don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

3a Domenica di Avvento (anno A)  [14 dicembre 2025] 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! “Rallegratevi sempre nel Signore… il Signore è vicino”. L’annuncio di questa terza domenica di Avvento è l’annuncio della gioia del Natale vicino. L’Avvento ci educa a saper attendere con paziente speranza Gesù che certamente verrà. 

 

*Prima Lettura dal libro del profeta Isaia (35, 1...10)

Questo passo proviene dalla Piccola Apocalisse di Isaia detta “Apocalisse minore”(cc34-35), probabilmente scritta da un autore anonimo, e  racconta il gioioso ritorno di Israele dall’esilio a Babilonia. Siamo nel periodo in cui il popolo ha subito il sacco di Gerusalemme e trascorso oltre cinquanta anni lontano dalla propria terra, vivendo umiliazioni e sofferenze che scoraggiano anche i più forti. Isaia, vissuto nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia, rassicura il popolo spaventato: “Ecco il vostro Dio: giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”. Il risultato sarà la liberazione dei sofferenti: ciechi vedranno, sordi udranno, zoppi salteranno di gioia, muti grideranno di gioia. Il popolo ha patito anni di dominazione, deportazione con umiliazioni e tante prove anche religiose: un tempo che scoraggia e fa temere per il futuro. L’autore usa l’espressione “vendetta di Dio”, che oggi può sorprendere. Ma qui la vendetta non è punizione sugli uomini: è la sconfitta del male che li opprime e la liberazione che Dio dona. Dio interviene personalmente per salvare, riscattare e ridare dignità: i ciechi vedranno, i sordi udranno, i zoppi salteranno e i muti grideranno di gioia. Il ritorno dall’esilio è descritto come una marcia trionfale attraverso il deserto: l’arido paesaggio si trasforma in terra fertile e lussureggiante, bella quanto le montagne del Libano, le colline del Carmelo e la pianura del Sarone, simboli di abbondanza e bellezza nella terra di Israele. Questo percorso indica che anche le prove più dure possono diventare un cammino di gioia e speranza quando Dio interviene. Il deserto, simbolo di difficoltà e prova, si trasforma così in un percorso di gioia e speranza grazie all’intervento di Dio. Il popolo liberato è chiamato “riscattato” e la  liberazione è paragonata al “riscatto” della legge ebraica: così come un parente vicino liberava un debito o riscattava uno schiavo, Dio stesso è il nostro “Go’el”, il Parente che libera chi è oppresso o prigioniero del male. In questo senso, la redenzione significa liberazione: fisica, morale e spirituale. Cantare “Alleluia” significa riconoscere che Dio ci conduce dalla servitù alla libertà, trasformando la disperazione in gioia e il deserto in fioritura. Questo testo ci ricorda che Dio non ci abbandona mai: anche nei momenti più difficili, la sua misericordia e il suo amore ci liberano e ci ridanno speranza e mostra come il linguaggio della Bibbia sappia trasformare parole che sembrano minacciose in promesse di salvezza e speranza, ricordandoci che Dio interviene sempre per liberarci e restaurare la nostra dignità.

.Elementi principali +Contesto: esilio babilonese, Israele lontano dalla terra, autore anonimo. +Piccola Apocalisse di Isaia: profezia di speranza e ritorno alla terra promessa. +Vendetta di Dio: sconfitta del male, non punizione sugli uomini. +Liberazione concreta: ciechi, sordi, zoppi, muti e prigionieri riscattati. +Deserto fiorirà: difficoltà trasformate in gioia e bellezza. +Riscatto/Redenzione: Dio come Go’el, liberatore di chi è oppresso. +Alleluia: canto di lode per la liberazione ricevuta. +Messaggio spirituale: Dio interviene per liberarci e ridarci speranza anche nei momenti più duri.

 

*Salmo responsoriale (145/146, 7-8. 9-10

Questo salmo, un “salmo dell’Alleluia” è un canto pieno di gioia e di riconoscenza, scritto dopo il ritorno del popolo d’Israele dall’esilio di Babilonia, probabilmente per la dedicazione del Tempio ricostruito. Il Tempio era stato distrutto nel 587 a.C. da Nabucodonosor, re di Babilonia. Nel 538 a.C., dopo la conquista di Babilonia da parte del re persiano Ciro, gli Ebrei furono autorizzati a tornare nella loro terra e a ricostruire il Tempio. La ricostruzione non fu facile a causa delle tensioni tra chi rientrava da Babilonia e chi era rimasto in Israele, ma grazie alla forza dei profeti Aggeo e Zaccaria i lavori terminarono nel 515 a.C., sotto il re Dario. La dedicazione del nuovo Tempio fu celebrata con grande gioia (Esdra 6,16). Il salmo riflette questa gioia: Israele riconosce che Dio è rimasto fedele all’Alleanza, come già durante l’Esodo. Dio è colui che libera gli oppressi, scioglie le catene, dà pane agli affamati, dona la vista ai ciechi e rialza i deboli. Questa immagine di Dio, un Dio che prende le parti dei poveri e prova compassione (“misericordia”indica come se le viscere fremessero), non era scontata nell’antichità. È il grande contributo di Israele alla fede dell’umanità: rivelare un Dio di amore e di misericordia. Il salmo lo esprime dicendo che il Signore sostiene la vedova e l’orfano. Il popolo è invitato a imitare Dio nella stessa misericordia, e la Legge d’Israele contiene molte norme a protezione dei deboli (vedove, orfani, stranieri). I profeti giudicavano la fedeltà d’Israele all’Alleanza anche sulla base di questo comportamento. A un livello più profondo, il salmo mostra che Dio non libera solo dalle oppressioni esteriori, ma anche da quelle interiori: la fame spirituale trova il suo cibo nella Parola; le cecità interiori vengono illuminate; le catene dell’odio, dell’orgoglio e della gelosia vengono sciolte. Anche se qui non lo vediamo, in realtà questo salmo è incorniciato dalla parola “Alleluia”, che secondo la tradizione ebraica significa cantare la lode di Dio perché Egli conduce dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla tristezza alla gioia. Noi cristiani leggiamo questo salmo alla luce di Gesù Cristo: Egli ha dato il pane ai suoi contemporanei e continua a dare il “pane della vita” nell’Eucaristia; Egli è la luce del mondo (Gv 8,12); nella sua risurrezione ha liberato definitivamente gli uomini dalle catene della morte. Infine, siccome l’uomo è creato a immagine di Dio, ogni volta che soccorre un povero, un malato, un prigioniero, uno straniero, manifesta l’immagine stessa di Dio. E ogni gesto fatto “al più piccolo” contribuisce a far crescere il Regno di Dio. Una catecumena, leggendo il miracolo della moltiplicazione dei pani, chiese: “Perché Gesù non lo fa ancora oggi per tutti gli affamati?” E dopo un attimo rispose: “Forse conta su di noi per farlo.”

Elementi importanti da ricordare +Contesto storico: salmo nato dopo il ritorno dall’esilio e la ricostruzione del Tempio (587–515 a.C.). +Tema centrale: la gioia del popolo per la fedeltà di Dio e la sua liberazione. +Rivelazione di Dio: Dio è misericordioso e difende gli oppressi, i poveri, i deboli. +Impegno del popolo: imitare Dio nelle opere di misericordia verso tutti gli oppressi. +Lettura spirituale: Dio libera dalle catene interiori (odio, orgoglio, cecità spirituale). +Alleluia: simbolo del passaggio dalla schiavitù alla libertà e dalla tristezza alla gioia. +Lettura cristiana: compimento in Cristo, che dà il pane vero, illumina, libera, salva. +Immagine di Dio nell’uomo: ogni gesto di amore verso i più fragili rende visibile l’immagine di Dio. + Responsabilità cristiana: Dio conta anche sul nostro impegno per nutrire, liberare e sostenere i sofferenti.

 

*Seconda Lettura dalla lettera d san Giacomo apostolo (5,7-10)

La tradizione cristiana conosce tre figure di Giacomo vicine a Gesù: Giacomo il Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, dal carattere impetuoso, presente alla Trasfigurazione e a Getsemani; Giacomo figlio di Alfeo, uno dei Dodici; Giacomo “fratello/cugino” del Signore, guida della Chiesa di Gerusalemme e probabile autore della Lettera di Giacomo. Nel testo emerge un tema fondamentale per i primi cristiani: l’attesa della venuta del Signore. Come Paolo, anche Giacomo guarda sempre all’orizzonte del compimento finale del progetto di Dio. È significativo che proprio all’inizio della predicazione cristiana si desiderasse più ardentemente la fine del mondo, forse perché la Risurrezione aveva dato un assaggio della gloria futura. In questa attesa, Giacomo ripete un invito cruciale: la pazienza, parola che nel greco originale (makrothyméo)  significa “avere il fiato lungo, avere un animo lungo”. L’attesa della venuta del Signore è una corsa di resistenza, non uno scatto: la fede deve imparare a durare nel tempo. Quando i primi cristiani si resero conto che la parusía non arrivava subito, l’attesa divenne una vera prova di fedeltà.

Per vivere questa resistenza, Giacomo offre due modelli: il contadino, che conosce il ritmo delle stagioni fiducioso in Dio che manda la pioggia “a suo tempo” (Dt 11,14) e l’altro modello: i profeti, che hanno sopportato ostilità e persecuzioni per rimanere fedeli alla loro missione. Giacomo chiede ai cristiani di avere fiato (costanza/pazienza) e cuore saldo (“Rinfrancate i vostri cuori”). Proprio nel versetto 11 che segue questo testo Giacomo cita anche Giobbe, unico caso nel Nuovo Testamento, come esempio supremo di perseveranza: chi rimane saldo come lui sperimenterà la misericordia del Signore. La pazienza non è solo personale: si vive nelle relazioni comunitarie. Giacomo riprende l’insegnamento di Gesù: non lamentatevi gli uni degli altri, non giudicatevi, non mormorate. “Il Giudice è alle porte”: solo Dio giudica davvero, perché vede il cuore. L’uomo rischia di confondere facilmente grano e zizzania. La lezione è anche per noi: spesso ci manca il respiro della speranza, e allo stesso tempo cediamo alla tentazione di giudicare. Eppure la parola di Gesù sulla pagliuzza e la trave rimane sempre attuale.

Elementi importanti da ricordare: + dei tre Giacomo, è il Maggiore, il figlio di Alfeo, il “fratello” del Signore il probabile autore di questa Lettera che riflette il tema centrale dell’attesa della venuta del Signore. +La pazienza è ripetuta più volte ed è intesa come “fiato lungo”, una corsa di resistenza. +L’attesa cristiana iniziale era molto intensa: si pensava che il ritorno di Cristo fosse imminente. +Due modelli di perseveranza: il contadino (fiducia nel tempo di Dio) e i profeti (coraggio nella missione). + v.11 non in questo testo ma subito dopo giovanni

cita Giobbe come esempio di tenuta: unica citazione nel NT, simbolo di perseveranza nella prova. +Missione comunitaria: non giudicare, non mormorare, non lamentarsi perché Il Giudice è alle porte” E invita a vivere sapendo che solo Dio giudica rettamente. +Pericolo anche oggi è la mancanza di respiro spirituale e rischio di giudicare gli altri.

   

*Dal Vangelo secondo Matteo (11, 2-11)

Domenica scorsa abbiamo visto Giovanni Battista battezzare lungo il Giordano e annunciare: “Dopo di me viene uno”. Quando Gesù chiese il battesimo, Giovanni riconobbe in lui il Messia atteso, ma i mesi passarono e Giovanni fu messo in prigione da Erode intorno all’anno 28, momento in cui Gesù iniziò la sua predicazione pubblica in Galilea. Gesù iniziò la vita pubblica con discorsi famosi, come il Discorso della Montagna e le Beatitudini, e con molte guarigioni. Tuttavia, il suo comportamento era strano agli occhi della gente: si circondava di discepoli poco “raccomandabili” (pubblicani, persone diverse per origine e carattere); non era un asceta come Giovanni, mangiava e beveva come tutti, e si mostrava tra la gente comune; non rivendicava mai il titolo di Messia, né cercava potere. Dalla prigione, Giovanni riceveva notizie da chi lo teneva informato e iniziò a dubitare: “Sarò stato ingannato? Sei tu il Messia?” Questa domanda è cruciale, perché riguarda sia Giovanni sia Gesù, costretto a confrontarsi con le aspettative di chi lo attendeva. Gesù non risponde con un sì o un no, ma cita le profezie sulle opere del Messia:i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi ascoltano, i morti risuscitano, i poveri ricevono la buona notizia (Isaia 35,5-6; 61,1). Con queste parole, Gesù invita Giovanni a verificare da sé se sta compiendo le opere del Messia, confermando che sì, è il Messia, anche se le sue maniere appaiono strane. Il vero volto di Dio si mostra al servizio dell’uomo, non secondo le aspettative di potere o gloria. Infine, Gesù elogia Giovanni che è beato perché  “non trova in me motivo di scandalo”. Giovanni dà un esempio di fede: anche nel dubbio, non perde fiducia e cerca direttamente la verità da Gesù stesso. Gesù conclude spiegando che Giovanni è il più grande dei profeti perché apre la strada al Messia, ma con la venuta di Gesù, anche il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di Giovanni, sottolineando che il contenuto del messaggio di Cristo supera qualsiasi aspettativa umana: “Il Verbo si è fatto carne e ha abitato tra noi”.

 

Elementi importanti da ricordare +Giovanni Battista annuncia il Messia e battezza lungo il Giordano.+Gesù inizia la vita pubblica dopo l’arresto di Giovanni, in Galilea, con discorsi e miracoli.+Comportamento “strano” di Gesù che frequenta tutti, anche i più emarginati, non rivendica titoli o potere, si nutre e si mostra come la gente comune.+Dubbi di Giovanni: manda i discepoli a chiedere se Gesù è davvero il Messia.+ Risposta di Gesù: cita le opere profetiche del Messia (guarigioni, liberazioni, annuncio ai poveri).+Fede attiva di Giovanni: non resta nel dubbio, chiede chiarimenti direttamente a Gesù. +Gioia e sorpresa: il volto di Dio si rivela al servizio dell’uomo, non secondo le aspettative tradizionali. +Giovanni come precursore: il più grande dei profeti, ma con Gesù il più piccolo nel Regno è più grande. +Messaggio finale: Cristo è il Verbo incarnato, la realizzazione delle promesse di Dio.

 

*Ecco una citazione di San Gregorio Magno nell’Omelia 6 sui Vangeli, che commenta così l’episodio: “Giovanni non ignora chi sia Gesù: egli lo indica come l’Agnello di Dio. Ma, mandato in prigione, invia i discepoli non per sapere lui, bensì perché essi imparino dal Cristo ciò che egli già sapeva. Giovanni non cerca di istruirsi, ma di istruire. E Cristo non risponde con parole, ma con le opere: fa capire che è Lui il Messia non dicendo di esserlo, ma mostrando le opere annunciate dai profeti.” E aggiunge: “Il Signore proclama beato chi non si scandalizza di Lui, perché in Lui vi è grandezza nascosta sotto umile apparenza: chi non si scandalizza della sua umiltà, riconosce la sua divinità.” Questo commento illumina perfettamente il cuore del Vangelo: Giovanni non dubita per sé, ma per aiutare i suoi discepoli a riconoscere che Gesù è il Messia atteso, anche se si presenta in modo sorprendente e umile.

 

+Giovanni D’Ercole

Incarnazione disinvolta, in tenuità e densità

(Mt 1,1-17)

 

Per giungere alla pienezza del Figlio, Dio non ha preteso superare le vicende concrete, viceversa le ha assunte e valorizzate.

Nella storia, l’Eterno riesce a dare ali spiegate non tanto alla forza e al genio, ma a tutte le povere origini, alla pochezza della nostra natura, la quale d’improvviso si tramuta in ricchezza totalmente imprevedibile. 

Se di continuo strappiamo il filo, il Signore lo riannoda - non per aggiustare e riprendere come prima, bensì per rifare un’intera trama nuova.

Proprio a partire dalle cadute.

Sono quei momenti terra-terra che costringono l'umanità a cambiare ‘direzione simbolo’ e non ripetersi, stagnando.

 

In seguito a schianti interiori e ripensamenti, quante persone hanno realizzato il proprio destino, deviando il percorso tracciato, quieto, protetto e confortevole [Cottolengo, madre Teresa, così via]!

Dal fango della palude spuntano fiori splendidi e puliti, che neppure somigliano a quelli cui nelle varie fasi della vita avevamo mai immaginato di poter giungere.

I ruzzoloni dei protagonisti della storia della salvezza non sono arrivati per debolezza. Erano segnali d’un cattivo o parziale utilizzo delle risorse; stimoli a modificare l’occhio, rivalutare il punto di vista e tante speranze.

Quei crolli hanno configurato nuove sfide: sono state interpretati come provocazioni forti: a spostare energie e cambiare binario.

Le Risalite conseguenti ai ribassi si sono tramutate in nuove opportunità. Invece, le soluzioni già pronte spengono i caratteri.

 

Anche la nostra crisi diventa seria solo quando i fallimenti non sfociano in nuove cognizioni e differenti percorsi.

Strano questo legame tra i nostri abissi e gli apici dello Spirito: è l’Incarnazione, nessuna teoria - tutta realtà.

Non esiste Dono che ci rassomiglia al top divino e che giunga a noi senza passare e coinvolgere la dimensione della finitudine.

I buchi nell’acqua trasmettono la cifra tutta umana di quel che siamo.  E proprio lì cogliamo il grande Segreto del Padre su di noi.

Sono le “discese” paradossali che spiritualizzano; attraverso un lavorio dell’anima che viene speronata dalle vicende, affinché sposti lo sguardo, cambi destino.

E si volga ad acquistare nuove consapevolezze, interiorizzi differenti valutazioni, veda e abbracci altri variegati orizzonti anche missionari.

In tal guisa, il crack che butta giù può essere più consistente di ogni progresso; non perché avvia un’ascesi: diventa contatto con la “terra” - dove troviamo la linfa che ci corrisponde davvero, per rigenerare.

Il calo o addirittura la rovina di uno status rassicurante ha in ogni accadimento una funzione propulsiva, rigenerativa, trasmutativa. 

Normale, in fondo, e in cui la storia di Dio si riconosce totalmente.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali sono stati i tuoi momenti di svolta?

Quale deviazione ti ha realizzato?

 

 

[Feria propria del 17 dicembre]

Incarnazione disinvolta, in tenuità e densità

(Mt 1,1-17)

 

Nell’oriente antico le genealogie indicavano solo uomini, e sorprende che Mt riporti il nome di ben cinque donne - considerate creature solo servili, inaffidabili, impure per natura.

Ma nella vicenda delle quattro compagne di Maria c’è non poco di a-normale [anche per il modello di vita scelto] che però vale la pena.

Eccoci allora interpellati dal Vangelo sul peso da dare alla rigidità delle norme, le quali nella storia della spiritualità hanno spesso divorato l’essere spontaneo dei chiamati dal Padre (semplicemente a esprimersi).

Anche le culture animate da Sapienza di Natura ne attestano il peso.

Scrive il Tao Tê Ching (LVII): «Quando con la correzione si governa il mondo, con la falsità s’adopran l’armi [...] Per questo il santo dice: io non agisco e il popolo da sé si trasforma [...] io non bramo e il popolo da sé si fa semplice».

Per giungere alla pienezza umana del Figlio, Dio non ha preteso superare le vicende concrete, viceversa le ha assunte e valorizzate.

Il cammino che porta a Cristo non è questione di scalate, né di risultati o performance da calibrare sempre meglio in un crescendo lineare quindi moralizzatore e dirigista (che non impone svolte che contano, né risolve i veri problemi).

 

Commentando il Tao (i) il maestro Ho-shang Kung scrive: «Mistero è il Cielo. Dice che tanto l’uomo che ha desideri quanto quello che non ne ha ricevono parimenti il ch’ì dal Cielo. All’interno del cielo c’è un altro cielo; nel ch’ì c’è densità e tenuità».

Nella storia, l’Eterno riesce a dare ali spiegate non tanto alla forza e al genio, ma a tutte le povere origini, alla pochezza della nostra natura, la quale d’improvviso si tramuta in ricchezza totalmente imprevedibile. 

E se di continuo strappiamo il filo, il Signore lo riannoda - non per aggiustare, metterci una pezza e riprendere come prima, ma per rifare un’intera trama nuova. Proprio a partire dalle cadute.

Sono quei momenti del discrimine terra-terra che costringono l'umanità a cambiare direzione simbolo e non ripetersi, stagnando nel circuito dei soliti perimetri cerebrali e puristi - abitudinari, e dove tutto è normale.

In seguito a schianti interiori e ripensamenti, quante persone hanno realizzato il proprio destino, deviando il percorso tracciato, quieto, protetto e confortevole (Cottolengo, madre Teresa, così via)!

Dal fango della palude spuntano fiori splendidi e puliti, che neppure somigliano a quelli cui nelle varie fasi della vita avevamo mai immaginato di poter contemplare.

 

I ruzzoloni dei protagonisti della storia della salvezza non sono arrivati per debolezza. Erano segnali d’un cattivo o parziale utilizzo delle risorse; stimoli a modificare l’occhio, rivalutare il punto di vista e tante speranze.

Quei crolli hanno configurato nuove sfide: sono state interpretati come provocazioni forti: a spostare energie e cambiare binario.

Le Risalite conseguenti ai ribassi si sono tramutate in nuove opportunità, affatto impreviste, appieno discordanti con le soluzioni già pronte che spengono i caratteri.

Anche la nostra crisi diventa seria solo quando i fallimenti non sfociano in nuove cognizioni e differenti percorsi che non avevamo pensato (forse in nessuno dei nostri buoni propositi).

Strano questo legame tra i nostri abissi e gli apici dello Spirito: è l’Incarnazione, nessuna teoria - tutta realtà.

Non esiste Dono che ci rassomiglia al top divino e che giunga a noi senza passare e coinvolgere la dimensione della finitudine.

I buchi nell’acqua trasmettono la cifra tutta umana di quel che siamo - dietro le illusioni o le stesse apparenze che non vogliamo deporre, per autoconvincerci di essere invece “personaggi” identificati.

Ma le ambivalenze e le falle continuano a voler schiodare il nostro sguardo e destino altrove, rispetto alle attese comuni [oggi anche il parossismo del punto nei sondaggi].

Dietro la maschera e oltre le convinzioni acquisite dall’ambiente, dai modi o dalle procedure... c’è il grande Segreto del Padre su di noi.

 

Proprio le discese spiritualizzano, attraverso un lavorio dell’anima che viene speronata dalle vicende, affinché volga ad acquistare nuove consapevolezze, interiorizzi differenti valutazioni, veda e abbracci altri variegati orizzonti anche missionari.

Il crack che butta giù può essere più consistente di ogni progresso; non perché avvia un’ascesi: diventa contatto con la “terra” - dove troviamo la linfa che ci corrisponde davvero, per rigenerare.

Il calo o addirittura la rovina di uno status rassicurante ha in ogni accadimento una funzione propulsiva, rigenerativa, trasmutativa; normale, in fondo, e in cui la storia di Dio si riconosce totalmente.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali sono stati i tuoi momenti di svolta?

Quale deviazione ti ha realizzato?

 

 

Non solo mediante uomini, bensì Con loro

 

Con l’odierna Liturgia entriamo nell’ultimo tratto del cammino dell’Avvento, che esorta ad intensificare la nostra preparazione, per celebrare con fede e con gioia il Natale del Signore, accogliendo con intimo stupore Dio che si fa vicino all’uomo, a ciascuno di noi.

La prima lettura ci presenta l’anziano Giacobbe che raduna i suoi figli per la benedizione: è un evento di grande intensità e commozione. Questa benedizione è come un sigillo della fedeltà all’alleanza con Dio, ma è anche una visione profetica, che guarda in avanti e indica una missione. Giacobbe è il padre che, attraverso le vie non sempre lineari della propria storia, giunge alla gioia di radunare i suoi figli attorno a sé e tracciare il futuro di ciascuno e della loro discendenza. In particolare, oggi abbiamo ascoltato il riferimento alla tribù di Giuda, di cui si esalta la forza regale, rappresentata dal leone, come pure alla monarchia di Davide, rappresentata dallo scettro, dal bastone del comando, che allude alla venuta del Messia. Così, in questa duplice immagine, traspare il futuro mistero del leone che si fa agnello, del re il cui bastone di comando è la Croce, segno della vera regalità. Giacobbe ha preso progressivamente coscienza del primato di Dio, ha compreso che il suo cammino è guidato e sostenuto dalla fedeltà del Signore, e non può che rispondere con adesione piena all’alleanza e al disegno di salvezza di Dio, diventando a sua volta, insieme con la propria discendenza, anello del progetto divino.

Il brano del Vangelo di Matteo ci presenta la "genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo" (Mt 1,1), sottolineando ed esplicitando ulteriormente la fedeltà di Dio alla promessa, che Egli attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro e, come per Giacobbe, talora attraverso vie tortuose e impreviste. Il Messia atteso, oggetto della promessa, è vero Dio, ma anche vero uomo; Figlio di Dio, ma anche Figlio partorito dalla Vergine, Maria di Nazaret, carne santa di Abramo, nel cui seme saranno benedetti tutti i popoli della terra (cfr Gen 22,18). In questa genealogia, oltre a Maria, vengono ricordate quattro donne. Non sono Sara, Rebecca, Lia, Rachele, cioè le grandi figure della storia d’Israele. Paradossalmente, invece, sono quattro donne pagane: Racab, Rut, Betsabea, Tamar, che apparentemente "disturbano" la purezza di una genealogia. Ma in queste donne pagane, che appaiono in punti determinanti della storia della salvezza, traspare il mistero della chiesa dei pagani, l’universalità della salvezza. Sono donne pagane nelle quali appare il futuro, l’universalità della salvezza. Sono anche donne peccatrici e così appare in loro anche il mistero della grazia: non sono le nostre opere che redimono il mondo, ma è il Signore che ci dà la vera vita. Sono donne peccatrici, sì, in cui appare la grandezza della grazia della quale noi tutti abbiamo bisogno. Queste donne rivelano tuttavia una risposta esemplare alla fedeltà di Dio, mostrando la fede nel Dio di Israele. E così vediamo trasparire la chiesa dei pagani, mistero della grazia, la fede come dono e come cammino verso la comunione con Dio. La genealogia di Matteo, pertanto, non è semplicemente l’elenco delle generazioni: è la storia realizzata primariamente da Dio, ma con la risposta dell’umanità. È una genealogia della grazia e della fede: proprio sulla fedeltà assoluta di Dio e sulla fede solida di queste donne poggia la prosecuzione della promessa fatta a Israele

[Papa Benedetto, omelia al Centro Aletti, 17 dicembre 2009]

 

 

L’uomo, cognome di Dio

 

L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome. Perché incarnandosi il Signore ha fatto storia con l’umanità: la sua gioia è stata condividere la sua vita con noi, «e questo fa piangere: tanto amore, tanta tenerezza».

È con il pensiero rivolto al Natale ormai imminente che Papa Francesco ha commentato martedì 17 dicembre le due letture proposte dalla liturgia della parola, tratte rispettivamente dalla Genesi (49, 2.8-10) e dal Vangelo di Matteo (1, 1-17). Nel giorno del suo settantasettesimo compleanno, il Santo Padre ha presieduto come di consueto la messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Ha concelebrato tra gli altri il cardinale decano Angelo Sodano, che gli ha espresso gli auguri di tutto il collegio cardinalizio.

All’omelia, incentrata sulla presenza di Dio nella storia dell’umanità, il vescovo di Roma ha individuato in due termini — eredità e genealogia — le chiavi per interpretare rispettivamente la prima lettura (riguardante la profezia di Giacobbe che raduna i propri figli e predice una discendenza gloriosa per Giuda) e il brano evangelico contenente la genealogia di Gesù. Soffermandosi in particolare su quest’ultima, ha sottolineato che non si tratta di «un elenco telefonico», ma di «un argomento importante: è pura storia», perché «Dio ha inviato il suo figlio» in mezzo agli uomini. E, ha aggiunto, «Gesù è consostanziale al padre, Dio; ma anche consostanziale alla madre, una donna. E questa è quella consostanzialità della madre: Dio si è fatto storia, Dio ha voluto farsi storia. È con noi. Ha fatto cammino con noi».

Un cammino — ha proseguito il vescovo di Roma — iniziato da lontano, nel Paradiso, subito dopo il peccato originale. Da quel momento, infatti, il Signore «ha avuto questa idea: fare cammino con noi». Perciò «ha chiamato Abramo, il primo nominato in questa lista, in questo elenco, e lo ha invitato a camminare. E Abramo ha cominciato quel cammino: ha generato Isacco, e Isacco Giacobbe, e Giacobbe Giuda». E così via, avanti nella storia dell’umanità. «Dio cammina con il suo popolo», dunque, perché «non ha voluto venire a salvarci senza storia; lui ha voluto fare storia con noi».

Una storia, ha affermato il Pontefice, fatta di santità e di peccato, perché nell’elenco della genealogia di Gesù ci sono santi e peccatori. Tra i primi il Papa ha ricordato «il nostro padre Abramo» e «Davide, che dopo il peccato si è convertito». Tra i secondi ha individuato «peccatori di alto livello, che hanno fatto peccati grossi», ma con i quali Dio ugualmente «ha fatto storia». Peccatori che non hanno saputo rispondere al progetto che Dio aveva immaginato per loro: come «Salomone, tanto grande e intelligente, finito come un poveraccio che non sapeva nemmeno come si chiamasse». Eppure, ha constatato Papa Francesco, Dio era anche con lui. «E questo è il bello: Dio fa storia con noi. Di più, quando Dio vuol dire chi è, dice: io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».

Ecco perché alla domanda «qual è il cognome di Dio?» per Papa Francesco è possibile rispondere: «Siamo noi, ognuno di noi. Lui prende da noi il nome per farne il suo cognome». E nell’esempio offerto dal Pontefice non ci sono solo i padri della nostra fede, ma anche gente comune. «Io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Pedro, di Marietta, di Armony, di Marisa, di Simone, di tutti. Da noi prende il cognome. Il cognome di Dio è ognuno di noi», ha spiegato.

Da qui la constatazione che prendendo «il cognome dal nostro nome, Dio ha fatto storia con noi»; anzi, di più: «si è lasciato scrivere la storia da noi». E noi ancora oggi continuiamo a scrivere «questa storia», che è fatta «di grazia e di peccato», mentre il Signore non si stanca di venirci dietro: «questa è l’umiltà di Dio, la pazienza di Dio, l’amore di Dio». Del resto, anche «il libro della Sapienza dice che la gioia del Signore è tra i figli dell’uomo, con noi».

Ecco allora che «avvicinandosi il Natale», a Papa Francesco — com’egli stesso ha confidato concludendo la sua riflessione — è venuto naturale pensare: «Se lui ha fatto la sua storia con noi, se lui ha preso il suo cognome da noi, se lui ha lasciato che noi scrivessimo la sua storia», noi da parte nostra dovremmo lasciare che Dio scriva la nostra. Perché, ha chiarito, «la santità» è proprio «lasciare che il Signore scriva la nostra storia». E questo è l’augurio di Natale che il Pontefice ha voluto fare «per tutti noi». Un augurio che è un invito ad aprire il cuore: «Fa’ che il Signore ti scriva la storia e che tu lasci che te la scriva».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/12/2013]

Con l’odierna Liturgia entriamo nell’ultimo tratto del cammino dell’Avvento, che esorta ad intensificare la nostra preparazione, per celebrare con fede e con gioia il Natale del Signore, accogliendo con intimo stupore Dio che si fa vicino all’uomo, a ciascuno di noi.

La prima lettura ci presenta l’anziano Giacobbe che raduna i suoi figli per la benedizione: è un evento di grande intensità e commozione. Questa benedizione è come un sigillo della fedeltà all’alleanza con Dio, ma è anche una visione profetica, che guarda in avanti e indica una missione. Giacobbe è il padre che, attraverso le vie non sempre lineari della propria storia, giunge alla gioia di radunare i suoi figli attorno a sé e tracciare il futuro di ciascuno e della loro discendenza. In particolare, oggi abbiamo ascoltato il riferimento alla tribù di Giuda, di cui si esalta la forza regale, rappresentata dal leone, come pure alla monarchia di Davide, rappresentata dallo scettro, dal bastone del comando, che allude alla venuta del Messia. Così, in questa duplice immagine, traspare il futuro mistero del leone che si fa agnello, del re il cui bastone di comando è la Croce, segno della vera regalità. Giacobbe ha preso progressivamente coscienza del primato di Dio, ha compreso che il suo cammino è guidato e sostenuto dalla fedeltà del Signore, e non può che rispondere con adesione piena all’alleanza e al disegno di salvezza di Dio, diventando a sua volta, insieme con la propria discendenza, anello del progetto divino.

Il brano del Vangelo di Matteo ci presenta la "genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo" (Mt 1,1), sottolineando ed esplicitando ulteriormente la fedeltà di Dio alla promessa, che Egli attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro e, come per Giacobbe, talora attraverso vie tortuose e impreviste. Il Messia atteso, oggetto della promessa, è vero Dio, ma anche vero uomo; Figlio di Dio, ma anche Figlio partorito dalla Vergine, Maria di Nazaret, carne santa di Abramo, nel cui seme saranno benedetti tutti i popoli della terra (cfr Gen 22,18). In questa genealogia, oltre a Maria, vengono ricordate quattro donne. Non sono Sara, Rebecca, Lia, Rachele, cioè le grandi figure della storia d’Israele. Paradossalmente, invece, sono quattro donne pagane: Racab, Rut, Betsabea, Tamar, che apparentemente "disturbano" la purezza di una genealogia. Ma in queste donne pagane, che appaiono in punti determinanti della storia della salvezza, traspare il mistero della chiesa dei pagani, l’universalità della salvezza. Sono donne pagane nelle quali appare il futuro, l’universalità della salvezza. Sono anche donne peccatrici e così appare in loro anche il mistero della grazia: non sono le nostre opere che redimono il mondo, ma è il Signore che ci dà la vera vita. Sono donne peccatrici, sì, in cui appare la grandezza della grazia della quale noi tutti abbiamo bisogno. Queste donne rivelano tuttavia una risposta esemplare alla fedeltà di Dio, mostrando la fede nel Dio di Israele. E così vediamo trasparire la chiesa dei pagani, mistero della grazia, la fede come dono e come cammino verso la comunione con Dio. La genealogia di Matteo, pertanto, non è semplicemente l’elenco delle generazioni: è la storia realizzata primariamente da Dio, ma con la risposta dell’umanità. È una genealogia della grazia e della fede: proprio sulla fedeltà assoluta di Dio e sulla fede solida di queste donne poggia la prosecuzione della promessa fatta a Israele.

[Papa Benedetto, omelia al Centro Aletti, 17 dicembre 2009]

1. La riflessione sul mistero di Gesù, che caratterizza in modo speciale questo primo anno di preparazione immediata al Grande Giubileo dell’Anno Duemila, ben si accompagna alle feste natalizie. Prolungando la meditazione avviata da alcune domeniche, desidero oggi soffermarmi su un titolo che più d’una volta viene dato a Gesù nei Vangeli. Egli viene chiamato “figlio di Davide”. Il Vangelo di Matteo si apre proprio con queste parole: “Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide” (Mt 1, 1).

È un titolo, potremmo dire, di famiglia. Attraverso Giuseppe, suo padre putativo, Gesù è collegato con l’intera catena umana che di figlio in padre giunge fino al re Davide. Questa relazione genealogica sottolinea la concretezza dell’incarnazione: facendosi uomo, il Verbo eterno di Dio è entrato a pieno titolo nella famiglia umana, ponendosi nel solco di una particolare tradizione familiare. Anche in questo ha voluto essere uno di noi, sperimentando quel singolare legame che, annodando le generazioni, consente a ogni persona di sentirsi radicata non solo nel tempo e nello spazio, ma anche in un benefico tessuto di memorie e di affetti.

2. Oltre, però, a questo significato antropologico, il titolo di “figlio di Davide” riveste anche un senso specifico che getta luce sul disegno di Dio. Ci ricorda infatti che l’evento cristiano è il vertice di una storia di salvezza che Dio attua progressivamente fin dall’Antico Testamento, offrendo al popolo ebreo una speciale “alleanza” e facendolo portatore di promesse salvifiche che, in Gesù di Nazaret, sarebbero state realizzate per l’intera umanità. Quando dunque i contemporanei lo chiamano “figlio di Davide”, riconoscono che in lui si compiono le promesse antiche, proclamano la definitiva realizzazione della speranza messianica. Ogni uomo può ormai attingere a questa speranza, facendo suo il grido che nel Vangelo si ritrova sulle labbra del cieco Bartimeo: “Gesù, figlio di David, abbi pietà di me” (Mc 10, 47). Invocando il “figlio di David”, l’umanità può ritrovare la luce degli occhi del cuore.

3. Maria, l’umile fanciulla di Nazaret, che generando il figlio di Dio lo ha introdotto nella genealogia davidica e nell’intera famiglia umana, ci aiuti a comprendere sempre più il nostro inserimento in questa storia di salvezza. Lasciamoci guidare da Lei nell’intimità della sua santa famiglia, dove è posto il germe dell’umanità nuova. All’inizio di questo nuovo anno, benedica la Vergine Santa tutte le famiglie del mondo, perché riconoscano in Gesù il loro autentico Salvatore.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 5 gennaio 1997]

L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome. Perché incarnandosi il Signore ha fatto storia con l’umanità: la sua gioia è stata condividere la sua vita con noi, «e questo fa piangere: tanto amore, tanta tenerezza».

È con il pensiero rivolto al Natale ormai imminente che Papa Francesco ha commentato martedì 17 dicembre le due letture proposte dalla liturgia della parola, tratte rispettivamente dalla Genesi (49, 2.8-10) e dal Vangelo di Matteo (1, 1-17). Nel giorno del suo settantasettesimo compleanno, il Santo Padre ha presieduto come di consueto la messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Ha concelebrato tra gli altri il cardinale decano Angelo Sodano, che gli ha espresso gli auguri di tutto il collegio cardinalizio.

All’omelia, incentrata sulla presenza di Dio nella storia dell’umanità, il vescovo di Roma ha individuato in due termini — eredità e genealogia — le chiavi per interpretare rispettivamente la prima lettura (riguardante la profezia di Giacobbe che raduna i propri figli e predice una discendenza gloriosa per Giuda) e il brano evangelico contenente la genealogia di Gesù. Soffermandosi in particolare su quest’ultima, ha sottolineato che non si tratta di «un elenco telefonico», ma di «un argomento importante: è pura storia», perché «Dio ha inviato il suo figlio» in mezzo agli uomini. E, ha aggiunto, «Gesù è consostanziale al padre, Dio; ma anche consostanziale alla madre, una donna. E questa è quella consostanzialità della madre: Dio si è fatto storia, Dio ha voluto farsi storia. È con noi. Ha fatto cammino con noi».

Un cammino — ha proseguito il vescovo di Roma — iniziato da lontano, nel Paradiso, subito dopo il peccato originale. Da quel momento, infatti, il Signore «ha avuto questa idea: fare cammino con noi». Perciò «ha chiamato Abramo, il primo nominato in questa lista, in questo elenco, e lo ha invitato a camminare. E Abramo ha cominciato quel cammino: ha generato Isacco, e Isacco Giacobbe, e Giacobbe Giuda». E così via, avanti nella storia dell’umanità. «Dio cammina con il suo popolo», dunque, perché «non ha voluto venire a salvarci senza storia; lui ha voluto fare storia con noi».

Una storia, ha affermato il Pontefice, fatta di santità e di peccato, perché nell’elenco della genealogia di Gesù ci sono santi e peccatori. Tra i primi il Papa ha ricordato «il nostro padre Abramo» e «Davide, che dopo il peccato si è convertito». Tra i secondi ha individuato «peccatori di alto livello, che hanno fatto peccati grossi», ma con i quali Dio ugualmente «ha fatto storia». Peccatori che non hanno saputo rispondere al progetto che Dio aveva immaginato per loro: come «Salomone, tanto grande e intelligente, finito come un poveraccio che non sapeva nemmeno come si chiamasse». Eppure, ha constatato Papa Francesco, Dio era anche con lui. «E questo è il bello: Dio fa storia con noi. Di più, quando Dio vuol dire chi è, dice: io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».

Ecco perché alla domanda «qual è il cognome di Dio?» per Papa Francesco è possibile rispondere: «Siamo noi, ognuno di noi. Lui prende da noi il nome per farne il suo cognome». E nell’esempio offerto dal Pontefice non ci sono solo i padri della nostra fede, ma anche gente comune. «Io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Pedro, di Marietta, di Armony, di Marisa, di Simone, di tutti. Da noi prende il cognome. Il cognome di Dio è ognuno di noi», ha spiegato.

Da qui la constatazione che prendendo «il cognome dal nostro nome, Dio ha fatto storia con noi»; anzi, di più: «si è lasciato scrivere la storia da noi». E noi ancora oggi continuiamo a scrivere «questa storia», che è fatta «di grazia e di peccato», mentre il Signore non si stanca di venirci dietro: «questa è l’umiltà di Dio, la pazienza di Dio, l’amore di Dio». Del resto, anche «il libro della Sapienza dice che la gioia del Signore è tra i figli dell’uomo, con noi».

Ecco allora che «avvicinandosi il Natale», a Papa Francesco — com’egli stesso ha confidato concludendo la sua riflessione — è venuto naturale pensare: «Se lui ha fatto la sua storia con noi, se lui ha preso il suo cognome da noi, se lui ha lasciato che noi scrivessimo la sua storia», noi da parte nostra dovremmo lasciare che Dio scriva la nostra. Perché, ha chiarito, «la santità» è proprio «lasciare che il Signore scriva la nostra storia». E questo è l’augurio di Natale che il Pontefice ha voluto fare «per tutti noi». Un augurio che è un invito ad aprire il cuore: «Fa’ che il Signore ti scriva la storia e che tu lasci che te la scriva».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/12/2013]

Due figli: «No» e «Io!»

(Mt 21,28-32)

 

Nei racconti dei rabbini il «figlio» era uno solo: Israele! Per Cristo, invece, anche uno scapestrato rimane figlio.

Il Padrone della Vigna immagine del popolo eletto si rivolge al suo «prototipo» di uomo con tenerezza e viscere materne: «Figliolino mio».

Cerca di fargli capire: «La terra poco famigliare è piena di dissensi e rancori, invece la Vigna è tua; impegnati dunque a costruire il mondo della gioia».

Ma è in fondo normale ostinarsi: «Non ne ho voglia» - perché spesso siamo attratti non dalle Beatitudini, bensì da criteri mondani.

Lavorare in favore della vita altrui, riconoscerne la dignità e promuoverla non sorge a tutti immediato e spontaneo; anzi, appare oneroso.

Eppure è la differenza che ci dà lo spunto, non la regola o il rimprovero.

La percezione di ciò che appare “straniero” diventa intuizione rara della propria essenza, dilatazione dell’Ego - movimento e processo crescente che porta a comprendere il Tu nell’Io.

Bisogna capire le reazioni d’istinto banali, perché le condanne preventive bloccano la crescita.

L’eccentricità del fratello è lo spunto paradossale per ritrovare se stessi e la propria strada.

Certo, all’inizio la ripulsa può affiorare; non c’è da scandalizzarsi, né additare. Recuperare la dimensione umana profonda non è un gioco da ragazzi.

Del resto lo sappiamo per esperienza: il Sì più convinto passa attraverso un No iniziale.

La lotta interiore è da mettere in conto - infine essa stessa andrà a incidere ben oltre un’adesione formale.

Insomma, il Sì più vero deriva da una richiesta di spiegazione.

 

Sebbene gl’identificati siano proni a mostrare subito le migliori intenzioni, essi diventano tutta vetrina e nessuna sostanza; infine solo parole vuote.

Il Padre si rivolse dunque al figlio delle promesse: «Io, Signore!». Come dire: «Ci sono io, qui; perché pensare ad altri?».

La reazione esageratamente affine e positiva sta a indicare che il figlio abitudinario… non ha capito.

Senz’altro non era d’accordo col programma del Padre - così profondo e impegnativo - e pensava a modo suo come ci si comporta nella Vigna. 

Pertanto s’illude di trovarsi avvantaggiato, invece che Salvato.

Insomma, la scelta decisiva è tra Fede o protocolli: «Peccatori manifesti e contaminati vari vi stanno passando avanti» (in part. v.31).

[Il discrimine della vita nello Spirito? L’eccezione che diventa promozione].

Donne e uomini rispondono «Eccomi» all’appello perché intimamente persuasi, non per influsso esterno - di etichette.

Vere amiche dell’energia vitale non sono le convenzioni.

In tal guisa, comparato alle diverse credenze antiche, un lato intrinseco dell’invito di Gesù è la mente adulta.

Essa esclude soluzioni aderenti [comuni o élitarie]: racchiudono le anime in una condizione di dipendenza, con progressi illusori.

 

Nelle comunità di Galilea e Siria i pagani diventavano rapidamente maggioranza - elevati al rango di figli.

Essi non si sottoponevano a trafile snervanti, ma spontaneamente riconoscevano il Signore.

Morale - a contrario: mai fidarsi di coloro che si precipitano a dire: «Sissignore!».

 

 

[Martedì 3.a sett. Avvento, 16 dicembre 2025]

Dic 8, 2025

Le “star” accantonate

Pubblicato in Croce e Vuoto

Due figli: «No» e «Io!»

(Mt 21,28-32)

 

Mt scrive dopo mezzo secolo dalla morte del Maestro e constata che la maggioranza dei figli di Abramo - il suo popolo - non ha riconosciuto Gesù Messia.

Nelle sue comunità di Galilea e Siria i pagani diventavano rapidamente maggioranza - elevati al rango di figli.

Essi non si sottoponevano a trafile snervanti, ma spontaneamente riconoscevano il Signore.

È un invito ai veterani di chiesa ancora giudaizzanti, a rivedere la loro religiosità (molto di facciata) che ritiene di aver compreso tutto, ma non coglie l'essenziale del disegno divino sull’umanità - e non c’incammina al “lavoro”.

[Culti tranquillizzanti, legalismi tradizionali o sogni isterici salvano solo le apparenze].

Mt vuole che i fedeli di chiesa non avessero invece presunzione alcuna di sentirsi a posto, quasi per anagrafe.

 

Come Pietro (Mt 16,16-28) a volte i direttori anziani erano disposti a impegnarsi per un Messia che avevano solo in testa - non a testimoniare l’Agnello impegnato a trasmettere vita ai nuovi; rallegrarla, promuoverla, donarla.

[Beninteso, oggi non siamo abilitati a identificarci col “terzo figlio”, quello che... “dice «signorsì» e opera”].

È la ritenuta feccia della società, gli esclusi dal regno di Dio (vv.31b-32) che “prende il posto” dei leaders - di coloro che hanno idee sofisticate o la stessa tradizione “a posto”.

 

A paragone dei primi della classe, gli ultimi arrivati non erano più meritevoli di esperti e abitudinari, ma essendo privi di paravento perbenista diventavano man mano disposti ad amare.

Coloro che i dirigenti antichi consideravano responsabili del ritardo del Regno non erano ancora sordi alla Parola.

Del resto, anche Giuda si è pentito.

I capi che si sentono adempienti o grandi riformatori e fenomeni, non si convertiranno mai.

Ecco perché il Maestro era a suo agio coi diversi, più che coi religiosi sterilizzati o con gli idealisti disincarnati.

Insomma: bisogna lasciarsi sottoporre a valutazione.

È necessario mettersi in discussione, fermarsi, interrogarsi: «Che ve ne pare?» (v.21).

 

Dopo la cacciata dei venditori, le autorità sono furibonde, perché  Gesù ha dichiarato che il Tempio di Gerusalemme è un covo di banditi.

Che ingenuo! Non si tocca il dio unico dei luoghi santi antichi, quello vero: il sacchetto delle guide e il tesoro dei sacerdoti implicati.

I massimi responsabili degli affari in nero del recinto sacro non vogliono assolutamente perdere la faccia.

Essi appaiono credenti e leali, ma solo se scrutati di fuori.

Il loro occhio interiore e l’attività ben celata dietro le quinte si posa su tutt’altro che i beni spirituali.

Il loro dio unico si chiama convenienza. Allora è ad essi che il Maestro rivolge la parabola.

E già l’esordio è provocatorio... Nei racconti dei rabbini il «figlio» era uno solo: Israele!

Per Cristo, invece, anche uno scapestrato rimane figlio [che ce ne pare di questo, per esempio... a cominciare dal catechismo, per finire nei corsi di esercizi spirituali?].

 

Il Padrone della Vigna immagine del popolo eletto si rivolge [per la nuova traduzione CEI, inizialmente] al suo «prototipo» di uomo con tenerezza e viscere materne: «Figliolino mio».

Cerca di fargli capire: «La terra poco famigliare è piena di dissensi e rancori, invece la Vigna è tua; impegnati dunque a costruire il mondo della gioia».

Ma è in fondo normale ostinarsi: «Non ne ho voglia» - perché spesso siamo attratti non dalle Beatitudini, bensì dai criteri mondani dell’avere, potere e apparire; del trattenere per sé, salire sugli altri e dominarli.

Lavorare in favore della vita altrui, riconoscerne la dignità e promuoverla, non sorge a tutti immediato e spontaneo.

Anzi, appare oneroso - almeno sino a quando non riusciamo a comprendere il valore dei fratelli, per noi stessi (e scorgere il “nostro” nei “loro” volti).

È solo un cammino di vita nello Spirito che ci rende pronti a riconoscere che il Tu sollecita, dilata, arricchisce e completa l’Io.

Incontrare gli altri sul serio significa aver incontrato se stessi, nella poliedricità dei propri lati.

Non è semplice. Infatti, è più corrivo identificarsi o essere solidali a distanza, che fraterni.

Difficile di fatto eliminare l’egoismo, il quale è un dato creaturale che va integrato per arricchire tutti, piuttosto che fintamente esorcizzato.

 

Insomma: il “diverso” non è solo un appello, ma una ricchezza sconfinata per me stesso; parla del mio stesso essere, proprio in quel modo lì.

Ma per comprendere l’amore - appunto, anche verso di sé - tutti abbiamo bisogno di tempo, esperienza, approfondimenti, crescita dell’empatia e ulteriore esplorazione.

Poi lavorare è anche dispendioso, a partire dall’intimo.

Ovvio che istintivamente ci si possa tirare indietro - almeno sino a quando non s’inizi ad apprendere il legame profondo con il lontano che chiede vita [esattamente come facciamo sempre, in prima persona].

 

La percezione di ciò che appare “straniero” diventa intuizione rara della propria essenza, dilatazione dell’Ego - movimento e processo crescente che porta a comprendere il Tu nell’Io.

L’eccentricità del fratello è lo spunto paradossale per ritrovare se stessi e la propria strada.

 

Costruire il mondo nuovo può essere repellente alla natura (in alcuni lati) segnata dal peccato e dal ripiegamento.

Bisogna capire le reazioni d’istinto banali, perché le condanne preventive bloccano la crescita.

Solo passo dopo passo prendiamo coscienza che la vita autentica e piena fa emergere l’Oro divino.

Accentua la caratura squisitamente umana che anche il Padre celeste suggerisce - sorpassando il disinteresse per l’anelito che su due piedi sembra non ci riguardi.

 

Certo, all’inizio la ripulsa può affiorare; non c’è da scandalizzarsi, né additare.

Recuperare la dimensione umana profonda non è un gioco da ragazzi.

Poi è la differenza che ci dà lo spunto, non la “regola” - né il “rimprovero”. Questi ultimi non attivano nulla di autentico.

Del resto lo sappiamo per esperienza: il Sì più convinto passa attraverso un No iniziale.

La lotta interiore è da mettere in conto - infine essa stessa andrà a incidere ben oltre un’adesione formale.

Non c’è da rimanere indignati se qualcuno risponde picche.

Poi cambierà idea [v.29 della nuova traduzione CEI]: «metamellomai». E recupererà il carattere radicale di figlio e fratello.

 

Per afferrare la propria posizione e corrispondere sapientemente alle proposte del Signore bisogna che la persona passi attraverso un vaglio delle cose.

Ciò chiama un discernimento dalle proprie radici, delle relazioni, e di se stesso (nelle sue molte diversificazioni).

Insomma, il Sì più vero deriva da una richiesta di spiegazione - che porta a contatto diretto con la Fonte del nostro carattere variegato - condizione che ci completa.

La vita non è un copiare e ricalcare. Bisogna fare attenzione agli “yes-man”: stanno recitando una fiction da paravento.

Sebbene gl’identificati siano “pronti e proni” a mostrare subito le migliori intenzioni, essi diventano tutta vetrina e nessuna sostanza; infine solo parole vuote.

 

Si rivolse dunque al secondo [v.30 nella nuova traduzione CEI] in realtà primogenito delle promesse: «Io, Signore!».

Come dire: «Ci sono io, qui; perché pensare ad altri?».

La reazione esageratamente affine e positiva - in realtà qualunquista perché abitudinaria e forse calcolata - sta a indicare che il “reduce del credere e delle adesioni”, come minimo non ha capito...

Senz’altro non era d’accordo col programma del Padre - così profondo e impegnativo. E pensava a modo suo come ci si comporta nella Vigna. 

Pertanto s’illude di trovarsi avvantaggiato, invece che Salvato.

 

 

 

Fede e protocolli

 

«Peccatori manifesti e contaminati vari vi stanno passando avanti»

(Mt 21,28-32; in part. v.31)

 

Specifico della Fede, che fa differenza, è non fidarsi dell’ideologia religiosa dei migliori.

Un credo è autentico se sopporta di essere vagliato in prima persona; il resto è artificio, sfiducia col trucco.

La convinzione personale passa attraverso una spontanea richiesta di spiegazioni [tipica in tal guisa la vicenda dei due figli, che dicono entrambi sì e no]. 

Il discrimine della vita nello Spirito? L’eccezione che diventa promozione.

Comparato alle diverse credenze antiche, un lato intrinseco dell’invito di Gesù è la mente adulta.

Essa esclude soluzioni aderenti (comuni o élitarie): racchiudono le anime in una condizione di dipendenza, con progressi illusori.

Donne e uomini rispondono «Eccomi» all’appello perché intimamente persuasi, non per influsso esterno di etichette, rituali, protocolli, ufficialità, rispetto di guide canoniche; abitudini altrui, e sentito dire.

 

Alla richiesta dei discepoli di aumentare la loro fede, Gesù neppure risponde (Lc 17,6).

Non dice di migliorare questo o quello. Impossibile cesellare un amore a tappe scandite.

La Fede non è un regalo da mettere al riparo e che il Padre fa solo a qualcuno, ma una relazione di fiducia creativa che si accende in risposta all’iniziativa gratuita, rinnovata, rinvigorita, ripetutamente svecchiata, della Sorgente dell’essere - quando passo dopo passo la si accoglie invece di rifiutarla.

Non solo è una proposta personale e variegata in sé, ma vuole pure essere reinterpretata e resa lussureggiante con l’inedito tutto nostro.

L’unico vigore da introdurre negli eventi è un diverso volto, per nulla difensivo, né finalizzato ad aumentare la situazione.

Perché chiamati a divenire ciò che siamo.

L’anima ci guida a incontrare noi stessi, schiettamente e non ricalcando un complesso di procedure esterne - però, di onda in onda.

Quindi non c’è chi ha già molta fede, altri così così; alcuni in misura giusta, o carente e per niente - magari aspettando di trovare il Dono da qualche parte per rimetterlo in cassaforte e moltiplicare il gruzzolo - conservandolo sempre nel medesimo buco del muro.

 

Va dunque sradicata l’idea conformista, ingessata e ambigua di progresso spirituale.

Esso non è contenuto nei limiti dei “lavori in breccia” da muratore che segue pedissequamente un progetto. E suda suda per inserire in un qualche loculo raffazzonato l’identico scrigno di tutti - ricevuto come pacchetto completo.

Poi, non esistono prediletti, né riferimenti d’avamposto per difenderlo.

Non vi sono scartati collocati a margine, né truppe “medie” secondo capacità di guardia e performance.

Nell’itinerario autentico non esiste una traiettoria o una via d’uscita unilaterali [come fosse un solo varco, già preformato in ogni dettaglio].

Neppure qualche arricchimento pedissequo, a modello - ritenuto eventualmente possibile per eroi a parte, su base ascetica convenzionale.

Non sono questi i veri amici dell’energia vitale.

 

Morale - a contrario: mai fidarsi di coloro che si precipitano a dire: «Sissignore!».

Pagina 1 di 38
Man is the surname of God: the Lord in fact takes his name from each of us - whether we are saints or sinners - to make him our surname (Pope Francis). God's fidelity to the Promise is realized not only through men, but with them (Pope Benedict).
L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome (Papa Francesco). La fedeltà di Dio alla Promessa si attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro (Papa Benedetto)
In the communities of Galilee and Syria the pagans quickly became a majority - elevated to the rank of sons. They did not submit to nerve-wracking processes, but spontaneously were recognizing the Lord
Nelle comunità di Galilea e Siria i pagani diventavano rapidamente maggioranza - elevati al rango di figli. Essi non si sottoponevano a trafile snervanti, ma spontaneamente riconoscevano il Signore
And thus we must see Christ again and ask Christ: “Is it you?” The Lord, in his own silent way, answers: “You see what I did, I did not start a bloody revolution, I did not change the world with force; but lit many I, which in the meantime form a pathway of light through the millenniums” (Pope Benedict)
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: “Sei tu?”. Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: “Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni” (Papa Benedetto)
Experts in the Holy Scriptures believed that Elijah's return should anticipate and prepare for the advent of the Kingdom of God. Since the Lord was present, the first disciples wondered what the value of that teaching was. Among the people coming from Judaism the question arose about the value of ancient doctrines…
Gli esperti delle sacre Scritture ritenevano che il ritorno di Elia dovesse anticipare e preparare l’avvento del Regno di Dio. Poiché il Signore era presente, i primi discepoli si chiedevano quale fosse il valore di quell’insegnamento. Tra i provenienti dal giudaismo sorgeva il quesito circa il peso delle dottrine antiche...
Gospels make their way, advance and free, making us understand the enormous difference between any creed and the proposal of Jesus. Even within us, the life of Faith embraces all our sides and admits many things. Thus we become more complete and emancipate ourselves, reversing positions.
I Vangeli si fanno largo, avanzano e liberano, facendo comprendere l’enorme differenza tra credo qualsiasi e proposta di Gesù. Anche dentro di noi, la vita di Fede abbraccia tutti i nostri lati e ammette tante cose. Così diventiamo più completi e ci emancipiamo, ribaltando posizioni
We cannot draw energy from a severe setting, contrary to the flowering of our precious uniqueness. New eyes are transmitted only by the one who is Friend. And Christ does it not when we are well placed or when we equip ourselves strongly - remaining in a managerial attitude - but in total listening
Non possiamo trarre energia da un’impostazione severa, contraria alla fioritura della nostra preziosa unicità. Gli occhi nuovi sono trasmessi solo da colui che è Amico. E Cristo lo fa non quando ci collochiamo bene o attrezziamo forte - permanendo in atteggiamento dirigista - bensì nell’ascolto totale
The Evangelists Matthew and Luke (cf. Mt 11:25-30 and Lk 10:21-22) have handed down to us a “jewel” of Jesus’ prayer that is often called the Cry of Exultation or the Cry of Messianic Exultation. It is a prayer of thanksgiving and praise [Pope Benedict]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.