l’amore di Dio per tutti gli uomini, così da integrare a poco a poco tutta l’umanità nell’Alleanza. In questo salmo, questa certezza segna perfino la composizione del testo; se lo si guarda più da vicino, si nota la costruzione in inclusione dei versetti 2 e 3. Ricordo che l’inclusione è un procedimento letterario che si trova spesso nella Bibbia. È un po’ come un riquadro in un giornale o in una rivista; ovviamente, lo scopo è mettere in evidenza il testo scritto all’interno del riquadro. Nella Bibbia, funziona allo stesso modo: il testo centrale viene messo in risalto, incorniciato da due frasi identiche, una prima e una dopo. Qui, la frase centrale parla di Israele, il popolo eletto, ed è incorniciata da due frasi che parlano delle nazioni: la prima frase “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” e la seconda riguarda Israele: “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele” e la terza: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Qui non compare il termine “le genti” ma è sostituito dall’espressione “tutti i confini della terra”. Il che significa che l’elezione d’Israele è centrale, ma non bisogna dimenticare che deve irradiare su tutta l’umanità. Una seconda sottolineatura di questo salmo è la proclamazione molto marcata della regalità di Dio. Per esempio, nel Tempio di Gerusalemme si canta: “Acclamate il Signore, terra intera, acclamate il vostro re”. Questo salmo è un grido di vittoria, il grido che si innalza sul campo di battaglia dopo il trionfo, la teru‘ah in onore del vincitore. La vittoria di Dio, di cui qui si parla, è duplice: è innanzitutto la vittoria della liberazione dall’Egitto e poi la vittoria attesa per la fine dei tempi, la vittoria definitiva di Dio contro tutte le forze del male. E già allora si acclamava Dio come un tempo si acclamava il nuovo re nel giorno della sua incoronazione, con grida di vittoria al suono delle trombe, dei corni e tra gli applausi della folla. Ma mentre con i re della terra si andava sempre verso la delusione, questa volta si sa che non si sarà delusi; ecco perché stavolta la teru‘ah deve essere particolarmente vibrante! I cristiani acclamano Dio con ancora più forza, perché hanno visto con i loro occhi il re del mondo: dall’Incarnazione del Figlio, essi sanno e affermano, contro ogni evento apparentemente contrario, che il Regno di Dio, cioè dell’amore, è già cominciato.
Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 8 – 13)
Il canto «Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti; egli è la nostra salvezza, la nostra gloria eterna» si trova nel suo contesto originale nella seconda lettera a Timoteo, dove Paolo scrive: «Ricordati di Gesù Cristo, discendente di Davide». In ambiente ebraico era essenziale affermare che Gesù fosse davvero della stirpe di Davide per essere riconosciuto come Messia. Paolo aggiunge: «Egli è risorto dai morti: questo è il mio Vangelo». La questione è radicale: o Gesù è risorto, o non lo è. Paolo, inizialmente convinto che fosse un’invenzione, aveva cercato di impedire la diffusione di tale annuncio. Ma, dopo l’esperienza sulla via di Damasco, ha visto il Risorto e ne è diventato testimone. Gesù è vincitore della morte e del male, e con lui nasce il mondo nuovo, a cui i credenti devono partecipare con tutta la loro vita. Per questo Paolo si consacra all’annuncio del Vangelo e invita Timoteo a fare lo stesso, preparandolo alle opposizioni e incoraggiandolo a combattere la buona battaglia con coraggio, dolcezza e fiducia nello Spirito ricevuto. La risurrezione è il cuore della fede cristiana. Se per molti Ebrei la risurrezione della carne era credibile, per i Greci era difficile da accogliere, come mostra il fallimento della predicazione di Paolo ad Atene. Proprio per l’annuncio della risurrezione Paolo ha conosciuto più volte il carcere: «Cristo è risorto dai morti, questo è il mio Vangelo. Per lui soffro, fino a essere incatenato come un malfattore». Anche Timoteo, ammonisce Paolo, dovrà soffrire per il Vangelo. Le catene di Paolo non fermano la verità: «Sono incatenato, ma la Parola di Dio non è incatenata». Gesù stesso aveva detto che se taceranno loro, grideranno le pietre perché nulla può fermare la verità. Paolo aggiunge che sopporta tutto per gli eletti, affinché ottengano anch’essi la salvezza che è in Cristo Gesù, con la gloria eterna. Qui riecheggia il canto iniziale e .segue probabilmente un antico inno battesimale introdotto con la formula: Ecco una parola degna di fede:Se siamo morti con lui, con lui vivremo; se perseveriamo, con lui regnerem». È il mistero del Battesimo, già spiegato in Romani 6: con esso siamo immersi nella morte e risurrezione di Cristo, uniti a lui in modo inseparabile. Passione, morte e risurrezione costituiscono un unico evento che ha inaugurato una nuova epoca per l’umanità. Le ultime frasi mettono in luce la tensione tra libertà umana e fedeltà di Dio perché se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà: Dio rispetta il nostro rifiuto consapevole. Se manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso dato che Dio resta sempre fedele anche di fronte alle nostre fragilità.
Dal Vangelo secondo Luca (17, 11-19)
Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attendono passione, morte e risurrezione. Luca sottolinea l’itinerario perché ciò che narra è legato al mistero della salvezza. Durante il viaggio, incontra dieci lebbrosi che, costretti a restare a distanza secondo la Legge, gridano verso di lui chiamandolo “Maestro”: è segno insieme della loro debolezza e della fiducia che ripongono in lui. Diversamente da un altro episodio (Lc 5,12), questa volta Gesù non li tocca, ma ordina soltanto di andare a presentarvi ai sacerdoti, passo necessario per il riconoscimento ufficiale della guarigione. L’ordine è già promessa di salvezza. Il racconto richiama l’episodio di Naaman e del profeta Eliseo (2Re 5) della prima lettura perché mentre i dieci si mettono in cammino, la loro lebbra scompare: la loro fiducia li salva. La malattia li aveva uniti, ma la guarigione rivela la differenza dei cuori: nove Giudei vanno verso i sacerdoti, uno solo,- un Samaritano, considerato eretico — torna indietro. Egli riconosce che la vita e la guarigione vengono da Dio, glorifica Dio a gran voce, si prostra ai piedi di Gesù rendendogli grazie: un atteggiamento riservato a Dio. Così riconosce il Messia e comprende che il vero luogo per rendere gloria a Dio non è più il Tempio di Gerusalemme, ma Gesù stesso. Il suo ritorno è conversione, e Gesù lo proclama: “Àlzati e va’: la tua fede ti ha salvato”. Degli altri nove, Gesù chiede conto: hanno incontrato il Messia ma non lo hanno riconosciuto, scegliendo di correre subito verso il Tempio per compiere la Legge senza fermarsi a ringraziare. Il Vangelo sottolinea così un tema ricorrente: la salvezza è per tutti, ma spesso non sono i più vicini a Dio ad accoglierla: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno riconosciuto”. Già l’Antico Testamento affermava l’universalità della salvezza (cf. Sal 97/98). La prima lettura ricorda la conversione di Naaman, straniero, e Gesù aveva rimproverato a Nazaret, citando l’esempio del Siro guarito mentre molti lebbrosi in Israele non lo furono (Lc 4,27), suscitando la collera della sinagoga. Negli Atti, Luca mostrerà ancora il contrasto tra il rifiuto di parte d’Israele e l’accoglienza dei pagani. Questa questione era viva nelle prime comunità cristiane: bisognava essere Giudei per ricevere il battesimo, o anche i pagani potevano essere accolti? Il racconto del Samaritano convertito ricorda tre verità: la salvezza portata da Cristo con passione, morte e risurrezione è per tutti; il rendimento di grazie è spesso compiuto meglio dagli stranieri o dagli eretici; i poveri sono i più disponibili a incontrare Dio. In conclusione, sul cammino verso Gerusalemme, cioè verso la salvezza, Gesù conduce tutti gli uomini disposti a convertirsi, qualunque sia la loro origine o religione.
+ Giovanni D’Ercole
Gloria straniera, o religiosità che partorisce modelli e schiavi
(Lc 17,11-19)
Secondo l’enciclica Fratelli Tutti la custodia delle differenze è il criterio della vera fraternità, che non annienta i picchi estroversi.
Infatti persino in un rapporto d’amore profondo e coesistenza «c’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali» [Amoris Laetitia, n.139].
Stupirà, ma il senso del testo non riguarda i ringraziamenti da fare!
Gesù non si rattrista perché verifica una mancanza di riconoscenza e buone maniere, bensì per il fatto che solo uno straniero dà «gloria a Dio» (v.15).
Ossia: lo riconosce suo Signore personale - in un rapporto, appunto, senza mediazioni.
Quel personale «fare-Eucaristia» […] «e cadde sulla faccia presso i suoi piedi» (v.16 testo greco) ha un significato forte, sponsale, di perfetta reciprocità nel Cammino.
Tutto nell’orizzonte di una scelta cruciale - dirimente - fra vita di qualità esclusiva, o morte.
Pur emarginati dai “recinti sacri” del Tempio nella Città Santa - proprio i lontani e rifiutati (considerati bastardi e nemici) capiscono immediatamente ciò che non sfigura il volto della loro umanità.
A ben guardare, nel terzo Vangelo i modelli della Fede sono tutti ‘estranei’: centurione, prostituta, emorroissa, cieco; così via.
Essi percepiscono subito i segni della Vita, segni di Dio!
Altri più insediati o attratti dalle normalità si accontentano di farsi reintegrare nella pratica religiosa vetusta e comune, tornando alle solite cose impersonali, e al culto di massa.
Ma chi si lascia asservire, perde traccia di sé e del Cristo (v.17); ridiventa schiavo della mentalità allineata, convenzionalista; non vagliata - e succube della ‘permanenza’.
Invece, se riconosciuta [come ad es. nel caso del samaritano] una Presenza a nostro favore ci fa ritrovare, scoprire, e capire.
Essa procede impareggiabile attraversando tutti i nostri stati d’animo - senza più rimorsi verso i doveri che non ci appartengono.
Tale Amicizia fa recuperare i punti fermi dei codici umani davvero intimi, potenziando - fuori le righe - sia il sistema di riconoscimento di noi stessi che il modo autentico e irripetibile di onorare Dio nei fratelli.
Insomma, percorrendo con ottimismo e speranza la nostra personalissima Via, giungiamo incontro al Cristo vivo; non al vociare del Tempio [antico o alla moda].
Esso non manda più messaggi preziosi; solo annota. Batte in testa, ma non tocca dentro.
C’intrappolerà in una rete di pensieri prevedibili, sorveglianze nemiche, costumi indotti; così via.
Circa l’essenziale disponibilità divina a cogliere le differenze come ricchezza, ricordiamo l’insegnamento del maestro sufi Ibn Ata Allah, che sosteneva l’immediatezza senza eguali del Colloquio personale - dove sapienza dell’analisi ed esperienza dell’ebbrezza si congiungono:
«Egli fa giungere su di te l’illuminazione perché per mezzo di essa tu giunga a Lui; la fa giungere su di te per toglierti dalla mano degli altri; la fa giungere su di te per liberarti dalla schiavitù delle creature; la fa giungere su di te per farti uscire dalla prigione della tua esistenza verso il cielo della contemplazione di Lui».
Vita nuova, piena, definitiva.
Le persone di Fede staccano dall’identità religiosa esterna: sognano, amano e inventano strade; deviano e non seguono un percorso già tracciato.
[28.a Domenica T.O. (anno C), 12 ottobre 2025]
Gloria straniera (o cultura religiosa che partorisce modelli e schiavi)
(Lc 17,11-19)
L’impuro doveva stare fuori dai piedi: tutto ciò che era diverso dal pensiero dominante veniva scalzato.
Secondo lo schema religioso antico, i luoghi degli “infetti” erano considerati pari a cimiteri.
Le malattie erano immaginate come castighi per le inadempienze.
Ma la lebbra - morbo che corrode dentro - era il simbolo stesso del peccato [tuttavia qui sembrano proprio gli osservanti l’immagine ambulante della morte].
L’eventuale guarigione era valutata al pari d’una miracolosa risuscitazione.
E prima d’essere riammessi in società bisognava espiare tutte le colpe (supposte).
Gesù sostituisce la globalità snervante di queste trafile arcano-superstiziose con un semplicissimo percorso in uscita.
Così distrugge la devozione idolatrica arcaica, scaramantica, soppiantandola con una proposta di vita reale.
Il passo è esclusivo di Lc ma in tutti i Vangeli il termine «villaggio» ha connotati fortemente negativi.
«Villaggi» sono i luoghi in cui il Signore non viene accolto. Lì non c’è posto per il nuovo, e se attecchisce diventa tradizione obbligante.
Sono territori e paludi della riduzione, della conferma cocciuta, del voler riprodurre pensieri consolidati e imporre costumi più o meno serafici a chicchessia. Li conosciamo.
Nella Chiesa la mentalità del «villaggio» è quella della certezza a tutti i costi.
Convinzione ipica di chi si ritiene sacralmente corretto e abilitato a emarginare, scacciare, rifiutare, tenere lontano, non prendere in considerazione.
Il brano ha diversi livelli di lettura.
Il Maestro cammina con gli Apostoli e si rivolge loro (Lc 17,1-11) ma d’improvviso sembra trovarsi solo (v.12). Come se i “lebbrosi del villaggio” non fossero che i suoi [a quel tempo nessun affetto dalla malattia poteva dimorare in luoghi residenziali].
L’impurità contratta dai discepoli conclamati e anche da noi oggi dipende proprio dalla condizione guasta, di scadimento e corruzione dell’ambiente ridotto e infetto.
Quest’ultimo rende impossibile la rigenerazione - perché in esso gli stessi seguaci (che paiono intimi) talora si chiudono, tutti raggruppati.
I dieci lebbrosi ci rappresentano.
Lo stesso numero indica una totalità (come le dita).
Ma proprio qui, se veniamo almeno resi coscienti della separazione dalla realizzazione del nostro volto, ecco il primo passo per un coinvolgimento personale col Signore.
Tutti abbiamo segni di non-vita.
Chi si ritiene arrivato e indenne da patologie alza steccati per proteggere sé e il proprio mondo, ma resta lì, impacciato.
Quando viceversa tocca con mano che lo sviluppo non è ancora fiorito, scatta un senso di tolleranza verso il prossimo, e la molla personale che sorvola adesioni vuote, intimiste, o coartate.
Anche nelle prime assemblee dei chiamati a essere figli e fratelli, talora si manifestava una mentalità autocompiaciuta e isolazionista nei confronti dei pagani che si presentavano alla soglia delle comunità.
I nuovi - passati ai raggi x dai veterani che non sopportavano differenti specificità - gridavano appellandosi direttamente al Cristo stesso.
Scattava la domanda - tutta attuale:
«Tu che stai a capo [v.13 testo greco], Tu che comandi la chiesa, cosa pensi dei tuoi? Cosa dici di questa mentalità da villaggio?»
«I primi che si credono in diritto di scansare gli altri, davvero hanno titolo per farlo?»
«Il Padre che annunciavi è ridiventato esattamente come il Dio arcigno delle religioni?».
Infatti i “lebbrosi” non chiedono guarigione, bensì compassione.
Insomma, il Richiamo è “interno”.
Ciò significa che sono proprio i fenomeni del ruolo o ministero acquisito - forse colonialista - che dovrebbero farsi sanare.
Condizionati da false guide, non di rado anche noi approcciamo Cristo in modo astruso, sbagliato: chiedendogli «Pietà».
All’Amico o a un Padre non si chiede «Pietà».
Per questo Gesù è netto. Chi si ritiene immondo o vuol essere commiserato deve andare altrove, rivolgersi alla religione ufficiale.
Ognuno è completo, e lo si vede nella scelta dello straniero che da solo capisce e torna a Cristo.
Nessuno ha bisogno di mettersi in castigo, sottomettendosi a protocolli conformisti.
Ma allora erano i sacerdoti del Tempio a verificare e decidere se il già guarito (!) potesse venire riammesso in società.
Insomma, tutti noi peccatori siamo resi puri non da miracoli che scendono come fulmini, ma nell’Esodo.
Tragitto che smuove dall’ambiente putrido e ammalorato - ben prima che qualcuno controlli, faccia raccomandazioni banali, e detti il ritmo di praticucce a postilla.
È solo il «villaggio» che ci fa - e considera - impuri… perché non gli assomigliamo!
Basta uscire da pensieri e costumanze ghettizzanti per acquistare serenità e motivazioni: non ci sentiremo più dei rifiutati e additati.
Scopriremo noi stessi e il Dio-con.
Egli ci ha fatti così per una Missione speciale; non ricalcata su prototipi da copiare come fossimo idioti: bensì figli sommamente amabili.
Il Padre ci vede perfetti, e a suo tempo farà sorgere perle sbalorditive proprio dalle nostre supposte o intruse indegnità.
Inadeguatezze al “villaggio”, che compongono e completano il bagaglio della nostra preziosa personalità, e irripetibile Vocazione.
Guarda caso, ci realizziamo spiritualmente solo valicando gli steccati “culturali” locali.
Anche non obbedendo a ordini, ma trasgredendoli (vv.14ss.)!
In tal guisa, Gesù non contempla inquisitori.
Dobbiamo lasciarci controllare unicamente dallo Spirito, che già ci anima.
È questione risolutiva. Infatti: il senso del testo non riguarda i ringraziamenti da fare!
Gesù non si rattrista perché verifica una mancanza di riconoscenza e buone maniere, bensì per il fatto che solo uno straniero dà «gloria a Dio» (v.15).
Ossia: lo riconosce suo Signore personale - in un rapporto, appunto, senza mediazioni.
Quel personale «fare-Eucaristia» […] «e cadde sulla faccia presso i suoi piedi» (v.16 testo greco) ha un significato forte, sponsale, di perfetta reciprocità nel Cammino.
Tutto nell’orizzonte di una scelta cruciale - non paciosa, né pacata e buonista, ma dirimente - fra vita di qualità esclusiva, o morte.
Pur emarginati dai “recinti sacri” del Tempio nella Città Santa - proprio i lontani e rifiutati (considerati bastardi e nemici) capiscono immediatamente ciò che non sfigura il volto della loro umanità.
Qui Lc cita il termine alloghenès (v.18) scolpito a caratteri cubitali nelle tavolette affisse sul primo dei parapetti interni del Santuario di Gerusalemme [quello che sotto pena di morte impediva la partecipazione dei pagani al sacrificio cultuale ebraico].
Ma a ben guardare, nel terzo Vangelo i modelli della Fede sono tutti “estranei”: centurione, prostituta, emorroissa, cieco, così via.
Essi percepiscono subito i segni della Vita, segni di Dio!
Altri più insediati o attratti dalle normalità si accontentano di farsi reintegrare nella pratica religiosa vetusta e comune, tornando alle solite cose impersonali, e al culto di massa.
Eppure, chi si riadatta all’andazzo di tutti, si fa asservire; perde traccia di sé e del Cristo (v.17).
Costui ridiventa schiavo della mentalità allineata, convenzionalista; non vagliata - e succube della ‘permanenza’.
Secondo l’enciclica Fratelli Tutti la custodia delle differenze è il criterio della vera fraternità, che non annienta i picchi estroversi.
Infatti perfino in un rapporto d’amore profondo e coesistenza «c’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali» [Amoris Laetitia, n.139].
Ancora Papa Francesco:
«Mentre la Solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare eguali, la Fraternità è quello che consente agli eguali di essere persone diverse» [Messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 24/04/2017].
Insomma, percorrendo con ottimismo e speranza la nostra personalissima Via, giungiamo incontro al Cristo vivo; non al vociare del Tempio [antico o alla moda].
Esso non manda più messaggi preziosi; solo annota. Batte in testa, ma non tocca dentro.
C’intrappolerà in una rete di pensieri prevedibili, sorveglianze nemiche, costumi indotti; così via.
Domesticazioni prive d’affinità con vicende di peso specifico - senza il passo alleato delle persone d’una cultura e sensibilità particolari.
Coloro che stanno sanando il mondo.
Malgrado l’appartenenza esibita, dietro sacre quinte ufficiali, i rapporti spesso si allentano; non rigenerano.
In quei territori spesso vengono partoriti modelli e prototipi, codici e brevetti, ottusità di meschini primattori - figurini della ristrettezza.
Invece, se riconosciuta [come ad es. nel caso del samaritano] una Presenza a nostro favore ci fa ritrovare, scoprire, e capire.
Essa procede impareggiabile attraversando tutti i nostri stati d’animo - senza più rimorsi verso i doveri che non ci appartengono.
Tale Amicizia fa recuperare i punti fermi dei codici umani davvero intimi, potenziando - fuori le righe - sia il sistema di riconoscimento di noi stessi che il modo autentico e irripetibile di onorare Dio nei fratelli.
Non più privilegio esclusivo di eletti e migliori… tutti non decisivi.
Circa l’essenziale disponibilità divina a cogliere le differenze come ricchezza, ricordiamo l’insegnamento del maestro sufi Ibn Ata Allah, che sosteneva l’immediatezza senza eguali del Colloquio personale - dove sapienza dell’analisi ed esperienza dell’ebbrezza si congiungono:
«Egli fa giungere su di te l’illuminazione perché per mezzo di essa tu giunga a Lui; la fa giungere su di te per toglierti dalla mano degli altri; la fa giungere su di te per liberarti dalla schiavitù delle creature; la fa giungere su di te per farti uscire dalla prigione della tua esistenza verso il cielo della contemplazione di Lui».
Vita nuova, piena, definitiva.
Le persone di Fede staccano dall’identità religiosa esterna: sognano, amano e inventano strade; deviano e non seguono un percorso già tracciato.
Il Vangelo di questa domenica presenta Gesù che guarisce dieci lebbrosi, dei quali solo uno, samaritano e dunque straniero, torna a ringraziarlo (cfr Lc 17, 11-19). A lui il Signore dice: "Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!" (Lc 17, 19). Questa pagina evangelica ci invita ad una duplice riflessione. Innanzitutto fa pensare a due gradi di guarigione: uno, più superficiale, riguarda il corpo; l'altro, più profondo, tocca l'intimo della persona, quello che la Bibbia chiama il "cuore", e da lì si irradia a tutta l'esistenza. La guarigione completa e radicale è la "salvezza". Lo stesso linguaggio comune, distinguendo tra "salute" e "salvezza", ci aiuta a capire che la salvezza è ben più della salute: è infatti una vita nuova, piena, definitiva. Inoltre, qui Gesù, come in altre circostanze, pronuncia l'espressione: "La tua fede ti ha salvato". È la fede che salva l'uomo, ristabilendolo nella sua relazione profonda con Dio, con se stesso e con gli altri; e la fede si esprime nella riconoscenza. Chi, come il samaritano sanato, sa ringraziare, dimostra di non considerare tutto come dovuto, ma come un dono che, anche quando giunge attraverso gli uomini o la natura, proviene ultimamente da Dio. La fede comporta allora l'aprirsi dell'uomo alla grazia del Signore; riconoscere che tutto è dono, tutto è grazia. Quale tesoro è nascosto in una piccola parola: "grazie"!
Gesù guarisce dieci malati di lebbra, infermità allora considerata una "impurità contagiosa" che esigeva una purificazione rituale (cfr Lv 14, 1-37). In verità, la lebbra che realmente deturpa l'uomo e la società è il peccato; sono l'orgoglio e l'egoismo che generano nell'animo umano indifferenza, odio e violenza. Questa lebbra dello spirito, che sfigura il volto dell'umanità, nessuno può guarirla se non Dio, che è Amore. Aprendo il cuore a Dio, la persona che si converte viene sanata interiormente dal male.
"Convertitevi e credete al Vangelo" (cfr Mc 1, 15). Gesù dette inizio alla sua vita pubblica con quest'invito, che continua a risuonare nella Chiesa. […] Alla Madonna chiediamo per tutti i cristiani il dono di una vera conversione, perché sia annunciato e testimoniato con coerenza e fedeltà il perenne messaggio evangelico, che indica all'umanità la via dell'autentica pace.
[Papa Benedetto, Angelus 14 ottobre 2007]
“Mga kaibigan” (Cari amici)
“Maraming salamat sa inyong lahat” (Ringrazio calorosamente voi tutti).
Avrei voluto visitarvi al vostro domicilio, ma non è stato possibile. Vi ringrazio per essere venuti invece a incontrare me. Vi ringrazio per avere voluto rappresentare gli altri che volevano tanto venire ma che non hanno potuto. Lo stare con voi oggi reca grande gioia al mio cuore. Vi saluto con affetto e spero che sappiate quanto ho atteso questo nostro incontro.
Nelle mie precedenti visite pastorali in Africa e in Brasile ho incontrato altri uomini e donne malati di lebbra. Questi incontri hanno lasciato in me una profonda impressione, perché ho potuto apprezzare la pazienza amorosa e il coraggio con cui vivono nonostante le prove e le avversità.
1. Mi trovo qui in nome di Cristo Gesù per ricordarvi il suo straordinario amore per tutti i suoi fratelli e sorelle, ma in particolare per ciascuno di voi. I Vangeli danno testimonianza di questa verità. Pensate per un momento quanto spesso Gesù manifestò la sua preoccupazione trasformando situazioni di necessità in momenti di grazia. Nel Vangelo di San Luca, per esempio, Gesù è avvicinato da dieci lebbrosi che chiedono di essere guariti. Il Signore ordina loro di mostrarsi ai sacerdoti, e lungo la via vengono guariti. Uno di essi ritorna per rendere grazie. Nella sua gratitudine dimostra una fede che è forte, gioiosa e piena di lode per la meraviglia dei doni di Dio. Evidentemente Gesù ha toccato con il suo amore l’intimità profonda dell’essere di questo uomo.
2. Ancora nei Vangeli di Matteo e Marco, ci viene presentato un lebbroso che chiede a Gesù di guarirlo ma soltanto se è la sua volontà. Che grande riconoscenza prova l’uomo quando la sua domanda e ascoltata! Egli parte per diffondere la gioiosa notizia del miracolo a tutti coloro che incontra. Una felicità così grande deriva dalla fede dell’uomo. Le sue parole “se vuoi tu puoi mondarmi” riflettono una disponibilità ad accettare qualunque cosa Gesù desideri per lui. E la sua fede in Gesù non fu delusa! Cari fratelli e sorelle, possa la vostra fede in Gesù essere non meno ferma e costante della fede di queste persone nei Vangeli.
3. So che la vostra afflizione comporta intense sofferenze, non soltanto attraverso le sue manifestazioni fisiche, ma anche per i malintesi che tante persone della società continuano ad associare al morbo di Hansen. Spesso vi imbattete in pregiudizi molto antichi, e questi diventano una fonte di sofferenza ancora maggiore. Da parte mia continuerò a proclamare davanti al mondo la necessità di una consapevolezza ancora maggiore del fatto che, attraverso un aiuto appropriato, questa malattia potrà effettivamente essere vinta. Per questo motivo chiedo a tutti dovunque di appoggiare sempre di più i coraggiosi sforzi che vengono fatti per debellare la lebbra e curare efficacemente coloro che ne sono ancora affetti.
4. Prego affinché non siate mai scoraggiati o inaspriti. Dovunque e ogni qualvolta incontrate la Croce, abbracciatela come fece Gesù, affinché venga compiuta la volontà del Padre. Che la vostra sofferenza sia offerta a beneficio di tutta la Chiesa, in modo che possiate dire con san Paolo: “Perciò sono lieto nelle mie sofferenze... e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del Suo Corpo che è la Chiesa...”(Col 1,24).
Tre giorni or sono beatificavo nel vostro Paese sedici martiri di Nagasaki. Tra di essi vi è il Beato Lazzaro di Kyoto, che era lebbroso. Quanto esultiamo per l’aiuto che il beato Lazzaro fornì ai missionari come traduttore e guida. Infine il suo impegno a diffondere il Vangelo gli costò la vita; morì spargendo il suo sangue per la fede. Il suo amore per Cristo comportò molta sofferenza, anche dolori torturanti! Sperimentò l’incomprensione, la ripulsa e l’odio degli altri nel suo servizio alla Chiesa! Ma con la forza della grazia di Dio, il Beato Lazzaro diede testimonianza della fede e meritò il dono prezioso della corona del martirio.
Cari amici, vi invito a imitare il coraggio del Beato Lazzaro che è così vicino a voi. Condividete le convinzioni della vostra fede con i vostri fratelli e sorelle che soffrono con voi. Contraccambiate l’amore dei medici, degli infermieri e dei volontari che si prendono così generosamente cura di voi. Lavorate per costruire una comunità di fede vivente, una comunità che dia supporto, che rinforzi e che arricchisca la Chiesa universale. È qui il vostro servizio a Cristo! È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore!
Che Dio vi benedica, cari fratelli e sorelle! Benedica tutti i malati di lebbra in questo Paese! Benedica le vostre famiglie, i vostri amici e tutti quelli che vi assistono! “Ai higit sa lahat, inihahabilin ko ang aking sarili sa inyong panalangin, sa inyong pagmamahal” (E soprattutto, mi raccomando alla vostra preghiera e al vostro amore).
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso al Lebbrosario di Tala, Manila 21 febbraio 1981]
Vorrei soffermarmi oggi sulla preghiera di ringraziamento. E prendo lo spunto da un episodio riportato dall’evangelista Luca. Mentre Gesù è in cammino, gli vengono incontro dieci lebbrosi, che implorano: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (17,13). Sappiamo che, per i malati di lebbra, alla sofferenza fisica si univa l’emarginazione sociale e l’emarginazione religiosa. Erano emarginati. Gesù non si sottrae all’incontro con loro. A volte va oltre i limiti imposti dalle leggi e tocca il malato - che non si poteva fare - lo abbraccia, lo guarisce. In questo caso non c’è contatto. A distanza, Gesù li invita a presentarsi ai sacerdoti (v. 14), i quali erano incaricati, secondo la legge, di certificare l’avvenuta guarigione. Gesù non dice altro. Ha ascoltato la loro preghiera, ha ascoltato il loro grido di pietà, e li manda subito dai sacerdoti.
Quei dieci si fidano, non rimangono lì fino al momento di essere guariti, no: si fidano e vanno subito, e mentre stanno andando guariscono tutti e dieci. I sacerdoti avrebbero dunque potuto constatare la loro guarigione e riammetterli alla vita normale. Ma qui viene il punto più importante: di quel gruppo, solo uno, prima di andare dai sacerdoti, torna indietro a ringraziare Gesù e a lodare Dio per la grazia ricevuta. Solo uno, gli altri nove continuano la strada. E Gesù nota che quell’uomo era un samaritano, una specie di “eretico” per i giudei del tempo. Gesù commenta: «Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (17,18). E’ toccante il racconto!
Questo racconto, per così dire, divide il mondo in due: chi non ringrazia e chi ringrazia; chi prende tutto come gli fosse dovuto, e chi accoglie tutto come dono, come grazia. Il Catechismo scrive: «Ogni avvenimento e ogni necessità può diventare motivo di ringraziamento» (n. 2638). La preghiera di ringraziamento comincia sempre da qui: dal riconoscersi preceduti dalla grazia. Siamo stati pensati prima che imparassimo a pensare; siamo stati amati prima che imparassimo ad amare; siamo stati desiderati prima che nel nostro cuore spuntasse un desiderio. Se guardiamo la vita così, allora il “grazie” diventa il motivo conduttore delle nostre giornate. Tante volte dimentichiamo pure di dire “grazie”.
Per noi cristiani il rendimento di grazie ha dato il nome al Sacramento più essenziale che ci sia: l’Eucaristia. La parola greca, infatti, significa proprio questo: ringraziamento. I cristiani, come tutti i credenti, benedicono Dio per il dono della vita. Vivere è anzitutto aver ricevuto la vita. Tutti nasciamo perché qualcuno ha desiderato per noi la vita. E questo è solo il primo di una lunga serie di debiti che contraiamo vivendo. Debiti di riconoscenza. Nella nostra esistenza, più di una persona ci ha guardato con occhi puri, gratuitamente. Spesso si tratta di educatori, catechisti, persone che hanno svolto il loro ruolo oltre la misura richiesta dal dovere. E hanno fatto sorgere in noi la gratitudine. Anche l’amicizia è un dono di cui essere sempre grati.
Questo “grazie” che dobbiamo dire continuamente, questo grazie che il cristiano condivide con tutti, si dilata nell’incontro con Gesù. I Vangeli attestano che il passaggio di Gesù suscitava spesso gioia e lode a Dio in coloro che lo incontravano. I racconti del Natale sono popolati di oranti con il cuore allargato per la venuta del Salvatore. E anche noi siamo stati chiamati a partecipare a questo immenso tripudio. Lo suggerisce anche l’episodio dei dieci lebbrosi guariti. Naturalmente tutti erano felici per aver recuperato la salute, potendo così uscire da quella interminabile quarantena forzata che li escludeva dalla comunità. Ma tra loro ce n’è uno che a gioia aggiunge gioia: oltre alla guarigione, si rallegra per l’avvenuto incontro con Gesù. Non solo è liberato dal male, ma possiede ora anche la certezza di essere amato. Questo è il nocciolo: quando tu ringrazi, esprimi la certezza di essere amato. E questo è un passo grande: avere la certezza di essere amato. È la scoperta dell’amore come forza che regge il mondo. Dante direbbe: l’Amore «che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, XXXIII, 145). Non siamo più viandanti errabondi che vagano qua e là, no: abbiamo una casa, dimoriamo in Cristo, e da questa “dimora” contempliamo tutto il resto del mondo, ed esso ci appare infinitamente più bello. Siamo figli dell’amore, siamo fratelli dell’amore. Siamo uomini e donne di grazia.
Dunque, fratelli e sorelle, cerchiamo di stare sempre nella gioia dell’incontro con Gesù. Coltiviamo l’allegrezza. Invece il demonio, dopo averci illusi - con qualsiasi tentazione - ci lascia sempre tristi e soli. Se siamo in Cristo, nessun peccato e nessuna minaccia ci potranno mai impedire di continuare con letizia il cammino, insieme a tanti compagni di strada.
Soprattutto, non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza. Il mondo ha bisogno di speranza e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dire grazie, noi trasmettiamo un po’ di speranza. Tutto è unito, tutto è legato e ciascuno può fare la sua parte là dove si trova. La strada della felicità è quella che San Paolo ha descritto alla fine di una delle sue lettere: «Pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito» (1 Ts 5,17-19). No spegnere lo Spirito, bel programma di vita! Non spegnere lo Spirito che abbiamo dentro ci porta alla gratitudine.
[Papa Francesco, Udienza Generale 30 dicembre 2020]
Fratelli tutti e noi stessi
(Lc 11,27-28)
Nella mentalità antica la gioia della madre era la grandezza conclamata del figlio.
Gesù contesta che l’autenticità della Beatitudine possa essere legata a rapporti di clan e parentela fisica, o di strepito sociale.
Il Signore smonta ogni esteriorità. Rifiuta questo modo rozzo di concepire la fortuna della vita.
La Felicità piena dipende dalla percezione delle proprie radici essenziali e della unicità preziosa che siamo - non viene a noi dal ricalco sociale, o per l’appartenenza da sempre.
Proprio qui la Parola di Dio introduce nella comprensione del motivo irripetibile per cui siamo nati, e trascina in modo energetico integrale; facendoci nuovi ogni giorno.
La Parola vive nel nostro lato Eterno; è oltre il tempo, e sembra faccia diventare stranieri. Eppure non è una rivale disarmonica.
Viaggiando verso la Mèta che non sappiamo, avanziamo assieme ad essa. Senza prima le definizioni.
Così i fratelli; ciascuno nel Verbo dispiegato e originale, per la crescita. Senza prima i giudizi.
La sacra Scrittura è chiave di lettura degli accadimenti; un evento che ci attraversa e insieme una sorta di codice genetico.
Fiuto il quale consente a ciascuno di rivivere Cristo in modo sereno e fiducioso, malgrado eventuali lati logori della personalità.
Ogni letizia dei rapporti umani nel focolare domestico diventa così piattaforma per il nostro balzo verso la più vasta Famiglia umana. Uno stupore.
In tale Esodo gli affetti particolari sono via via integrati dalla scoperta, da una impensata missione, dalla vita qualitativa di condivisione universale.
«Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e [la] custodiscono» (v.28).
Maria ha generato il Messia, ma ancor più ha fatto Persona non comune la Parola.
Il suo vero titolo di gloria - ciò che le vale - è aver saputo accogliere la proposta d’un cammino di crescita che ha riscritto le aspettative e la storia.
Nei loro processi, la vita segreta con Dio e i codici dell’anima acquistano respiro e godono del venir meno di vantaggi già riconosciuti.
In tal guisa, persino nella devozione alla Madre di Dio vogliamo riconoscere il valore d’un cammino in fieri.
La capacità di poter mettere in campo i lati insoliti, i caratteri distinti; fare spazio dentro, poi generarli, e nutrirli.
Spesso, infatti, costumi o convinzioni fisse non sbloccano le situazioni difficili, né consentono di attivare svolte di trasformazione.
Diventano lacci a nodo scorsoio.
Viceversa, la Via dell’Esodo nel Signore dona un’esperienza di scoperta e rilancio di virtù cui ancora non abbiamo dato fioritura completa.
Come per la Madre: nella Gioia integrale, non attraverso quietismi - né con rivincite che allontanino dai fratelli tutti e da noi stessi.
[Sabato 27.a sett. T.O. 11 ottobre 2025]
Fratelli tutti e noi stessi
(Lc 11,27-28)
«All’inizio l’attaccamento potrà sembrare amore, ma a mano a mano che si sviluppa diventa sempre più chiaramente l’opposto, caratterizzato dall’aggrapparsi, dal tenere sotto controllo, dalla paura» (Jack Kornfield).
Nella mentalità antica la gioia della madre era la grandezza conclamata del figlio.
Gesù contesta che l’autenticità della Beatitudine possa essere legata a rapporti di clan e parentela fisica, o di strepito sociale.
Il Signore smonta ogni esteriorità. Rifiuta questo modo rozzo di concepire la fortuna della vita.
Non si è felici per il cognome illustre o per il sangue. Anche essere nipote di cardinale o re non significherebbe nulla.
La Felicità piena dipende dalla percezione delle proprie radici essenziali e della unicità preziosa che siamo - non viene a noi da una tribù, dal ricalco sociale, o per l’appartenenza da sempre.
Proprio qui la Parola di Dio introduce nella comprensione del motivo irripetibile per cui siamo nati, e trascina in modo energetico integrale; facendoci nuovi ogni giorno.
La Parola vive nel nostro lato Eterno; è oltre il tempo, e sembra faccia diventare stranieri. Eppure non è una rivale disarmonica.
Viaggiando verso la Mèta che non sappiamo, avanziamo assieme ad essa. Senza prima le definizioni.
Così i fratelli; ciascuno nel Verbo dispiegato e originale, per la crescita. Senza prima i giudizi.
La sacra Scrittura è chiave di lettura degli accadimenti; un evento che ci attraversa e insieme una sorta di codice genetico.
Fiuto il quale consente a ciascuno di rivivere Cristo in modo sereno e fiducioso, malgrado eventuali lati logori della personalità.
Ogni letizia dei rapporti umani nel focolare domestico diventa così piattaforma per il nostro balzo verso la più vasta Famiglia umana. Uno stupore.
In tale esodo gli affetti particolari sono via via integrati dalla scoperta, da una impensata missione, dalla vita qualitativa e beata di condivisione universale.
Maria ha generato il Messia, ma ancor più ha fatto Persona non comune la Parola.
Il suo vero titolo di gloria - ciò che Le vale - è aver saputo accogliere la proposta d’un cammino di crescita che ha riscritto le aspettative e la storia.
Chi si attacca agli aspetti più ordinari dell’esistere materiale, o di consorteria - e alle sicurezze tutto sommato scadenti [cui però ci aggrappiamo volentieri] rischia di entrare in crisi terribile quando tante assicurazioni si sgretolano.
La differenza personale e sociale tra religiosità mediocre e traiettoria ideale di Fede?
Nei loro processi, la vita segreta con Dio e i codici dell’anima acquistano respiro e godono del venir meno di vantaggi già riconosciuti!
«Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e [la] custodiscono» (v.28).
La «Beatitudine», pienezza di essere e di umanizzazione, chiede un distacco da situazioni abitudinarie, anche di piccolo vincolo parentale - cui siamo aggrappati.
Talora anche i pregiudizi di ‘carisma’ istituzionale (o di “cordata”) non vengono a capo di nulla.
I modi usuali, le domesticazioni da routine, tante emozioni imprigionate, ma anche i codici di gruppo... possono essere di ostacolo allo sviluppo e fioritura della semenza interiore che più ci appartiene.
In tal guisa, persino nella devozione a Maria vogliamo riconoscere il valore d’un cammino in fieri.
Desideriamo cogliere come dare il benvenuto alla Vocazione - sia essa individuale, di relazione, comunitaria, e al Logos stesso di Dio.
E come cercare di comprenderli nel profondo, lasciando che ci plasmino la destinazione.
Cerchiamo allora in che modo fare spazio dentro, rispettando i caratteri distinti.
In aggiunta, proprio riallacciando i nodi dell’essere, potremmo intuire come ritessere l’identità-carattere personale con apporto creativo.
In quale maniera poi partorire l’altro al suo procedere. Come allattarlo e nutrirlo con cibo via via più solido, e accompagnarlo, sostenerlo.
Infine irradiarlo, affinché anche attorno a sé trabocchi e scateni lo Spirito della Vita che nobilita la dignità creaturale - esaltandone le aspirazioni.
La pietà antica rimandava a un progetto di convivenza unilaterale, che pur nutriva l’anima individuale in modo intimo.
Ma talora il troppo “saper stare al mondo” [attorno] non metteva in campo i lati insoliti, che pure chiedevano spazio.
Vale anche per noi; in specie nel tempo della crisi globale.
Evitare ciò che sorprende non costruisce comunione nella Novità epocale dello Spirito divino: ossia, convivialità delle differenze.
Ebbene, quantunque situati nell’era dell’emergenza, l’azzardo largo della Fede ci ripropone invece un ‘fuoco’ di vita, di passione.
Ecco un’ebbrezza alternativa, davvero appagante. Un brio che supera le tacite convinzioni di ripiego, soffocanti.
La vita di Fede vuole appunto rompere l’uniformità conformista e il suo tran tran di blocchi, linguaggi e lacciuoli (a nodo scorsoio).
Costumi o pareri che non sbloccano le situazioni difficili, né consentono di attivare svolte di trasformazione.
Diventano appunto [è bene ribadire] lacci a nodo scorsoio.
Viceversa, la Via dell’Esodo nel Signore dona un’esperienza di scoperta e rilancio di virtù cui ancora non abbiamo dato fioritura completa.
Come per la Madre: nella Gioia integrale, non attraverso quietismi - né con rivincite che allontanino dai ‘fratelli tutti’ e da noi stessi.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ritieni che la tua vicenda personale giaccia ancora nella morte, e non sia ancora riscattata da una vittoria di Pasqua?
Per quale motivo?
A quale Speranza piena o idea di fortuna - a cosa e Chi - sei legato?
O ti lasci sedurre da quietismi, da manipolatori, e mentalità vincenti?
Di più, quella Luce nell’intimo dei Pastorelli, che proviene dal futuro di Dio, è la stessa che si è manifestata nella pienezza dei tempi ed è venuta per tutti: il Figlio di Dio fatto uomo. Che Egli abbia il potere di infiammare i cuori più freddi e tristi, lo vediamo nei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,32). Perciò la nostra speranza ha fondamento reale, poggia su un evento che si colloca nella storia e al tempo stesso la supera: è Gesù di Nazaret. E l’entusiasmo suscitato dalla sua saggezza e dalla sua potenza salvifica nella gente di allora era tale che una donna in mezzo alla moltitudine – come abbiamo ascoltato nel Vangelo – esclama: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato». Tuttavia Gesù rispose: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11, 27.28). Ma chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi affascinare dal suo amore? Chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto in preghiera? Chi aspetta l’alba del nuovo giorno, tenendo accesa la fiamma della fede? La fede in Dio apre all’uomo l’orizzonte di una speranza certa che non delude; indica un solido fondamento sul quale poggiare, senza paura, la propria vita; richiede l’abbandono, pieno di fiducia, nelle mani dell’Amore che sostiene il mondo.
«Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, […] essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (Is 61,9) con una speranza incrollabile e che fruttifica in un amore che si sacrifica per gli altri ma non sacrifica gli altri; anzi – come abbiamo ascoltato nella seconda lettura – «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). Di ciò sono esempio e stimolo i Pastorelli, che hanno fatto della loro vita un’offerta a Dio e una condivisione con gli altri per amore di Dio. La Madonna li ha aiutati ad aprire il cuore all’universalità dell’amore. In particolare, la beata Giacinta si mostrava instancabile nella condivisione con i poveri e nel sacrificio per la conversione dei peccatori. Soltanto con questo amore di fraternità e di condivisione riusciremo ad edificare la civiltà dell’Amore e della Pace.
[Papa Benedetto, omelia a Fatima 13 maggio 2010]
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore. Occorre saper contemplare. L’uomo d’oggi sente molto il bisogno di non limitarsi alle pure preoccupazioni materiali, e di integrare invece la propria cultura tecnica con superiori e disintossicanti apporti provenienti dal mondo dello spirito [Giovanni Paolo II]
This can only take place on the basis of an intimate encounter with God, an encounter which has become a communion of will, even affecting my feelings (Pope Benedict)
Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento (Papa Benedetto)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
We are faced with the «drama of the resistance to become saved persons» (Pope Francis)
Siamo davanti al «dramma della resistenza a essere salvati» (Papa Francesco)
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]
don Giuseppe Nespeca
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