Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Lc 21,5-19)
Pietra su pietra, a tinte fosche?
Istanze del mondo, idea di ‘perfezione’, senso del Cristo
(Lc 21,5-11)
Nel suo Discorso Apocalittico Lc vuol farci meditare sul senso della storia e su ‘ciò che permane’... ma quante condizioni avverse e opposizioni!
Quindi mira a sostenere la speranza [non fittizia e tuttavia frustrata] della gente povera e sotto persecuzione delle sue comunità.
Certo, la Fede volge al Dio che guida la storia. Egli ne è Signore; però l’oggi rimane oscuro e incerto; in tal guisa restiamo come braccati da istanze che non ci corrispondono - ma sopravanzano.
Anche alcuni credenti iniziavano a dubitare: Dio ha davvero il controllo dei fatti e del cosmo? È la stessa domanda che ci poniamo oggi: in mezzo a tante sciagure, dove andremo a finire?
Come mordere la vita e realizzarsi pur nell’emergenza? In che modo vivere i conflitti e lo sconcerto, senza lasciarsi travolgere dagli eventi? Come mai affiorano tante oscurità, che non ci piacciono?
In tempi di mutamento, insicurezza globale e inquietudine politica, continuano a spuntare carie parassite, che accentuano il disorientamento, sentimenti d’inadeguatezza; forse i sensi di colpa.
Ecco gli astuti del quartierino che (pure nel sottobosco ecclesiale) vogliono trarre vantaggio dal turbamento e dalla confusione, ingannando le anime deboli e spaesate - perfino i giovani.
Per non farsi abbindolare, confondere e plagiare, deve subentrare una migliore consapevolezza, un affinamento della percezione, onde discernere il senso dei “regni” che si avvicendano e passano.
La sovranità di Dio propugna una maturazione della ‘messe’ con la luce e il calore dello Spirito, un più approfondito discernimento sul genio e i fatti del secolo.
Non escluse le brutture: anch’esse hanno il potere di attivarci, per cercare nuove armonie.
La Chiesa autentica ha una nuova Visione, che appunto caldeggia questi terremoti e calamità, ossia gli sconquassi del mondo antico - esso che, oggi come sempre, traballa e volge alla fine.
D’altro canto i sommovimenti non disintegrano la creazione: ne preparano una radicalmente nuova.
Bisogna resistere dentro e applicarsi - forse avendo più cura del carattere del tempo, degli amici inconsueti dell’anima, e trascurando l’idea ereditata [o imposta] di “perfezione”.
Tanti mondi costruiti dalla mente e dalle mani dell’uomo s’immaginavano perpetui, addirittura il Fine di tutto.
Invece continuano a crollare, trascinando via antiche espressioni, convinzioni, costumi, egemonie, visioni delle cose…
Ogni era porta con sé lo sgretolamento delle umane edificazioni e dei suoi imperi - fragili e inconsistenti, nonostante le apparenze contrarie (e il senso di permanenza con cui li interpretavamo).
Quindi anche il Tempio di mattoni e stucchi - centro della vita e dell’identità del popolo - è destinato all’agonia, alla frantumazione, alla più miserevole rovina, a essere raso al suolo... malgrado la sua imponente magnificenza.
Ci disorienta, certo. Ma se unilaterale, non più rende presente, bensì dissolve il Mistero - concentrazione di novità e amore.
Quando ad esempio si chiudono le frontiere culturali [e la ricerca di profondità] per timore dei “problemi”, e ci si fa intransigenti, il presente devoto diviene una pura realtà del mondo, che presto o tardi sarà smantellata.
Le funzioni della terra non hanno altra legge che quella di perire: sono minate alla base, destinate a evaporare. In un attimo passano dal controllo allo sfaldamento e dal predominio all’insignificanza.
Bellezza radiosa e “spessore” della città eterna e santa - coi suoi gelosi privilegi, nonché dottrine minute o generaliste (e terrificanti) - si tramutano in un sorpasso e rovesciamento: in un profilo di morte.
Basta un capovolgimento.
Futile immaginarla duratura e tenerla in piedi a tutti i costi.
Viceversa, il Regno nuovo si presenta intimo e sottovoce: per questo non rimane scheggiato da eventi esterni.
Ad alcuni sconvolgimenti non bisogna tanto resistere, quanto stare con essi.
L’obbiettivo è ‘ri-nascere’ - come figli, ancora rigenerati, che percorrono un altro Eros fondante [cui abbandonarsi, altrimenti non potrà svolgere la sua alta funzione].
Esso si stabilisce nei cuori e li trasforma; li cementa, senza clamore: con una potenza grandissima, sovversiva, che fa scattare nuove forme - ma con virtù segreta.
Ha un altro passo, accogliente, e un diverso tempo.
Così non perdiamo alcuna parte di noi, anzi facciamo crescere tutti i lati della personalità e delle relazioni.
È la Fede plurale che accoglie gli opposti, a solidificare le pietre.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi gli sconvolgimenti?
Appalti la tua libertà e insegui ciarlatani che fissano e peggiorano l’esistenza di tutti - o in Cristo li osteggi, accendendo Speranza e le tue potenze segrete più sfolgoranti (anche opposte)?
Il Roveto
Fede eccezionale, Conversione ardente
(Es 3,2-4)
Conversione in senso biblico non è tornare indietro, ma entrare dentro sé per non estraniarsi, e ritrovare la propria radice onde saper intervenire, liberando la vampa della propria Relazione essenziale.
La conversione non ha a che fare col tatticismo disinteressato di chi si chiude al mondo, evitando di farsi coinvolgere sino al momento in cui gli eventi non abbiano ripercussioni negative sui propri interessi.
Ma come prendere le misure della realtà, come comprenderla? Come capire se stessi? E da dove attingere orientamento, sapienza e forza per proporre soluzioni sagge e azioni efficaci?
Mosè è un fuoriuscito perché precipitoso. Il suo fare impulsivo lo ha costretto a fuggire nel deserto. Qui combina altri pasticci, ancora a causa del suo temperamento focoso. Così decide di darsi una calmata e una sistemazione.
Ma la soluzione non è quella di non immischiarsi in favore degli altri, scegliendo forzosamente una vita quieta. Quel suo Fuoco che gli brucia il petto e la mente non si estingue; anche sopito, lo porta sempre con sé.
Solo Dio capisce che proprio il suo lato oscuro e la sua carica irascibile - come nessun’altra energia - può renderlo protagonista d’’un disegno assurdo, in favore del popolo, e gli farà calcare situazioni e territori impervi.
Un compito rischioso, che obbligherà a tirar fuori la grinta, le pulsioni, la convinzione; ogni risorsa anche poco virtuosa. Una Missione unicamente sua, impossibile per altri animi più equilibrati e tranquilli.
Come spiegare la passione per la libertà degli umiliati?
Ce la troviamo dentro, come una fiamma che arde e non dà tregua. Essa risorge spontaneamente, malgrado i prudenti tentativi di soffocarla.
Per i suoi pazzeschi disegni di redenzione, Dio ha bisogno di qualcuno esattamente come noi, così come siamo. Con le nostre immense Risorse inespresse, celate persino dietro individuali puntigli sanguigni.
Qualità che sorgono spontanee e hanno un loro cammino di conversione, ma che prima o poi devono scendere in campo così come sono.
Esprimono noi stessi profondamente, e il Richiamo del Padre.
Diversi condizionamenti possono creare errori di percezione della nostra unicità personale; altrettanto, del suo sviluppo e destinazione.
Il grande rischio è quello di spendere la vita dissipando l’identità caratteriale alla ricerca d’illusioni indotte e riflessi condizionati: di ciò che non siamo e neanche vogliamo.
Non solo le distrazioni, ma anche il troppo ragionare può farci smarrire la via di quella dimora ch’è davvero nostra.
Continuare a insistere su ciò che danneggia lo sviluppo dell’anima e la sua piena fioritura, la rende indecisa o astuta e cocciuta - soprattutto se suggestionabile, timorosa, o anche ricettiva e indifesa.
Il nostro Eros fondante scende in campo quando si accorge che la realtà o il suo paradigma culturale (definito) possono farci perdere la strada.
La Vocazione allora si manifesta alla personale ‘visione’ in una sorta d’Immagine energetica, riservata e unica, che fa pensare coi sogni, ci fa da guida, trascina non si sa già perché e dove.
I credenti che sperimentano questo Fuoco interiore che non si estingue non sono introdotte in un mondo che vuole solo perdurare, tutto già cesellato e che ben conosce la mèta.
La Fiamma del Padre non si esprime attraverso artificiosità da recitare: vuole recuperare e condurre a casa tutte le risorse, la nostra essenza e i suoi monili - da esaltare invece che nascondere.
Gioielli tutti da estrarre dal mondo delle certezze disattente e rinchiuse. Fiori all’occhiello - non di rado celati dietro versanti e propensioni che (per l’occhio logorato da luoghi comuni) appaiono oscuri.
Spesso è proprio il nostro lato sconosciuto agli schemi la ‘scintilla’ che incalza e fa da terapia all’anima malata; la prende per mano, e con dovuta energia diventa guida alla scoperta rilevante di sé - e grande servizio altrui.
Il Roveto ardente nella carne - Rivelazione divina - si accende affinché realizziamo il Sogno dei nostri stessi sogni. Non perché l’anima diventi sempre più uguale e legata, o fondamentalista.
E solo il nostro Nucleo Fiaccola-che-non-si-consuma continuamente in atto, può evitare che chi nasce rivoluzionario dello spirito, poi [ma anche in fretta] sopravviva da poltronista.
Capita nella banalità delle ideologie come nel conformismo delle religioni, però non può succedere nella sfera della vita di Fede.
In tal guisa, la danza non è condotta da estraneità di controllo: fini, intenzioni, idee, progetti, o codici... bensì da potenze passionali e pulsive, che ogni giorno c’interrogano sulla marea che viene a trovarci.
La Provvidenza fa da regista, corteggia e dirige misteriosamente strategie irripetibili, che solcano la storia attraendo e trascinando, sbloccando meccanismi e potenziando energie - persino facendoci cambiare, rimodulare, o accentuare caratteri.
A tali linee personalissime ci si deve abbandonare. Non per bisogno, dovere, calcolo, né solo per capire qualcosa in più, bensì per goderne la Luce spirituale; i raggi d’Amore, vicini e lontani, creativi dell’interiore e di forze geniali [al contorno].
La Fiamma torna a speronarci per riaccendere il balsamo personale dell’istintività, le possibilità di realizzazione della nostra natura.
Il desiderio assurdo ch’esplode dentro vuole espandere le possibilità di Linfa - sia dell’albero che delle stesse radici - per farci diventare persone a tutto tondo.
Così non cercheremo più di assomigliare ai nostri “modelli”:
Il principio di tale trasmutazione che irrompe sullo scenario placido e convenzionale ha riproposto il motivo per cui siamo al mondo.
È il nostro compito che salva la vita... o l’aridità stessa dei “tipi” cui adeguarsi.
Eccoci allora ad azzerare e sorprendere il nostro lato nostalgico e morto, o il male oscuro di vivere - e lo sfiancarsi per una saggezza che non ha il di più della Sapienza.
Spento il fulgore e il bello della Fiaccola, la sua virtù energetica sulla nostra carne affievolisce, smorzando l’entusiasmo dell’anima - estinguendo l’agire (come in una posizione d’inedia).
Lo stato passionale è la forza del pensiero e dell’intelletto pratico.
Il coinvolgimento intimo fa volare la nostra identità-carattere, e ha ripercussioni significative sul prossimo.
È custodia dell’indipendenza. E ci integra, surclassando il senso d’imperfezione - o vuoto esistenziale.
L’Energia primordiale intelligente riconosce la nostra essenza; e riporta l’anima dalle vicende esterne al Nucleo: dalle vicissitudini, dalle cose, dalle ferite, al nostro essere intimo e più ricco.
Sa che dallo stimolo di tale centro sorgivo - legame intimo d’origine, primordiale - sprizzeranno eventi sbalorditivi, propensioni sconosciute, magie di accadimenti imprevisti.
Una nuova Creazione.
Da questa Casa della nuova vita e dei differenti inni, si sprigiona tutto un mondo di relazioni... nuovi impegni, intuizioni geniali; attitudini pratiche, che tessono la magia dell’anima sposa corrisposta.
È tale Fonte che subentra ancora, quando si accorge che non siamo compiuti, o che ci sentiamo da essa stessa traditi - ovvero per sorvolare le paure, il senso di desolazione, gli abbandoni amari. Come una potenza che richiama a noi stessi, ai nostri talenti inespressi, all’energia dello sguardo che coglie il senso di una storia, del genio del nostro territorio o tempo. E li varca, facendoci sporgere.
Diventa la bussola quotidiana della vita e delle trasformazioni. Ma sopporta male l’interferenza dei giudizi esterni, che non abitano nel profondo ma contribuiscono a creare l’atmosfera che circuisce attorno.
Sembra una forza che accade, un’energia che non può essere diretta né spiegata da un universo di significati pronti all’uso, da emozioni e simboli pianificanti, o manipolata per ottenere sottomissioni.
Pronta a risorgere come, quando e perché non ci aspettiamo; solo per rigenerare e rendere esponenziale l’inconsueta, autonoma semenza dell’anima. Così com’è: lo sforzo ascetico darebbe risultati scadenti.
La Sorgente nascosta si esprime in eventi impregnati di futuro, inzuppati da un’atmosfera di Presenza.
Accadimenti intrisi d’un intero versante della nostra personalità, e non solo di qualche propaggine del suo senso sociale [a nomenclatura].
Le Radici si manifestano in azioni che contengono saperi ancora inespressi ma fortemente potenziali, affettivamente vitali. Esse risolvono i problemi agendo a modo loro.
Proprio ciò che non conosciamo ancora di noi stessi (attitudini, desideri) può essere il segreto, la molla della nostra fioritura. Una scoperta che sgorga innata, non un strada insegnata e riconosciuta maestra.
La vera misura è più profonda.
Ci si smarrisce nelle banalità, se non si scopre il seme personale - e si presuppone di sapere già la direzione: cosa amare, come dire e fare secondo istruzioni.
Il mondo dei saperi acquisiti è viceversa spesso nemico del processo nascosto, il quale continua a voler svolgere il suo tema, e ripudiare ciò che non vuole assorbire, perché lo controbatterebbe.
Ed è questa tutta la partita: non affievolire, bensì intuire le attitudini e lasciare che siano, persino contraddittorie.
E danzino senza collocarle, identificarle, metterle in riga secondo costume o ideale - così inebetirle.
La caratteristica peculiare ha il sapore dell’Eterno.
Fa nascere incessantemente uno sguardo rinnovato, che si forma spontaneamente, strada facendo.
Preparando al Nuovo, che non sopporta le aspettative.
Quindi la scintilla imprevista del cuore [che mai combacia] non può essere umiliata, minacciata, frantumata, rimossa, o alienata.
È la nostra Inclinazione consistente, che libera un nitido fulgore d’Unicità.
Valori e indipendenza emotiva
Collocarsi negli eventi di persecuzione
(Lc 21,12-19)
Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.
In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.
Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.
Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.
L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.
Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.
Non saremo sull’altro lato.
Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.14-15).
Lc intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.
Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (v.13).
I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.
Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.
Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.
Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.
In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.
Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco [non per sforzo: per aver spostato lo sguardo, semplicemente].
Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.
Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.
Così anche la famiglia o il “clan” di appartenenza vanno condotti a un differente mondo di convinzioni; non senza contrasti laceranti (v.16).
La Torah stessa obbligava alla denuncia degli infedeli alla religione dei padri - perfino parenti strettissimi - sino a metterli a morte (Dt 13,7-12) [nei fatti, solo per designare la gravità di quel tipo di trasgressione].
L’Annuncio non poteva che causare divisioni estreme, e su temi di fondo come il successo, o il progresso in questa vita - la visione di un mondo nuovo, dell’utopia di altre e altrui esigenze.
Tutto sembrerà congiurare e farsi beffe del nostro ideale (v.17).
Il riferimento al Nome allude alla vicenda storica di Gesù di Nazaret, col suo carico non solo di bontà ideale ed esplicita, ma pure di attività di denuncia contro l’istituzione ufficiale e le false guide che avevano messo sotto sequestro il Dio dell’Esodo.
Malgrado le interferenze, l’essere fraintesi, calunniati, messi in ridicolo, ricattati e odiati... ancorati a Cristo sperimenteremo che le tappe della storia e della vita procedono verso la Speranza.
La “protezione” di Dio non preserva da tinte cupe, né dal subire danni, ma garantisce che nulla vada perduto, neppure un capello (v.18).
Anche questo esempio spontaneo che Gesù trae dalla natura - eco della vita conciliante sognata per noi dal Padre - introduce alla Felicità che fa consapevoli di esistere in tutta la personale realtà.
L’espressione mostra infatti il valore delle cose genuine, silenti, poco eclatanti, le quali però ci abitano - non sono “ombre”. E le percepiamo senza sforzo né impegno cerebrale.
Nel tempo delle scelte epocali, dell’emergenza che sembra mettere tutto in scacco - ma vuole farci meno artificiali - tale consapevolezza può rovesciare il nostro giudizio di sostanza, sul piccolo e il grande.
Infatti, per l’avventura d’amore non c’è contabilità né clamore.
È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.
Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.18).
E (appunto) l’aldilà non è impreciso.
Non bisogna snaturarsi per avere consenso… tantomeno per il “Cielo” che vince la morte.
Il destino dell’unicità non va in rovina: è prezioso e caro, come lo è in natura.
Bisogna scorgerne la Bellezza, futura e già attuale.
Neppure conterà collocarsi sopra e davanti: piuttosto sullo sfondo, già ricchi e perfetti, nel senso intimo della pienezza di essere.
Così non dovremo calpestarci a vicenda (Lc 12,1)... anche per incontrare Gesù.
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale».
(Rabindranath Tagore)
Gesù ci mette in guardia: non potremo contare su amicizie inattaccabili, né su potenze umane schierate a difesa della trama terrestre.
Anche colui che credevamo vicino ci scruterà con sospetto: il prezzo della verità sta sempre nella scelta contraria al mondo della menzogna [anche sacrale, datata o effimera] tutto coalizzato contro.
La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.
Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.
Ostinati solo nel cambio di proporzioni, tra spogliamento ed elevazione. Nella contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione?
Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?
Sull’altro versante del mondo
I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’“altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti; non venditori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti.
Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”. C’erano tante altre possibilità, offerte dal vocabolario: lo si poteva chiamare eroismo, abnegazione, sacrificio di sé. E invece i cristiani della prima ora lo hanno chiamato con un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo. Il martirio non è nemmeno l’ideale supremo della vita cristiana, perché al di sopra di esso vi è la carità, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’apostolo Paolo nell’inno alla carità, intesa come l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’Apostolo Paolo nell’inno alla carità: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Ripugna ai cristiani l’idea che gli attentatori suicidi possano essere chiamati “martiri”: non c’è nulla nella loro fine che possa essere avvicinato all’atteggiamento dei figli di Dio.
A volte, leggendo le storie di tanti martiri di ieri e di oggi - che sono più numerosi dei martiri dei primi tempi -, rimaniamo stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo (cfr Rm 8,38-39).
Che Dio ci doni sempre la forza di essere suoi testimoni. Ci doni di vivere la speranza cristiana soprattutto nel martirio nascosto di fare bene e con amore i nostri doveri di ogni giorno. Grazie.
[Papa Francesco, Udienza Generale 28 giugno 2017]
Il Senso e il Fine, non la fine
È tempo di gioia per la festa di Pasqua, che risveglia attese e speranze di liberazione. Gesù entra nel tempio di Gerusalemme, ovunque ricoperto di marmi perfettamente profilati e stracolmo d’oro.
«Queste cose che osservate, verranno giorni nei quali non sarà lasciata pietra su pietra, che non sarà distrutta»:
Per un ebreo significava la fine del mondo. Era impensabile che un luogo di tale estensione, lusso e magnificenza potesse venire scalzato da qualche teoria utopica.
Gesù voleva dire: se non cambiate mentalità e continuate a ragionare in termini di potere e aggressività, distruggerete voi stessi e rovinerete per sempre la casa di Dio, segno della sua presenza e centro della vostra identità.
Così avvenne - per opera delle truppe di Vespasiano guidate dal figlio prediletto e successore, Tito: tabula rasa (anno 70).
Lc invita a smettere di rincorrere l’opinione altrui - e riflettere invece sull’unica cosa interessante: come porre fine al mondo antico e dare inizio a una società guidata dal disegno del Padre, per il nostro bene integrale.
Anzitutto bisogna non lasciarsi ingannare dagli imbonitori che ripetono ossessivamente: “Questo è il momento da non perdere, mi raccomando! Sarai un grande se segui me e il mio gruppo...”.
Tanti i moralizzatori, altrettante le cocenti delusioni. Anche il credere ridotto a un’ideologia e codicilli confezionati: lo constatiamo ogni giorno.
Speranze deluse anche al contrario, per il desiderio di scapricciarsi... e anche se propugnate da scienza e tecnica: risultano disumanizzanti.
Lc vuole aiutare le sue comunità a non rimanere ai margini della storia di Dio.
Ovviamente, è da mettere in conto la persecuzione: esito perfettamente prevedibile per chi va contromano, e che non ci deve sorprendere, né gettare nello sconforto.
Chiunque desidera anche per interesse venale perpetuare il mondo antico che lo ha portato a galleggiare sugli altri, non si farà certo da parte spontaneamente. È solo infastidito dai progetti dei Figli.
Nessun terrore! Tra contorsioni e terremoti, l’assetto antiquato sta tirando le cuoia. Ma nasce un mondo nuovo: quello dal sisma di Pentecoste.
È un Vangelo, ossia un annuncio di gioia: il mondo competitivo ha avuto il suo colpo di grazia. Sta germogliando l’aurora di un nuovo splendido giorno: bisogna che sappiamo collocarci.
Si sta realizzando il passaggio fra due ere - proprio come avviene per noi oggi: non abbassiamo gli occhi, non spaventiamoci; piuttosto alziamo lo sguardo (v.28)!
Il messaggio mette in causa tre poteri: religioso, politico e famigliare.
Il mondo ripetitivo dei riti e dell’interesse sacrale chiuso viene sostituito dalla Fede [adesione a una proposta sponsale, d’amore] che valica i tatticismi e l’ideologia del potere.
E sua patria è un regno senza confini.
Il mondo famigliare delle società religiose tende alla difesa dell’interesse ristretto dei membri, della casa e del clan. Gesù crea un universo aperto.
La sua Famiglia non è limitata agli steccati del sangue di vecchia data; apre il cuore al pensiero senza limiti, all’incontro senza pregiudizi.
Perché l’essenziale non è prevalere e vincere, ma dare testimonianza non aggressiva che la mentalità dell’interesse è perdente (nel senso che non costruisce vita), e che l’idea di uomo-Dio antica è sì impressionante, ma bacata, inautentica, e non reggerà alla prova dei fatti.
Quindi non c’è bisogno di preparare difese, ossia agire come farebbe un qualsiasi pagano: cercare l’appoggio di chi conta, vendersi, diventare omertosi, aggregarsi a gruppi di potere e al normale stile di menzogna. Tutto per difendersi con artifizi o affermarsi con astuzie.
Qui è in gioco la Fede. Non perché scende in campo una preghiera in più o un maggiore adempimento di devozioni. E non per calcolo, sforzo e strategia, ma per il motivo che la Visione della realtà (opposta) nascente ci corrisponde in modo spontaneo.
È in ballo l’innamoramento: il discepolo di Cristo ne assimila la Visione, la riconosce propria - perché l’autentico innamorato finisce per vedere le cose come la Persona amata.
Quindi, ieri come oggi, gli innocenti continuano a non sapere che il Progetto cui collaborano spontaneamente è irrealizzabile... per questo lo realizzano.
È il mondo dei figli.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come leggi le realtà enigmatiche del mondo? È “la” fine o emerge «il» Fine?
Nell'odierna pagina evangelica, san Luca ripropone alla nostra riflessione la visione biblica della storia e riferisce le parole di Gesù, che invitano i discepoli a non avere paura, ma ad affrontare difficoltà, incomprensioni e persino persecuzioni con fiducia, perseverando nella fede in Lui. "Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni - dice il Signore -, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine" (Lc 21, 9). Memore di questo ammonimento, sin dall'inizio la Chiesa vive nell'attesa orante del ritorno del suo Signore, scrutando i segni dei tempi e mettendo in guardia i fedeli da ricorrenti messianismi, che di volta in volta annunciano come imminente la fine del mondo. In realtà, la storia deve fare il suo corso, che comporta anche drammi umani e calamità naturali. In essa si sviluppa un disegno di salvezza a cui Cristo ha già dato compimento nella sua incarnazione, morte e risurrezione. Questo mistero la Chiesa continua ad annunciare ed attuare con la predicazione, con la celebrazione dei sacramenti e la testimonianza della carità.
Cari fratelli e sorelle, raccogliamo l'invito di Cristo ad affrontare gli eventi quotidiani confidando nel suo amore provvidente. Non temiamo per l'avvenire, anche quando esso ci può apparire a tinte fosche, perché il Dio di Gesù Cristo, che ha assunto la storia per aprirla al suo compimento trascendente, ne è l'alfa e l'omega, il principio e la fine (cfr Ap 1, 8). Egli ci garantisce che in ogni piccolo ma genuino atto di amore c'è tutto il senso dell'universo, e che chi non esita a perdere la propria vita per Lui, la ritrova in pienezza (cfr Mt 16, 25).
A tener viva tale prospettiva ci invitano con singolare efficacia le persone consacrate, che hanno posto senza riserve la loro vita a servizio del Regno di Dio […] Tanto dobbiamo a queste persone che vivono di ciò che la Provvidenza procura loro mediante la generosità dei fedeli. Il monastero, "come oasi spirituale, indica al mondo di oggi la cosa più importante, anzi alla fine l'unica cosa decisiva: esiste un'ultima ragione per cui vale la pena vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile" (Heiligenkreuz, 9 settembre 2007). La fede che opera nella carità è il vero antidoto contro la mentalità nichilista, che nella nostra epoca va sempre più estendendo il suo influsso nel mondo.
Ci accompagna nel pellegrinaggio terreno Maria, Madre del Verbo incarnato. A Lei chiediamo di sostenere la testimonianza di tutti i cristiani, perché poggi sempre su una fede salda e perseverante.
[Papa Benedetto, Angelus 18 novembre 2007]
1. Dopo aver meditato sul traguardo escatologico della nostra esistenza, cioè sulla vita eterna, vogliamo ora riflettere sul cammino che ad esso conduce. Sviluppiamo per questo la prospettiva presentata nella Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente: “Tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, ed in particolare per il ‘figlio perduto’ (cfr Lc 15, 11-32). Tale pellegrinaggio coinvolge l’intimo della persona allargandosi poi alla comunità credente per raggiungere l’intera umanità” (n. 49).
In realtà, ciò che il cristiano vivrà un giorno in pienezza è già in qualche modo anticipato oggi. La Pasqua del Signore è infatti inaugurazione della vita del mondo che verrà.
2. L'Antico Testamento prepara l'annuncio di questa verità attraverso la complessa tematica dell'Esodo. Il cammino del popolo eletto verso la terra promessa (cfr Es 6, 6) è come una magnifica icona del cammino del cristiano verso la casa del Padre. Ovviamente la differenza è fondamentale: mentre nell’antico Esodo la liberazione era orientata al possesso della terra, dono provvisorio come tutte le realtà umane, il nuovo “Esodo” consiste nell'itinerario verso la casa del Padre, in prospettiva di definitività ed eternità, che trascende la storia umana e cosmica. La terra promessa dell’Antico Testamento fu perduta di fatto con la caduta dei due regni e con l’esilio babilonese, in seguito al quale si sviluppò l'idea di un ritorno come nuovo Esodo. Tuttavia questo cammino non si risolse unicamente in un altro insediamento di tipo geografico o politico, ma si aprì ad una visione “escatologica” che ormai preludeva alla piena rivelazione in Cristo. In questa direzione si muovono appunto le immagini universalistiche, che nel Libro di Isaia descrivono il cammino dei popoli e della storia verso una nuova Gerusalemme, centro del mondo (cfr Is 56-66).
3. Il Nuovo Testamento annuncia il compimento di questa grande attesa, additando in Cristo il Salvatore del mondo: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5). Alla luce di questo annuncio la vita presente è già sotto il segno della salvezza. Questa si realizza nell’evento di Gesù di Nazaret che culmina nella Pasqua, ma avrà la sua piena realizzazione nella “parusia”, nell’ultima venuta di Cristo.
Secondo l’apostolo Paolo questo itinerario di salvezza che collega il passato al presente proiettandolo nell'avvenire è frutto di un disegno di Dio, tutto incentrato nel mistero di Cristo. Si tratta del “mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle sulla terra” (Ef 1, 9-10; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1042s).
In questo disegno divino, il presente è il tempo del “già e non ancora”, tempo della salvezza già realizzata e del cammino verso la sua perfetta attuazione: “Finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13).
4. La crescita verso una tale perfezione in Cristo, e perciò verso l’esperienza del mistero trinitario, implica che la Pasqua si realizzerà e celebrerà pienamente solo nel regno escatologico di Dio (cfr Lc 22, 16). Ma l’evento dell’incarnazione, della croce e della risurrezione costituisce già la rivelazione definitiva di Dio. L’offerta di redenzione che tale evento implica si inscrive nella storia della nostra libertà umana chiamata a rispondere all'appello di salvezza.
La vita cristiana è partecipazione al mistero pasquale, come cammino di croce e risurrezione. Cammino di croce, perché la nostra esistenza è continuamente sotto il vaglio purificatore che porta al superamento del vecchio mondo segnato dal peccato. Cammino di risurrezione, perché risuscitando Cristo, il Padre ha sconfitto il peccato, per cui nel credente il “giudizio della croce” diventa “giustizia di Dio”, vale a dire trionfo della sua Verità e del suo Amore sulla perversità del mondo.
5. La vita cristiana è in definitiva una crescita verso il mistero della Pasqua eterna. Essa esige pertanto di tenere fisso lo sguardo alla meta, alle realtà ultime, ma al tempo stesso di impegnarsi nelle realtà ‘penultime’: tra queste e il traguardo escatologico non vi è opposizione, ma al contrario un rapporto di mutua fecondazione. Se va affermato sempre il primato dell’Eterno, ciò non impedisce che viviamo rettamente alla luce di Dio, le realtà storiche (cfr CCC, 1048s).
Si tratta di purificare ogni espressione dell’umano e ogni attività terrena, perché in esse traspaia sempre più il Mistero della Pasqua del Signore. Come infatti ci ha ricordato il Concilio, l’attività umana, che porta sempre con sé il segno del peccato, è purificata ed elevata a perfezione dal mistero pasquale, cosicché “i beni quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale” (Gaudium et spes, 39).
Questa luce d’eternità illumina la vita e l’intera storia dell’uomo sulla terra.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 agosto 1999]
La venerazione verso il martirio
1. Ci ha fatto venire oggi qui ad Otranto il ricordo dei martiri. Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall’inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo.
La verità sul martirio ha nel Vangelo un’eloquenza piena di penetrante profondità ed insieme di trasparente semplicità. Cristo non promette ai suoi discepoli successi terreni o prosperità materiale; egli non presenta davanti ai loro occhi alcuna “utopia”, come è capitato più di una volta e come capita sempre nella storia delle ideologie umane. Egli semplicemente dice ai suoi discepoli: “vi perseguiteranno”. Vi consegneranno agli organi delle diverse autorità, vi metteranno in prigione, vi chiameranno davanti ai diversi tribunali. Tutto ciò “a causa del mio nome” (Lc 21,12).
La sostanza del martirio è legata, dall’inizio e nel corso di tutti i secoli, con questo nome! Noi qualifichiamo come martiri quei cristiani che, nel corso della storia, hanno subìto sofferenze, spesso terrificanti, per la loro crudeltà “in odium fidei”. Coloro ai quali “in odium fidei” veniva infine inflitta la morte. Quindi coloro che accettando, in questo mondo, le sofferenze e subendo la morte hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.
Mettendo davanti agli occhi dei suoi discepoli l’immagine delle sofferenze che li aspettano a causa del suo nome, il maestro dice: “Questo vi darà occasione di render testimonianza” (Lc 21,13).
2. Cinquecento anni fa qui, ad Otranto, 800 discepoli di Cristo hanno reso appunto una tale testimonianza, accettando la morte per il nome di Cristo. Ad essi si riferiscono le parole che il Signore Gesù ha pronunciato sul martirio: “Sarete odiati da tutti per causa del mio nome” (Lc 21,17). Sì. Sono stati oggetto d’odio. Hanno bevuto per il nome di Cristo il calice di quest’odio fino in fondo, a somiglianza del loro maestro, il quale dalla cena pasquale si recò direttamente al Getsemani e lì pregava: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice” (Lc 22,42). Tuttavia il calice dell’odio umano, della crudeltà e della croce non si è allontanato. Cristo, obbediente al Padre, l’ha vuotato fino in fondo: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).
La testimonianza del Getsemani e della croce è un sigillo definitivo, impresso su tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Egli, accettando la morte, ha dato la propria vita per la salvezza del mondo. I martiri di Otranto, accettando la morte, hanno dato la loro vita per Cristo. E in questo modo hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.
La testimonianza dei martiri li introduce in modo particolare anche nel suo mistero pasquale. “Con la vostra perseveranza - dice Gesù - salverete le vostre anime” (Lc 21,19). Come egli stesso conquistò la nuova vita, accettando la morte, così i martiri accettando la morte, conquistano la vita, a cui Cristo ha dato inizio nella sua risurrezione.
3. “Quella” vita: la vita nuova e piena smentisce, in certo senso, l’esperienza della morte. Smentisce soprattutto la certezza di coloro che, infliggendo la morte, ritenevano di aver tolto la vita ai martiri, di averli privati della vita e di averli strappati in maniera definitiva dalla terra dei viventi.
“Agli occhi degli stolti parve che morissero; / la loro fine fu ritenuta una sciagura, / la loro dipartita da noi una rovina”.
Così proclamava l’autore del libro della Sapienza (Sap 3,2-3) già molto tempo prima che Cristo pronunciasse le sue parole sul martirio.
“...ma essi sono nella pace” (Sap 3,3). Ma essi sono nella pace!
Nell’atto del martirio ha quindi luogo una radicale, per così dire, contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare. La morte umana dei martiri, la morte legata alla sofferenza e al tormento - così come la morte di Cristo sulla croce - cede, in un certo senso, dinanzi ad un’altra realtà superiore. L’autore del libro della Sapienza scrive:
“Le anime dei giusti... sono nelle mani di Dio / nessun tormento le toccherà” (Sap 3,1).
Quest’altra realtà superiore non annulla il fatto del tormento e della morte, così come non annullò il fatto della passione e della morte di Cristo. Essa, la “mano” invisibile di Dio trasforma soltanto questo fatto umano. Lo trasforma già perfino nella sua trama terrestre, mediante la potenza della fede che si rivela nelle anime dei martiri dinanzi al tormento ed alla sofferenza:
“Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità” (Sap 3,4).
La forza di questa fede e la forza della speranza che proviene da Dio sono più potenti del castigo e della morte stessa. I martiri rendono testimonianza a Cristo proprio per questa forza della fede e della speranza. Essi, difatti, simili a Lui nella passione e nella morte, proclamano contemporaneamente la potenza della sua risurrezione. Basta ricordare qui come moriva il primo martire di Cristo, il diacono Stefano; egli si spense gridando: “Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At 7,56).
Così dunque, grazie alla forza della fede ed alla potenza della speranza, cambiano in un certo senso le proporzioni: le proporzioni della vita e della morte, della sconfitta e della vittoria, dello spogliamento e dell’elevazione. L’autore del libro della Sapienza scrive in seguito:
“In cambio d’una breve pena / riceveranno grandi benefici, / perché Dio li ha provati / e li ha trovati degni di sé” (Sap 3,5).
4. Qui tocchiamo un punto particolarmente importante nel fatto del martirio. Il martirio è una grande prova, in un certo senso è la prova definitiva e radicale. È la più grande prova dell’uomo, la prova della dignità dell’uomo al cospetto di Dio stesso. È difficile dire a questo proposito più di quanto afferma proprio il libro della Sapienza: “Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé” (Sap 3,5). Non esiste una misura più grande della dignità dell’uomo di quella che si trova in Dio stesso: negli occhi di Dio. Il martirio è dunque “la” prova dell’uomo che ha luogo agli occhi di Dio, una prova nella quale l’uomo, aiutato dalla potenza di Dio, riporta la vittoria.
Attraverso tale prova sono passati, nel corso della storia, numerosi confessori e discepoli di Cristo. Attraverso tale prova sono passati i martiri d’Otranto cinquecento anni fa. Attraverso tale prova sono passati e passano i martiri del nostro secolo, martiri spesso sconosciuti, oppure poco conosciuti, anche se si trovano non lontani da noi.
E così nell’odierna circostanza non posso non volgere il mio sguardo, oltre il mare, alla non distante eroica Chiesa in Albania, sconvolta da dura e prolungata persecuzione ma arricchita dalla testimonianza dei suoi martiri: Vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e semplici fedeli.
Oltre che a loro, il mio pensiero va anche agli altri fratelli cristiani e a tutti i credenti in Dio i quali subiscono una simile sorte di privazioni in quella nazione.
Essere spiritualmente vicini a tutti coloro che soffrono violenza a causa della loro fede è un dovere speciale di tutti i cristiani, secondo la tradizione ereditata dai primi secoli. Direi di più: qui si tratta anche di una solidarietà dovuta alle persone ed alle comunità, i cui diritti fondamentali sono violati o perfino totalmente conculcati. Dobbiamo pregare perché il Signore sostenga questi nostri fratelli con la sua grazia in tali difficili prove. E vogliamo pregare anche per chi li perseguita ripetendo l’invocazione di Cristo sulla croce, rivolta al Padre: “Perdona loro perché non sanno ciò che fanno”.
Molto spesso si cerca di qualificare i martiri come “colpevoli di reati politici”. Anche Cristo è stato condannato a morte apparentemente per questo motivo: perché affermava di essere re (cf. Lc 23,2). Non dimentichiamo, perciò, i martiri dei nostri tempi. Non comportiamoci come se essi non esistessero. Ringraziamo Dio che essi hanno superato vittoriosamente la prova. Imploriamo la forza dello Spirito Santo per i perseguitati che ancora devono misurarsi con tale prova. Si compiano su di essi le parole del maestro: “Io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere né combattere” (Lc 21,15).
Restiamo in comunione con i martiri. Essi scavano l’alveo più profondo del fiume divino nella storia.
Essi costruiscono i fondamenti più consistenti di quella città divina che si eleva verso l’eternità.
L’autore del libro della Sapienza proclama: “(Dio) li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto” (Sap 3,6).
5. Nella Chiesa in terra permane il ricordo e la venerazione dei santi martiri, come qui a Otranto, e in tanti altri luoghi d’Italia, d’Europa e del mondo. Nel regno di Dio essi ricevono insieme a Cristo una particolare forza e potere nel mistero della comunione dei santi e in tutta l’economia divina della verità e dell’amore.
“Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro.
Quanti confidano in lui comprenderanno la verità; coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’amore, perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti” (Sap 3,8-9).
I martiri, dinanzi alla maestà della divina giustizia, potrebbero gridare così come leggiamo nell’Apocalisse: “Fino a quando, sovrano, tu che sei santo e verace, non farai, giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” (Ap 6,10). Tuttavia nella luce eterna della santissima Trinità, uniti nella suprema verità e nel perfetto amore, essi diventano portavoce della grazia e della misericordia per i loro fratelli e sorelle sulla terra. Lo diventano anzi per i loro stessi persecutori. Lo diventano soprattutto per la Chiesa, che secondo i disegni misericordiosi di Dio deve essere la “città divina” elevata tra i popoli, deve essere: “in Cristo come un sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1).
È perciò proprio questa Chiesa, riunita oggi a Otranto sulla grande tomba dei martiri, desidera nello spirito della missione che le è propria elevare, per il loro tramite, la sua preghiera a Dio. In questa preghiera si collocano al primo posto i problemi che noi oggi, da questa grande tomba dei martiri di Otranto, dopo 500 anni, vediamo in modo nuovo e con una nuova chiarezza, nella prospettiva della croce di Cristo e della missione della Chiesa.
6. Il Concilio Vaticano II, il quale ha affermato che “la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1), ha manifestato anche il suo atteggiamento coerente con tale professione nei confronti di quegli avvenimenti che, nel passato, hanno contrapposto reciprocamente musulmani e cristiani come nemici: “Se nel corso dei secoli tra cristiani e musulmani sono sorte non poche contese e inimicizie, questo sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare ciò che è passato, a praticare sinceramente la comprensione reciproca e a promuovere insieme i beni morali, la pace e la libertà” (Nostra Aetate, 3).
Per noi, queste parole hanno una importanza decisiva. Nel medesimo spirito ho già avuto occasione di parlare più di una volta: ad Ankara, capitale della Turchia, nella mia visita in quel paese l’anno scorso, ed anche a Nairobi, ad Accra, ad Ouagadougou e ad Abidjan durante il mio recente viaggio in terra africana.
Oggi, presso le tombe gloriose dei martiri d’Otranto, invoco l’intercessione di coloro le cui “anime sono nelle mani di Dio”, e, insieme con tutta la Chiesa, elevo fervida preghiera affinché le parole dell’insegnamento del Concilio Vaticano II diventino sempre più una realtà.
Va, in questo momento, un pensiero deferente e cordiale alla Chiesa in Bisanzio che ebbe storici legami con la Chiesa locale di Otranto.
Da questa antica terra di Puglia, protesa come una testa di ponte verso il levante, noi guardiamo con attenzione e simpatia alle regioni dell’oriente e particolarmente là dove ebbero origine storica le tre grandi religioni monoteistiche, cioè il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam. Abbiamo presente nella memoria ciò che il Concilio dice di “quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cf. Rm 9,4-5); popolo, in virtù dell’elezione, carissimo per ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili (cf. Rm 11,28-29)”. E in seguito leggiamo nella medesima pagina del Concilio Vaticano II: “Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale” (Lumen Gentium, 16).
In pari tempo non possiamo chiudere gli occhi dinanzi a situazioni particolarmente delicate che colà si sono create e tuttora sussistono. Sono scoppiati durissimi conflitti; la regione del medio oriente è pervasa da tensioni e contese, col rischio sempre incombente del riesplodere di nuove guerre. È doloroso rilevare che spesso gli scontri si sono avuti seguendo le linee di divisione fra gruppi confessionali diversi, sicché è stato possibile per alcuni, purtroppo, alimentarli artificiosamente facendo leva sul sentimento religioso.
I termini del dramma medio-orientale sono noti: il popolo ebraico, dopo esperienze tragiche, legate allo sterminio di tanti figli e figlie, spinto dall’ansia di sicurezza, ha dato vita allo stato di Israele; nello stesso tempo si è creata la condizione dolorosa del popolo palestinese, in cospicua parte escluso dalla sua terra. Sono fatti che stanno sotto gli occhi di tutti. Ed altri paesi, come il Libano, soffrono per una crisi che minaccia di essere cronica. In questi giorni, infine, un aspro conflitto è in corso in una regione vicina, fra Iraq e Iran.
Riuniti oggi qui, presso le tombe dei martiri di Otranto, meditiamo sulle parole della liturgia che proclamano la loro gloria e la loro potenza nel regno di Dio: “Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro”. Quindi in unione con questi martiri, noi presentiamo al Dio unico, al Dio vivente, al Padre di tutti gli uomini i problemi della pace in medio oriente ed anche il problema, che tanto ci è caro, dell’avvicinamento e del vero dialogo con coloro ai quali ci unisce - nonostante le differenze - la fede in un solo Dio, la fede ereditata da Abramo. Lo spirito di unità, di reciproco rispetto e di intesa si dimostri più potente di ciò che divide e contrappone.
Libano, Palestina, Egitto, penisola arabica, Mesopotamia nutrirono da millenni le radici di tradizioni sacre per ciascuno dei tre gruppi religiosi; là ancora, per secoli, hanno convissuto sugli stessi territori comunità cristiane, ebraiche ed islamiche; in quelle regioni, la Chiesa cattolica vanta comunità insigni per antichità di storia, vitalità, varietà di riti, proprie caratteristiche spirituali.
Sovrasta alta su tutto questo mondo, come un centro ideale, uno scrigno prezioso che custodisce i tesori delle memorie più venerande, ed è essa stessa il primo di questi tesori, la città santa, Gerusalemme, oggi oggetto di una disputa che sembra senza soluzione, domani - se lo si vuole! - domani crocevia di riconciliazione e di pace.
Sì, noi preghiamo perché Gerusalemme, anziché essere, come è oggi, oggetto di contesa e di divisione, divenga il punto d’incontro, verso cui continueranno a volgersi gli sguardi dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani, come al proprio focolare comune; intorno a cui essi si sentiranno fratelli, nessuno superiore, nessuno debitore agli altri; verso cui torneranno a dirigere i loro passi i pellegrini, seguaci di Cristo, o fedeli della legge mosaica, o membri della comunità dell’islam.
7. E adesso il nostro pensiero si rivolge ancora una volta verso la liturgia dei martiri. Noi guardiamo con gli occhi dell’autore dell’Apocalisse e vediamo nel grande cimitero di Otranto e, al tempo stesso, nella prospettiva dell’eterna Gerusalemme... vediamo: “sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa... venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli” (Ap 6,9.11).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Otranto 5 ottobre 1980]
L’odierno brano evangelico (Lc 21,5-19) contiene la prima parte del discorso di Gesù sugli ultimi tempi, nella redazione di san Luca. Gesù lo pronuncia mentre si trova di fronte al tempio di Gerusalemme, e prende spunto dalle espressioni di ammirazione della gente per la bellezza del santuario e delle sue decorazioni (cfr v. 5). Allora Gesù dice: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» (v. 6). Possiamo immaginare l’effetto di queste parole sui discepoli di Gesù! Lui però non vuole offendere il tempio, ma far capire, a loro e anche a noi oggi, che le costruzioni umane, anche le più sacre, sono passeggere e non bisogna riporre in esse la nostra sicurezza. Quante presunte certezze nella nostra vita pensavamo fossero definitive e poi si sono rivelate effimere! D’altra parte, quanti problemi ci sembravano senza uscita e poi sono stati superati!
Gesù sa che c’è sempre chi specula sul bisogno umano di sicurezze. Perciò dice: «Badate di non lasciarvi ingannare» (v. 8), e mette in guardia dai tanti falsi messia che si sarebbero presentati (v. 9). Anche oggi ce ne sono! E aggiunge di non farsi terrorizzare e disorientare da guerre, rivoluzioni e calamità, perché anch’esse fanno parte della realtà di questo mondo (cfr vv. 10-11). La storia della Chiesa è ricca di esempi di persone che hanno sostenuto tribolazioni e sofferenze terribili con serenità, perché avevano la consapevolezza di essere saldamente nelle mani di Dio. Egli è un Padre fedele, è un Padre premuroso, che non abbandona i suoi figli. Dio non ci abbandona mai! Questa certezza dobbiamo averla nel cuore: Dio non ci abbandona mai!
Rimanere saldi nel Signore, in questa certezza che Egli non ci abbandona, camminare nella speranza, lavorare per costruire un mondo migliore, nonostante le difficoltà e gli avvenimenti tristi che segnano l’esistenza personale e collettiva, è ciò che veramente conta; è quanto la comunità cristiana è chiamata a fare per andare incontro al “giorno del Signore”. Proprio in questa prospettiva vogliamo collocare l’impegno che scaturisce da questi mesi in cui abbiamo vissuto con fede il Giubileo Straordinario della Misericordia, che oggi si conclude nelle Diocesi di tutto il mondo con la chiusura delle Porte Sante nelle chiese cattedrali. L’Anno Santo ci ha sollecitati, da una parte, a tenere fisso lo sguardo verso il compimento del Regno di Dio e, dall’altra, a costruire il futuro su questa terra, lavorando per evangelizzare il presente, così da farne un tempo di salvezza per tutti.
Gesù nel Vangelo ci esorta a tenere ben salda nella mente e nel cuore la certezza che Dio conduce la nostra storia e conosce il fine ultimo delle cose e degli eventi. Sotto lo sguardo misericordioso del Signore si dipana la storia nel suo fluire incerto e nel suo intreccio di bene e di male. Ma tutto quello che succede è conservato in Lui; la nostra vita non si può perdere perché è nelle sue mani. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti, attraverso le vicende liete e tristi di questo mondo, a mantenere salda la speranza dell’eternità e del Regno di Dio. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti a capire in profondità questa verità: Dio mai abbandona i suoi figli!
[Papa Francesco, Angelus 13 novembre 2016]
Lo scandalo dell’attesa
(Lc 18,1-8)
Negli anni 80 le comunità dell’Asia Minore subiscono persecuzione per il fatto che l’imperatore di Roma [il divo Domiziano] pretendeva farsi venerare.
L’istituzione religiosa ufficiale - servile e adulatrice - si adegua. I cristiani no - consapevoli della propria dignità e progetto di mondo alternativo.
Lc intende incoraggiare fedeli e comunità vittime di soprusi mettendo in evidenza come giungere alla disposizione più efficace, in grado d’intaccare i ricatti dell’allontanamento sociale.
Il ‘silenzio di Dio’ sugli abusi e il dominio dei prepotenti poneva quesiti e faceva avanzare riserve di fede.
Ma nella parabola, il giudice irresponsabile non è il Padre! L’ingiusto è un’icona che drammatizza la condizione in cui si vengono a trovare i discepoli privati del Maestro, in un mondo di astuti.
Ecco la «vedova»: la comunità dei nuovi ‘Anawim, poveri di Yahweh [nei Vangeli «ptōchôis»] ossia indifesi, esposti a soprusi - che hanno quale unica speranza il Signore.
Essi non restano alla scorza delle situazioni. Colgono i segni del nuovo Regno - di un’umanità alternativa - e li bramano.
Dice Lc: unico mezzo per ritrovarsi e non perdere la propria energia fondante è la Preghiera. Essa non è un ripiegamento (vv.3.7).
L’orazione dei figli è piuttosto un’azione in avanti. Una sorta di balzo che diventa magnetico e infine s’impadronisce con forza del suo desiderio profondo.
Un’appropriazione indebita. Come diceva s. Bernardo: «Quanto mi manca lo usurpo dal costato di Cristo».
Insomma, la preghiera cristiana ha il medesimo passo della Fede, e le sue poliedriche sfaccettature.
Quindi non ci pianta sul posto: diventa una Fonte che induce gesti temerari.
Perché? In certi momenti le cose cambiano. Nel “mondo”, solo per calcolo - ma detto questo, anche i più banali interessi muovono qualcosa (vv.4-5).
Vi sono aspetti del nostro Dialogo con Dio caratterizzati da tratti di assenso. Ma la parte “colorata” dell’orazione giunge quando si entra in clima sponsale - di ascolto, intuizione; anche di lotta e litigio personale.
Essi sfociano in una sorta di lettura del peso della propria vicenda, del genio del tempo e degli appigli per un’attualizzazione, che ci porta fuori dalla mediocrità: prendere o lasciare.
Insomma, l’orazione è un gesto concreto. Pone in contatto con una ‘visione’ che dona indicazioni. Vocazione a tutti i costi.
Una sorta di energia primordiale, che si riaffaccia per curare e dirigere situazioni.
Non solo è il grande strumento per non perdere la testa, e un mezzo per non scoraggiare.
Piuttosto, un’azione pungente e seccante, con effetto attrattivo - ‘calamita’.
Il nido dinamico, poco rassicurante, dell’orazione, ci riporta al Nucleo dell’essenza, al Sé eminente; nel regno della Chiamata per Nome.
Si fa Lettura e Intuizione che incontra gli stati profondi.
È in tale spostamento di sguardo e Visione che attualizziamo il futuro.
In tal guisa, la preghiera stessa ci guida alla realizzazione del nostro essere individuale e ministeriale-ecclesiale.
Essa infatti crea: pone d’improvviso (v.8) le condizioni calzanti, i momenti acuti della svolta - perché vive Altrove, e nella base dell’anima.
Scorge Dio nei solchi della storia, perciò attiva le energie del divenire: trascina la realtà, l’attira.
Sancisce e attualizza ciò che ‘viene’; interroga e smuove l’istituzione che tende a inaridire.
Col suo Timone, anche fra troppe nebbie solca i marosi delle tossine invecchianti, sorvola le angherie, dischioda il mondo e tutta la nostra vita.
[Sabato 32.a sett. T.O. 15 novembre 2025]
Lo scandalo dell’attesa e il sequestro dei prelati
(Lc 18,1-8)
Negli anni 80 le comunità dell’Asia Minore subiscono persecuzione per il fatto che l’imperatore di Roma [il divo Domiziano] pretendeva farsi venerare.
L’istituzione religiosa ufficiale - servile e adulatrice - si adegua ai diktat del Cesare di turno.
I cristiani no - consapevoli della propria dignità e progetto di mondo alternativo, legato a un nuovo volto di Dio: non più legislatore e giudice ma Creatore e Redentore della nostra intelligenza, sviluppo e libertà.
Le assemblee dei primi credenti si trovano così di fronte a fatiche, discriminazioni e stanchezze forse ben superiori alle forze, ma non alla coscienza.
Lc incoraggia fedeli e comunità vittime di soprusi, con una catechesi narrativa che mette in evidenza come giungere alla disposizione più efficace, in grado d’intaccare i ricatti dell’allontanamento sociale.
Di fatto, una sorta di emarginazione (subdola più che violenta) imposta dalle autorità religiose e politiche, da tutte le cricche al potere.
Se il nostro sguardo è oscurato da convenzioni, il “silenzio di Dio” di fronte agli abusi e al dominio dei prepotenti pone quesiti e fa avanzare riserve di fede.
[Oggi anche per il tipo di Chiesa nostalgica di Costantino, o viceversa à la page; del cinismo successivo o di sovrapposizioni disincarnate, e di tante nebbie - non delle catacombe].
Certo la preghiera non forza il Padre a obbedirci, ma la nostra insistenza è segno d’un rapporto vivo, non formale.
Ciò anche quando può capitare di coglierci sfiniti e (pur restando in superficie) di non considerare il Creatore del tutto innocente di fronte al male e al degrado.
Ma tale impostazione ci farebbe perdere la rotta del Re che si rivela dentro… celandosi nei solchi degli eventi, e affiorando nei cuori.
Nella parabola, il giudice irresponsabile non è il Padre!
L’ingiusto “giurista” - uomo di potere - è un’icona che drammatizza la condizione in cui si vengono a trovare i discepoli, privati del Maestro.
I testimoni autentici si ritrovano in un mondo di astuti, impregnato d’ideologia e pratica dell’avere, potere, apparire. Configurazioni che soffocano ogni anelito di vita genuina.
Ecco la «vedova»: la comunità dei nuovi ‘Anawim, poveri di Yahweh [nei Vangeli «ptōchôis»] ossia indifesi, esposti a soprusi, privi di appoggi mondani - che hanno quale unica speranza il Signore.
Malgrado la condizione malferma, le masse pur private di energia non desiderano il conformismo. Non permangono nell’adattarsi alle astuzie - smarrendo se stesse - senza un Fuoco, un’onda vitale; senza dentro un compagno di viaggio da percepire, accogliere, ascoltare.
Esse ragionano e agiscono a partire dal nocciolo nascosto dell’essere e dell’evolvere. Non restano alla scorza delle situazioni. Desiderano rinascere.
Colgono i segni del nuovo Regno che spunta - di un’umanità alternativa - e li bramano, così la loro partita non è tutta a portata di mano.
Allorché dovessero smarrire il nucleo, il senso, dovrebbero tornare a imparare a vedere in ogni cosa una chiamata, un infinito, un fuori del tempo.
E un modo di guardare se stessi differente da quello del senso comune. Anche noi: come se tutti fossimo sdraiati sull’energia fondante del nostro Sogno - unico, personale, integrale - che ci appartiene davvero.
Dice Lc: unico mezzo per ritrovarsi e non perdere la partita della propria identità caratteriale di figli e testimoni critici è la Preghiera.
Non si tratta della cantilena devota, prevedibile, che ci metterebbe a dormire (vv.3.7). Neppure intesa come dovere di religione: prestazione, formula, obbligo snervante; riconoscimento dell’onore dovuto al Padrone, o ripiegamento.
Si evince dal tono della narrazione: il tu-per-tu dei figli non è una valanga di emozioni pie, piuttosto un’azione in avanti.
Una sorta di balzo che diventa magnetico e infine s’impadronisce con forza del suo desiderio profondo.
Un’appropriazione indebita, ma corroborata; non già allestita, o per nostri meriti, bensì attraverso quelli di Cristo - per l’intuizione tenace che infonde.
Come diceva s. Bernardo: «Quanto mi manca lo usurpo dal costato di Cristo»!
Ricordo il racconto di un grande parroco romano ordinato sacerdote da Paolo VI che mi confidava di aver partecipato a un blitz proprio negli spazi del Seminario che ben conosco. Al termine della celebrazione di una Eucaristia (!) con ospiti di rilievo, gli allievi in rivolta contro i prelati e professori tradizionalisti del Laterano - per niente intimiditi dal rango dei sequestrati - li chiusero a chiave in sagrestia, per costringere i diversi bei nomi presenti a cedere alle loro richieste di libertà [di letture e altro]. Vinsero la partita con sfrontatezza, senza tanti complimenti - e alcuni dei professoroni presenti cambiarono linea seduta stante (cf. v.8). Oggi quegli ex seminaristi sono punti di riferimento della capitale, tutti in posizione di avanguardia pastorale, gente decisa a seguire la propria Chiamata. Vere facce toste, che non si rassegnano. Impertinenti, che però impongono gli sviluppi appropriati, per tutti. Essi sanno: perdere di vista la propria missione significherebbe smarrire il senso della vita, non saper più stare con se stessi, con gli altri e la realtà; infine, ammalarsi, perché si sceglierebbe altrimenti di vivere in palude, obbligatoriamente assopiti.
La Preghiera cristiana ha il medesimo passo della Fede, non solo pacificamente dialogante - e in tali tratti nodali può essere descritta mediante le sue stesse poliedriche sfaccettature.
Quindi non ci pianta sul posto: diventa una Fonte che induce azioni temerarie, sfacciate e inopportune; totalmente fuori luogo.
Perché? In certi momenti le cose cambiano. Nel “mondo”, solo per calcolo - ma detto questo, anche i più banali interessi muovono qualcosa (vv.4-5).
Vi sono aspetti del nostro rapporto con Dio caratterizzati da tratti di assenso.
Ma la parte colorata dell’orazione giunge quando si entra in clima sponsale - di ascolto, intuizione; anche di lotta e litigio personale.
Tali momenti veri, sfociano in una sorta di lettura del peso della propria vicenda, del genio del tempo, degli appigli per un’attualizzazione.
Visione e “polso” che ci porta fuori dalla mediocrità. Dinamica di Esodo avvalorata da sensibilità e inclinazioni irripetibili.
Insomma, non siamo qualunquisti, né buonisti, bensì noi stessi: prendere o lasciare.
Quand’anche nella preghiera non scattasse una pia disposizione ma una rabbia, quell’accanirsi ci s’incarnerà fra le mani.
Quella stessa “ira” diverrà energia per costruire il presente profetico - e anticipare criticamente il futuro - senza però «incattivire» [v.1 testo greco].
Insomma, l’orazione è un gesto concreto: pone appunto in contatto con una Visione che dona indicazioni.
La Preghiera viva ci accosta al mondo, attraverso lo sguardo interiore: nella percezione di un’Immagine innata che è il nostro specchio terso e Vocazione a tutti i costi.
Qui sorge una sorta di energia primordiale, che si riaffaccia; per curare e dirigere situazioni.
Non solo essa è il grande strumento per non perdere la testa, e un mezzo per non scoraggiare.
Piuttosto del ripiego, ecco un’azione pungente e seccante, che recupera tutto l’essere disperso in mille vicende di ricerca, con effetto attrattivo, positivamente edificante - calamita.
Il nido dinamico, poco rassicurante, dell’orazione, ci riporta al Nucleo dell’essenza, al Sé eminente; nel regno della Chiamata per Nome.
Si fa Lettura e Intuizione che incontra gli stati profondi.
È in tale spostamento di sguardo e Visione che attualizziamo il futuro.
In tal guisa, la preghiera stessa ci guida alla realizzazione del nostro essere individuale e ministeriale-ecclesiale [o para-ecclesiale].
Essa infatti crea: pone d’improvviso [v.8 testo greco] le condizioni calzanti, i momenti acuti della svolta - perché vive Altrove, e nella base dell’anima.
Scorge Dio nella storia, perciò attiva le energie del divenire: trascina la realtà, l’attira.
Sancisce e attualizza ciò che viene; interroga e smuove l’istituzione che tende a inaridire.
Col suo Timone, anche fra troppe nebbie solca i marosi delle tossine invecchianti, sorvola le angherie, dischioda il mondo e tutta la nostra vita.
«Questo dono, infatti, è assai grande, mentre noi siamo tanto piccoli e limitati per accoglierlo… Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d'uomo (Cfr 1Cor 2,9), perché è là che il cuore dell'uomo deve entrare. Lo riceveremo con tanta maggiore capacità, quanto più salda sarà la nostra fede, più ferma la nostra speranza, più ardente il nostro desiderio. Noi dunque preghiamo sempre in questa stessa fede, speranza e carità, con desiderio ininterrotto. Ma in certe ore ed in determinate circostanze, ci rivolgiamo a Dio anche con le parole, perché, mediante questi segni, possiamo stimolare noi stessi ed insieme renderci conto di quanto abbiamo progredito nelle sante aspirazioni, spronandoci con maggiore ardore ad intensificarle. Quanto più vivo, infatti, sarà il desiderio, tanto più ricco sarà l'effetto. E perciò, che altro vogliono dire le parole dell'Apostolo: “Pregate incessantemente” (1Ts 5,17) se non questo: Desiderate, senza stancarvi, da colui che solo può concederla, quella vita beata, che niente varrebbe se non fosse eterna?».
S. Agostino, «Lettera a Proba»
Preghiera Continua: condizione di grazia e di forza, che non svia.
Venir meno senza venir meno: lotta incessante con noi stessi e con Dio
(Mt 7,7-12)
A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.
Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor (di una volta) o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…
Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.
All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.
Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto.
I desideri di accumulo, o rivalsa e trionfo, lasciano il posto all’ascolto e alla percezione.
L’occhio che penetra si accorge di quanto è a portata di mano e dell’inusitato - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.
Non sappiamo quanto tempo, ma il “risultato” subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.
Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.
Riceviamo il Dono massimo e completo. E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.
Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato (come trasmesso dalla famiglia o atteso a contorno).
Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.
Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.
Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.
Inventa orizzonti dilatati, ma in questo travaglio dev’essere chiaro che non bisogna venir meno a noi stessi. Ossia al carattere della nostra essenza e vocazione.
Tutto ciò, proprio venendo meno a noi stessi - ossia cedendo il punto di vista rigido e dialogando coi nostri strati profondi.
Tale processo sposta l’accento condizionato.
Non è che Dio si compiace di farsi senza posa pregare e ripiegare dai poveretti.
Siamo noi ad aver bisogno di tempo per incontrare la nostra stessa anima e lasciarci introdurre in un altro genere di programmi che non siano conformisti e scontati.
Leggere gli accadimenti secondo visioni totalmente “inadeguate”, eccentriche o eccessive, meno contratte dentro le solite armature (e così via) può aprire la mente.
L’espansione dello sguardo accresce l’intuizione, modifica i sentimenti, trasforma, attiva. Coglie altri disegni, spalanca differenti orizzonti - con risultati intermedi già prodigiosi, sicuramente imprevedibili.
Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona auspici ulteriori, più intensi, che vorrebbero invadere il nostro spazio.
Questa “natura” artificiale di assetti spuri, esterni o altrui, blocca l’itinerario che va verso la natura del carattere, la vera chiamata e missione personale.
La preghiera dev’essere insistente, perché è come una visuale posata su di sé; non come avevamo pensato: autenticamente.
L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro e individuale dentro, che apre alla nostra e altrui Presenza, tutta da guardare (nel modo che conta).
Sarà il più sapiente, forte e affidabile compagno di viaggio… che porta la nostra identità-carattere e non tira altrove l’io essenziale della persona.
Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate (da noi stessi o altri) dev’essere colmato nel tempo mediante una intensità di Relazione.
Ecco il dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.
In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.
Sarà la profondità radicale del rapporto con la nostra Radice - forse smarrita in troppe aspettative regolarissime, anche elevate o funzionanti - che conferisce un’altra Via, più convincente.
E farà scoprire la tendenza e destinazione unica che ci appartiene, per la Felicità che non pensavamo.
Obbiettivi, propositi, discipline, memorie del passato, sogni di futuro, ricerche dei punti di riferimento, valutazioni abitudinarie di possibilità, cumuli di merito... talora sono zavorre.
Essi distraggono dalla terra dell’anima, dove il nostro grano vorrebbe attecchire per divenire ciò che è in cuore.
E dal Nocciolo far comprendere la proposta di Missione ricevuta - non conquistata, né posseduta - affinché conceda un’altra caratura prodigiosa (non: visibilità).
Spesso il sistema mentale e affettivo si riconosce in un album di pensieri, definizioni, gesti, forme, problemi, titoli, mansioni, personaggi, ruoli e cose già morte.
Tale morfologia d’interdizione smarrisce il presente autentico, dove viceversa attecchisce il Sogno divino che completa - realizzandoci nella specificità.
Allora, ecco la terapia dell’assoluto presentimento nell’Ascolto - della non pianificazione; a partire da ciascuno.
Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni, e asseconda banalità.
Attraverso il dialogo incessante col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, che (nel frattempo) ci sta già colmando di visuali e occasioni per una sorte differente.
Riattivando la carica esplorativa soffocata negli ingranaggi, creiamo la giusta intercapedine e ripartiamo nell’Esodo.
Accontentarsi, fermarsi, installarsi in un punto, tramuterebbe le conquiste anche qualitative in una terra di nuove schiavitù.
Obbligherebbe a recitare e ripercorrere tappe ormai acquisite - che viceversa siamo per vocazione richiamati a valicare.
Esodo… all’interno di una Relazione sorgiva, cosmica e identificativa, singolarmente fondante.
Grazie all’Ascolto protratto nella preghiera, noi figli acquisiamo il sapere dell’anima e del Mistero.
Dimoriamo a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.
Così la piantiamo - o radichiamo ancor più a fondo - per capirla e recuperarla completamente, nitida e colma.
Ormai affrancata dal destino tracciato in ambiente di ristrettezze, già segnato ma privo di sogni.
Quando saremo pronti, l’Unicità scenderà in campo con una nuova soluzione, anche stravagante.
Essa partorirà ciò che siamo davvero, al meglio - dentro quel caos che risolve i veri problemi. E di onda in onda balzerà a Traguardo.
Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in una sorta di venir meno di noi stessi - in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - daremo spazio al nuovo Germe che la sa più lunga di tutti.
Già qui e ora la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile vuole sfiorare la condizione divina.
La preghiera continua (ascolto e percezione incessanti) scava e smaltisce in questo spazio il volume dei banali pensieri ridondanti.
In tale interstizio e “vuoto” si spalancano opportunità. Si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - non di seconda mano.
Vogliamo una decisiva conversione? Desideriamo il richiamo alla totalità dell’esistenza umanizzante, senza limitazioni e nella nostra unicità?
[Allora l’azione divina può raggiungere chiunque? Attecchisce in qualsiasi volto? E come si fa a non spezzarla?].
Perché non ora il nuovo inizio? La preghiera e il “nuovo pieno” dello Spirito diventano per noi - figli in fase di crescita - il latte dell’anima.
La liturgia di questa domenica ci offre un insegnamento fondamentale: la necessità di pregare sempre, senza stancarsi. Talvolta noi ci stanchiamo di pregare, abbiamo l’impressione che la preghiera non sia tanto utile per la vita, che sia poco efficace. Perciò siamo tentati di dedicarci all’attività, di impiegare tutti i mezzi umani per raggiungere i nostri scopi, e non ricorriamo a Dio. Gesù invece afferma che bisogna pregare sempre, e lo fa mediante una specifica parabola (cfr Lc 18,1-8).
Questa parla di un giudice che non teme Dio e non ha riguardo per nessuno, un giudice che non ha atteggiamento positivo, ma cerca solo il proprio interesse. Non ha timore del giudizio di Dio e non ha rispetto per il prossimo. L’altro personaggio è una vedova, una persona in una situazione di debolezza. Nella Bibbia, la vedova e l’orfano sono le categorie più bisognose, perché indifese e senza mezzi. La vedova va dal giudice e gli chiede giustizia. Le sue possibilità di essere ascoltata sono quasi nulle, perché il giudice la disprezza ed ella non può fare nessuna pressione su di lui. Non può nemmeno appellarsi a principi religiosi, poiché il giudice non teme Dio. Perciò questa vedova sembra priva di ogni possibilità. Ma lei insiste, chiede senza stancarsi, è importuna, e così alla fine riesce ad ottenere dal giudice il risultato. A questo punto Gesù fa una riflessione, usando l’argomento a fortiori: se un giudice disonesto alla fine si lascia convincere dalla preghiera di una vedova, quanto più Dio, che è buono, esaudirà chi lo prega. Dio infatti è la generosità in persona, è misericordioso, e quindi è sempre disposto ad ascoltare le preghiere. Pertanto, non dobbiamo mai disperare, ma insistere sempre nella preghiera.
La conclusione del brano evangelico parla della fede: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). E’ una domanda che vuole suscitare un aumento di fede da parte nostra. E’ chiaro infatti che la preghiera dev’essere espressione di fede, altrimenti non è vera preghiera. Se uno non crede nella bontà di Dio, non può pregare in modo veramente adeguato. La fede è essenziale come base dell’atteggiamento della preghiera.
[Papa Benedetto, omelia per la canonizzazione dei beati, 17 ottobre 2010]
A tutte le persone di buona volontà che si sentono parte viva ed operante della comunità parrocchiale dico: non stancatevi di cercare tutte le occasioni che il Signore vi offre per allargare contatti e portare avanti quell’opera di promozione fondata sulla verità, sulla giustizia e sul rispetto della persona altrui, che costituisce, per chi si sente lontano dalla fede, il preambolo necessario alla conoscenza di Cristo, che voi avete la fortuna di professare con la vostra vita e con la pratica dei sacramenti della fede.
9. Siate lode vivente di Dio agli occhi di chi cerca il Signore, ma non lo ha ancora trovato. Ripetete col salmista: “Loda, anima mia, il Signore, tuo creatore”.
Cari fratelli e sorelle!
Imparate a lodare Dio; rendete gloria a lui a nome di tutte le creature.
Imparate a farlo nello spirito della “povera vedova” dell’odierna liturgia, perché il sacrificio della gloria trovi la sua “risonanza” evangelica nel cuore di Cristo.
Imparate - sempre nuovamente - imparate a partecipare all’Eucaristia perché la vostra vita cristiana maturi e s’arricchisca mediante “la povertà in spirito”.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 6 novembre 1988]
La parabola evangelica che abbiamo appena ascoltato (cfr Lc 18,1-8) contiene un insegnamento importante: «La necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (v. 1). Dunque, non si tratta di pregare qualche volta, quando mi sento. No, Gesù dice che bisogna «pregare sempre, senza stancarsi». E porta l’esempio della vedova e del giudice.
Il giudice è un personaggio potente, chiamato ad emettere sentenze sulla base della Legge di Mosè. Per questo la tradizione biblica raccomandava che i giudici fossero persone timorate di Dio, degne di fede, imparziali e incorruttibili (cfr Es 18,21). Al contrario, questo giudice «non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno» (v. 2). Era un giudice iniquo, senza scrupoli, che non teneva conto della Legge ma faceva quello che voleva, secondo il suo interesse. A lui si rivolge una vedova per avere giustizia. Le vedove, insieme agli orfani e agli stranieri, erano le categorie più deboli della società. I diritti assicurati loro dalla Legge potevano essere calpestati con facilità perché, essendo persone sole e senza difese, difficilmente potevano farsi valere: una povera vedova, lì, sola, nessuno la difendeva, potevano ignorarla, anche non darle giustizia. Così anche l’orfano, così lo straniero, il migrante: a quel tempo era molto forte questa problematica. Di fronte all’indifferenza del giudice, la vedova ricorre alla sua unica arma: continuare insistentemente a importunarlo, presentandogli la sua richiesta di giustizia. E proprio con questa perseveranza raggiunge lo scopo. Il giudice, infatti, a un certo punto la esaudisce, non perché è mosso da misericordia, né perché la coscienza glielo impone; semplicemente ammette: «Dato che questa vedova mi dà fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi» (v. 5).
Da questa parabola Gesù trae una duplice conclusione: se la vedova è riuscita a piegare il giudice disonesto con le sue richieste insistenti, quanto più Dio, che è Padre buono e giusto, «farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui»; e inoltre non «li farà aspettare a lungo», ma agirà «prontamente» (vv. 7-8).
Per questo Gesù esorta a pregare “senza stancarsi”. Tutti proviamo momenti di stanchezza e di scoraggiamento, soprattutto quando la nostra preghiera sembra inefficace. Ma Gesù ci assicura: a differenza del giudice disonesto, Dio esaudisce prontamente i suoi figli, anche se ciò non significa che lo faccia nei tempi e nei modi che noi vorremmo. La preghiera non è una bacchetta magica! Essa aiuta a conservare la fede in Dio ad affidarci a Lui anche quando non ne comprendiamo la volontà. In questo, Gesù stesso – che pregava tanto! – ci è di esempio. La Lettera agli Ebrei ricorda che «nei giorni della sua vita terrena Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7). A prima vista questa affermazione sembra inverosimile, perché Gesù è morto in croce. Eppure la Lettera agli Ebrei non si sbaglia: Dio ha davvero salvato Gesù dalla morte dandogli su di essa completa vittoria, ma la via percorsa per ottenerla è passata attraverso la morte stessa! Il riferimento alla supplica che Dio ha esaudito rimanda alla preghiera di Gesù nel Getsemani. Assalito dall’angoscia incombente, Gesù prega il Padre che lo liberi dal calice amaro della passione, ma la sua preghiera è pervasa dalla fiducia nel Padre e si affida senza riserve alla sua volontà: «Però – dice Gesù – non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). L’oggetto della preghiera passa in secondo piano; ciò che importa prima di tutto è la relazione con il Padre. Ecco cosa fa la preghiera: trasforma il desiderio e lo modella secondo la volontà di Dio, qualunque essa sia, perché chi prega aspira prima di tutto all’unione con Dio, che è Amore misericordioso.
La parabola termina con una domanda: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (v. 8). E con questa domanda siamo tutti messi in guardia: non dobbiamo desistere dalla preghiera anche se non è corrisposta. E’ la preghiera che conserva la fede, senza di essa la fede vacilla! Chiediamo al Signore una fede che si fa preghiera incessante, perseverante, come quella della vedova della parabola, una fede che si nutre del desiderio della sua venuta. E nella preghiera sperimentiamo la compassione di Dio, che come un Padre viene incontro ai suoi figli pieno di amore misericordioso.
[Papa Francesco, Udienza Generale 25 maggio 2016]
Dedicazione della Basilica Lateranense [9 Novembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Lasciamoci scuotere dallo zelo di Gesù per la sua Chiesa che ama resti integra e fedele
Prima Lettura dal libro di Ezechiele (47, 1… 12)
Prima di rileggere la visione di Ezechiele, è utile ricordare il piano del Tempio che lui conosceva, quello di Salomone. Diverso dalle nostre chiese, il Tempio era un’ampia spianata suddivisa in cortili: dei pagani, delle donne e degli uomini. Il Tempio vero e proprio aveva tre parti: all’aperto con l’altare degli olocausti, il Vestibolo, il Santo e il Santo dei Santi. Per Israele, il Tempio era il centro della vita religiosa: unico luogo di pellegrinaggio e sacrifici. La sua distruzione nel 587 a.C. rappresentò un crollo totale, non solo fisico ma anche spirituale. La domanda era: la fede sarebbe crollata con esso? Come sopravvivere dopo la distruzione? Ezechiele, deportato a Babilonia nel 597 a.C., si trovò sulle rive del fiume Kebar, a Tel Aviv. Nei venti anni dell’Esilio (dieci prima e dieci dopo la distruzione), dedicò tutte le sue energie a mantenere viva la speranza del popolo. Doveva agire su due fronti: sopravvivere e mantenere intatta la speranza del ritorno. Come sacerdote, parlava soprattutto in termini di culto e visioni, molte delle quali riguardano il Tempio. Sopravvivere significava comprendere che il Tempio non era il luogo della presenza di Dio, ma il suo segno. Dio non era tra le rovine, ma con il suo popolo sul Kebar. Come diceva Salomone: «I cieli stessi e i cieli dei cieli non possono contenerti! Quanto meno questa Casa che ho edificato!» (1 Re 8,27). Dio è sempre in mezzo al suo popolo e non abbandona Israele: prima, durante e dopo il Tempio, è sempre in mezzo al suo popolo. Anche nella sventura, la fede si approfondisce. La speranza del ritorno è salda perché Dio è fedele e le promesse rimangono valide. Ezechiele immagina il Tempio del futuro e descrive un’acqua abbondante che scorre dal Tempio verso oriente, portando vita ovunque: la Mer Morto non sarà più morta, come il Paradiso della Genesi (Gn 1). Questo messaggio dice ai contemporanei: il paradiso non è dietro, ma davanti; i sogni di abbondanza e armonia saranno realizzati. La ricostruzione del Tempio, alcune decadi dopo, fu forse frutto di questa ostinata speranza di Ezechiele. Forse in ricordo di Ezechiele e della speranza che incarnò, la capitale d’Israele oggi si chiama Tel Aviv, “collina della primavera”.
Salmo responsoriale 45/46
La liturgia della festa della Dedicazione propone solo una suddivisione del Salmo 45/46, ma è utile leggerlo interamente. Si presenta come un cantico di tre strofe separate da due ritornelli (vv 8 e 12): “Il Signore degli eserciti è con noi; nostro baluardo è il Dio di Giacobbe”. Dio, re del mondo. Prima strofa: dominio di Dio sugli elementi cosmici (terra, mare, montagne. Seconda strofa: Gerusalemme, “la città di Dio, la più santa dimora dell’Altissimo”(v.5). Terza strofa: dominio di Dio sulle nazioni e su tutta la terra: «Io domino le nazioni, domino la terra». Il ritornello ha un tono di vittoria e guerra: l Signore dell’universo è con noi…. Il nome «Sabaoth» significa «Signore degli eserciti», un titolo guerriero che all’inizio della storia biblica indicava Dio a capo delle armate israelite. Oggi si interpreta come Dio dell’universo, riferendosi agli eserciti celesti. La seconda strofa e il Fiume. Sorprende l’evocazione di un Fiume a Gerusalemme, che in realtà non esiste. L’approvvigionamento idrico era garantito da sorgenti come il Gihon e Ain Roghel. Il Fiume non è reale, ma simbolico: anticipa la profezia di Ezechiele di un fiume miracoloso che irrigherà tutta la regione fino al Mar Morto. Analogie si trovano in Gioele e Zaccaria, dove acque vive scorrono da Gerusalemme e portano vita ovunque, mostrando Dio come re di tutta la terra.Tutte le iperboli del Salmo anticipano il Giorno di Dio, la vittoria definitiva su tutte le forze del male. La tonalità guerriera nei ritornelli e nell’ultima strofa ( “Eccelso tra le genti, eccelso sulla terra”) significa che Dio combatte contro la guerra stessa. Il Regno di Dio sarà stabilito su tutta la terra, su tutti i popoli, e tutte le guerre finiranno. Gerusalemme, «Città della Pace», simboleggia questo sogno di armonia e prosperità. Per alcuni commentatori, il Fiume rappresenta anche la folla che attraversa Gerusalemme durante le grandi processioni.
Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (3, 9… 17)
Il desiderio più profondo dell’Antico Testamento era che Dio fosse per sempre presente tra il suo popolo, instaurando un regno di pace e giustizia. Ezechiele lo esprime con il nome profetico di Gerusalemme: “Il Signore è là”. Tuttavia, il compimento di questa promessa supera ogni attesa: Dio stesso si fa uomo in Gesù di Nazaret, “il Verbo che si è fatto carne e ha posto la sua dimora tra noi”. San Paolo, rileggendo l’Antico Testamento, riconosce che tutta la storia della salvezza converge verso Cristo, centro eterno del progetto di Dio. Quando i tempi sono compiuti, Dio manifesta la sua presenza non più in un luogo (il Tempio di Gerusalemme), ma in una persona: Gesù Cristo, e in coloro che, mediante il Battesimo, sono uniti a lui. I Vangeli mostrano in vari modi questo mistero della nuova presenza di Dio: la Presentazione al Tempio, lo squarcio del velo al momento della morte di Gesù, l’acqua che sgorga dal suo costato (nuovo Tempio da cui fluisce la vita), e la purificazione del Tempio. Tutti questi segni indicano che in Cristo Dio abita definitivamente in mezzo agli uomini. Dopo la risurrezione, la presenza di Dio continua nel suo popolo: lo Spirito Santo abita nei credenti. Paolo lo afferma con forza: «Siete il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi». Questa realtà ha una doppia dimensione: Ecclesiale: la comunità dei credenti è il nuovo tempio di Dio, edificato su Cristo, pietra angolare. Tutto deve essere fatto per l’edificazione comune e per essere segno vivo della presenza di Dio nel mondo. Personale: ogni battezzato è “tempio dello Spirito Santo”. Il corpo umano è luogo santo in cui Dio abita, e per questo va rispettato e custodito. Il nuovo Tempio non è un edificio materiale, ma una realtà viva, in continua crescita, “un tempio che si dilata senza fine”, come diceva il cardinale Daniélou: l’umanità trasformata dallo Spirito. Infine, Paolo ammonisce: “Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui”. La dignità del credente come dimora di Dio è sacra e inviolabile. La promessa di Cristo a Pietro ne è la garanzia: «Le potenze del male non prevarranno contro la mia Chiesa». In sintesi: Dio, che nell’Antico Testamento abitava in un tempio di pietra, nel Nuovo abita in Cristo e, attraverso lo Spirito, nel cuore e nella comunità dei credenti. La Chiesa e ogni cristiano sono oggi il segno vivente della presenza di Dio in mezzo al mondo.
Dal Vangelo secondo Giovanni (2, 13-22)
Il commercio sulla spianata del Tempio. Nel Vangelo di Giovanni (cap. 2), Gesù compie uno dei suoi gesti più forti e simbolici: scaccia i mercanti dal Tempio di Gerusalemme. L’episodio avviene all’inizio della sua missione pubblica e rivela il senso profondo della sua presenza nel mondo: Gesù è il nuovo Tempio di Dio. Ai tempi di Gesù, la presenza di venditori di animali e di cambiavalute attorno al Tempio era una pratica normale e necessaria: i pellegrini dovevano acquistare animali per i sacrifici e cambiare il denaro romano, che portava l’effigie dell’imperatore, con monete giudaiche. Il problema non era quindi l’attività in sé, ma il fatto che i mercanti avevano invaso la spianata del Tempio, trasformando la prima corte – destinata alla preghiera e alla lettura della Parola – in un luogo di commercio. Gesù reagisce con forza profetica: “Non fate della casa del Padre un mercato” Denuncia così la trasformazione del culto in interesse economico e riafferma che non si possono servire due padroni, Dio e il denaro. Le sue parole richiamano quelle dei profeti: Geremia aveva denunciato il Tempio come “spelonca di ladri” (Ger 7,11), e Zaccaria aveva annunciato che, nel giorno del Signore, “non vi sarà più mercante nella casa del Signore” (Zc 14,21). Gesù si inserisce in questa linea profetica e porta a compimento le loro parole. Di fronte al gesto di Gesù, si manifestano due atteggiamenti: I discepoli, che lo conoscono e hanno già visto i suoi segni (come a Cana), comprendono il senso profetico del gesto e ricordano il Salmo 68(69): “Lo zelo per la tua casa mi divora”. Giovanni modifica il tempo del verbo (“mi divorerà”) per annunciare la futura passione di Gesù, segno del suo amore totale per Dio e per l’uomo. Gli oppositori (“i Giudei” in Giovanni) reagiscono con diffidenza e ironia: chiedono a Gesù di giustificare la sua autorità e non accettano di essere ammoniti da lui. Alla loro richiesta di un segno, Gesù risponde con parole misteriose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Essi pensano al Tempio di pietra, restaurato da Erode in quarantasei anni, simbolo della presenza di Dio tra il popolo. Ma Gesù parla di un altro tempio: il suo corpo. Solo dopo la risurrezione i discepoli comprendono il senso delle sue parole: il vero Tempio, segno della presenza di Dio, non è più un edificio, ma la persona stessa di Gesù risorto, “la pietra scartata dai costruttori, divenuta pietra angolare”. Questo episodio, posto da Giovanni all’inizio del suo Vangelo, annuncia già tutto il mistero cristiano: Gesù è il nuovo luogo dell’incontro con Dio, il Tempio vivente dove l’uomo trova la salvezza. Il culto antico è superato: non si tratta più di offrire sacrifici materiali, ma di accogliere e seguire Cristo, che offre se stesso per l’umanità. La fede divide: alcuni (i discepoli) accolgono questa novità e diventano figli di Dio; altri (gli oppositori) la rifiutano e si chiudono alla rivelazione. Gesù, cacciando i mercanti dal Tempio, rivela che la vera casa di Dio non è fatta di pietre ma di persone unite a Lui. Il suo corpo risorto è il nuovo Tempio, segno definitivo della presenza di Dio tra gli uomini. L’episodio diventa così una profezia della Pasqua e un invito alla purificazione del cuore, perché la dimora di Dio non si trasformi mai in un luogo di interesse, ma resti spazio di fede, comunione e amore.
+ Giovanni D’Ercole
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Ecclesial life is made up of exclusive inclinations, and of tasks that may seem exceptional - or less relevant. What matters is not to be embittered by the titles of others, therefore not to play to the downside, nor to fear the more of the Love that risks (for afraid of making mistakes)
La vita ecclesiale è fatta di inclinazioni esclusive, e di incarichi che possono sembrare eccezionali - o meno rilevanti. Ciò che conta è non amareggiarsi dei titoli altrui, quindi non giocare al ribasso, né temere il di più dell’Amore che rischia (per paura di sbagliare).
Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
The story of the healed blind man wants to help us look up, first planted on the ground due to a life of habit. Prodigy of the priesthood of Jesus
La vicenda del cieco risanato vuole aiutarci a sollevare lo sguardo, prima piantato a terra a causa di una vita abitudinaria. Prodigio del sacerdozio di Gesù.
Firstly, not to let oneself be fooled by false prophets nor to be paralyzed by fear. Secondly, to live this time of expectation as a time of witness and perseverance (Pope Francis)
Primo: non lasciarsi ingannare dai falsi messia e non lasciarsi paralizzare dalla paura. Secondo: vivere il tempo dell’attesa come tempo della testimonianza e della perseveranza (Papa Francesco)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manilla]
don Giuseppe Nespeca
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