don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Nell'odierna pagina evangelica, san Luca ripropone alla nostra riflessione la visione biblica della storia e riferisce le parole di Gesù, che invitano i discepoli a non avere paura, ma ad affrontare difficoltà, incomprensioni e persino persecuzioni con fiducia, perseverando nella fede in Lui. "Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni - dice il Signore -, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine" (Lc 21, 9). Memore di questo ammonimento, sin dall'inizio la Chiesa vive nell'attesa orante del ritorno del suo Signore, scrutando i segni dei tempi e mettendo in guardia i fedeli da ricorrenti messianismi, che di volta in volta annunciano come imminente la fine del mondo. In realtà, la storia deve fare il suo corso, che comporta anche drammi umani e calamità naturali. In essa si sviluppa un disegno di salvezza a cui Cristo ha già dato compimento nella sua incarnazione, morte e risurrezione. Questo mistero la Chiesa continua ad annunciare ed attuare con la predicazione, con la celebrazione dei sacramenti e la testimonianza della carità.

Cari fratelli e sorelle, raccogliamo l'invito di Cristo ad affrontare gli eventi quotidiani confidando nel suo amore provvidente. Non temiamo per l'avvenire, anche quando esso ci può apparire a tinte fosche, perché il Dio di Gesù Cristo, che ha assunto la storia per aprirla al suo compimento trascendente, ne è l'alfa e l'omega, il principio e la fine (cfr Ap 1, 8). Egli ci garantisce che in ogni piccolo ma genuino atto di amore c'è tutto il senso dell'universo, e che chi non esita a perdere la propria vita per Lui, la ritrova in pienezza (cfr Mt 16, 25).

[Papa Benedetto, Angelus 18 novembre 2007]

Nov 15, 2024

Già e non ancora

Pubblicato in Angolo dell'ottimista

1. Dopo aver meditato sul traguardo escatologico della nostra esistenza, cioè sulla vita eterna, vogliamo ora riflettere sul cammino che ad esso conduce. Sviluppiamo per questo la prospettiva presentata nella Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente: “Tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, ed in particolare per il ‘figlio perduto’ (cfr Lc 15, 11-32). Tale pellegrinaggio coinvolge l’intimo della persona allargandosi poi alla comunità credente per raggiungere l’intera umanità” (n. 49).

In realtà, ciò che il cristiano vivrà un giorno in pienezza è già in qualche modo anticipato oggi. La Pasqua del Signore è infatti inaugurazione della vita del mondo che verrà.

2. L'Antico Testamento prepara l'annuncio di questa verità attraverso la complessa tematica dell'Esodo. Il cammino del popolo eletto verso la terra promessa (cfr Es 6, 6) è come una magnifica icona del cammino del cristiano verso la casa del Padre. Ovviamente la differenza è fondamentale: mentre nell’antico Esodo la liberazione era orientata al possesso della terra, dono provvisorio come tutte le realtà umane, il nuovo “Esodo” consiste nell'itinerario verso la casa del Padre, in prospettiva di definitività ed eternità, che trascende la storia umana e cosmica. La terra promessa dell’Antico Testamento fu perduta di fatto con la caduta dei due regni e con l’esilio babilonese, in seguito al quale si sviluppò l'idea di un ritorno come nuovo Esodo. Tuttavia questo cammino non si risolse unicamente in un altro insediamento di tipo geografico o politico, ma si aprì ad una visione “escatologica” che ormai preludeva alla piena rivelazione in Cristo. In questa direzione si muovono appunto le immagini universalistiche, che nel Libro di Isaia descrivono il cammino dei popoli e della storia verso una nuova Gerusalemme, centro del mondo (cfr Is 56-66).

3. Il Nuovo Testamento annuncia il compimento di questa grande attesa, additando in Cristo il Salvatore del mondo: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5). Alla luce di questo annuncio la vita presente è già sotto il segno della salvezza. Questa si realizza nell’evento di Gesù di Nazaret che culmina nella Pasqua, ma avrà la sua piena realizzazione nella “parusia”, nell’ultima venuta di Cristo.

Secondo l’apostolo Paolo questo itinerario di salvezza che collega il passato al presente proiettandolo nell'avvenire è frutto di un disegno di Dio, tutto incentrato nel mistero di Cristo. Si tratta del “mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle sulla terra” (Ef 1, 9-10; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1042s).

In questo disegno divino, il presente è il tempo del “già e non ancora”, tempo della salvezza già realizzata e del cammino verso la sua perfetta attuazione: “Finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13).

4. La crescita verso una tale perfezione in Cristo, e perciò verso l’esperienza del mistero trinitario, implica che la Pasqua si realizzerà e celebrerà pienamente solo nel regno escatologico di Dio (cfr Lc 22, 16). Ma l’evento dell’incarnazione, della croce e della risurrezione costituisce già la rivelazione definitiva di Dio. L’offerta di redenzione che tale evento implica si inscrive nella storia della nostra libertà umana chiamata a rispondere all'appello di salvezza.

La vita cristiana è partecipazione al mistero pasquale, come cammino di croce e risurrezione. Cammino di croce, perché la nostra esistenza è continuamente sotto il vaglio purificatore che porta al superamento del vecchio mondo segnato dal peccato. Cammino di risurrezione, perché risuscitando Cristo, il Padre ha sconfitto il peccato, per cui nel credente il “giudizio della croce” diventa “giustizia di Dio”, vale a dire trionfo della sua Verità e del suo Amore sulla perversità del mondo.

5. La vita cristiana è in definitiva una crescita verso il mistero della Pasqua eterna. Essa esige pertanto di tenere fisso lo sguardo alla meta, alle realtà ultime, ma al tempo stesso di impegnarsi nelle realtà ‘penultime’: tra queste e il traguardo escatologico non vi è opposizione, ma al contrario un rapporto di mutua fecondazione. Se va affermato sempre il primato dell’Eterno, ciò non impedisce che viviamo rettamente alla luce di Dio, le realtà storiche (cfr CCC, 1048s).

Si tratta di purificare ogni espressione dell’umano e ogni attività terrena, perché in esse traspaia sempre più il Mistero della Pasqua del Signore. Come infatti ci ha ricordato il Concilio, l’attività umana, che porta sempre con sé il segno del peccato, è purificata ed elevata a perfezione dal mistero pasquale, cosicché “i beni quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale” (Gaudium et spes, 39).

Questa luce d’eternità illumina la vita e l’intera storia dell’uomo sulla terra.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 agosto 1999]

L’odierno brano evangelico (Lc 21,5-19) contiene la prima parte del discorso di Gesù sugli ultimi tempi, nella redazione di san Luca. Gesù lo pronuncia mentre si trova di fronte al tempio di Gerusalemme, e prende spunto dalle espressioni di ammirazione della gente per la bellezza del santuario e delle sue decorazioni (cfr v. 5). Allora Gesù dice: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» (v. 6). Possiamo immaginare l’effetto di queste parole sui discepoli di Gesù! Lui però non vuole offendere il tempio, ma far capire, a loro e anche a noi oggi, che le costruzioni umane, anche le più sacre, sono passeggere e non bisogna riporre in esse la nostra sicurezza. Quante presunte certezze nella nostra vita pensavamo fossero definitive e poi si sono rivelate effimere! D’altra parte, quanti problemi ci sembravano senza uscita e poi sono stati superati!

Gesù sa che c’è sempre chi specula sul bisogno umano di sicurezze. Perciò dice: «Badate di non lasciarvi ingannare» (v. 8), e mette in guardia dai tanti falsi messia che si sarebbero presentati (v. 9). Anche oggi ce ne sono! E aggiunge di non farsi terrorizzare e disorientare da guerre, rivoluzioni e calamità, perché anch’esse fanno parte della realtà di questo mondo (cfr vv. 10-11). La storia della Chiesa è ricca di esempi di persone che hanno sostenuto tribolazioni e sofferenze terribili con serenità, perché avevano la consapevolezza di essere saldamente nelle mani di Dio. Egli è un Padre fedele, è un Padre premuroso, che non abbandona i suoi figli. Dio non ci abbandona mai! Questa certezza dobbiamo averla nel cuore: Dio non ci abbandona mai!

Rimanere saldi nel Signore, in questa certezza che Egli non ci abbandona, camminare nella speranza, lavorare per costruire un mondo migliore, nonostante le difficoltà e gli avvenimenti tristi che segnano l’esistenza personale e collettiva, è ciò che veramente conta; è quanto la comunità cristiana è chiamata a fare per andare incontro al “giorno del Signore”. Proprio in questa prospettiva vogliamo collocare l’impegno che scaturisce da questi mesi in cui abbiamo vissuto con fede il Giubileo Straordinario della Misericordia, che oggi si conclude nelle Diocesi di tutto il mondo con la chiusura delle Porte Sante nelle chiese cattedrali. L’Anno Santo ci ha sollecitati, da una parte, a tenere fisso lo sguardo verso il compimento del Regno di Dio e, dall’altra, a costruire il futuro su questa terra, lavorando per evangelizzare il presente, così da farne un tempo di salvezza per tutti.

Gesù nel Vangelo ci esorta a tenere ben salda nella mente e nel cuore la certezza che Dio conduce la nostra storia e conosce il fine ultimo delle cose e degli eventi. Sotto lo sguardo misericordioso del Signore si dipana la storia nel suo fluire incerto e nel suo intreccio di bene e di male. Ma tutto quello che succede è conservato in Lui; la nostra vita non si può perdere perché è nelle sue mani. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti, attraverso le vicende liete e tristi di questo mondo, a mantenere salda la speranza dell’eternità e del Regno di Dio. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti a capire in profondità questa verità: Dio mai abbandona i suoi figli!

[Papa Francesco, Angelus  13 novembre 2016]

Spiccioli e festival del Dio vorace, in apparenze solenni

(Lc 21,1-4)

 

Gesù fronteggia il tesoro del Tempio, vero “dio” di tutto il santuario. Il confronto è spietato: uno contrapposto all’altro [v.1; cf. Mc 12,41].

Enigma che non poteva risolversi con una semplice “purificazione” del luogo sacro, o un rabberciamento della devozione.

Sorprenderà, ma il brano di Vangelo non tesse lodi dell’umiltà individuale che per fede si priva di tutto: è piuttosto un richiamo radicale ai responsabili di chiesa e al senso dell’istituzione.

Il Signore si rattrista di ogni espropriazione condizionata dalla paura. Il timore infatti toglie vita a coloro che non godono pienezza.

Cristo piange la condizione subalterna dei miseri e trascurati: non la fa salire in cattedra. Non accredita la situazione. Non vuole che la donna già nuda di due centesimi si spogli tutta.

Sembra affranto per quell’unica figura silenziosa; a sottolineare la differenza tra esigenze voraci del Dio delle religioni antiche e quelle di tutt’altro segno - in nostro favore - del Padre nella Fede.

 

Mentre Gesù notava e piangeva il gesto minuto della piccola donna, gli Apostoli neppure si accorsero dell’irrilevante poverella, continuando a rimanere a bocca aperta di fronte alla magnificenza del Tempio.

Chissà cosa inseguivano sognando... sedotti dall’onore.

Per distoglierli dalla febbre di reputazione e considerazioni di cui desideravano fregiarsi, c’era bisogno di una presa di coscienza; ma per smuoverli dal loro posto e metro di giudizio non sarebbero stati sufficienti i miracoli.

Così Gesù cerca di trasmettere in coscienza la Lieta Notizia che il Padre è l’esatto contrario di come era stato loro dipinto dalle guide spirituali del tempo.

L’Eterno sconcerta: non prende, non si appropria, non ci scippa, né assorbe o debilita - ma è Lui che dona.

Non mette in castigo se non lo plachi con entrambe le monetine che hai, senza trattenerne neppure una - anche solo facendo a metà (v.2).

L’onore a Dio non è esclusivo, bensì inclusivo.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti, potremmo dire che nelle comunità autentiche [come nelle famiglie] «tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono» (n.230).

 

Il Figlio constata con amarezza che proprio i bei protagonisti «divorano le case delle vedove» (Lc 20,47) come vampiri. Tanto convincenti da rendere le anime semplici addirittura loro sostenitrici e vittime.

Cristo si rattrista di tale inconsapevole complicità, indotta dalla mancata conoscenza del Volto del Padre - predicato come un Dio sanguisuga.

Infatti nel cammino di Fede personale i veri credenti non sono ripetitori di ruoli esterni (Lc 20,45-47).

Collaboriamo all’opera creatrice e divinizzante dell’Eterno nel proporci al pari di alimento vitale in favore dell’umanità cui è stato tolto lo Sposo - qui nella figura della povera «vedova» che si dissangua.

Insomma, non ci si deve più macerare e sfiancare, a motivo della gloria dell’Onnipotente, bensì arricchire di Lui e pronunciare appieno!

Un Dio tutta sostanza, di scarsa apparenza epidermica.

Eppure l’antitesi ricchi-poveri si stava ripresentando nelle prime comunità… a discapito degli isolati.

Qui proprio il rovesciamento delle sorti doveva diventare caratteristica della Chiesa adorante, che s’immerge nello stesso ritmo della suprema Sorgente vitale.

 

Sarà dunque l’istituzione amabile a restare spoglia e pellegrina, anche nello spazio del piccolo e malfermo.

E l’azione delle assemblee di credenti, a poter attivare un mondo nuovo, conviviale, in grado di umanizzare le disarmonie.

Realtà che batte il ‘tempo’. Per un ‘Regno’ davvero non neutrale. Ma dove conta l’anima, non il curriculum.

 

 

[Lunedì 34. sett. T.O.  25 novembre 2024]

Spiccioli e festival del Dio vorace, in apparenze solenni

(Lc 21,1-4)

 

Gesù trasmette la Lieta Notizia che il Padre è l’esatto contrario di come è stato immaginato.

Non prende, non si appropria, non ci scippa né assorbe o debilita, ma è Lui che dona; non mette in castigo se non lo plachi con entrambe le monetine che hai, senza trattenerne neppure una (v.2).

L’onore a Dio non è esclusivo, bensì inclusivo.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti, potremmo dire che nelle comunità autentiche [come nelle famiglie] «tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono» (n.230).

In particolare, all’antitesi ricchi-poveri è annunciato il capovolgimento dello stile di vita, delle situazioni e delle sorti: caratteristica della Chiesa ideale, che resta pellegrina - anche nello spazio della Persona.

La sua buona ragione, le pratiche virtuose e le implicazioni pubbliche s’immergono nello stesso ritmo della suprema Sorgente vitale - che ama l’unicità, per la ricchezza comune.

Fatte salve le relazioni buone, l’istituzione può apparire poco seducente. Essa non s’impone a forza di condizioni sociali “favorevoli”, bensì è Presenza sul piano della Fede.

Amicizia che contempla un mondo nuovo, in grado di umanizzare le disarmonie.

Realtà che batte il tempo - perché ne è dentro e fuori, come l’Amore.

 

Conta l’anima, non il curriculum; neppure gli influssi condizionanti, che mettono solo in difficoltà.

Infatti la sensazione di essere scarsi o in ritardo inizia dal fare paragoni - e voler aggiungere, anticipare, pretendere un di più esterno.

Ma quel che vale nel rapporto con se stessi, con gli altri e con Dio è solo riuscire a esprimere la propria natura. Fare scelte in sintonia con l’essenza che caratterizza.

I calcoli sono devianti, non consoni; così le comparazioni. Il piccolo dettaglio fuggevole ma personale è decisivo.

È importante solo coincidere con ciò che siamo, in quel presente; in sincronia col proprio carattere.

Siamo ciò che siamo. Lo sviluppo andrà bene così.

 

Gesù fronteggia il tesoro del Tempio, vero “dio” di tutto il santuario. Il confronto è spietato: uno contrapposto all’altro [v.1; cf. Mc 12,41].

Enigma che non poteva risolversi con una semplice “purificazione” del luogo sacro, o un rabberciamento della devozione.

Il Figlio annuncia un Padre: non è colui che succhia le risorse e le energie delle creature, fino a spennarle.

I grandi luoghi di culto antichi erano delle vere e proprie banche, i cui proventi avrebbero dovuto in parte provvedere alle necessità dei poveri.

La paura dei castighi divini inculcati dalle false guide spirituali aveva pervertito la situazione: anche i bisognosi ritenevano di dover provvedere allo sfarzo, al culto, agli addobbi degli edifici sacri e al sostentamento dei professionisti del rito.

Gesù qui non loda l’austerità e l’umiltà di un’emarginata, ma guarda con tristezza la povera donna che si lascia imbrogliare i pensieri, diventando una paradossale complice del sistema diseducativo.

Poteva trattenere una monetina; le getta invano entrambe, e con esse «tutta la sua vita» (v.4 testo greco).

 

L’episodio originale e gesuano viene ripreso da Lc per una catechesi alle sue comunità, sulla base di eventi [cf. gli antichi scritti di Giacomo e Paolo] sotto gli occhi dei cristiani di seconda e terza generazione.

Le prime fraternità erano composte da gente semplice, ma con l’ingresso dei primi benestanti e le loro magnifiche offerte iniziarono a riproporsi i medesimi attriti sociali presenti nella vita dell’impero.

Le tensioni diventavano sempre più palesi in occasione sia di riunioni che dello spezzare il Pane.

L’insegnamento del gesto della vedova voleva essere un monito alla Comunione reale.

Insomma, il Regno di Dio è penetrazione nelle profondità della vita; con la dedizione che non si riduce a quantità materiali, né a porgere ciò che avanza - bensì ciò che si è.

 

Nel contesto della società plurale [dell’impero romano e odierno] dalla Fede responsabile e motivata sorge l’Appello elementare dei Vangeli.

Richiamo antico e attuale - per un’esperienza singolare e comune. Davvero non neutrale.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali ritieni essere i personaggi di spicco della tua comunità?

E i tuoi due centesimi? Ne trattieni almeno uno?

Cosa invece metti più di tutti?

I problemi della gente possono essere risolti solo con molto denaro?

Le monete dei ragguardevoli sono davvero più utili dei tuoi pochi spiccioli?

 

 

Chiesa, e la Luce

 

Nella vedova che getta le sue due monetine nel tesoro nel tempio possiamo vedere l’«immagine della Chiesa» che deve essere povera, umile e fedele. Parte dal vangelo del giorno, tratto dal capitolo 21 di Luca (1-4), la riflessione di Papa Francesco durante la messa a Santa Marta lunedì 24 novembre. Nell’omelia viene richiamato il passo in cui Gesù, «dopo lunghe discussioni» con i sadducei e con i discepoli riguardo ai farisei e agli scribi che «si compiacciono di avere i primi posti, i primi seggi nelle sinagoghe, nei banchetti, di essere salutati», alzato lo sguardo «vede la vedova». Il «contrasto» è immediato e «forte» rispetto ai «ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio». Ed è proprio la vedova «la persona più forte qui, in questo brano».

Della vedova, ha spiegato il Pontefice, «si dice due volte che è povera: due volte. E che è nella miseria». È come se il Signore avesse voluto sottolineare ai dottori della legge: «Avete tante ricchezze di vanità, di apparenza o anche di superbia. Questa è povera. Voi, che mangiate le case delle vedove...». Ma «nella Bibbia l’orfano e la vedova sono le figure dei più emarginati» così come anche i lebbrosi, e «per questo ci sono tanti comandamenti per aiutare, per prendersi cura delle vedove, degli orfani». E Gesù «guarda questa donna sola, semplicemente vestita» e «che getta tutto quello che ha per vivere: due monetine». Il pensiero corre anche a un’altra vedova, quella di Sarepta, «che aveva ricevuto il profeta Elia e ha dato tutto quello che aveva prima di morire: un po’ di farina con l’olio...».

Il Pontefice ha ricomposto la scena narrata dal Vangelo: «Una povera donna in mezzo ai potenti, in mezzo ai dottori, ai sacerdoti, agli scribi... anche in mezzo a quei ricchi che gettavano le loro offerte, e anche alcuni per farsi vedere». A loro Gesù dice: «Questo è il cammino, questo è l’esempio. Questa è la strada per la quale voi dovete andare». Emerge forte il «gesto di questa donna che era tutta per Dio, come la vedova Anna che ha ricevuto Gesù nel Tempio: tutta per Dio. La sua speranza era solo nel Signore».

«Il Signore sottolinea la persona della vedova», ha detto Francesco, e ha continuato: «Mi piace vedere qui, in questa donna una immagine della Chiesa». Innanzitutto la «Chiesa povera, perché la Chiesa non deve avere altre ricchezze che il suo Sposo»; poi la «Chiesa umile, come lo erano le vedove di quel tempo, perché in quel tempo non c’era la pensione, non c’erano gli aiuti sociali, niente». In un certo senso la Chiesa «è un po’ vedova, perché aspetta il suo Sposo che tornerà». Certo, «ha il suo Sposo nell’Eucaristia, nella parola di Dio, nei poveri: ma aspetta che torni».

E cosa spinge il Papa a «vedere in questa donna la figura della Chiesa»? Il fatto che «non era importante: il nome di questa vedova non appariva nei giornali, nessuno la conosceva, non aveva lauree... niente. Niente. Non brillava di luce propria». E la «grande virtù della Chiesa» dev’essere appunto quella «di non brillare di luce propria», ma di riflettere «la luce che viene dal suo Sposo». Tanto più che «nei secoli, quando la Chiesa ha voluto avere luce propria, ha sbagliato». Lo dicevano anche «i primi Padri», la Chiesa è «un mistero come quello della luna. La chiamavano mysterium lunae: la luna non ha luce propria; sempre la riceve dal sole».

Certo, ha specificato il Papa, «è vero che alcune volte il Signore può chiedere alla sua Chiesa di avere, di prendersi un po’ di luce propria», come quando chiese «alla vedova Giuditta di deporre le vesti di vedova e indossare le vesti di festa per fare una missione». Ma, ha ribadito, «sempre rimane l’atteggiamento della Chiesa verso il suo Sposo, verso il Signore». La Chiesa «riceve la luce da là, dal Signore» e «tutti i servizi che noi facciamo» in essa servono a «ricevere quella luce». Quando un servizio manca di questa luce «non va bene», perché «fa che la Chiesa diventi o ricca, o potente, o che cerchi il potere, o che sbagli strada, come è accaduto tante volte, nella storia, e come accade nelle nostre vite quando noi vogliamo avere un’altra luce, che non è proprio quella del Signore: una luce propria».

Il Vangelo, ha notato il Papa, presenta l’immagine della vedova proprio nel momento in cui «Gesù incomincia a sentire le resistenze della classe dirigente del suo popolo: i sadducei, i farisei, gli scribi, i dottori della legge». Ed è come se egli dicesse: «Succede tutto questo, ma guardate lì!», verso quella vedova. Il confronto è fondamentale per riconoscere la vera realtà della Chiesa che «quando è fedele alla speranza e al suo Sposo, è gioiosa di ricevere la luce da lui, di essere — in questo senso — vedova: aspettando quel sole che verrà».

Del resto, «non a caso il primo confronto forte, dopo quello che ha avuto con Satana, che Gesù ha avuto a Nazareth, è stato per aver nominato una vedova e per aver nominato un lebbroso: due emarginati». C’erano «tante vedove, in Israele, a quel tempo, ma soltanto Elia è stato inviato da quella vedova di Sarepta. E loro si arrabbiarono e volevano ucciderlo».

Quando la Chiesa, ha concluso Francesco, è «umile» e «povera», e anche quando «confessa le sue miserie — poi tutti ne abbiamo — la Chiesa è fedele». È come se essa dicesse: «Io sono oscura, ma la luce mi viene da lì!». E questo, ha aggiunto il Pontefice, «ci fa tanto bene». Allora «preghiamo questa vedova che è in cielo, sicuro», affinché «ci insegni a essere Chiesa così», rinunciando a «tutto quello che abbiamo» e non tenendo «niente per noi» ma «tutto per il Signore e per il prossimo». Sempre «umili» e «senza vantarci di avere luce propria», ma «cercando sempre la luce che viene dal Signore».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 25/11/2014]

Al centro della Liturgia della Parola […] troviamo il personaggio della vedova povera, o, più precisamente, troviamo il gesto che ella compie gettando nel tesoro del Tempio gli ultimi spiccioli che le rimangono. Un gesto che, grazie allo sguardo attento di Gesù, è diventato proverbiale: “l’obolo della vedova”, infatti, è sinonimo della generosità di chi dà senza riserve il poco che possiede. Prima ancora, però, vorrei sottolineare l’importanza dell’ambiente in cui si svolge tale episodio evangelico, cioè il Tempio di Gerusalemme, centro religioso del popolo d’Israele e il cuore di tutta la sua vita. Il Tempio è il luogo del culto pubblico e solenne, ma anche del pellegrinaggio, dei riti tradizionali, e delle dispute rabbiniche, come quelle riportate nel Vangelo tra Gesù e i rabbini di quel tempo, nelle quali, però, Gesù insegna con una singolare autorevolezza, quella del Figlio di Dio. Egli pronuncia giudizi severi - come abbiamo sentito - nei confronti degli scribi, a motivo della loro ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano. Gesù, insomma, si dimostra affezionato al Tempio come casa di preghiera, ma proprio per questo lo vuole purificare da usanze improprie, anzi, vuole rivelarne il significato più profondo, legato al compimento del suo stesso Mistero, il Mistero della Sua morte e risurrezione, nella quale Egli stesso diventa il nuovo e definitivo Tempio, il luogo dove si incontrano Dio e l’uomo, il Creatore e la Sua creatura.

L’episodio dell’obolo della vedova si inscrive in tale contesto e ci conduce, attraverso lo sguardo stesso di Gesù, a fissare l’attenzione su un particolare fuggevole ma decisivo: il gesto di una vedova, molto povera, che getta nel tesoro del Tempio due monetine. Anche a noi, come quel giorno ai discepoli, Gesù dice: Fate attenzione! Guardate bene che cosa fa quella vedova, perché il suo atto contiene un grande insegnamento; esso, infatti, esprime la caratteristica fondamentale di coloro che sono le “pietre vive” di questo nuovo Tempio, cioè il dono completo di sé al Signore e al prossimo; la vedova del Vangelo, come anche quella dell’Antico Testamento, dà tutto, dà se stessa, e si mette nelle mani di Dio, per gli altri. È questo il significato perenne dell’offerta della vedova povera, che Gesù esalta perché ha dato più dei ricchi, i quali offrono parte del loro superfluo, mentre lei ha dato tutto ciò che aveva per vivere (cfr Mc 12,44), e così ha dato se stessa.

A Dio è bastato il sacrificio di Gesù, offerto “una volta sola”, per salvare il mondo intero (cfr Eb 9,26.28), perché in quell’unica oblazione è condensato tutto l’Amore del Figlio di Dio fattosi uomo, come nel gesto della vedova è concentrato tutto l’amore di quella donna per Dio e per i fratelli: non manca niente e niente vi si potrebbe aggiungere. La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento. È il Corpo di Cristo che si dona interamente, Corpo spezzato e condiviso, in costante adesione alla volontà del suo Capo.

[Papa Benedetto, omelia Brescia 8 novembre 2009]

2. Lodiamo Dio insieme col salmista: egli “è fedele per sempre”: il Dio dell’alleanza.
Egli è colui che “rende giustizia agli oppressi”, che “dà il pane agli affamati” - come gli chiediamo ogni giorno.
Dio è colui che “ridona la vista ai ciechi”: ridona in particolare la vista dello spirito.
Egli “rialza chi è caduto”.
Egli “sostiene l’orfano e la vedova” . . . (Sal 146 [145], 6-9).

3. Proprio la vedova si trova al centro della odierna liturgia della Parola. Questa è una ben nota figura del Vangelo: la povera vedova che gettò nel tesoro “due spiccioli, cioè un quattrino” (Mc 12, 42) - (quale è il valore approssimativo di questa moneta?).
Gesù osservava “come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte” (Mc 12, 41).

Vedendo la vedova e la sua offerta disse ai discepoli: “Questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri . . . Tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12, 43-44).

4. La vedova del Vangelo ha il suo parallelo nell’antica alleanza. La prima lettura della liturgia dal libro dei Re, ricorda un’altra vedova, quella di Zarepta, che su richiesta del profeta Elia divise con lui tutto ciò che aveva per sé e per suo figlio: il pane e l’olio, anche se ciò che aveva bastava solo per loro due.

Ed ecco - secondo la predizione di Elia - avvenne il miracolo: la farina della giara non si esaurì e l’orcio dell’olio non si svuotò . . . e così fu per diversi giorni (cf. 1 Re 17, 14-17).

5. Una comune caratteristica unisce ambedue le vedove - quella dell’antica e quella della nuova alleanza -. Tutte e due sono povere e al tempo stesso generose: danno tutto quello che è nella loro possibilità. Tutto ciò che possiedono. Tale generosità del cuore è una manifestazione del totale affidamento a Dio. E perciò la liturgia odierna giustamente ricollega queste due figure con la prima beatitudine del discorso della montagna di Cristo:

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5, 3).
I “poveri in spirito” - così come quella vedova di Zarepta ai tempi di Elia, e quell’altra del tempio di Gerusalemme, ai tempi di Cristo - dimostrano nella loro povertà una grande ricchezza dello spirito.
Infatti: il povero in spirito è ricco nello spirito. E proprio solo colui che è ricco in spirito può arricchire gli altri.
Cristo insegna che “di essi è il Regno dei cieli”.

6. Per noi che partecipiamo al sacrificio eucaristico questa indicazione è particolarmente importante. Solo quando la nostra presenza qui rivela quella “povertà in spirito” di cui parla la beatitudine di Cristo, solo allora possiamo offrire la nostra offerta al grande “tesoro spirituale” della Chiesa: possiamo portare questa offerta all’altare in quello spirito che Dio, nostro creatore, e Cristo, nostro redentore, s’aspettano da noi.

La lettera agli Ebrei parla di Cristo, eterno sacerdote, che intercede in nostro favore presentando al cospetto di Dio Padre il sacrificio della croce sul Golgota.
E questo unico, santissimo e indefinito valore del sacrificio di Cristo abbraccia anche le offerte che noi portiamo all’altare.
Occorre che queste offerte siano simili allo spicciolo di quella vedova del tempio gerosolimitano, ed anche all’offerta della vedova di Zarepta dei tempi di Elia.
Occorre che queste nostre offerte presentate all’altare - la nostra partecipazione all’Eucaristia - portino in sé un segno della beatitudine di Cristo circa i “poveri in spirito”.

7. La Chiesa intera oggi medita la verità racchiusa in queste parole della liturgia. Mi è dato oggi, come Vescovo di Roma, meditarle insieme con voi fedeli della parrocchia di san Luigi Gonzaga, ai Parioli. Il vostro patrono, san Luigi, ha vissuto in pienezza ia beatitudine evangelica della povertà in spirito, cioè dello spogliamento degli onori e dei beni terreni per conquistare la vera ricchezza, che è il Regno di Dio. Diceva infatti al padre, marchese di Castiglione delle Stiviere: “Un marchesato non mi basta, io miro un regno”; intendeva riferirsi evidentemente al Regno dei cieli. Per attuare questo suo desiderio Luigi rinunciò al titolo e all’eredità paterna per entrare nel noviziato romano della Compagnia di Gesù. Si fece povero per diventare ricco. Annoterà più tardi in un suo scritto: “Anche i principi sono cenere, come i poveri”. Così come la “povera vedova”, diede tutto al Signore con generosità e slancio, che ha dell’eroismo. Scelse infatti per sé le incombenze più umili, dedicandosi al servizio degli ammalati, soprattutto nell’epidemia di peste che colpì Roma nel 1590, e dando la sua vita per essi.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia alla parrocchia s. Luigi Gonzaga, 6 novembre 1988]

Il brano del Vangelo […] si compone di due parti: una in cui si descrive come non devono essere i seguaci di Cristo; l’altra in cui viene proposto un ideale esemplare di cristiano.

Cominciamo dalla prima: cosa non dobbiamo fare. Nella prima parte Gesù addebita agli scribi, maestri della legge, tre difetti che si manifestano nel loro stile di vita: superbia, avidità e ipocrisia. A loro – dice Gesù - piace «ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti» (Mc 12,38-39). Ma sotto apparenze così solenni si nascondono falsità e ingiustizia. Mentre si pavoneggiano in pubblico, usano la loro autorità per “divorare le case delle vedove” (cfr v. 40), che erano considerate, insieme agli orfani e agli stranieri, le persone più indifese e meno protette. Infine, gli scribi «pregano a lungo per farsi vedere» (v. 40). Anche oggi esiste il rischio di assumere questi atteggiamenti. Ad esempio, quando si separa la preghiera dalla giustizia, perché non si può rendere culto a Dio e causare danno ai poveri. O quando si dice di amare Dio, e invece si antepone a Lui la propria vanagloria, il proprio tornaconto.

E in questa linea si colloca la seconda parte del Vangelo di oggi. La scena è ambientata nel tempio di Gerusalemme, precisamente nel luogo dove la gente gettava le monete come offerta. Ci sono molti ricchi che versano tante monete, e c’è una povera donna, vedova, che mette appena due spiccioli, due monetine. Gesù osserva attentamente quella donna e richiama l’attenzione dei discepoli sul contrasto netto della scena. I ricchi hanno dato, con grande ostentazione, ciò che per loro era superfluo, mentre la vedova, con discrezione e umiltà, ha dato «tutto quanto aveva per vivere» (v. 44); per questo – dice Gesù – lei ha dato più di tutti. A motivo della sua estrema povertà, avrebbe potuto offrire una sola moneta per il tempio e tenere l’altra per sé. Ma lei non vuole fare a metà con Dio: si priva di tutto. Nella sua povertà ha compreso che, avendo Dio, ha tutto; si sente amata totalmente da Lui e a sua volta Lo ama totalmente. Che bell’esempio quella vecchietta!

Gesù, oggi, dice anche a noi che il metro di giudizio non è la quantità, ma la pienezza. C’è una differenza fra quantità e pienezza. Tu puoi avere tanti soldi, ma essere vuoto: non c’è pienezza nel tuo cuore. Pensate, in questa settimana, alla differenza che c’è fra quantità e pienezza. Non è questione di portafoglio, ma di cuore. C’è differenza fra portafoglio e cuore… Ci sono malattie cardiache, che fanno abbassare il cuore al portafoglio… E questo non va bene! Amare Dio “con tutto il cuore” significa fidarsi di Lui, della sua provvidenza, e servirlo nei fratelli più poveri senza attenderci nulla in cambio.

Mi permetto di raccontarvi un aneddoto, che è successo nella mia diocesi precedente. Erano a tavola una mamma con i tre figli; il papà era al lavoro; stavano mangiando cotolette alla milanese… In quel momento bussano alla porta e uno dei figli – piccoli, 5, 6 anni, 7 anni il più grande - viene e dice: “Mamma, c’è un mendicante che chiede da mangiare”. E la mamma, una buona cristiana, domando loro: “Cosa facciamo?” – “Diamogli, mamma…” – “Va bene”. Prende la forchetta e il coltello e toglie metà ad ognuna delle cotolette. “Ah no, mamma, no! Così no! Prendi dal frigo” – “No! facciamo tre panini così!”. E i figli hanno imparato che la vera carità si dà, si fa non da quello che ci avanza, ma da quello ci è necessario. Sono sicuro che quel pomeriggio hanno avuto un po’ di fame… Ma così si fa!

Di fronte ai bisogni del prossimo, siamo chiamati a privarci – come questi bambini, della metà delle cotolette  – di qualcosa di indispensabile, non solo del superfluo; siamo chiamati a dare il tempo necessario, non solo quello che ci avanza; siamo chiamati a dare subito e senza riserve qualche nostro talento, non dopo averlo utilizzato per i nostri scopi personali o di gruppo.

Chiediamo al Signore di ammetterci alla scuola di questa povera vedova, che Gesù, tra lo sconcerto dei discepoli, fa salire in cattedra e presenta come maestra di Vangelo vivo. Per l’intercessione di Maria, la donna povera che ha dato tutta la sua vita a Dio per noi, chiediamo il dono di un cuore povero, ma ricco di una generosità lieta e gratuita.

[Papa Francesco, Angelus 8 novembre 2015]

Dio ti benedica! Da qualche settimana ho scelto di offrire non  un’omelia ma un servizio a coloro che desiderano: presento le letture bibliche della domenica per aiutare la comprensione del testo biblico con breve commento a partire sempre dalla parola di Dio. Spero possa esserti utile: se lo desideri fammelo sapere e ti ringrazio per l’attenzione. « La Parola di Dio è un sentiero in salita, più ci si impegna, più si avanza verso la luce » (parafrasi da san Giovanni della Croce) « Ogni versetto della Bibbia è come un gradino: leggerlo è facile, viverlo è la vera sfida della fede (parafrasi da «la Scala del Paradiso » di san Giovanni Climaco). Ogni settimana manderò il testo il mercoledìì sera o il giovedì mattina per aver il tempo di leggere e meditare.

Ecco quello di domenica prossima.

 

XXXIII Domenica Tempo Ordinario (anno B) 

Commento delle letture [17 Novembre 2024]

 

*Prima Lettura dal Libro del Profeta Daniele 12, 1-3

 *Nella tormenta della persecuzione nasce la fede nella risurrezione 

Il libro di Daniele prende il nome non dall’autore ma dal protagonista, il profeta Daniele vissuto in Babilonia durante gli anni degli ultimi re dell’impero neobabilonese ed è stato scritto durante la rivoluzione dei Maccabei (II secolo a.C.). Nel testo odierno ci sono almeno due importanti affermazioni. Prima di tutto, Daniele conforta i suoi contemporanei che attraversavano un periodo difficile. Quando dice: “Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai”, parla al futuro, ma è solo in apparenza perché si era sotto occupazione e persecuzione. Non potevano circolare libri di opposizione e quindi finge di parlare del passato o del futuro, ma in verità del presente e i lettori capiscono e traggono il conforto di cui hanno bisogno. A regnare, dopo le conquiste di Alessandro Magno e i primi successori piuttosto tolleranti, è Antioco Epifane, tristemente celebre per la terribile persecuzione contro gli ebrei. Si pose al centro del Tempio come un dio e gli ebrei dovevano scegliere: sottomettersi o restare fedeli alla propria fede, affrontando la tortura e la morte. Alcuni si piegarono, ma molti rimasero fedeli e furono uccisi. Daniele dice loro che Michele, il capo degli Angeli, veglia su di loro e se ora stanno vivendo la sconfitta e l’orrore del terrore, sono però vincitori in una battaglia che si svolge sia sulla terra che in cielo: l’esercito celeste ha già vinto. La storia umana è una gigantesca lotta di cui già si conosce il vincitore, e questo concerne in particolare il popolo dell’Alleanza. 

Al messaggio di conforto per i vivi Daniele unisce un riferimento a chi si è sacrificato per non tradire il Dio vivente. Siccome Dio non abbandona chi muore per lui, chi muore così risorgerà. La parola “resurrezione”, che oggi fa parte del nostro vocabolario, allora era praticamente sconosciuta. Per secoli, la questione della resurrezione individuale non si poneva essendo l’interesse rivolto al popolo e non all’individuo, al presente e al futuro del popolo e non al destino dell’individuo. Nella storia d’Israele l’interesse per il destino della persona è emerso come conquista e progresso durante l’esilio collegato all’idea di responsabilità individuale. Occorre sempre ricordare che la fede nel Dio fedele matura con gli eventi della storia e Israele comprende sempre più che Dio desidera il bene dell’uomo e mai lo abbandona. L’esperienza dell’Alleanza ha dunque alimentato la fede d’Israele e si è compreso che, se Dio vuole l’uomo libero da ogni schiavitù, non può lasciarlo nelle catene della morte. Verità esplosa quando alcuni credenti hanno sacrificato la vita per Dio e la loro morte è diventata fonte di fede nella vita eterna. Si comprese così che i martiri risorgeranno per la vita eterna: “Molti di coloro che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni per la vita eterna e gi altri alla vergogna e per l’infamia eterna”. Il libro di Daniele considera la resurrezione solo per i giusti, ma in seguito si giungerà a capire che la resurrezione è promessa a tutta l’umanità composta di essere umani buoni e cattivi e anzi nessuno è totalmente buono o cattivo. Infine solo quando ci si lascia illuminare dalla certezza che Dio ci ama, possiamo capire che vivremo per sempre.

 

Salmo responsoriale 15 (16), 5.8, 9-10, 11

*Il grande impegno a immagine del levita 

Nel salmo 15(16), di cui oggi meditiamo solo alcuni versetti, appare tutto semplice quando ci si rifugia in Dio perché solo in lui è il nostro bene. Al versetto 5 leggiamo: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” e continua “la mia eredità è stupenda” (v.6) per poi affermare che “per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa sicuro perché non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele vedrà la fossa” (v.8,9,10). In realtà, sotto apparenze assai semplici, il salmo 15/16 traduce la lotta terribile della fedeltà alla vera fede: esattamente lo stesso invito di Daniele a non rinnegare la fede nonostante la persecuzione del re Antioco Epifane. La lotta per la fedeltà segna Israele fin dall’inizio, da quando Mosè durante l’esodo percepì il rischio dell’idolatria: si pensi all’episodio del vitello d’oro quando il popolo convinse Aronne a costruirlo (Es. 32). Entrati poi nella terra di Canaan (tra il XV e il XIII secolo a.C.), restò il pericolo dell’idolatria nel vedere che tutto andava male. La guerra, la carestia, l’epidemia suscitarono la voglia di contare su due sicurezze: Il Signore e Baal perché, nelle difficoltà si è tentati di ricorrere a ogni dio possibile e immaginabile. Lo fece il re Acaz, nell’VIII secolo sacrificando suo figlio agli idoli, e suo nipote Manasse cinquant’anni dopo. Per questo i profeti hanno lottano contro l’idolatria che è la peggiore delle schiavitù. Questo salmo traduce dunque sotto forma di preghiera la predicazione dei profeti: vi risuona l’invito ai credenti a seguire la predicazione, e nel contempo è supplica a Dio affinché aiuti tutti a resistere nel tempo della prova. Utile sarebbe leggere anche i versetti non presenti in questa domenica (vv.1-4) dove tra l’altro si dice che “agli idoli del paese, agli dei potenti andava tutto il mio favore. Moltiplicarono le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero” per poi affermare “Io non spanderò le loro libagioni di sangue, né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. Insomma, occorre rivolgersi solo al Dio dell’Alleanza essendo l’unico in grado di guidare il suo popolo nel difficile cammino della libertà. Con i secoli si è compreso che il Dio d’Israele è l’unico Dio per l’intera umanità. Se c’è un’esclusività per Israele è perché egli l’ha scelto gratuitamente e gli si è rivelato come l’unico vero Signore. Tocca a Israele rispondere a questa vocazione legandosi esclusivamente a lui e, così facendo, adempirà la sua missione di testimone dell’unico Dio di fronte alle altre nazioni. Per esprimere tale missione, Israele in questo salmo si paragona a un levita: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita” (v.5). Si allude alla singolare condizione dei leviti che, al tempo della spartizione della Terra Promessa tra le tribù dei discendenti di Giacobbe, i membri della tribù di Levi non avevano ricevuto parte del territorio e quindi la loro parte era la Casa di Dio (il Tempio), il servizio di Dio. Tutta la loro vita era consacrata al servizio del culto; il loro sostentamento era garantito dalle decime e da una parte dei raccolti e delle carni offerte in sacrificio. Israele è nel cuore dell’umanità come i leviti sono il cuore d’Israele, entrambi chiamati al diretto servizio del Signore, fonte di gioia. Tenendo presente la prima lettura che parla della risurrezione dei corpi (Dn 12), si comprende che l’eternità di cui si parla in questo salmo non riguarda la risurrezione individuale perché il vero soggetto di tutti i salmi non è mai un individuo ma l’intero Israele  sicuro di sopravvivere essendo l’eletto del Dio vivente. E il versetto 10: “Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele veda la fossa” non esprime la fede nella risurrezione individuale, ma è un appello alla sopravvivenza del popolo. Certamente quando il profeta Daniele (prima lettura) annunciava la fede nella risurrezione dei morti, questo versetto aveva tale senso; in seguito Gesù ed ora tutti noi possiamo dire fiduciosi che il nostro cuore esulta e l’anima è in festa perché il Signore non ci abbandona alla morte, ma anzi alla sua destra, ci attende un’eternità di gioia.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei 10, 11-14. 18

 Gesù libera l’umanità dalla fatalità del peccato 

La lettera agli Ebrei, come e più degli altri testi del Nuovo Testamento, mira a far capire che Gesù è l’atteso Messia-sacerdote per cui di conseguenza il sacerdozio ebraico è superato. Terminato il ruolo dei sacerdoti dell’Antica Alleanza, nella Nuova Alleanza l’unico sacerdote è Cristo. Ma quali sono le caratteristiche dei sacerdoti dell’A.T. confrontandole con Cristo? L’autore focalizza due punti: la liturgia dei sacerdoti dell’Antico Testamento era quotidiana e offrivano sempre gli stessi sacrifici; Gesù, invece, ha offerto un sacrificio unico. Il culto dei sacerdoti ebrei era inefficace, poiché i sacrifici non avevano il potere di eliminare i peccati, mentre, con l’unico suo sacrificio, Gesù ha eliminato una volta per tutte il peccato del mondo. Ci sono qui affermazioni che per l’ambiente giudaico-cristiano dell’epoca erano importanti come ad esempio l’espressione “eliminare i peccati” perché la parola “peccato” torna più volte in questo testo. L’esperienza dice che dopo la morte/risurrezione di Cristo continuano a esistere i peccati nel mondo per cui affermare che Gesù ha tolto il peccato del mondo significa far rimarcare che il peccato non costituisce più una fatalità perché, grazie al dono dello Spirito Santo, possiamo vincerlo. Inoltre leggendo che “con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” occorre capire che il termine “perfetto” non riveste un significato morale, ma esprime compimento, completamento. Siamo stati cioè condotti da Cristo al nostro compimento; grazie a lui siamo diventati uomini e donne liberi: liberi di non ricadere nell’odio, nella violenza, nella gelosia; liberi di vivere come figli e figlie di Dio e come fratelli e sorelle. Nella celebrazione eucaristica continuiamo a dire “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Questo fa pensare al profeta Geremia (31, 31-33) che profetizza: “Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore – nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova… porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”, oppure a Ezechiele (36, 26-27): “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi”. I primi cristiani sapevano che bisogna lasciarsi condurre dallo Spirito Santo, ma condizione essenziale è restare uniti a Cristo come i tralci alla vite.  Leggiamo ancora nel testo: “Cristo…si è assiso per sempre alla destra di Dio e attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi” (vv12-14). L’espressione “assiso alla destra di Dio” in Israele era da secoli un titolo regale. Il giorno dell’incoronazione, quando prendeva possesso del suo trono, il nuovo re si sedeva alla destra di Dio e in questo contesto dire che “Gesù Cristo si è assiso per sempre alla destra di Dio” vuol dire che Gesù è il vero Re-Messia atteso. Tale concetto è rafforzato da ciò che segue: “Egli attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi”. La tradizione era che sui gradini dei troni dei re s’incidevano o scolpivano figure di uomini incatenati che rappresentavano i nemici del regno e il re salendo i gradini del trono li calpestava, schiacciando simbolicamente i suoi nemici e questo non era gratuita crudeltà bensì garanzia di sicurezza per i sudditi. Si trovano segni di queste figure nei troni di Tutankhamon (scoperti nel 1922 dall’archeologo Howard Carter nella Valle dei Re in Egitto) mentre in Israele, resta, come sola traccia citata nel Salmo 109/110, ciò che il profeta pronunciava da parte di Dio per il re nel rito dell’incoronazione: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi”. Se Cristo è davvero il Messia, l’atteso re eterno discendente di Davide, il vecchio mondo è ormai finito. Un’ultima precisazione: perché si dice: “il sacrificio della messa”?  Nella Lettera agli Ebrei leggiamo: “Ora, dove c’è il perdono non c’è più offerta (il sacrificio) per il peccato”. Il termine sacrificio resta anche se, con Cristo, il suo significato è cambiato: per lui, “sacrificare” (sacrum facere, compiere un atto sacro) non significa uccidere uno o mille animali, ma vivere nell’amore e dare la vita per i fratelli, come già nell’VIII secolo a.C. affermava il profeta Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.» (6, 6).

 

*Vangelo secondo san Marco (13, 24-32)

Gesù usa qui lo stile apocalittico 

Nel vangelo di Marco Gesù ora cambia stile e si avvicina nei suoi discorsi alla letteratura della divinazione che allora era molto in voga. Tutte le religioni si ponevano gli stessi interrogativi: L’umanità andrà irrimediabilmente in rovina oppure trionferà il Bene? Come sarà la fine del mondo e chi sarà il vincitore? Si utilizzavano le stesse immagini di sconvolgimenti cosmici, eclissi di sole o di luna, personaggi celesti, angeli o demoni. Gli ebrei prima e poi i cristiani presero in prestito questo stile inserendovi però il messaggio evangelico, cioè la rivelazione divina. Per questo, nella Bibbia, questo stile letterario viene chiamato “apocalittico” perché porta una “rivelazione” da parte di Dio: letteralmente il verbo greco apocaliptõ significa rivelare, nel senso di “sollevare il velo che copre la storia dell’umanità”. All’epoca era come un linguaggio cifrato, in codice: si parla di sole, stelle, luna e di come tutto ciò sarà sconvolto anche se poi si vuol dire tutt’altro. E’ la vittoria di Dio e dei suoi figli nel grande combattimento contro il male che portano avanti fin dall’origine del mondo. Ecco la specificità della fede giudeo-cristiana per cui è un errore usare il termine apocalisse per parlare di eventi spaventosi perché nel linguaggio della fede ebraica e cristiana è esattamente il contrario. Rivelare il mistero di Dio non tende a spaventare l’umanità, bensì a incoraggiare gli uomini ad affrontare ogni crisi della storia sollevando l’angolo del velo che copre la storia per tenere salda la speranza. Già i profeti nell’A.T., per annunciare il giorno della vittoria definitiva di Dio contro ogni forza del male, utilizzavano le medesime immagini. Troviamo in Gioele (2, 10-11): “La terra trema, il cielo si scuote, il sole e la luna si oscurano e le stelle cessano di brillare. Il Signore fa udire la sua voce dinanzi alla sua schiera. Molto grande è il suo esercito, potente nell’eseguire i suoi ordini. Grande è il giorno del Signore, davvero terribile: chi potrà sostenerlo?”. Consiglio di leggere anche questi altri del profeta Gioele (3, 1-5 e 4, 15-16) e di Isaia (12, 1-2). Non sono racconti per incutere terrore, ma per annunciare la vittoria del Dio che ci ama. Il messaggio è sempre questo: Dio avrà l’ultima parola perché, come scrive Isaia, il male sarà distrutto e il Signore punirà i malvagi per i loro crimini (cf.13, 10); è lo stesso Isaia che, qualche versetto prima (cap.12,2), annunciava la salvezza dei figli di Dio: “Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, non avrò timore, perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza.” Queste parole, nelle quali risuona lode e fede in Dio come Salvatore insieme a un profondo senso di sicurezza e fiducia nella protezione divina, fanno parte di un canto di ringraziamento che celebra la liberazione e il sostegno che Dio offre al suo popolo. Nello stile apocalittico, annunciare la fede è assicurare che Dio è il padrone della storia e un giorno il male scomparirà. Per questo, più che “fine del mondo”, sarebbe meglio “trasformazione del mondo” o meglio “rinnovamento del mondo”. Tutto questo emerge nel vangelo di Marco di questa domenica con una precisazione: la vittoria definitiva di Dio contro il male, avviene solo in Gesù Cristo. Nel vangelo si è a pochi giorni dalla Pasqua e Gesù ricorre a questo linguaggio perché il combattimento tra lui e le forze del male è ormai al suo culmine. Per capire il messaggio di Gesù, possiamo ricorrere al vangelo di Giovanni, quando alla conclusione del suo lungo discorso agli apostoli afferma: ”Vi ho detto queste parole perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33). E la parabola del fico che mette le foglie, ben s’inserisce in questo messaggio, tenendo presente che la chiave per capire è l’aggettivo “vicino”, “vicina”: i segni preannunciano solo la vicinanza della fine, quindi attenti ai falsi profeti che vedono ora la fine del mondo. Occorre invece vigilare e pregare perché la vicinanza della fine è per ogni generazione - e quest’invito è presente in tutto il Vangelo.

Buona Domenica a tutti!

+Giovanni D’Ercole

Il Re dell’Universo: forse il meno dotato?

(Dn 7,13-14;  Ap 1,5-8;  Gv 18,33-37)

 

Tutti i regni che si sono susseguiti prima di Gesù erano ispirati al medesimo brutale principio: la competizione [prima Lettura].

Il forte ha soggiogato il debole, il ricco si è imposto al povero, il più svelto ha asservito il meno dotato.

Nuovi dominatori si sono installati al posto dei predecessori, senza rendere più umana la convivenza dei popoli o la vita quotidiana.

Pensieri e sentimenti rimanevano identici: voracità, crudeltà, sopraffazione.

Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori ponendo al vertice non il potere ma la Comunione.

Ha introdotto un criterio nuovo, quello del cuore di uomo - opposto dell’istinto crudele di belve.

Ma Pilato ha in mente solo le caratteristiche dei regni «da» (v.36) questo mondo.

Domini portati avanti per ambizione. Realtà basate sull'uso della forza e la persuasione del denaro.

Gesù non uccide: va lui a morire, non comanda ma obbedisce; non si allea e non cerca grandi e potenti ma si mette dalla parte di chi non conta nulla.

Possedere, conquistare, sterminare, ostentare, non sono perentori segni di forza, ma di sconfitta: ‘grande’ è chi serve.

Purtroppo il copione della regalità che viene «da» questo mondo non è recitato solo dai capi: piace anche alle folle.

Sul colle Palatino, vicino al Circo Massimo, un graffito che risale al 200 circa raffigura una persona in adorazione del Crocifisso ritratto con una testa d’asino.

Verità di Dio, regalità dell’uomo - e viceversa.

 

Nel passo di Vangelo Gv pennella un quadro sulle perplessità di fondo che anche oggi affliggono l’Annuncio.

Gesù chiede al Procuratore di ragionare con la sua testa; di pensare non come figura dominante.

[Il Signore aveva fatto un identico richiamo di senso alla guardia che gli aveva mollato uno schiaffo].

Contro di Lui si sono rivoltati tutti, ha scontentato persino la sua gente.

Forse la massa vede nella proposta del Signore una minaccia alle finte sicurezze che il potere tutto sommato è in grado di assicurare.

Mai intaccare la piccineria degli ozi derivanti da uno status assodato, persino dimesso o fasullo - purché non allarmante.

Talora, tristemente, i copioni della regalità e dei subalterni s’intersecano e sostengono a vicenda.

 

Verità e Regalità.

Presso tutti i popoli l’ideale di “personaggio” riuscito è il Sovrano: ricco potente libero dominatore.

A Pilato, perfettamente inserito nella gerarchia di potere, il Maestro produce una sorta di sgretolamento mentale.

È l’opera singolare - davvero Sacerdotale - del cammino di Fede personale: l’invito a interrogarsi.

Ognuno di noi, da Re che non si lascia intimare i medesimi vecchi lati dall’esterno, bensì esige una vita piena, propria.

 

Gesù al termine della sua vicenda terrena è piuttosto silente. Egli attende che ciascuno si pronunci e scelga.

 

 

[34.a Domenica (anno B), 24 novembre 2024]

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Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
"In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet". This refers to the solidity of the Word. It is solid, it is the true reality on which one must base one's life (Pope Benedict)
«In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita (Papa Benedetto)

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