Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Il pianto sulla città eterna, con lacrime di padre, di madre, di figlio
(Lc 19,41-44)
Ci piace essere sulla scia della moda o dell’opportunismo, ma respingere la Chiamata del Signore è grande responsabilità.
Bisogna riconoscere la Sua Visita, in Presenza, nell’ispirazione che emerge.
E scrutare i segni, cogliere i momenti di grazia invece di chiudersi ostilmente; non voltare le spalle.
Tutto questo cambia la vita in radice - guida al cuore della storia.
Gesù vuole espugnare le porte chiuse di ogni cittadella; anzitutto dell’osso più duro: Gerusalemme, la città santa.
Il territorio “eterno” è meno capace di accogliere le proposte del Signore - anche quelle sbandierate agli altri ma vissute in proprio con comportamenti qua e là aberranti (che costringono a ripetuti appelli).
Lì, gli estremisti del tornaconto antico o supermoderno restano tutti protesi a presidiare e coprire interessi, privilegi, abitudini, comodità.
Situazione che trascina i problemi stessi - i quali via via diventano cronici.
Non di rado i responsabili astuti rimangono seduti e chiusi nella difesa del mondo che vede solo se stesso, nella perfetta cupidità di ogni cosa vana.
Altro che fermento di conversione, motore della società, germe di vita nuova!
Risultato: la Verità tanto sbandierata rimane spesso ostaggio delle ingiustizie più bieche, che nel quotidiano consumano allegramente i peggiori tradimenti.
Anche Gesù si accorgeva della medesima situazione, immarcescibile, la quale produceva degrado e disumanizzazione.
Talora infatti ricerca del divino e tensione umana sono rese vane, a causa di un mondo ufficiale esclusivo, snob o settario - quello del sacro - che sembra sotto il segno di tutt’altra ‘divinità’.
Da parte dei “direttori”, la scelta di una ideologia di potere pasce d’illusioni.
Guida al proselitismo duro, ma conduce al disastro l’intero popolo - vessato, disprezzato, emarginato.
Offuscando lo sguardo, ciò non consente di liberarsi degli idoli più insidiosi che deturpano l’esistenza e la mente.
In tal guisa, l’ottica dirigista, superficiale e violenta, confonde e travia il cammino verso lo Shalôm.
Impossibile rendersi conto della Visita di Dio, nella città perenne della religiosità antica o dell’ideologia élitaria, disincarnata.
Un tempo, ecco trincee, uccisioni e distruzione delle mura e delle case da parte di Nabucodonosor; poi quella romana del 70, cui allude più direttamente il testo.
Ma la previsione lugubre si estende, e forse l’immagine del mucchio di rovine ci riguarda. Fondo storico, meditazione ecclesiale e pastorale.
Non di rado l’autorità competente ha continuato purtroppo a condannare Gesù-Pace come un malfattore da espellere.
Ma in filigrana il Cristo oggi si staglia nella posizione di Re, che a malincuore pronuncia una sentenza definitiva.
Forse lo fa persino sui suoi intimi, quando si lasciano andare al compromesso, al degrado ideale, alla corruzione venale [all’adorazione degli idoli].
Dove la salvezza è preparata, offerta e riproposta in modo così intenso ma invano, il rifiuto diventa più doloroso - così per noi e per questo Figlio appassionato, commovente, quasi affranto.
Eppure il ceto degli eletti ed esclusivisti sceglie ugualmente di cadere e rovinare, in tal guisa autodistruggendo la propria gente.
Ricevendo in cambio solo il becchime mondano d’un titolo da appuntarsi.
E nello stesso ‘spirito di permanenza’, rigettando il Messia servitore.
Misconoscendo anche nel tempo l’opera di Bene dei suoi testimoni autentici.
Pertanto, la Città delle città - il grande centro religioso - continuerà a perdere il suo speciale carattere di segno salvatore.
Ci sarà un compimento comunque, ma l’anticipazione si realizza ora.
Dunque: siamo col Redentore [resistenza all’oppressione e attività profetica senza acquiescenze] o con Gerusalemme [deviazioni coperte da docilità, amicizia del sovrano, notorietà, premi in denaro]?
Anche oggi è tempo di Visita del Maestro, che bussa e chiede il permesso di entrare, per aprire i sigilli dei grandi interrogativi della storia e della vita.
Il monito è globale, comunitario, e personale; di nuovo con lacrime di padre, di madre e di figlio.
Appello tuttora in fieri - per l’attuale tendenza culturale al nulla, alla resa e all’effimero.
L’enciclica Fratelli Tutti denuncia appunto il regresso di un mondo stravagante che - con un senso del “qui e ora” rattrappito - sembra aver imparato poco dalle tragedie del Novecento, sino a riaccendere conflitti anacronistici (nn.11.13).
Il Padre ha riservato alla Chiesa un Regno alternativo, e dove essa cerca di occupare il posto di altri, finisce solo per vivere di elemosine da rotocalco, e far stare i suoi figli più stretti.
Meglio non rovinare l’amore. Il farsi valere è maschera di nanerottoli, non virtù dei forti - né di famigliari.
Ma accorgendoci anche dei luoghi di rottura, e recuperando il passo sociale, è con nuovo acume evangelico che potremo rendere il Dio-per-tutti davvero operante e vivo, invece che affranto su di noi.
Ciò con migliore profitto a partire dal suo Popolo: dall’anima delle sue Fraternità di silenziosi agnelli, impegnati non a gestire posizioni, bensì nell’artigianato sine glossa della vita reale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ritieni sia nascosto ai tuoi occhi, ma precedentemente annunziato - e che piange amaro?
Con quale orientamento sei disposto a vivere nell’«artigianato della Pace», anche famigliare o sociale, mettendo da parte le inimicizie e l’effimero [cf. FT nn. 57. 100. 127. 176. 192. 197. 216-217. 225-236. 240-243. 254-262. 271-272. 278-285]?
Pace, nella Verità
11. Dinanzi ai rischi che l'umanità vive in questa nostra epoca, è compito di tutti i cattolici intensificare, in ogni parte del mondo, l'annuncio e la testimonianza del « Vangelo della pace », proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace. Dio è Amore che salva, Padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a servizio del bene comune della famiglia umana. Dio è inesauribile sorgente della speranza che dà senso alla vita personale e collettiva. Dio, solo Dio, rende efficace ogni opera di bene e di pace. La storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l'umanità, impaurita e impoverita, verso scelte che non hanno futuro. Ciò deve spronare i credenti in Cristo a farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un'ampia collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti gli uomini di buona volontà.
[Papa Benedetto, Messaggio per la XXXIX Giornata Mondiale per la Pace, 2006]
11. Dinanzi ai rischi che l'umanità vive in questa nostra epoca, è compito di tutti i cattolici intensificare, in ogni parte del mondo, l'annuncio e la testimonianza del « Vangelo della pace », proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace. Dio è Amore che salva, Padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a servizio del bene comune della famiglia umana. Dio è inesauribile sorgente della speranza che dà senso alla vita personale e collettiva. Dio, solo Dio, rende efficace ogni opera di bene e di pace. La storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l'umanità, impaurita e impoverita, verso scelte che non hanno futuro. Ciò deve spronare i credenti in Cristo a farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un'ampia collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti gli uomini di buona volontà.
[Papa Benedetto, Messaggio per la XXXIX Giornata Mondiale per la Pace, 2006]
1. Dominus flevit (cf. Lc19, 41).
C’è un luogo a Gerusalemme, sul versante del Monte degli Ulivi, dove secondo la tradizione Cristo pianse sulla città di Gerusalemme. In quelle lacrime del Figlio dell’uomo vi è quasi una lontana eco di un altro pianto, di cui parla la prima lettura tratta dal Libro di Neemia. Dopo il ritorno dalla schiavitù babilonese, gli Israeliti si accinsero a ricostruire il tempio. Prima, però, ascoltarono le parole della Sacra Scrittura, e del sacerdote Esdra, che poi benedisse il popolo con il libro della Legge. Allora tutti scoppiarono in lacrime. Leggiamo infatti che il governatore Neemia e il sacerdote Esdra dissero ai presenti: “Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete! [ . . .] non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza” (Ne8, 9.10).
Ecco, quello degli israeliti era pianto di gioia per il tempio ricuperato, per la libertà riacquistata.
2. Il pianto di Cristo sul versante del Monte degli Ulivi non fu, invece, un pianto di gioia. Egli infatti esclamò: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta” (Mt 23, 37-38).
Parole simili Gesù dirà poco più tardi sulla via del Calvario, incontrando le donne di Gerusalemme in lacrime.
Nel pianto di Gesù su Gerusalemme trova espressione il suo amore per la Città Santa, assieme al dolore per il suo futuro non lontano, che egli prevede: la Città sarà conquistata e il tempio distrutto, i giovani saranno sottoposti allo stesso suo supplizio, la morte di croce. “Allora cominceranno a dire ai monti: cadete su di noi! e ai colli: copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?” (Lc 23, 30-31).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Siracusa 6 novembre 1994]
La grazia di riconoscere quando Gesù passa, quando «bussa alla nostra porta», la grazia «di riconoscere il tempo in cui siamo stati visitati, siamo visitati e saremo visitati». È la preghiera rivolta al Signore per ogni cristiano da Papa Francesco al termine dell’omelia tenuta durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 17 novembre. Una preghiera per non cadere in un «dramma» ripetuto nella storia, dalle origini ai giorni nostri: quello di «non riconoscere l’amore di Dio».
La meditazione del Pontefice ha preso spunto dal brano evangelico in cui Luca (19, 41-44) descrive il pianto di Gesù sulla città di Gerusalemme. «Cosa sentì Gesù, nel suo cuore — si è chiesto il Papa — in questo momento del suo pianto? Perché piange Gesù su Gerusalemme?». E la risposta può venire sfogliando la Bibbia: «Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre».
Così «nel cuore di Gesù, nella memoria di Gesù, in quel momento, venivano i passi dei profeti». Come quello di Osea — «Io la sedurrò, la condurrò al deserto e parlerò al suo cuore; la farò mia sposa» — nel quale si incontra «l’entusiasmo e la voglia di Dio per il suo popolo», il suo «amore». O le parole di Geremia: «Di te ricordo il tempo della tua giovinezza, il tempo del tuo fidanzamento, del tuo amore giovane, quando mi seguivi nel deserto. Ma ti sei allontanata da me». E ancora: «Cosa trovarono i vostri padri per allontanarsi da me?», «Disgrazia per voi che i vostri padri si siano allontanati da me...».
Il Pontefice ha provato a immaginare il flusso di memoria che ha coinvolto Gesù in quel momento e ha di nuovo richiamato il profeta Osea: «Quando Israele era fanciullo io l’ho amato, ma più lo chiamavo, più si allontanava da me». Ne è emerso il «dramma dell’amore di Dio e l’allontanarsi, l’infedeltà del popolo». Era, ha spiegato, «quello che aveva Gesù nel cuore»: da una parte la memoria di una «storia di amore», addirittura di «amore “pazzo” di Dio per il suo popolo, un amore senza misure», e dall’altra la risposta «egoista, sfiduciata, adultera, idolatrica» del popolo.
C’è poi un altro aspetto che emerge dal brano evangelico del giorno. Gesù infatti si lamenta su Gerusalemme, «perché — dice — non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata da Dio, dai patriarchi, dai profeti». Il Pontefice ha suggerito che nella memoria di Gesù ci fosse «quella parabola divinatoria, quella di quando il padrone invia un suo impiegato a chiedere i soldi: lo bastonano; e poi un altro lo uccidono. Alla fine invia suo figlio e cosa dice questa gente? “Ma questo è il figlio! Questo ha l’eredità... Uccidiamolo! Ammazziamolo e l’eredità sarà per noi!». È la spiegazione di cosa s’intende per «l’ora della visita», ovvero: «Gesù è il figlio che viene e non è riconosciuto. È rifiutato!». Infatti nel vangelo di Giovanni si legge: «È venuto da loro e loro non lo hanno accettato», «la luce è venuta e il popolo ha scelto le tenebre». È quindi questo, ha spiegato Francesco, «che fa dolore al cuore di Gesù Cristo, questa storia di infedeltà, questa storia di non riconoscere le carezze di Dio, l’amore di Dio, di un Dio innamorato» che vuole la felicità dell’uomo.
Gesù, ha detto il Papa, «vide in quel momento cosa lo aspettava come Figlio. E pianse “perché questo popolo non ha riconosciuto il tempo in cui è stato visitato”».
A questo punto la meditazione del Pontefice si è rivolta alla vita quotidiana di ogni cristiano, perché, ha detto, «questo dramma non è accaduto soltanto nella storia e finito con Gesù. È il dramma di tutti i giorni». Ognuno di noi può chiedersi: «Io so riconoscere il tempo nel quale sono stato visitato? Mi visita Dio?».
Per meglio far comprendere il concetto, Francesco ha fatto riferimento alla liturgia di martedì scorso, nella quale si parlava di «tre momenti della visita di Dio: per correggere; per entrare in colloquio con noi; e per invitarsi alla nostra casa». In quell’occasione è emerso che «Dio sta, Gesù sta davanti a noi, e quando vuole correggerci ci dice: “Svegliati! Cambia vita! Questo non va bene!”. Poi quando vuol parlare con noi dice: “Io busso alla porta e chiamo. Aprimi!». Come quando a Zaccheo disse: «Scendi!» per «farsi invitare a casa».
E allora oggi possiamo domandarci: «Com’è il mio cuore davanti alla visita di Gesù?”». E anche «fare un esame di coscienza: “Io sono attento a quello che passa nel mio cuore? Io sento? So ascoltare le parole di Gesù, quando lui bussa alla mia porta o quando lui mi dice: “Svegliati! Correggiti!”; o quando lui mi dice: “Scendi, che voglio cenare con te”?». È una domanda importante perché, ha ammonito il Pontefice, «ognuno di noi può cadere nello stesso peccato del popolo di Israele, nello stesso peccato di Gerusalemme: non riconoscere il tempo nel quale siamo stati visitati».
Di fronte a tante nostre certezze — «Ma io sono sicuro delle mie cose. Io vado a messa, sono sicuro» — bisogna ricordare che «ogni giorno il Signore ci fa visita, ogni giorno bussa alla nostra porta». E dunque «dobbiamo imparare a riconoscere questo, per non finire in quella situazione tanto dolorosa» che si ritrova nelle parole del profeta Osea: «Quanto più li amavo, quanto più li chiamavo, più si allontanavano da me». Perciò ha ripetuto il Papa: «Tu fai tutti i giorni un esame di coscienza su questo? Oggi il Signore mi ha visitato? Ho sentito qualche invito, qualche ispirazione per seguirlo più da vicino, per fare un’opera di carità, per pregare un po’ di più?», insomma per realizzare tutte quelle cose alle quali «il Signore ci invita ogni giorno per incontrarsi con noi»?
L’insegnamento che emerge da questa meditazione è dunque che «Gesù pianse non solo per Gerusalemme, ma per tutti noi», e che egli «dà la sua vita, perché noi riconosciamo la sua visita». In tal senso il Pontefice ha ricordato «una frase molto forte» di sant’Agostino: «“Ho paura di Dio, di Gesù, quando passa!” — “Ma perché hai paura? — “Ho paura di non riconoscerlo!”». Perciò, ha concluso il Papa, «se tu non stai attento al tuo cuore, mai saprai se Gesù ti sta visitando o no».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/11/2016]
Con lacrime di padre e di madre
Oggi Dio continua a piangere — con lacrime di padre e di madre — davanti alle calamità, alle guerre scatenate per adorare il dio denaro, a tanti innocenti uccisi dalle bombe, a un’umanità che sembra non volere la pace. È un forte invito alla conversione quello rilanciato da Francesco nella messa celebrata giovedì mattina, 27 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta. Un invito che il Pontefice ha motivato ricordando che Dio si è fatto uomo proprio per piangere con e per i suoi figli.
Nel passo del vangelo di Luca (13, 31-35) proposto dalla liturgia, ha spiegato il Papa, «sembra che Gesù avesse perso la pazienza e usa anche parole forti: non è un insulto ma non è fare un complimento dire “volpe” a una persona». Per la precisione dice ai farisei che gli hanno parlato di Erode: «Andate a dire a quella volpe». Ma già «in altre occasioni Gesù ha parlato duro»: ad esempio, ha detto «generazione perversa e adultera». E ha chiamato i discepoli «duri di cuore» e «stolti». Luca riporta le parole con cui Gesù fa un vero e proprio «riassunto di quello che dovrà accadere: “è necessario che io prosegua il mio cammino perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”». In pratica il Signore «dice quello che succederà, si prepara a morire».
Ma «poi subito Gesù cambia i toni», ha evidenziato Francesco. «Dopo questo scoppio tanto forte», infatti, «cambia tono e guarda il suo popolo, guarda la città di Gerusalemme: “Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te!”». Egli guarda «la Gerusalemme chiusa, che non ha sempre ricevuto i messaggeri del Padre». E «il cuore di Gesù incomincia a parlare con tenerezza: “Gerusalemme, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia i suoi pulcini!”». Ecco «la tenerezza di Dio, la tenerezza di Gesù». Quel giorno egli «pianse su Gerusalemme». Ma «quel pianto di Gesù — ha spiegato il Papa — non è il pianto dell’amico davanti alla tomba di Lazzaro. Quello è il pianto di un amico davanti alla morte dell’altro»; invece «questo è il pianto di un padre che piange, è Dio Padre che piange qui nella persona di Gesù».
«Qualcuno ha detto che Dio si è fatto uomo per poter piangere quello che avevano fatto i suoi figli» ha affermato il Pontefice. E così «il pianto davanti alla tomba di Lazzaro è il pianto dell’amico». Ma quello che racconta Luca «è il pianto del Padre». A questo proposito Francesco ha voluto riproporre anche l’atteggiamento del «padre del figliol prodigo, quando il figlio più piccolo gli ha chiesto i soldi dell’eredità e se ne è andato via». E «quel padre è sicuro, non è andato dai suoi vicini a dire: “guarda cosa mi è accaduto, ma questo povero disgraziato cosa mi ha fatto, io maledico questo figlio!”. No, non ha fatto questo». Invece, ha detto il Papa, «sono sicuro» che quel padre «se ne è andato a piangere da solo».
È vero, il Vangelo non rivela questo particolare — ha proseguito Francesco — però racconta «che quando il figlio tornò vide il padre da lontano: questo significa che il padre continuamente saliva sul terrazzo a guardare il cammino per vedere se il figlio tornava». E «un padre che fa questo è un padre che vive nel pianto, aspettando che il figlio torni». Proprio questo è «il pianto di Dio Padre; e con questo pianto il Padre ricrea nel suo Figlio tutta la creazione».
«Quando Gesù andava con la croce al Calvario — ha ricordato il Pontefice — le pie donne piangevano e ha detto loro: “No, non piangete su di me, piangete per i vostri figli”». È il «pianto di padre e di madre che Dio anche oggi continua a fare: anche oggi davanti alle calamità, alle guerre che si fanno per adorare il dio denaro, a tanti innocenti uccisi dalle bombe che gettano giù gli adoratori dell’idolo denaro». E così «anche oggi il Padre piange, anche oggi dice: “Gerusalemme, Gerusalemme, figlioli miei, cosa state facendo?”». E «lo dice alle vittime poverette e anche ai trafficanti delle armi e a tutti quelli che vendono la vita della gente».
In conclusione Francesco ha suggerito di «pensare che Dio si è fatto uomo per poter piangere. E ci farà bene pensare che nostro Padre Dio oggi piange: piange per questa umanità che non finisce di capire la pace che lui ci offre, la pace dell’amore».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 27 ottobre 2016]
Talenti, Doni del nuovo Regno
(Lc 19,11-28)
Tutti noi abbiamo punti di forza, qualità e inclinazioni esclusive. Ciascuno riceve doni da battistrada [fosse anche uno solo] e può inserirsi in servizi ecclesiali.
Ognuno - anche il normalmente escluso come Zaccheo (vv.1-10) - ha un bagaglio di risorse impareggiabili che può trasmettere, per l’arricchimento della comunità.
Lc narra questa parabola perché nota che alcuni convertiti delle sue assemblee hanno difficoltà a sbloccarsi.
A dirla tutta e in modo chiaro, fra di essi nasce una competizione che concerne l’importanza degli incarichi [è il vero senso evangelico dei «talenti secondo capacità» del testo parallelo Mt 25,15].
Mansioni insidiate anche dall’arrembaggio dei provenienti dal paganesimo, meno intimiditi e più sciolti dei fedeli giudaizzanti.
Il conseguente puntiglio irrigidisce l’atmosfera interna, accentua difficoltà a collaborare e scambiarsi doti, risorse - arricchendo gli uni gli altri.
L’idea stessa di Dio come legislatore e giudice (vv.21-22) induceva i credenti a non crescere né trasmettere, anzi a rinchiudersi e allontanarsi dal progetto del Padre.
Per comprendere il senso del v.22 dove il Re sembrerebbe ribadire l’idea meschina del lavativo, basta inserire il punto interrogativo.
I codici originali in greco non avevano punteggiatura:
«Gli dice: Dalla tua stessa bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono un uomo severo, che prendo quello che non ho depositato e che mieto quello che non ho seminato?».
Come dire: «Ma chi te lo ha insegnato, diseducandoti?!».
Il Signore ribadisce con forza che un’idea deforme del Cielo può incidere sulle linee portanti della personalità e rovinare l’esistenza delle persone.
Ciò se esse percepiscono la Libertà e il rischio dell’Amore come fosse una colpa e comunque un pericolo di peccato che li potrebbe condurre a non essere più “in grazia di Dio”.
Invece il Signore vuole Famiglia, dove nessuno è allarmato, tenuto a freno, bloccato, messo in buca.
Non vuole che le conquiste ci spaventino e trattengano.
Chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa, dà un contributo - senza farsi travolgere dalla routine, dal timore, dalla fatica - vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere, fiorire.
Viceversa, nessuno si sorprenderà che le situazioni poco intraprendenti subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti (vv.24-26).
Gesù sapeva che neppure le norme erano sufficienti «se si pensa che la soluzione ai problemi consista nel dissuadere mediante la paura» (FT n.262).
Il Signore infatti frequentava i fuori del giro; si teneva alla larga dagli ambienti invidiosi e con la puzza sotto il naso.
Agiva in modo laborioso, «artigianale» (FT n.217) e mettendoci la faccia.
Aveva alternative? Certo: non muoversi, non custodire i minimi, non proteggerli, limitarsi, tenere la bocca chiusa; eventualmente aprirla, ma solo per adulare i potenti, gli affermati e ben introdotti.
Vale anche per noi: il gioco al ribasso, sul sicuro, atrofizza la vita personale e sociale; non fa crescere un nuovo Regno - lo perde.
[Mercoledì 33.a sett. T.O. 20 novembre 2024]
Talenti, mine - Doni del nuovo Regno
(Lc 19,11-28)
Come può una comunità rivelare la Presenza di Dio? Valorizzando e accentuando le sfaccettature della vita, difendendole, promuovendole, e rallegrando.
Perché c’è chi cresce e chi no? Per quale motivo chi avanza meno degli altri, proprio nel cammino “religioso” rischia di rovinare?
Tutti noi abbiamo punti di forza, pallini, qualità e inclinazioni esclusive. Ciascuno riceve doni da battistrada [fosse anche uno solo - come la sua Chiamata] e può inserirsi in servizi ecclesiali.
Ognuno - anche il normalmente escluso come Zaccheo (vv.1-10) - ha un bagaglio di risorse impareggiabili che può trasmettere, per l’arricchimento della comunità.
Lc narra questa parabola perché nota che alcuni convertiti delle sue assemblee hanno difficoltà a sbloccarsi e innescare un’evoluzione che riguardi anche il prossimo.
Qualcuno proprio non fiorisce, appiccicandosi al suo ministero, al personaggio, a ruoli, precedenze e gerarchie.
A dirla tutta e in modo chiaro, fra di essi nasce una competizione che concerne l’importanza degli incarichi ecclesiali [è il vero senso evangelico dei «talenti secondo capacità» del testo parallelo Mt 25,15].
Mansioni insidiate anche dall’arrembaggio dei provenienti dal paganesimo, meno intimiditi e più sciolti dei fedeli giudaizzanti un po’ da museo.
Il conseguente puntiglio irrigidisce l’atmosfera interna, accentua difficoltà a collaborare e scambiarsi doti, risorse - arricchendo gli uni gli altri.
Situazioni vanitose e competitive che conosciamo.
Tutti riceviamo qualche accento del Regno, beni da moltiplicare trasmettendo, ad esempio (come qui) la Parola di Dio.
Dono unico, ma non raro: prosperità immensa e dalle virtù propulsive di vita straordinarie... per ciascuno e tutti.
Così lo spirito di servizio e condivisione, l’attitudine al discernimento e valorizzazione delle unicità irripetibili, e tanto altro.
Beninteso, la comunità cresce non se produce, colloca in vetrina, “frutta” e rende. Essa è composta di membri che sanno collocarsi spontaneamente!
Donne e uomini di Fede non cercano meriti, non trattengono per sé; si relazionano con Dio e il prossimo in modo sapiente.
Anche non in termini e formule “corretti” - secondo libretto d’istruzione.
Purtroppo, per obbligare al rispetto di tabelloni e configurazione, e ricalcare il costume… i veterani facevano leva sull’inclinazione popolare a non mettersi nei guai.
Situazione e “percezione” a rovescio, che paralizzava la vita anche interiore.
Dai tempi di Gesù, non sono mancate situazioni dominate da gravi paure, e desiderio di evitare ricatti [diceva sbalordita mia madre dei leaders nostrani, di provincia (quelli disonesti): «Usano la religione come un’arma!»].
L’idea stessa di Dio come legislatore e giudice (vv.21-22) induceva i credenti a non crescere né trasmettere, anzi a chiudersi e allontanarsi dal progetto del Padre.
Pena l’esclusione sociale, spesso è ancora (perfino) in clima di cammino sinodale, fatto divieto di accogliere nuove esperienze di Dio…
Gravissimo, incontrare autenticamente se stessi, aprire spazi personali (persino radicalmente vocazionali), tracciare propri cammini.
Così per secoli. Identificazione e basta.
Per comprendere il senso del v.22 dove nella traduzione CEI il Re sembrerebbe ribadire l’idea meschina del lavativo diseducato, basta inserire il punto interrogativo.
I codici originali in greco non avevano punteggiatura:
«Gli dice: Dalla tua stessa bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono un uomo severo, che prendo quello che non ho depositato e che mieto quello che non ho seminato?».
Come dire: «Ma chi te lo ha insegnato questo, diseducando?!».
Lo stesso vale per il passo parallelo di Mt 25,26: «Ma rispondendo il suo Signore gli disse: Servo malvagio e poltrone... Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso?».
Il Signore ribadisce con forza che un’idea deforme del Cielo può incidere sulle linee portanti della personalità e rovinare l’esistenza delle persone.
Ciò se esse percepiscono la Libertà e il rischio dell’Amore come fosse una colpa e comunque un pericolo di peccato che li potrebbe condurre al deleterio di non essere più considerati “in grazia di Dio”.
Le religioni dell’antichità avevano bisogno di seguaci anche immaturi e ottusi, senza nerbo - i quali si accontentavano di evitare pericoli, e s’attaccavano alle piccine sicurezze del tran tran d’ogni giorno.
Invece, il Padre desidera cuori adulti, che intraprendono e rischiano per amore e per l’amore.
Se il Dio del folklore necessita di greggi ottuse e servili, Cristo ha bisogno di amici, famigliari e collaboratori temerari, capaci di camminare sulle loro gambe, che non disumanizzano [anche gli altri].
La pastorale del consenso - “io ti dò ciò che tu vuoi”; oppure le mode del pensiero unico à la page - presuppone masse ubbidienti e devote, deprivate di personalità e sogni.
Invece il Signore desidera Famiglia, dove nessuno è allarmato, tenuto a freno, bloccato, e messo in buca.
Magari questa inibizione viene accettata dalla gente anche per timore di perdere la quiete famigliare, il posticino che qualcuno ha, le finte sicurezze che si è ritagliato - o preso in elemosina.
Cristo non vuole che le conquiste ci spaventino e trattengano, ma che da consanguinei del nostro lato eterno siamo i primi a vibrare d'ideali profetici.
E speronare le false certezze che non inquietano [anzi, ci mettono in letargo] per stimolare ambiti ideali più grandiosi - per qualità di respiro e umanizzazione.
Anche il poco che abbiamo può essere investito - attraverso un contributo da porgere a disposizione di tutti, nella comunità che ci valorizza…
Si tratta della Chiesa ministeriale: «banca» del v.27 - la quale proietta e dilata all’infinito risorse, il Pane spezzato, i beni del Regno.
Insomma, quel che promuove le assemblee e rivela la Presenza di Dio è personale e unico, tuttavia non deve permanere raro.
Ciascuno ha un'occasione di apostolato, la sua attitudine d’amicizia e competenze irripetibili: ma esse sono da esplorare senza limiti, affinché vengano condivise, rese sapienziali e propulsive.
Come ha dichiarato il Pontefice:
«L'incapacità degli esperti di vedere i segni dei tempi è dovuta al fatto che sono chiusi nel loro sistema; sanno cosa si può e non si può fare, e stanno sicuri lì. Interroghiamoci: sono aperto solo alle mie cose e alle mie idee, oppure sono aperto al Dio delle sorprese?».
Chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa, dà un contributo - senza farsi travolgere dalla routine, dal timore, dalla fatica - vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere, fiorire.
Viceversa, nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia - estenuanti, in sé fiacche, esaurite, prive di spina dorsale e solo noiose - subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti (vv.24-26).
In questa catechesi Lc ricorda che Gesù non era un tipo che si faceva mettere sotto scorta, ma una figura coinvolta, volenterosa.
Non lasciava correre, ma entrava dentro… in merito alle questioni - né diceva: ma che figura ci faccio?
Neppure Egli ha voluto limitarsi a lottare per un cambiamento giuridico - apprezzabile e necessario - ma standosene a distanza di sicurezza.
Ha invece incarnato il dono di sé, tracciando la Via della scelta sociale in prima persona, con arduità d’intraprenderla - senza nulla collocare in cassaforte, per timore di persecuzioni e fallimento.
Parafrasando l’enciclica Fratelli Tutti (n.262) diremmo: sapeva che neppure le norme erano sufficienti «se si pensa che la soluzione ai problemi consista nel dissuadere mediante la paura».
Il Signore infatti frequentava i fuori del giro e le figure intermedie. Si teneva alla larga da ambienti invidiosi e con la puzza sotto il naso.
Agiva in modo laborioso, «artigianale» (FT n.217) e mettendoci la faccia.
Aveva alternative? Certo: non muoversi, non custodire i minimi, non proteggerli, limitarsi, tenere la bocca chiusa; eventualmente aprirla, ma solo per adulare i potenti, gli affermati e ben introdotti.
Bastava deponesse ideali e azioni di libertà:
Rinunciando a lottare e intraprendere vie tortuose, non avrebbe avuto problemi.
E se alla mediocrità comune delle guide spirituali del tempo avesse aggiunto l'omertà, avrebbe potuto benissimo fare carriera.
Vale anche per noi: il gioco al ribasso, sul sicuro, atrofizza la vita personale e sociale, non fa crescere un nuovo Regno - lo perde.
La Parola di Dio di questa domenica – la penultima dell’anno liturgico – ci ammonisce circa la provvisorietà dell’esistenza terrena e ci invita a viverla come un pellegrinaggio, tenendo lo sguardo rivolto alla meta, a quel Dio che ci ha creato e, poiché ci ha fatto per sé (cfr S. Agostino, Conf. 1,1), è il nostro destino ultimo e il senso del nostro vivere. Passaggio obbligato per giungere a tale realtà definitiva è la morte, seguita dal giudizio finale. L’apostolo Paolo ricorda che “il giorno del Signore verrà come un ladro di notte” (1 Ts 5,2), cioè senza preavviso. La consapevolezza del ritorno glorioso del Signore Gesù ci sprona a vivere in un atteggiamento di vigilanza, attendendo la sua manifestazione nella costante memoria della sua prima venuta.
Nella celebre parabola dei talenti – riportata dall’evangelista Matteo (cfr 25,14-30) – Gesù racconta di tre servi ai quali il padrone, al momento di partire per un lungo viaggio, affida le proprie sostanze. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i beni ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre si compiace dei primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto del suo operato. Con questa parabola, Gesù vuole insegnare ai discepoli ad usare bene i suoi doni: Dio chiama ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. Sarebbe da stolti pensare che questi doni siano dovuti, così come rinunciare ad impiegarli sarebbe un venir meno allo scopo della propria esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).
Cari fratelli, accogliamo l’invito alla vigilanza, a cui più volte ci richiamano le Scritture! Essa è l’atteggiamento di chi sa che il Signore ritornerà e vorrà vedere in noi i frutti del suo amore. La carità è il bene fondamentale che nessuno può mancare di mettere a frutto e senza il quale ogni altro dono è vano (cfr 1 Cor 13,3). Se Gesù ci ha amato al punto da dare la sua vita per noi (cfr 1 Gv 3,16), come potremmo non amare Dio con tutto noi stessi e amarci di vero cuore gli uni gli altri? (cfr 1 Gv 4,11) Solo praticando la carità, anche noi potremo prendere parte alla gioia del nostro Signore. La Vergine Maria ci sia maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel cammino verso l’incontro con Dio.
[Papa Benedetto, Angelus 13 novembre 2011]
1. “Bene, servo buono e fedele, sei rimasto fedele nel poco, ti darò autorità su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 23).
Avvicinandosi il termine dell’anno liturgico, la Chiesa ci fa ascoltare le parole del Signore che ci invitano a vegliare nell’attesa della parusia. Ad essa dobbiamo prepararci con una risposta semplice, ma decisa, all’appello di conversione, che Gesù ci rivolge chiamandoci a vivere il Vangelo come tensione, speranza, attesa.
Oggi, nell’odierna liturgia, il Redentore ci parla con la parabola dei talenti, per mostrarci come chi aderisce a lui nella fede e vive operosamente nell’attesa del suo ritorno, è paragonabile al “servo buono e fedele”, che in modo intelligente, alacre e fruttuoso cura l’amministrazione del padrone lontano.
Che cosa significa talento? In senso letterale indica una moneta di grande valore usata ai tempi di Gesù. In senso traslato vuol dire “le doti”, che sono partecipate a ogni uomo concreto: il complesso delle qualità, di cui un soggetto personale, nella sua interezza psicofisica, viene dotato “dalla natura”.
Tuttavia la parabola mette in evidenza che queste capacità sono al tempo stesso un dono del Creatore “dato”, trasmesso ad ogni uomo.
Queste “doti” sono diverse e multiformi. Ce lo conferma l’osservazione della vita umana, in cui si vede la molteplicità e la ricchezza dei talenti che sono negli uomini.
Il racconto di Gesù sottolinea con fermezza che ogni “talento” è una chiamata e un obbligo ad un lavoro determinato, inteso nel duplice significato di lavoro su se stessi e di lavoro per gli altri. Afferma, cioè, la necessità di un’ascesi personale unita all’operosità in favore del fratello.
3. La parola di Dio nell’odierna celebrazione permette di approfondire la consapevolezza che la parrocchia è una comunità di fratelli e sorelle, che sono chiamati ad aderire a Cristo e ad esserne la trasparenza nei luoghi dove vivono e dove lavorano.
Questo implica che ognuno di voi, con le capacità che ha avuto da Dio, lavori su di sé per convertire ogni giorno il proprio cuore in un cammino religioso fatto con costanza e decisione, con volontà e generosità.
Ognuno di voi deve sentirsi impegnato a fissare la mente e il cuore in ciò che vale. Deve condurre una vita che non sia determinata dalla stima mondana, dal rispetto umano. E ciò sarà possibile se presterete efficace ascolto alla parola di Gesù, come sorgente di virtù cristiana, e obbedirete all’esortazione dell’apostolo Paolo: “Qualsiasi cosa facciate, o in parole o in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesù rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di lui” (Col 3, 17); in tal modo, come ci ricorda la seconda lettura della messa, certi della redenzione di Cristo “sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda, edificandovi gli uni gli altri come già fate” (1 Ts 5, 9-11).
Uno dei segni più grandi di mancanza di lavoro su di sé, di assenza di ascesi è la non accettazione della propria persona, caratterizzata da quei talenti che sono da accogliere, perché dati da quel Dio di misericordia, che ci ha creati, ci tiene in vita e ci aiuta a percorrere le strade dell’esistenza.
4. Frequentemente i doni che Dio pone nel nostro essere sono talenti difficili, ma non possono essere sprecati né per disistima, né per disobbedienza, né tantomeno perché sono faticosi. La croce per Cristo non fu motivo di obiezione alla volontà del Padre, ma la condizione, il talento supremo, con il quale “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” (Prefazio pasquale). Perciò io chiedo a tutti voi, e in particolare ai malati, ai sofferenti, ai portatori di handicap, di rendere fruttuoso, mediante la preghiera e l’offerta, il difficile talento, l’impegnativo talento ricevuto.
Tenete sempre presente che l’invocazione, le preghiere e la libera accettazione delle fatiche e delle pene della vita, vi permettono di raggiungere tutti gli uomini e di contribuire alla salvezza di tutto il mondo.
5. Questo lavoro su di sé, che porta frutto a tutti gli uomini, ha la sua radice nel Battesimo, il quale ha dato inizio in ciascuno di voi alla vita nuova, mediante il dono soprannaturale della grazia e la liberazione dal peccato originale. Con tale sacramento, che vi ha resi figli di Dio, avete ricevuto quelle “doti”, che costituiscono un’autentica ricchezza interiore della vita in Cristo.
Incorporati a Gesù, conformati a lui, siete chiamati come membra vive a contribuire con tutte le vostre forze e attitudini all’incremento della vostra parrocchia, che è la porta della Chiesa romana-universale.
I talenti ricevuti con il Battesimo sono pure una chiamata alla cooperazione con la grazia, che implica un dinamismo inerente alla vita cristiana e una crescita graduale e costante in quella maturità, che viene formata dalla fede, dalla speranza, dalla carità e dai doni dello Spirito Santo.
Tale collaborazione si compie soprattutto in quel centro di comunione che è la parrocchia, comunità di uomini e donne, che mettono le loro varie capacità a servizio della crescita personale e dei fratelli vicini e lontani.
La parrocchia è Chiesa: comunità di uomini che devono sviluppare in se stessi “i talenti del Battesimo”. Tutta la sua struttura, favorendo e garantendo un apostolato comunitario, soprattutto attraverso la liturgia, la catechesi e la carità, fonde insieme le molteplici differenze umane che vi si trovano e permette che ognuno, secondo le capacità che possiede, dia fraternamente il suo contributo a ogni iniziativa missionaria della sua famiglia ecclesiale (cf. Apostolicam Actuositatem, 10).
6. La parabola dell’odierno Vangelo parla pure di un talento “nascosto sottoterra”, non utilizzato.
“Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco qui il tuo talento” (Mt 25, 24-25). Quest’ultimo servo che ha ricevuto un solo talento mostra come si comporta l’uomo quando non vive un’operosa fedeltà nei confronti di Dio. Prevale la paura, la stima di sé, l’affermazione dell’egoismo, che cerca di giustificare il proprio comportamento con la pretesa ingiusta del padrone, che miete dove non ha seminato.
Questo atteggiamento implica da parte del Signore una punizione, perché quell’uomo è venuto meno alla responsabilità che gli era stata chiesta, e, così facendo, non ha portato a compimento ciò che la volontà di Dio esigeva, con la conseguenza sia di non realizzare se stesso, sia di non essere di utilità a nessuno.
Invece il lavoro su di sé e per il mondo è qualcosa che deve impegnare concretamente il vero discepolo di Cristo. Nelle varie e specifiche situazioni in cui il cristiano è posto, egli deve saper discernere ciò che Dio vuole da lui ed eseguirlo con quella gioia, che poi Gesù rende piena ed eterna.
7. Carissimi fratelli e sorelle, vi esorto ad unirvi con tutto il vostro spirito al sacrificio di Cristo, alla liturgia eucaristica, che rappresenta ogni volta la presenza del Salvatore nella vostra comunità.
Perseverate nell’essere e nel diventare sempre più un cuor solo e un’anima sola, per accogliere ogni giorno tra voi Cristo. Che egli entri in voi, e rimanga in voi, per portarvi la sua pienezza.
Che la Madre di Dio, Santa Maria del Popolo, introduca Gesù nella vostra comunità e l’aiuti a rimanere con il suo Figlio, per portare molto frutto.
Ecco la sintesi dell’insegnamento racchiuso nella parabola dei talenti, che insieme abbiamo ascoltato e meditato: per avere la pienezza della vita e portare frutto occorre, con appassionata vigilanza, compiere la volontà di Dio e rimanere in Cristo, con preghiera supplice e adorante.
Rimaniamo in lui! Rimaniamo in Gesù Cristo!
Rimaniamo mediante tutti i talenti della nostra anima e del nostro corpo!
Mediante i talenti della grazia santificante e operante!
Mediante tutti i talenti che comporta la partecipazione alla parola di Dio e ai sacramenti, soprattutto nell’Eucaristia!
Rimaniamo!
Rimaniamo per dare molto frutto!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 18 novembre 1984]
In questa penultima domenica dell’anno liturgico, il Vangelo ci presenta la parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30). Un uomo, prima di partire per un viaggio, consegna ai suoi servi dei talenti, che a quel tempo erano monete di notevole valore: a un servo cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno. Il servo che ha ricevuto cinque talenti è intraprendente e li fa fruttare guadagnandone altri cinque. Allo stesso modo si comporta il servo che ne ha ricevuti due, e ne procura altri due. Invece il servo che ne ha ricevuto uno, scava una buca nel terreno e vi nasconde la moneta del suo padrone.
È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: «Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra» (vv. 24-25). Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, e così si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.
Questa parabola ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui.
Gesù ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri […] ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza “sotterrare il talento”, cioè i doni che Dio ci ha affidato, e di cui ci chiederà conto.
La Vergine Santa interceda per noi, affinché restiamo fedeli alla volontà di Dio facendo fruttificare i talenti di cui ci ha dotato. Così saremo utili agli altri e, nell’ultimo giorno, saremo accolti dal Signore, che ci inviterà a prendere parte alla sua gioia.
[Papa Francesco, Angelus 19 novembre 2017]
Zaccheo: sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto
(Lc 19,1-10)
Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» (v.3): ossia, desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.
Benché abiti in ambiente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto personale diretto.
Il sicomoro è un albero molto frondoso - pensa: «Cerco di vedere senza essere visto».
Comprende di aver bisogno di un occhio immediato: deve assolutamente scartare lo sguardo moralizzatore dei conformisti.
Il turbamento indotto dai giudizi senz’appello è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore.
Una nuova percezione è allora essenziale: infatti, malgrado la gazzarra attorno a sé, Gesù vede proprio il piccolo, disprezzato e mortificato.
Se il mondo severo lo notasse, leggerebbe una macchia; la visuale di Gesù è differente. Viene attratto proprio da colui che ha persino vergogna di sé e disagio di essere scrutato.
Non solo: il Signore lo chiama per nome, e in aramaico Zachàr significa Giusto, Puro!
Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, Dio coglie in ciascuno una purezza innata e le possibilità di bene. Anche di quanti si nascondono.
Allorché il Signore si trova insieme a chi nella vita ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore, non giudice o padrone.
Allo stesso modo guarda anche Zaccheo: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).
I “piccoli di statura” possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti che vengono subito messi in riga o in buca.
Ma Chi è Dio? Colui che riposa col piccolo - deturpato più dal pregiudizio che dal suo malcostume.
Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola le sentenze della buoncostume di paese, Dio ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene, il senso di legame e giustizia.
Infatti il Padre ha fretta d’incontrarci, proprio come un innamorato perduto. Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia - oggi (vv.5.9).
Quindi non frappone il tempo delle pratiche, di trafile o adempimenti che dimostrino la conversione, prima: un Padre simile non sarebbe amabile.
Ogni disciplina tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni puntigliose.
Gesù mira il presente e l’a-capo, non il fatto distante.
Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» [cf. Fratelli Tutti n.30].
L’Altissimo punta in basso: desidera condividere la sua presenza vivificante con l'anomalo e isolato.
Ne ha bisogno subito, anche se alcuni ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).
Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.
Proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) furfante che ci possa essere, diventa l’unico cuore recuperabile.
Insomma, nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.
Anche noi, dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.
[Martedì 33.a sett. T.O. 19 novembre 2024]
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
Deus dilexit mundum! Iddio osserva le profondità del cuore umano, che, anche sotto la superficie del peccato e del disordine, possiede ancora una ricchezza meravigliosa di amore; Gesù col suo sguardo la trae fuori, la fa straripare dall’anima oppressa. A Gesù, dunque, nulla sfugge di quanto è negli uomini, della loro totale realtà, in cui sono il bene e il male (Papa Paolo VI)
People dragged by chaotic thrusts can also be wrong, but the man of Faith perceives external turmoil as opportunities
Un popolo trascinato da spinte caotiche può anche sbagliare, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
don Giuseppe Nespeca
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