don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mercoledì, 04 Giugno 2025 10:00

Pentecoste

Domenica di Pentecoste (anno C)  [8 giugno 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Nella festa della Pentecoste come Maria e gli apostoli disponiamo il cuore ad accogliere il dono dello Spirito Santo che ci trasformi in fuoco e luce di amore.  Oggi la prima lettura e il salmo responsoriale sono comuni agli anni A, B, C, mentre la seconda lettura e il vangelo sono diversi ogni anno.

 

*Prima lettura dal Libro degli Atti degli Apostoli (2, 1-11)

Gerusalemme non è solo la città dove Gesù ha istituito l’eucaristia, è morto ed è risorto, ma è anche la città dove lo Spirito è stato effuso sull’umanità. Era l’anno della morte di Gesù, ma le persone presenti in città probabilmente non avevano mai sentito parlare della sua morte e ancor meno della sua risurrezione per cui  la festa di Pentecoste per loro era come tutte le altre. La Pentecoste ebraica era molto importante perché festa del dono della Legge, una delle tre feste dell’anno per le quali si saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme e l’elenco di tutte le nazionalità presenti in quell’occasione ne prova il grande interesse. Per i discepoli di Gesù, che lo avevano visto, udito e toccato dopo la sua risurrezione, nulla era più come prima, anche se non si aspettavano ciò che stava per accadere. Luca ci aiuta a comprendere ciò che succede, scegliendo le parole con cura, ed evocando almeno questi tre testi dell’Antico Testamento: Il dono della Legge al Sinai, una profezia di Gioele, l’episodio della torre di Babele. Anzitutto Il Sinai. Le lingue di fuoco, il fragore simile a un vento impetuoso richiamano quanto avvenne al Sinai, quando Dio diede le tavole della Legge a Mosè, Esodo19,16-19.  Inserendosi in questa linea, Luca aiuta a capire che quella Pentecoste non fu il semplice pellegrinaggio tradizionale, ma un nuovo Sinai, sul quale Dio donò la sua Legge per insegnare al popolo a vivere nell’Alleanza. In questa Pentecoste Egli donò il suo stesso Spirito e d’allora in poi, la sua Legge, l’unico vero cammino verso la libertà e la felicità, non si trova più scritta su tavole di pietra, ma nel cuore dell’uomo, come aveva profetizzato Ezechiele (Ez.11,19-20; 36,26-27). Il profeta Gioele: Luca ha certamente voluto evocare anche una parola di Gioele: “Effonderò il mio spirito su ogni essere umano, dice Dio” (Gl 3,1), cioè su tutta l’umanità. Per Luca, quei Giudei devoti provenienti da tutte le nazioni sotto il cielo, come li chiama, sono simbolo dell’intera umanità, per la quale si compie finalmente la profezia di Gioele e questo significa che è giunto il “Giorno del Signore” tanto atteso. La torre di Babele, evento che possiamo riassumere in due atti: Atto 1: Gli uomini, che parlano la stessa lingua e le stesse parole, decidono di costruire una torre immensa tra la terra e il cielo. Atto 2: Dio li blocca e li disperde sulla terra confondendo le loro lingue e da quel momento non si comprendono più. Qual è in significato di questo racconto? Dio certamente non vuole mortificare le potenzialità dell’uomo e se quindi interviene, lo fa per risparmiare all’umanità la falsa strada del pensiero unico e di un progetto umano che esclude Dio. È come se dicesse: state cercando l’unità, che è cosa buona, con una strada sbagliata perché  l’unità nell’amore non avviene con l’omologazione, ma nella diversità. E questo è il messaggio della Pentecoste: a Babele, l’umanità impara la diversità, a Pentecoste, apprende l’unità nella diversità “convivialità” (come scrive don Tonino Bello) perché tutte le nazioni ascoltano proclamare, ciascuna nella propria lingua, l’unico messaggio: “Magnalia Dei, le grandi opere di Dio” (At 2,11).

 

*Salmo responsoriale (103 (104), 1.24, 29-30, 31.34)

Questo salmo conta 36 versetti di lode e meraviglia davanti alle opere di Dio, un poema stupendo. Viene proposto per la festa di Pentecoste perché Luca, nel libro degli Atti degli Apostoli, racconta che la mattina di Pentecoste, gli apostoli, ripieni di Spirito Santo, si sono messi a proclamare in tutte le lingue le “grandi opere di Dio” della creazione. In tutte le civiltà ci sono poemi sulla bellezza della natura. In particolare, è stato ritrovato in Egitto, sulla tomba di un faraone, un poema scritto dal celebre faraone Akhenaton (Amenofi IV), un inno al Dio-Sole. Amenofi IV visse intorno al 1350 a.C., in un’epoca in cui gli Ebrei probabilmente si trovavano in Egitto e forse hanno conosciuto questo poema. Tra il poema del faraone e il salmo 103/104 ci sono somiglianze di stile e di vocabolario, ma ciò che interessa è cogliere le differenze segnate dalla rivelazione di Dio al popolo dell’Alleanza. Prima differenza: Dio solo è Dio, differenza essenziale per la fede di Israele: Dio è l’unico Dio, non ce ne sono altri e il sole non è un dio. Il racconto della creazione nel libro della Genesi rimette sole e luna al loro posto: non sono dèi, ma luminari anch’essi semplici creature. Diversi versetti mostrano Dio come unico Signore della creazione usando un linguaggio regale: Dio si presenta come un re magnifico, maestoso e vittorioso. Seconda particolarità: La creazione è tutta buona e qui  c’è un’eco della Genesi che ripete instancabilmente: “E Dio vide che era cosa buona”. Questo salmo evoca tutti gli elementi della creazione con lo stesso stupore: “Io gioisco nel Signore” e il salmista aggiunge (in un versetto non letto questa domenica): “Voglio cantare al Signore finché vivo, suonare per il mio Dio finché esisto” Tuttavia, il male non è ignorato: la fine del salmo lo menziona e ne invoca la scomparsa dato che già nell’Antico Testamento si era compreso che il male non viene da Dio, perché tutta la creazione è buona e un giorno Dio farà sparire ogni male dalla terra: il Re vittorioso eliminerà tutto ciò che ostacola la felicità dell’uomo. Terza particolarità: La creazione è continua non essendo un atto del passato, come se Dio avesse lanciato la terra e l’uomo nello spazio una volta per tutte, ma una relazione perenne tra il Creatore e le sue creature. Quando diciamo nel Credo: “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra”non affermiamo solo la fede in un atto iniziale, ma riconosciamo di essere in una relazione necessaria con lui lui e questo salmo lo ribadisce parlando della costante azione di Dio:”Tutti da te aspettano…Nascondi il tuo volto: sono smarriti…Ritiri il loro respiro: muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito: sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Altra particolarità: L’uomo è culmine della creazione. Per la fede ebraica al vertice della creazione c’è l’uomo, il re del creato e per questo riempito del soffio di Dio. Ed è proprio ciò che celebriamo a Pentecoste: lo Spirito di Dio che è in noi vibra e entra in risonanza con l’uomo e con tutto il creato e il salmista canta: “Dio gioisca delle sue opere! Io gioisco nel Signore”. In conclusione la creazione ha senso nella luce dell’Alleanza: In Israele ogni riflessione sulla creazione si colloca nella prospettiva dell’Alleanza avendo Israele sperimentato dapprima la liberazione da parte di Dio, e solo dopo ha meditato sulla creazione alla luce di questa fondamentale esperienza. Nel salmo ci sono tracce visibili di ciò: Anzitutto, il nome di Dio usato è sempre il celebre tetragramma YHWH, che traduciamo con Signore, il nome del Dio dell’Alleanza, rivelato a Mosè. Inoltre nell’espressione: “Signore, mio Dio, quanto sei grande” il possessivo è un richiamo all’Alleanza, poiché il progetto di Dio nell’Alleanza era proprio detto così: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio”. Questa promessa si compie nel dono dello Spirito a ogni carne, come proclama il profeta Gioele e ogni uomo è invitato a ricevere il dono dello Spirito per diventare vero figlio di Dio.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8, 8 –17)

 La difficoltà principale di questo testo è nella parola “carne” che nel vocabolario di san Paolo non ha lo stesso significato rispetto al nostro vocabolario in cui spesso si contrappongono i due componenti dell’essere umano corpo e anima rischiando di male interpretare quel che Paolo intende dire quando parla di carne e di Spirito. Quel che lui chiama “carne” non è ciò che noi chiamiamo corpo e quel che chiama “Spirito” non corrisponde a ciò che chiamiamo anima; anzi egli precisa più volte che si tratta dello Spirito di Dio,“lo Spirito di Cristo”. Non contrappone due parole, “carne” e “Spirito”, ma due espressioni: “vivere secondo la carne” e “vivere secondo lo Spirito” cioè scegliere tra due modi di vivere, o meglio decidere chi seguire e quale linea di condotta adottare. Torna il tema delle due vie che ogni giudeo come san Paolo ben conosce: scegliere tra due strade, tra due atteggiamenti possibili davanti alle difficoltà o alle prove: la fiducia in Dio, oppure la diffidenza; la sicurezza di non sentirsi mai abbandonati da Dio oppure il dubbio e il sospetto che Dio non cerchi veramente il nostro bene; la fedeltà ai suoi comandamenti perché ci fidiamo di lui, oppure la disobbedienza perché ci riteniamo capaci di autonome decisioni. La storia d’Israele nella Bibbia (si pensi a Massa e Meriba nel libro dell’esodo) presenta numerosi esempi di sfiducia davanti alle prove della vita e nel deserto specialmente di fronte alle tante prove tra cui la fame e la sete. Quando il popolo sospettò che Dio lo abbandonasse fece un vero processo d’intenzione a Dio e a Mosè. Anche Adamo, difronte al limite posto ai suoi desideri, sospettò e disobbedì al Signore. La tentazione di Adamo ed Eva nell’Eden si ripropone nella nostra vita ogni giorno: è il costante problema della fiducia e della sfiducia, il cosiddetto peccato “originale” nel senso che è alla base di tutti i disastri umani. Opposto al sospetto e alla ribellione contro Dio sta l’atteggiamento di Cristo pieno di fiducia e sottomissione perché sa che la volontà di Dio è solo bene. Soprattutto di fronte alle sfide del dolore in tutte le sue forme e alla morte sono due agli tteggiamenti opposti che Paolo chiama “vivere secondo la carne” o “vivere secondo lo Spirito”. Vivere secondo la carne significa per lui comportarsi come schiavi che non si fidano e obbediscono per obbligo o per paura delle punizioni. “Vivere secondo lo Spirito” è invece “comportarsi da figli”, tessere cioè relazioni di fiducia e di tenerezza che, seguendo l’esempio di Cristo, portano alla vita. Vivere sotto l’influsso della carne (cioè nell’atteggiamento di sfiducia e disobbedienza verso Dio) conduce alla morte, mentre vivere mediante lo Spirito è far morire le opere del peccato. In altre parole: l’atteggiamento da schiavo, è distruttivo mentre l’atteggiamento da figlio è via di pace e felicità. Lo Spirito di Dio, che con il battesimo abita in noi, ci fa chiamare Dio “Abbà-Padre”, e il giorno in cui tutta l’umanità riconoscerà Dio come Padre, il progetto divino sarà compiuto, e tutti insieme entreremo nella sua gloria. Pochi versetti più avanti, Paolo annoterà che la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Il testo odierno ci ricorda infine che poiché siamo figli di Dio, siamo anche eredi di Dio, coeredi con Cristo, a condizione di soffrire con lui per essere con lui anche nella gloria. Un testo che può essere letto in due modi: lo schiavo immagina un Dio che mette delle condizioni all’eredità; invece il figlio considera Dio come Padre anche e soprattutto nella sofferenza. Il soffrire è inevitabile come lo fu anche per Cristo, ma vissuto con lui e come lui, diventa via di risurrezione ed allora “a condizione di soffrire con lui” vuol dire: a condizione di essere con lui, di rimanere uniti a lui in ogni momento, anche nella sofferenza inevitabile.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 15-16. 23b-26)

 Questo passo evangelico molto noto assume oggi una nuova luce grazie agli altri testi biblici proposti per la festa di Pentecoste. Ad esempio, si è tentati di pensare allo Spirito Santo in termini di ispirazione, di idee, di discernimento, di intelligenza, ma per la festa del dono dello Spirito, il vangelo oggi parla soltanto di amore. Gesù dice qui che lo Spirito di Dio è tutt’altra cosa: è Amore, l’Amore personificato. Questo significa che, la mattina di Pentecoste, a Gerusalemme, quando i discepoli furono ricolmi  di Spirito Santo, fu l’amore stesso che è Dio a riempirli. E allo stesso modo, anche noi, battezzati e cresimati, sappiamo che la nostra capacità di amare è abitata dall’amore stesso di Dio. Lo ricorda il salmo responsoriale 103/104 quando proclama: Tu mandi il tuo Spirito, e noi, creati a immagine di Dio, siamo chiamati a somigliargli sempre di più, costantemente modellati da Lui a sua immagine. Lo Spirito è il vasaio che lavora la sua creta e ogni vaso diventa sempre più raffinato nelle mani dell’artigiano. Noi siamo la creta nelle mani di Dio per cui la nostra somiglianza con Lui si affina sempre più nella misura in cui ci lasciamo trasformare dallo Spirito d’Amore. Nella seconda lettura san Paolo parla del nostro rapporto con Dio riassunto in una frase: non siamo più schiavi, ma siamo figli di Dio, mentre nel vangelo Gesù collega il nostro rapporto con Dio al nostro rapporto con i fratelli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv14, 15) e sappiamo bene qual è il suo comandamento: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv 13,34).  Se Gesù si riferisce al gesto della lavanda dei piedi, cioè a un atteggiamento deciso di servizio, possiamo tradurre “se mi amate, osserverete i miei comandamenti” con “se mi amate, vi metterete a servizio gli uni degli altri”. L’amore di Dio e l’amore dei fratelli sono inseparabili, così inseparabili che è dalla qualità del nostro servizio verso il prossimo che va giudicata la qualità del nostro amore per Dio e quindi “se non vi mettete al servizio dei vostri fratelli, non pretendete di dire che mi amate!”  Poco più avanti, Gesù riprende un’espressione simile e la sviluppa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv14,23). Non significa che il Padre del cielo non ci ama se non ci mettiamo al servizio dei fratelli perché in lui non ci sono condizioni e ricatti. Al contrario, la caratteristica della misericordia è proprio chinarsi ancora più verso i miseri come miseri siamo tutti, almeno in quanto a amore e servizio degli altri. L’amore si impara esercitandolo, ma ciò che qui il Signore ci dice è qualcosa che ben conosciamo: la capacità di amare è un’arte, e ogni arte si impara esercitandola. L’amore del Padre è smisurato, infinito ma la nostra capacità di accoglierlo è limitata e cresce man mano che lo esercitiamo. Possiamo allora tradurre così: “Se qualcuno mi ama, si metterà al servizio degli altri e a poco a poco, il suo cuore si allargherà; l’amore di Dio lo invaderà sempre di più, e potrà servire ancora meglio gli altri…e così via fino all’infinito” cioè in un progresso senza limiti. Concludiamo tornando al termine “Paraclito” che può tradursi in consolatore e difensore. Sì, abbiamo bisogno di un difensore, ma non davanti a Dio e san Paolo lo chiarisce bene nella seconda lettura: Lo Spirito che avete ricevuto non vi rende schiavi, gente che ha ancora paura, è invece Spirito che vi rende figli (cf  Rm 8,15).  Non abbiamo quindi più paura di Dio e non abbiamo bisogno di un avvocato davanti a Lui. Ma allora perché Gesù  dice che pregherà il Padre, ed egli ci darà un altro difensore, perché rimanga con noi per sempre? Sì, abbiamo bisogno di un difensore,  che ci difenda da noi stessi, dalle nostre remore a servire gli altri, dalla scarsa fiducia nella potenza di Dio, difenda in noi costantemente la causa degli altri contro il nostro egoismo perché, così agendo, in realtà difende noi stessi dato che la vera felicità consiste nel lasciarci modellare ogni giorno da Dio a sua immagine vincendo ogni resistenza egoistica.

+Giovanni D’Ercole

Domenica, 01 Giugno 2025 20:15

Pentecoste veglia

Sacerdotale, diversa resilienza

(Gv 17,20-26)

 

Per tutelare i suoi da timori di rappresaglie, Gesù si preoccupa di far comprendere a quale livello di realizzazione e considerazione guidasse i discepoli.

L'Unità prioritaria cui tiene è quella che s’introduce trasmettendo la reciprocità divina tra Padre e Figlio.

Essa affiora proprio mentre lasciamo agire in noi il fermento che ci costituisce sorelle e fratelli, suo Corpo.

Se la Chiesa contempla e mostra la Gloria del Cristo, è perché ha saputo collocarsi nel punto che gli spetta, sino a dare vita e sostanze: ‘giudicando’ pure la realtà, ma dal criterio della Croce (cf. v.24).

Così, l’esperienza dell’Unità in Dio - segno più inconfutabile della sua Presenza - fu davvero profonda nelle comunità giovannee.

Senza preclusioni, nelle assemblee dell’Asia Minore si svelava il fascino di quei versanti dell’Unicità che dal mondo consuetudinario venivano valutati al pari di squilibri e difetti.

Le prime comunità erano un ambiente che aiutava a valorizzare i lati nascosti: opportunità di arricchimento e vocazioni personali.

In tal guisa, al termine della Preghiera sacerdotale, in Gesù emerge una preoccupazione saliente: quella ‘eucaristica’ per eccellenza.

L’attesa ebraica del Messia diventa attesa dell’Unità [non psicologica e banale, bensì Dono dall’alto].

Sul tema della Gloria, gli apostoli non devono fare confusione.

Veicolo della Gloria è l’amore e l’ineludibile fare festa insieme - proprio come nella Eucaristia: lo stesso Oro divino che torna ad affiorare ed essere offerto ancora.

In forma orante, il Signore fa memoriale di tutti coloro che nel corso della storia crederanno in Lui, attraverso la parola e la testimonianza dei discepoli, i quali si faranno centro d’attrazione e unione.

A differenza delle religioni antiche, Egli vuole che la vita di Fede si caratterizzi non per una “verità” che si ha, ma per la “verità” che si fa. E non imponga una tabula rasa delle eccentricità sognanti.

Non testimoniamo l’Immenso sulla terra nelle capacità d’intendere e volere coerenti secondo procedura.

Per formulare definizioni basta mettere in campo energie intellettuali. 

Per difendere, promuovere e rallegrare la vita, bisogna essere animati dallo stesso Spirito di Dio, nella sua opera d’Unità primaria.

L’amore terreno che la riflette non è più capacità, bensì possibilità.

Nel suo peso specifico il Nucleo divino non ha nulla d’immediatamente appagante e trionfale; viceversa, molto di servizievole e liberante.

L’amicizia insomma che svela ciò ch’è celeste e primale [non passeggero e causale] non sta nel sapere, concatenare, riprodurre; nell’affermare, o rinunciare; neanche nel farcela… a parare i colpi e avanzare.

Non basta neppure una forma di Giustizia che dia a ciascuno il suo. Essa recupera gli opposti.

Padre «giusto» (v.25) si riferisce alla distinzione tra mondo e le piccole assemblee di adesione scambievole dei primi tempi, unici luoghi in cui si poteva percepire vita.

Solo nella reciprocità riflesso dell’Uno sorgivo si viveva intensamente la Gloria divina, dei primordi.

Ed anche per i futuri pellegrini in Lui, Cristo chiede a Dio la Comunione - convivialità delle differenze: non nella forma unilaterale, ma da cui prendere senso.

Ecco la ‘preghiera sacerdotale’ di Gesù - che genuinamente travalica i secoli; contemporanea senza ruga alcuna.

 

 

[Giovedì 7.a sett. di Pasqua, 5 giugno 2025]

Sacerdotale, diversa resilienza

(Gv 17,20-26)

 

Gv cerca di chiarire la nostra aspirazione universale, e penetrare il modo in cui il Signore si fa presente nei discepoli dopo la Pasqua, affinché il mondo di lassù si avvicini e inondi, irrompa nel nostro.

Il Cielo ha influsso, esorta e trasforma radicalmente l’esistenza pratica. 

Sulla terra possiamo avere un’esperienza diretta e tutta reale di Dio, nella vetta del discepolato e della sequela, anche non immediati.

Al termine della Preghiera sacerdotale, in Gesù emerge una preoccupazione saliente: quella ‘eucaristica’ per eccellenza.

L’attesa ebraica del Messia diventa attesa dell’Unità [non psicologica e banale, bensì Dono dall’alto].

Sul tema della Gloria, gli apostoli non devono fare confusione.

Veicolo della Gloria è l’amore e l’ineludibile fare festa insieme - proprio come nella Eucaristia: lo stesso Oro divino che torna ad affiorare ed essere offerto ancora.

In forma orante, il Signore fa memoriale di tutti coloro che nel corso della storia crederanno in Lui, attraverso la parola e la testimonianza dei discepoli, i quali si faranno centro d’attrazione e unione.

A differenza delle religioni antiche, Egli vuole che la vita di Fede si caratterizzi non per una “verità” che si ha, ma per la “verità” che si fa.

Il peso della manifestazione divina non dev’esser più rintracciato in formule e dogmi corretti: le dispute inaspriscono.

La dimostrazione di Dio di fronte all’umanità non può stare in un codice esterno che renda tutti dipendenti, facendo tabula rasa delle eccentricità sognanti.

Non testimoniamo l’Immenso sulla terra nelle capacità d’intendere e volere coerenti secondo procedura.

Per formulare definizioni basta mettere in campo energie intellettuali. 

Per difendere, promuovere e rallegrare la vita, bisogna essere animati dallo stesso Spirito di Dio, nella sua opera d’Unità primaria.

L’amore terreno che la riflette non è più capacità, bensì possibilità.

In tal guisa, il Nucleo divino nel suo peso specifico non ha nulla d’immediatamente appagante e trionfale; viceversa, molto di servizievole e liberante.

Se la Chiesa contempla e mostra la Gloria del Cristo, è perché ha saputo collocarsi nel punto che gli spetta, sino a dare vita e sostanze: ‘giudicando’ pure la realtà, ma dal criterio della Croce (cf. v.24).

L’amicizia insomma che svela ciò ch’è celeste e primale [non passeggero e causale] non sta nel sapere, concatenare, riprodurre; nell’affermare, o rinunciare; neanche nel farcela… a parare i colpi e avanzare.

Non basta neppure una forma di “giustizia” che dia a ciascuno il suo - perché di divisione in divisione essa infrangerebbe la concordia: summum jus summa iniuria; jus summum saepe summa est malitia.

Ciò sgretolerebbe ogni salda intesa poliedrica - e se portata sino in fondo, condurrebbe alle peggiori ingiustizie.

Anche per i futuri pellegrini in Lui, Cristo chiede a Dio la Comunione - convivialità delle differenze: non nella forma unilaterale, ma da cui prendere senso.

L'Unità prioritaria cui tiene, è quella che s’introduce trasmettendo la reciprocità divina tra Padre e Figlio.

Essa affiora proprio mentre lasciamo agire in noi il fermento che ci costituisce fratelli, suo Corpo.

 

Affinché il mondo creda che Gesù è l’Inviato, gli amici devono essere nel Figlio e nel Padre - come il Figlio è nel Padre e il Padre nel Figlio. 

Da tale relazione, cementata d’intima immanenza, tutte le nostre unioni prendono il loro vero senso; peso, trasparenza, passaggio, e sviluppo.

Fraternità che realizzano Redenzione nella storia, grazie a una sinergia tollerante.

Ogni persona può essere nell’altra, solo nella condivisione d’amore “artigianale”.

Questa è la manifestazione [gloria] del divino: una mutua inabitazione, che faccia Corpo Unico - altrimenti non si è credibili. Come non sarebbe credibile l’incarnazione di Dio nel Cristo.

La fede è trasmissione della gloria autentica: Fede e Gloria commisurano tale concatenazione di partecipazioni.

E Padre «giusto» (v.25) si riferisce alla distinzione tra mondo e le piccole assemblee di adesione scambievole dei primi tempi, unici luoghi in cui si poteva percepire vita.

Solo nella reciprocità riflesso dell’Uno sorgivo si viveva intensamente.

 

L’esperienza dell’Unità in Dio - segno più inconfutabile della sua Presenza - fu davvero profonda nelle comunità giovannee.

Quelle assemblee autentiche erano un ambiente che aiutava a valorizzare i lati nascosti.

In tali chiese senza preclusioni si svelava il fascino di quei versanti dell’Unicità che dal mondo consuetudinario venivano valutati al pari di squilibri e difetti, invece che opportunità di arricchimento particolare: umano, culturale, spirituale - e Chiamate personali.

La nota che rende riconoscibile l’assemblea dei figli è appunto il divenire Uno nella Sorgente dell’essere - non il permanere uniformi.

Gloria dei primordi.

Una Gloria diversa, che recupera gli opposti e non persegue doppiezze (magari utilizzando il nome di Dio a paravento e voltagabbana).

Per tutelare i suoi da timori di rappresaglie organizzate e persino sacrali [cartina al tornasole della bontà di valori e scelte] Gesù si preoccupa di far comprendere a quale livello di realizzazione e considerazione guidasse i discepoli.

 

La Trinità è unica Fonte zampillante; motivo, energia, e motore - vero punto di forza, che dà stimolo, forma, colore, alle situazioni più svariate e persino al rifiuto.

È da mettere in conto che sorgano antipatie, tentativi d’irrisione e peggio, verso chi estende l’orizzonte.

Superficiali e vanitosi installati non meritano credibilità alcuna. Ma non ci stanno a farsi smascherare. E certo non rinunciano a posizioni contraffatte, sulle quali viceversa insistono volentieri.

Vale anche per gli steccati costruiti ad arte in secoli di lotte, addirittura fra denominazioni cristiane.

Comparandone la storia di assurdi conflitti, questo Vangelo sembra dire: nessuna di loro ha davvero fatto esperienza del Padre.

Nessuna di loro ha visto e capito il volto dell’altra, se non per l’allestimento d’una identità do norma artificiosa, costruita sulla più banale contrapposizione.

Come ha suggerito Papa Francesco, tutto ciò a copertura d’interessi venali e fatue superbie; null’altro.

D’altro canto, gli uomini di oggi come di allora - vedendo una Chiesa non conflittuale, serva e povera - contemplerebbero il Crocifisso.

Avrebbero esperienza della Gloria divina.

 

Ecco la preghiera sacerdotale di Gesù - che genuinamente travalica i secoli; contemporanea senza ruga alcuna.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa pensi del dialogo ecumenico e interreligioso? Ti arricchisce o demoralizza?

Ritieni che sia la Chiesa opaca e trionfante a farci contemplare il Crocifisso, o quella trasparente e povera?

Mercoledì, 28 Maggio 2025 13:27

L’Unità non si fa con la colla

L’unità nella Chiesa è stata al centro della riflessione di Papa Francesco nella messa celebrata a Santa Marta giovedì 21 maggio. Rileggendo il brano del vangelo di Giovanni (17, 20-26) proposto dalla liturgia del giorno, il Pontefice ha innanzitutto sottolineato come «consola tutti sentire questa parola: “Padre, non prego solo per questi ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola”». È quanto detto da Gesù nell’atto di congedarsi dagli apostoli. In quel momento Gesù prega il Padre per i discepoli e «prega anche per noi».

Francesco ha fatto notare che «Gesù ha pregato per noi, in quel momento, e continua a farlo». Si legge infatti nel Vangelo: «Padre, prego per questi ma per tanti altri che verranno». Un dettaglio non irrilevante verso il quale, forse, non si è abbastanza attenti. Eppure, ha ribadito il Papa, «Gesù ha pregato per me» e questo «è proprio fonte di fiducia». Potremmo immaginare «Gesù davanti al Padre, in cielo», che prega per noi. E «cosa vede il Padre? Le piaghe», ovvero il prezzo che Gesù «ha pagato per noi».

Con questa immagine il Pontefice è entrato nel cuore della sua riflessione. Infatti, si è domandato, «cosa chiede al Padre Gesù in questa preghiera?». Dice forse: «Prego per loro perché la vita sia buona, perché abbiano i soldi, perché siano tutti felici, perché non manchi niente a loro?...». No, Gesù «prega perché tutti siano una sola cosa: “Come tu sei in me e io in te”». In quel momento egli prega «per l’unità nostra. Per l’unità del suo popolo, per l’unità della sua Chiesa».

Gesù, ha spiegato Francesco, sa bene che «lo spirito del mondo, che è proprio lo spirito del padre della divisione, è uno spirito di divisione, di guerra, di invidie, di gelosie», e che questo è presente «anche nelle famiglie, anche nelle famiglie religiose, anche nelle diocesi, anche nella Chiesa tutta: è la grande tentazione». Perciò «la grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre: ovvero, «come tu Padre sei in me e io in te», nella «unità che lui ha con il Padre».

Qualcuno potrebbe allora chiedere: «Ma, padre, con questa preghiera di Gesù se noi vogliamo essere fedeli, noi non possiamo chiacchierare uno contro l’altro?». Oppure: «Non possiamo etichettare questo di..., questo è così, questo è ...?». E «quell’altro, che è stato bollato come rivoluzionario...?». La risposta del Papa è stata chiara: «No». Perché, ha aggiunto, «dobbiamo essere uno, una sola cosa, come Gesù e il Padre sono una sola cosa». Ed è proprio questa «la sfida di tutti noi cristiani: non lasciare posto alla divisione fra noi, non lasciare che lo spirito di divisione, il padre della menzogna entri in noi». Dobbiamo, ha insistito il Papa, «cercare sempre l’unità». Ognuno naturalmente «è come è», ma deve cercare di vivere nell’unità: «Gesù ti ha perdonato? Perdona tutti quanti».

Il Signore prega perché riusciamo in questo. Ha spiegato il Pontefice: «La Chiesa ha tanto bisogno, tanto, di questa preghiera di unità, non solo quella di Gesù; anche noi dobbiamo unirci a questa preghiera». Del resto, sin dagli inizi la Chiesa ha manifestato questa necessità: «Se cominciamo a leggere il libro degli Atti degli Apostoli dall’inizio — ha detto Francesco — vedremo che lì incominciano le liti, anche le truffe. Uno vuole truffare l’altro, pensate Anania e Saffira...». Già nel corso di quei primi anni si incontrano le divisioni, gli interessi personali, gli egoismi. Fare l’unità è stato ed è una vera e propria «lotta».

Bisogna tuttavia rendersi conto che «da soli non possiamo» raggiungere l’unità: questa infatti «è una grazia». Perciò, ha ribadito il Pontefice, «Gesù prega, ha pregato quel tempo, prega per la Chiesa, ha pregato per me, per la Chiesa, perché io vada su questa strada».

L’unità è talmente importante che, ha fatto notare il Papa, «nel brano che abbiamo letto» questa parola è ripetuta «quattro volte in sei versetti». Un’unità che «non si fa con la colla». Non esiste infatti «la Chiesa fatta con la colla»: la Chiesa è resa una dallo Spirito. Ecco allora che «dobbiamo fare spazio allo Spirito, perché ci trasformi come il Padre è nel Figlio, in una sola cosa».

Per raggiungere tale obiettivo, ha aggiunto Francesco, c’è un consiglio dato dallo stesso Gesù: «Rimanete in me». Anche questa è una grazia. Nella sua preghiera Gesù chiede: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato, anch’essi siano con me dove sono io» perché «contemplino la mia gloria».

Da questa meditazione è scaturito un consiglio: quello di rileggere i versetti 20-26 del capitolo 17 del Vangelo di Giovanni e pensare: «Gesù prega, prega per me, ha pregato e prega per me ancora. Prega con le sue piaghe, davanti al Padre». E lo fa «perché tutti noi siamo una sola cosa, come lui è con il Padre, per l’unità». Questo «ci deve spingere a non fare giudizi», a non fare «cose che vadano contro l’unità», e a seguire il consiglio di Gesù «di rimanere in lui in questa vita perché possiamo rimanere con lui nell’eternità».

Questi insegnamenti, ha concluso il Papa, si trovano nel discorso di Gesù durante l’ultima cena. Nella messa «noi riviviamo» quella cena e Gesù ci ripete quelle parole. Durante l’Eucaristia, perciò, «lasciamo posto perché le parole di Gesù entrino nel nostro cuore e tutti noi siamo capaci di essere testimoni di unità nella Chiesa e di gioia nella speranza della contemplazione della gloria di Gesù».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2015]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Per la festa dell’Ascensione, la prima lettura e il Salmo sono comuni agli anni A, B, C mentre cambiano la seconda lettura e il vangelo 

 

*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (1,1-11)

Questi primi versetti degli Atti degli Apostoli richiamano la conclusione del vangelo di Luca, anch’esso indirizzato a un certo Teofilo ed è interessante notare che l’uno inizi là dove l’altro finisce, cioè con il racconto dell’Ascensione di Gesù, anche se le due narrazioni non combaciano perfettamente come si nota leggendo i testi dell’Anno C. Il vangelo narra la missione e la predicazione di Gesù, gli Atti degli Apostoli si dedicano all’attività missionaria degli apostoli, da cui il titolo. Il vangelo di Luca inizia e termina a Gerusalemme, cuore del mondo ebraico e della Prima Alleanza; gli Atti partono da Gerusalemme, perché la Nuova Alleanza prosegue la Prima ma si concludono a Roma, crocevia di tutte le strade del mondo e la Nuova Alleanza travalica i confini di Israele. Per Luca è chiaro che questa espansione è frutto dello Spirito Santo, l’ispiratore degli apostoli dalla Pentecoste, tanto che gli Atti sono spesso chiamati “il vangelo dello Spirito”. Gesù, dopo il battesimo, si preparò alla sua missione con quaranta giorni di deserto, così egli prepara la Chiesa a questa nuova fase missionaria apparendo agli apostoli per quaranta giorni e “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio”. Infatti, “mentre si trovava a tavola con loro”, dunque durante ancora un’ultima cena, da agli apostoli alcune istruzioni che si riassumono in: un ordine, una promessa e un invio in missione.

L’ordine: non allontanarsi da Gerusalemme, ma attendere l’adempimento della promessa del Padre che deve compiersi a Gerusalemme dato che tutta la predicazione dei profeti, soprattutto d’Isaia, attribuisce a Gerusalemme un ruolo centrale nel progetto di Dio (cf Is 60,1-3; 62,1-2). La promessa: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Anche questo era noto agli apostoli, che ricordavano la profezia di Gioele: «Spanderò il mio spirito su ogni creatura» (Gl 3,1), e le profezie di Zaccaria: (Za 13,1; 12,10), e di Ezechiele: «Spanderò su di voi acqua purificatrice e sarete purificati… Metterò in voi uno spirito nuovo… Metterò in voi il mio spirito» (Ez 36,25-27). Quado gli apostoli chiedono “se questo è il tempo nel quale ricostruirà il regno per Israele” mostrano di aver compreso che è sorto “il Giorno del Signore” e il progetto di Dio domanda ora la collaborazione dell’uomo: Con Cristo infatti è giunto il Salvatore promesso, ora tocca alla libertà umana accoglierlo e per questo è necessario l’annuncio da parte degli apostoli. Da qui la missione responsabile degli apostoli che ricevono lo Spirito Santo: “Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni… fino ai confini della terra”. Il piano che il libro degli Atti segue è infatti questo: anzitutto l’annuncio a Gerusalemme, poi in tutta la Giudea con la Samaria e infine deve diffondersi fino ai confini del mondo. Come al mattino di Pasqua due uomini in vesti splendenti avevano destato le donne dicendo: “Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, è risorto”, così, il giorno dell’Ascensione, “due uomini in bianche vesti” fanno lo stesso con gli apostoli: “Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (1,11). Gesù tornerà, ne siamo certi, e lo proclamiamo in ogni eucaristia quando diciamo “Nella beata speranza dell’avvento di Gesù Cristo nostro Salvatore”. Infine nna nube sottrae Gesù alla vista umana: cessa la sua presenza carnale per inaugurare quella spirituale. Segno visibile di questa presenza di Dio è la nube già presente nel passaggio del Mar Rosso (Es 13,21) e nella Trasfigurazione (Lc 9,34).

 

NOTA. Non si possono ricostruire esattamente gli eventi tra la Risurrezione e l’Ascensione. Nei testi di Luca (vangelo e Atti) la narrazione è sostanzialmente identica: Gesù parte da Betania e porta i discepoli sul Monte degli Ulivi raccomandando di non lasciare Gerusalemme finché non abbiano ricevuto lo Spirito Santo. L’unica differenza riguarda la durata: nel vangelo sembra che l’Ascensione avvenga la sera stessa di Pasqua, mentre negli Atti è chiarito che tra Pasqua e Ascensione trascorrono quaranta giorni — da qui la festa quaranta giorni dopo. Negli altri vangeli si trova poco sull’Ascensione: Matteo non ne parla affatto, riferisce solo l’apparizione alle donne e l’invio in Galilea (Mt 28,18-20). Giovanni narra diverse apparizioni, ma omette l’Ascensione. Marco menziona l’Ascensione brevemente alla fine (Mc 16,19). Le differenze dimostrano che i vangeli non mirano a un resoconto geografico preciso ma a sottolineare aspetti teologici: Matteo insiste sulla Galilea, Luca su Gerusalemme. Infatti, è a Gerusalemme che Gesù aveva ordinato di attendere lo Spirito: “Ecco io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).

 

*Salmo responsoriale (46 (47),2-3,6-7,8-9)

In questo salmo Israele canta e acclama Dio non solo come suo re, ma come re di tutta la terra. Prima dell’esilio a Babilonia nessun re di Israele aveva immaginato che Dio potesse essere il Signore dell’intero universo e perciò il salmo data di un’epoca tarda della storia d’Israele. Dio è il re d’Israele e per questo in Israele il re non deteneva ogni potere perché il vero re era Dio stesso. Il re non poteva disporre della legge a suo piacimento e, come tutti, doveva sottomettersi alla Torah, vale a dire alle norme che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai. Anzi, secondo il libro del Deuteronomio, egli doveva leggere l’intera Legge ogni giorno e, anche seduto sul trono, non era (in linea di principio) che un esecutore degli ordini di Dio, a lui trasmessi dai profeti. Nei Libri dei Re, i re domandano il parere del profeta in carica prima di intraprendere una campagna militare o, nel caso di Davide, prima di iniziare la costruzione del Tempio così che i profeti intervenivano liberamente nella vita dei re, criticando con forza le loro azioni. Una tale concezione della sovranità di Dio fu persino un ostacolo all’istituzione della monarchia, come avvenne quando il profeta Samuele, al tempo dei Giudici, reagì con forza verso i capi delle tribù che chiedevano un re per essere come tutte le altre nazioni. Desiderare di essere come gli altri popoli, quando si è il popolo eletto da Dio e in alleanza con Lui, era qualcosa di blasfemo e, se Samuele cedette alle pressioni, non mancò di avvertire  però della rovina che stavano  procurando a se stessi. Quando consacrò il primo re, Saul, si premurò di precisare che questi diventava il custode del patrimonio di Dio perché il popolo rimaneva il popolo di Dio, non del re, e il re stesso era solo un servitore di Dio. Durante gli anni della monarchia, i profeti furono incaricati di ricordare ai re questa verità essenziale. Si comprende allora che in onore di Dio questo salmo utilizza il vocabolario che altrove era riservato ai re. Anche “terribile” è un’espressione tipica del gergo di corte che va inteso così: il re  (Dio) non spaventa i suoi sudditi, ma li rassicura e per questo si avvertono i nemici che il “nostro re” sarà invincibile. Il Dio re dell’universo, “il grande re su tutta la terra” (v. 3), acclamato in ogni verso del salmo è proprio il Dio del Sinai, il “Signore” e a questa festa tutti i popoli partecipano: “Popoli tutti battete le mani, acclamate Dio con grida di gioia!” così che la dimensione universale pervade profondamente il salmo fino a dire “Dio regna sulle genti” (v. 9) riconoscendolo come unico Dio dell’intero universo.

 

NOTA. La vera scoperta del monoteismo avvenne soltanto con l’esilio babilonese: fino ad allora Israele non era monoteista nel senso pieno del termine, bensì monolatra, ossia riconosceva come proprio un solo Dio—quello dell’Alleanza del Sinai—ma ammetteva che i popoli confinanti avessero ciascuno il proprio dio, sovrano nella loro terra e difensore in battaglia. Questo salmo fu dunque probabilmente composto dopo il ritorno dall’esilio non nella sala del trono, ma nel Tempio ricostruito di Gerusalemme, in un contesto liturgico in cui si evocava il grande progetto di Dio sull’umanità, anticipando il giorno in cui finalmente Dio sarà riconosciuto come Padre di ogni bene. Noi cristiani facciamo nostro questo salmo e l’espressione “ascende Dio tra le acclamazioni” sembra ben adatta per l’odierna celebrazione dell’Ascensione di Gesù. Tributando a Cristo re dell’universo questo splendido omaggio, anticipiamo il canto che nell’ultimo giorno i figli di Dio finalmente riuniti intoneranno insieme: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (9, 24-28 ; 10,19-23)     

Nella prima parte di questo testo l’autore medita sul mistero di Cristo; nella seconda ne ricava le conseguenze per la vita di fede con l’intento di rassicurare i suoi lettori, i cristiani di origine ebraica, che provavano una certa nostalgia del culto antico dato che nella pratica cristiana non c’è più il tempio, né più sacrifici di sangue e si domandavano se davvero fosse questo ciò che Dio vuole. L’autore ripercorre tutti i riti e le realtà della religione ebraica dimostrando che sono ormai superati. Ttratta soprattutto del Tempio, chiamato santuario, e chiarisce che bisogna distinguere il vero santuario in cui Dio dimora — il cielo stesso — dal tempio costruito dagli uomini, che ne è solo una pallida immagine. Gli ebrei erano giustamente orgogliosi del Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana, per definizione, resta debole, imperfetta e destinata a perire. Inoltre, nessuno in Israele sosteneva che si potesse rinchiudere la presenza di Dio in un edificio, per quanto maestoso. Lo aveva già detto il primo costruttore del Tempio, il re Salomone: “Forse che Dio dimorerebbe sulla terra? I cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; figuriamoci questa Casa che io ho edificato!” (1 Re 8,27).  Per i cristiani il vero Tempio — il luogo dell’incontro con Dio — non è più un edificio, perché l’Incarnazione del Verbo ha cambiato tutto. Il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo è Cristo, il Dio fatto uomo e san Giovanni lo spiegha quando narra Gesù che caccia  dal Tempio i cambiamonete e venditori di animali. A coloro che gli chiesero: “Quale segno ci mostrerai per fare questo?”, (cioè «in nome di chi fai questa rivoluzione? rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo ristabilirò”. Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che parlava del suo corpo (Gv 2,13-21). Qui, nella Lettera agli Ebrei, si afferma la stessa cosa: solo restando innestati in Cristo, nutriti del suo corpo, entriamo nel mistero del Dio che “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo” (Eb 9,24). Questo avvenne con la morte di Cristo rendendo chiara la centralità della Croce nel mistero cristiano, come confermano tutti gli autori del Nuovo Testamento. L’autore della Lettera agli Ebrei precisa più avanti che il culmine dell’offerta della vita di Cristo è la sua morte ma il suo sacrificio abbraccia l’intera sua esistenza non solo quindi la sua Passione (cp10). Nel passo che leggiamo oggi l’attenzione si concentra sul sacrificio della Passione, contrapposto a quello che ogni anno offriva il sommo sacerdote nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur). Entrava da solo nel Santo dei Santi, pronunciava l’indicibile nome di Dio (YHVH), spargeva il sangue di un toro per i propri peccati e quello di un capro per quelli del popolo, rinnovando così solennemente l’Alleanza e, quando usciva, il popolo sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Quell’alleanza andava rinnovata ogni anno, invece la nuova Alleanza stabilita con il Padre è definitiva in Cristo crocifisso e risorto. Sulla croce si rivela il vero volto di Dio, che ci ama fino all’estremo, padre di ognuno di noi per cui non c’è più da temere il giudizio di Dio. Quando nel Credo proclamiamo che Gesù verrà a giudicare i vivi e i morti, sappiamo che, in Dio giudizio significa salvezza, come leggiamo qui: “Cristo dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato a coloro che lo aspettano per la loro salvezza” (Eb 9,28). Questa certezza della fede ci permette di vivere il rapporto con Dio in piena serenità e azione di grazie. Ma è importante testimoniarlo, come ci esorta questo testo: “Continuiamo senza esitare a professare la nostra speranza, perché Colui che ha promesso è fedele» (Eb. 10,23). Gesù Cristo è “il sommo sacerdote dei beni futuri” (Eb 9,11).

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (24, 46-53)

I sinottici, Matteo, Marco, Luca si differenziano nel racconto dell’Ascensione del Signore, 

Matteo lo colloca su un monte in Galilea, dove Gesù aveva fissato il suo appuntamento con gli apostoli; Marco non fornisce alcuna indicazione geografica; Luca, al contrario, situa l’evento sul Monte degli Ulivi verso Betania. In tal modo conclude il vangelo là dove era iniziato, a Gerusalemme: la città santa del popolo eletto da cui la rivelazione del Dio unico si era irradiata al mondo; la città del tempio-segno della presenza di Dio fra gli uomini. Ma anche la città dell’adempimento della salvezza per mezzo della morte e risurrezione di Cristo, e la città del dono dello Spirito. Infine la città da cui deve irradiarsi sull’universo l’ultima rivelazione e Luca fa risuonare nelle nostre orecchie le parole di Gesù: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Ciò che è nuovo qui, rispetto alle tre profezie della sua passione pronunciate da Gesù prima degli eventi e alle due affermazioni subito dopo la risurrezione e sul cammino di Emmaus, è la conclusione della frase, che assume la forma di un invio missionario degli apostoli: “ Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni (Lc 24, 46-49) Per i primi cristiani era difficile spiegare quale passo delle Scritture aveva annunciato le sofferenze del Messia e la sua risurrezione il terzo giorno; fra gli ultimi profeti dell’Antico Testamento erano molto più diffuse le profezie sulla conversione di tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme, come leggiamo in Geremia: “In quel giorno chiameranno Gerusalemme trono del Signore; tutte le nazioni vi si troveranno affluire, al nome del Signore, a Gerusalemme» (3,17); e nel terzo Isaia: “La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli” (56,7); “Di luna in luna, di sabato in sabato, verrà ogni creatura a prostrarsi davanti a me” (66,23). Zaccaria poi sviluppa questo tema: “In quel giorno molte nazioni si raccoglieranno al Signore e saranno per me un popolo” (Za 2,15), “Molti popoli e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti” (8,22).Gli esegeti affermano che, anche se queste riflessioni sono presenti in numerosi salmi, furono soprattutto i canti del Servo nei DeuteroIsaia (Is 42; 49; 50; 52-53) a ispirare la meditazione degli evangelisti e a chiarire l’espressione di Gesù “Bisognava che:::” perché in questi quattro cantici emerge la figura del Messia sofferente e glorificato e l’annuncio del bene per tutte le nazioni: “Io, il Signore”, ti ho chiamato con giustizia, ti ho preso per mano, ti ho formato; ti ho fatto alleanza del popolo, luce delle nazioni» (Is 42,6);

“Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Questa conclusione del vangelo di Luca assume dunque i toni della liturgia: Gesù, vero sommo sacerdote, benedice i suoi e li invia nel mondo e il popolo adora e rende grazie: “Alzate le mani, li benedisse. E mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24, 50-53). Il vangelo di Luca si chiude tornando al suo inizio, quando Zaccaria, sacerdote dell’Antica Alleanza, aveva udito l’annuncio della salvezza di Dio (Lc 1,5-19 e l’ultima immagine che i discepoli custodirono del Maestro è un gesto di benedizione. Per questo si capisce perché tornano a Gerusalemme con grande gioia. In quest’immagine conclusiva è racchiuso il mistero della luce e della gioia dell’Ascensione, una partenza che non è abbandono, ma certezza di una presenza diversa, invisibile ma ancor più potente ed efficace.

+Giovanni D’Ercole

La vita reale in Gesù - il condannato per aver vissuto controcorrente

(Gv 17,11b-19)

 

In Asia Minore si prendevano facilmente di mira le fraternità dei figli di Dio - innocue, eppure considerate una bomba per quel sistema.

Mondo il quale non voleva che qualsivoglia verità alternativa entrasse nel suo immaginario.

Immesse nella morte-risurrezione del Cristo, le comunità di Fede vivevano come una grande famiglia, unita nella carità e comprensione vicendevole - non secondo obblighi sociali già configurati.

Nelle chiese si percepiva il calore dei rapporti fraterni: un nucleo di società alternativa a quella dell’impero, che all’orizzonte del suo universo ben gestito escludeva l’accesso di umili e bisognosi.

La Fede giocava al limite.

In tale contesto, Gesù chiede al Padre un’intima custodia dei credenti, consacrati in Lui (vv.11-13.17.19)... non per toglierli dalle tribolazioni, bensì per l’evangelizzazione.

Procedendo il cammino di Esodo nei suoi, e immergendosi nelle situazioni, la sua Persona, Parola e vicenda prolungava l’atto gesuano della consacrazione del mondo [secondo categorie semitiche].

Non una sorta di protezione di sorelle e fratelli, alla stessa maniera d’una divinità pagana, ma per vivere la pienezza delle Beatitudini.

Tutto ciò, nell’arco di un discernimento profondo, e capacità d’azione incisiva - indotta dal clima fraterno e dal senso di approvazione divino, senza più diktat esterni.

Era il “potere” del «Nome» (vv.11-12): la realtà del nuovo Volto dell’Altissimo, come svelato nella vicenda problematica del Figlio.

Energia primordiale, intima ed empatica, che nei medesimi termini gloriosi e paradossali investiva i discepoli, chiamati a manifestare la condizione divina; diventati ‘come Cristo’.

Persino di fronte alle fatiche, a beffe e ripulse altrui, nell’amore scambievole vissuto in comunità, nella convivialità delle differenze di fedeli e assemblee, si manifestava la terapia e il rilancio di Dio.

Il Padre si svelava amore imprevedibile, proprio nella manifestazione di questa ‘Unità’.

Ma anche la presenza di Gesù non riuscì a proteggere Giuda dall’autodistruzione.

Il suo caso è un risultato speciale, proprio perché non ha avuto fiducia nell’amore e nella Parola della Vita.

Vittima d’influsso e calcolo di false guide esterne.

Qui si spiega l’esclusione del «mondo» dalla preghiera di Gesù (v.9).

 

Gesù promette una gioia contromano: la felicità autentica, la letizia delle radicali ‘differenze’.

Non l’allegria garantita dall’ambiente opulento e dispersivo dell’emporio cosmopolita di riferimento in Gv: Efeso [soprattutto del porto e dell’Artemision].

Cristo non desiderava assicurare l’ilare frenesia d’una religiosità contaminata da ambivalenze e tornaconti.

«Custodire nel Nome» (v.11) avrebbe dovuto essere: avere accesso al Padre, nel Figlio; proprio nel Gratis e nella cruda esperienza del figlio di falegname, così vessato dalle autorità.

In Lui - irradiando la sua eccentricità, trasparenza, e disinteresse - costruire Unità.

Solo nella consapevolezza di tale semenza e concatenazione intima, i discepoli potevano dedicare la vita a testimoniare Altre convinzioni - pur in clima d’intimidazione sociale.

 

Gesù ha trasformato la sua preoccupazione in preghiera.

 

 

[Mercoledì 7.a sett. di Pasqua, 4 giugno 2025]

La vita reale in Gesù - il condannato per aver vissuto controcorrente

(Gv 17,11-19)

 

«Padre santo conservali nel tuo Nome che mi hai dato, affinché siano Uno come noi» (Gv 17,11b).

Nel tempo in cui si facevano avanti ceti sociali intermedi, in un ambiente disincantato come Roma capitale, Domiziano si attribuiva titoli divini anche per tentare di arginare le congiure dell’invidiosa aristocrazia senatoriale da sempre conservatrice, vanitosa e complottista.

In oriente - per questioni culturali - la divinizzazione dell’imperatore era presa più sul serio, sia dai funzionari che dai ranghi dell’esercito, nonché dall’immaginario religioso e sociale delle folle che per consuetudine misterica tendevano a identificare il potere con connubi sacrali.

Per questi motivi, in Asia Minore si prendevano facilmente di mira le fraternità dei figli di Dio - innocue, eppure considerate una bomba per quel sistema, il quale non voleva che qualsivoglia verità alternativa entrasse nel suo mondo.

Immesse nella morte-risurrezione del Cristo, le comunità di Fede vivevano come una grande famiglia, unita nella carità e comprensione vicendevole - non secondo obblighi sociali già configurati.

Nelle chiese si percepiva il calore dei rapporti fraterni: un nucleo di società alternativa a quella dell’impero, che all’orizzonte del suo universo ben gestito escludeva l’accesso di umili e bisognosi.

La Fede giocava al limite.

Così Gesù chiede al Padre un’intima custodia dei credenti, consacrati in Lui (vv.11-13.17.19)... non per toglierli dalle tribolazioni, bensì per l’evangelizzazione.

Procedendo il cammino di esodo nei suoi e immergendosi nelle situazioni, la sua Persona, Parola e vicenda prolungava l’atto gesuano della consacrazione del mondo secondo categorie semitiche.

Non una sorta di protezione di sorelle e fratelli, alla stessa maniera d’una divinità pagana, ma per vivere la pienezza delle Beatitudini.

Tutto ciò, nell’arco di un discernimento profondo, e capacità d’azione incisiva - indotta dal clima fraterno e dal senso di approvazione divino, senza più diktat esterni.

Era il “potere” del «Nome» (vv.11-12): la realtà del nuovo Volto dell’Altissimo, come svelato nella vicenda problematica del Figlio.

Energia primordiale, intima ed empatica, che nei medesimi termini - gloriosi e paradossali - investiva i discepoli, i chiamati a manifestare la condizione divina, diventati come Cristo.

Persino di fronte alle fatiche, a beffe e ripulse altrui, nell’amore scambievole vissuto in comunità, nella convivialità delle differenze di fedeli e chiese, si manifestava la terapia e il rilancio di Dio.

Il Padre si svelava amore imprevedibile, proprio nella manifestazione di questa unità.

 

Ma anche la presenza di Gesù non riuscì a proteggere Giuda dall’autodistruzione.

Il suo caso è un risultato speciale, proprio perché non ha avuto fiducia nell’amore e nella Parola della Vita. Vittima d’influsso e calcolo di false guide esterne.

Qui si spiega l’esclusione del «mondo» dalla preghiera di Gesù (v.9).

In un ambiente chiuso, segnato dal connubio “potere religione interesse”, non si può essere segni umanizzanti.

Senza onda vitale, non si riesce a vivere il senso del Mistero nella vertigine della condivisione, né qualsiasi insegnamento.

Sorelle e fratelli amici devono sempre avere la grazia di essere liberati dal mondo dei doveri conformisti, che talora prendono il sopravvento.

In ciò: «santificati nella verità» - per la missione che riscopre la densità, il ritmo interno e l’effetto a cascata della reciprocità vissuta.

In Gv è pressante tale nitida icona del Signore.

Nel suo congedo non pretende che qualcuno si metta in ginocchio di fronte a Lui; sogna bensì uno spirito di unità fra discepoli, e - appunto - le chiese.

Era l’unica attitudine che potesse consentire di resistere agli attacchi, all’emarginazione e alle lusinghe del mondo romano-ellenistico, in particolare di Efeso, quarta città dell’impero.

Gesù promette una gioia contromano: la felicità autentica, delle radicali “differenze”.

Non la gioia garantita dall’ambiente opulento e dispersivo (soprattutto del porto) dell’emporio cosmopolita di riferimento.

Cristo non desiderava assicurare l’ilare frenesia d’una religiosità contaminata da ambivalenze e tornaconti.

A al proposito, si pensi al grande commercio garantito dall’Artemision, e molti altri luoghi sacri eminenti, spettacolari, radicati nell’impianto urbanistico e nel tessuto della vita cittadina.

L’ideale del Risorto doveva fermentare nel cuore di tutti, anche in quel punto, ambiguo e mondano; non… fuggire in un domani irraggiungibile.

Legame che aveva il suo specchio nell’intensità di relazione Padre-Figlio e nella dignità dei malfermi e fuori-gioco che si aprivano all’Azione dello Spirito.

Come dire: ciò che veniva spacciato per venerando non aveva alcun fondamento umano-divino.

Unico ambito sacro doveva essere la Persona e il rispetto della Verità profonda, difforme, propria dell’intima semenza dei figli; quella senza belletto.

«Custodire nel Nome» era dunque avere accesso al Padre, nel Figlio. In Lui - irradiando la sua eccentricità, trasparenza e disinteresse - costruire Unità.

Solo nella consapevolezza di tale concatenazione i discepoli potevano dedicare la vita a testimoniare altre convinzioni - pur in clima d’intimidazione sociale.

 

Gesù ha trasformato la sua preoccupazione in preghiera.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa pensi di un Gesù condannato per aver vissuto controcorrente? Qual è l'anima e il fondamento che in te vedi riflessi nel Figlio? Come ti apri alla santità di Dio? In che modo ti lanci nel mondo? Per cosa preghi?

Martedì, 27 Maggio 2025 05:10

Consacrati nella Verità

1. “Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 19).

Cari fratelli e sorelle, oggi, nella liturgia di questa domenica dopo l’Ascensione del Signore, la Chiesa proclama le parole della preghiera sacerdotale di Cristo. In mezzo agli apostoli riuniti in preghiera nel Cenacolo con Maria, la Madre di Cristo, queste parole risuonano con un’eco ancora attuale. Cristo le ha pronunciate da pochissimo, nel suo discorso d’addio la sera del giovedì santo, prima di entrare nella passione.

Si rivolgeva allora al Padre, come tante altre volte, ma in modo del tutto nuovo. Ha chiesto: “Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi . . . Custodiscili . . . come io li ho custoditi, come ho vegliato su di loro . . . ma ora io vengo a te . . . Lascio il mondo. . . non chiedo che tu li tolga dal mondo ma che li custodisca dal maligno . . . Consacrali nella verità. La tua parola è verità . . . Coloro che ho mandati nel mondo, come tu hai mandato nel mondo me. Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 11 ss.).

2. Ecco la grande preghiera del cuore di Cristo. Oggi, essa viene pronunciata in questa liturgia che celebriamo nel centro del vostro Paese, ai piedi della basilica del Sacro Cuore. È il linguaggio del cuore del Redentore. Vi si trovano espresse le caratteristiche più profonde che hanno contrassegnato tutta la sua vita, tutta la sua missione messianica. Ecco venuto il momento in cui questa vita e questa missione giungono al loro termine e allo stesso tempo toccano il loro culmine.

Il culmine è questo: “Io consacro me stesso”. Parola misteriosa, profonda, che equivale in un certo senso a dire: “Io mi santifico”, “mi do totalmente al Padre”, o anche “io mi sacrifico”, “offro la mia persona, la mia vita in offerta santa a Dio per gli uomini e, così facendo, essi passano da questo mondo a mio Padre”. È la parola suprema e definitiva, e allo stesso tempo la parola più elevata in quel dialogo che il Figlio intrattiene col Padre. Tramite questa frase egli pone, in un certo senso, il sigillo messianico su tutta l’opera della redenzione.

Allo stesso tempo, in questo “Io consacro me stesso” sono compresi gli apostoli; vi è compresa la Chiesa intera, fino alla fine dei secoli. E anche tutti noi che siamo qui riuniti davanti alla basilica del Sacro Cuore. Nelle parole della preghiera sacerdotale, la Chiesa nasce dalla consacrazione del Figlio al Padre, per nascere successivamente sulla croce quando queste parole “si incarneranno”, quando questo cuore sarà trafitto dalla lancia del centurione romano.

3. Qu’est-ce que Jésus demande pour ses Apôtres, pour l’Eglise, pour nous? Que nous soyons nous aussi consacrés dans la vérité. Cette Vérité, c’est le Verbe du Dieu vivant. Le Verbe du Père, le Fils. Et c’est aussi la parole du Père à travers le Fils. Le Verbe s’est fait chair, puis s’est exprimé, au milieu du monde. Au milieu de l’histoire de l’humanité.

Et en même temps, lui, le Christ, le Verbe incarné, “n’est pas du monde” (Cfr. Io. 17, 14), La Parole qu’il a transmise du Père, la Bonne Nouvelle, l’Evangile, n’est pas du monde. Et ceux qui acceptent entièrement cette Parole peuvent facilement attirer sur eux la haine, par le fait de ne pas être du monde.

Et pourtant, seule cette Parole est Vérité. C’est la vérité ultime. C’est la plénitude de la vérité. Elle tait participer à la Vérité dont vit Dieu lui-même.

A travers l’expression pathétique de la prière sacerdotale, à travers la profonde émotion du Cœur du Christ, l’Eglise a conscience, une fois pour toutes, que seule cette Vérité est salvatrice, qu’il ne lui est permis, à aucune condition, de changer cette Vérité pour quelque autre que ce soit, de la confondre avec quelque autre, même si, humainement, elle semblait plus “vraisemblable”, plus suggestive, plus adaptée à la mentalité du jour.

Par le cri du Cœur de Jésus au Cénacle et par la Croix qui l’a confirmé, l’Eglise se sent affermie dans cette Vérité: consacrée dans la Vérité.

La prière sacerdotale est en même temps une grande “supplication” de l’Eglise. L’Apôtre Paul la reprendra en écrivant à Timothée: “Garde le dépôt” (depositum custodi) (1 Tim. 6, 20), ou encore: “Nevous modelez pas sur le monde présent” (nolite conformari huic saeculo) (Rom. 12, 2), autrement dit, ne devenez pas semblables à ce qui est transitoire, à ce que le monde proclame.

3. Che cosa chiede Gesù per i suoi apostoli, per la Chiesa, per noi? Che anche noi veniamo consacrati nella verità. Questa verità è il Verbo del Dio vivente. Il Verbo del Padre, il Figlio. Ed è anche la parola del Padre attraverso il Figlio: il Verbo si è fatto carne, poi si è espresso, in seno al mondo. In seno alla storia dell’umanità.

Allo stesso tempo egli, Cristo, il Verbo incarnato, “non è del mondo” (cf. Gv 17, 14). La parola che egli ha trasmesso dal Padre, la buona novella, il Vangelo, non è del mondo. E coloro che accettano interamente questa parola possono facilmente attirare l’odio su di sé, per il fatto di non essere del mondo. E tuttavia, solo questa parola è verità. È la verità suprema. È la pienezza della verità. Essa fa partecipare a quella verità della quale vive lo stesso Dio.

Tramite l’espressione appassionata della preghiera sacerdotale, attraverso la profonda emozione del cuore di Cristo, la Chiesa ha coscienza, una volta per tutte, che solo questa verità è salvifica, che non le è consentito, a nessuna condizione, cambiare questa verità a favore di qualunque altra, confonderla con qualunque altra, anche se, umanamente, essa dovesse sembrare più verosimile, più suggestiva, più adatta alla mentalità odierna. Attraverso il grido del cuore di Gesù nel cenacolo e attraverso la croce che l’ha confermato, la Chiesa si sente consolidata in questa verità: consacrata nella verità.

La preghiera sacerdotale è nello stesso tempo una grande “supplica” della Chiesa. L’apostolo Paolo la riprenderà scrivendo a Timoteo: “Custodisci il deposito . . .” (1 Tm 6, 20), o ancora: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo” (Rm 12, 2), in altre parole, non divenite simili a ciò che è transitorio, a ciò che proclama il mondo.

4. Telle est la grande prière du Cœur du Rédempteur. Elle explique tout le dessein de la Rédemption et la Rédemption trouve en elle son explication.

Que demande le Fils au Père? “Garde mes disciples dans la fidélité à ton nom que tu m’as donné en partage, pour qu’ils soient un, comme nous-mêmes” (Io. 17, 11).

L’Eglise naît de cette prière du Cœur de Jésus avec la marque de l’Unité divine. Pas seulement de l’unité humaine, sociologique, mais de l’Unité divine “pour qui’ls soient un comme nous” (Ibid. 17, 22), “Comme toi, Père, tu es en moi et moi en toi” (Ibid. 17, 21). Cette unité est le fruit de l’amour.

“Si nous nous aimons les uns les autres, Dieu demeure en nous . . .”. Nous reconnaissons que nous demeurons en lui et lui en nous, à ce qu’il nous donne part à son Esprit . . . Dieu est amour: “Celui qui demeure dans l’amour demeure en Dieu, et Dieu en lui” (1 Io. 4, 12-13. 16).

Il s’agit donc de l’unité qui a son origine en Dieu. L’Unité qui est en Dieu est la vie du Père dans le Fils et la vie du Fils dans le Père, dans l’unité de l’Esprit Saint. L’unité en laquelle Dieu un et trine se communique dans l’Esprit Saint aux cœurs humains, aux consciences humaines, aux communautés humaines.

Cette unité doit être vécue, concrètement, au niveau de chaque famille chrétienne, de chaque communauté ecclésiale, de chaque Eglise locale, de l’Eglise universelle, comme un reflet du mystère de l’unité en Dieu.

Cette unité stimule aussi l’esprit communautaire dans la communauté mondiale.

4. Tale è la grande preghiera del cuore del Redentore. Essa spiega tutto il disegno della redenzione e la redenzione trova in essa la propria spiegazione. Cosa chiede il Figlio al Padre? “Custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17, 11). Da questa preghiera del cuore di Gesù la Chiesa nasce col segno dell’unità divina. Non solo dell’unità umana, sociologica, ma dell’unità divina “perché siano come noi una cosa sola” (Gv 17, 22). “Come tu, Padre, sei in me e io in te” (Gv 17, 21). Questa unità è frutto dell’amore. “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in a questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito . . . Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 12-13. 16).

Si tratta dunque dell’unità che ha la propria origine in Dio. L’unità che è in Dio è la vita del Padre nel Figlio e la vita del Figlio nel Padre, nell’unità dello Spirito Santo. L’unità nella quale Dio uno e trino si comunica nello Spirito Santo ai cuori umani, alle coscienze umane, alle comunità umane. Questa unità deve essere vissuta concretamente, a livello di ogni famiglia cristiana, di ogni comunità ecclesiale, di ogni Chiesa locale, della Chiesa universale, come un riflesso del mistero dell’unità di Dio. Questa unità stimola anche lo spirito comunitario nella società, nella nazione, nella comunità mondiale.

5. “Siano una cosa sola, come noi”! L’unità ereditata da Cristo trova la sua prima realizzazione nel matrimonio e nella famiglia, in quella Chiesa che è il focolare.

Tale è il disegno del Creatore sin dall’origine: “L’uomo si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24). Tale è allo stesso modo il destino degli uomini e delle donne redenti da Gesù Cristo: l’unione sacramentale degli sposi diviene il segno dell’amore totale di Cristo per la sua Chiesa, della sua indissolubile unione con essa. “Questo mistero è grande” (cf. Ef 5, 32). Questo dono reciproco dei coniugi per la vita sarà ispirato da un amore umano totale, fedele, esclusivo e aperto a nuove vite (cf. Humanae vitae, 9). Gli sposi cristiani terranno sempre a cuore di meditare il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia e di corrispondere a ciò che Dio si aspetta da loro nei rapporti interpersonali, nella trasmissione della vita, nella castità coniugale, nell’educazione dei figli e nella partecipazione allo sviluppo della società secondo la dottrina della Chiesa che ho ricordato loro nell’esortazione apostolica Familiaris consortio echeggiando quanto avevano espresso i vescovi del mondo intero nel Sinodo del 1980.

Sono dunque felice di rivolgermi specialmente a voi, cari sposi e genitori che siete venuti a questa Eucaristia in famiglia. Voi sapete, sia tramite l’insegnamento della Chiesa che per vostra esperienza, tutto ciò che è richiesto dal quotidiano rinnovamento del vostro amore coniugale e di genitori. Esso acquista, nei sentimenti e nelle azioni, ogni giorno un volto concreto, nel quale la carne è sostegno ed espressione dell’unità nello spirito; presuppone in particolare: una sensibile attenzione all’altro, un atteggiamento di riconoscenza per ciò che è e che vi apporta, la volontà di far sbocciare in lui ciò che vi è di meglio, il condividere gioie e prove bandendo incessantemente l’egoismo e l’orgoglio, il dedicare del tempo a un dialogo sincero su tutto ciò che vi sta a cuore, il condividere il “pane” quotidiano, e, se necessario, il perdono, come chiediamo nel “Padre nostro”. In queste condizioni, il vostro amore vi colma di gioia e risplende nel vostro focolare e al di là di esso.

Soprattutto non dimenticate mai che la vostra unità, la vostra fedeltà, lo splendore del vostro amore sono grazie che vengono da Dio, dal seno della Trinità. Il sacramento del matrimonio vi permette di attingervi costantemente. Ma è necessario che chiediate spesso a Dio, che è amore, di aiutarvi a dimorare nell’amore (cf. 1 Gv 4, 16). Quale forza, quale testimonianza, quando avete la semplicità di pregare in famiglia, genitori e figli! Insieme, davanti al Padre, davanti al Salvatore, tutta la vostra vita può ritrovare luminosità e gioia. Allora, veramente, la famiglia merita il suo nome di Chiesa domestica.

6. “Padre, custodiscili nel tuo nome”! Questa preghiera di Gesù per i discepoli, non è forse quella dei genitori per i loro figli?

Il vostro amore profondo tra coniugi, “nella verità”, e il vostro comune amore per i vostri figli costituiscono per essi il primo libro nel quale leggono l’amore di Dio.

Questa lettura resta iscritta per sempre nel ricordo del loro cuore e li dispone ad accettare, liberamente, la rivelazione della tenerezza di Dio. Certo, ai giorni nostri la solidarietà familiare non è sempre un compito facile. I figli che avete chiamato alla vita e ai quali avete dato il meglio di voi stessi, influenzati da una società che ha i suoi valori e i suoi disvalori, scelgono talvolta altre strade, speriamo per un piccolo lasso di tempo. Sono, per voi, momenti di sofferenza ma anche di profonda devozione. Con voi, io prego come fece Gesù: “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno” (Gv 17, 15).

Le famiglie cristiane rimangono uno spazio privilegiato per la trasmissione del Vangelo, non solo ai figli, ma ai vicini, a tutta la comunità ecclesiale. Esse possono offrire una casa ospitale a chi ha delle preoccupazioni, ai bambini che non ricevono abbastanza amore a casa propria, ai giovani che desiderano approfondire la propria fede per prepararsi alla cresima o al matrimonio. Nelle famiglie cristiane, i giovani imparano anche tramite l’esempio dei genitori a impegnarsi per gli altri, sia in parrocchia che negli altri luoghi in cui sono presenti.

Cari genitori, il modo in cui Pietro propone, nella prima lettura di questa cerimonia, di scegliere un nuovo “testimone della risurrezione di Gesù”, un nuovo apostolo (At 1, 22) vi ha forse colpito. Questa scelta è stata preparata dalla preghiera: “Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale di questi due hai designato” (At 1, 24).

Il Signore conosce i cuori dei giovani di questo tempo. Conosce anche la loro generosità, talvolta frenata dagli adulti. Conosce anche il cuore dei vostri figli. Pregate perché possano scoprire la loro vocazione e siate riconoscenti se scelgono la via del Vangelo!

E voi, cari figli, la cosa più bella che potete chiedere ai vostri genitori è quella che chiedevano gli apostoli a Gesù: “Insegnaci a pregare”. D’altra parte, siate felici se i vostri genitori fanno molto per gli altri, anche se il loro impegno vi priva, certe sere, della loro presenza a casa. Voi stessi cercate sempre d’essere più fraterni tra di voi, in famiglia. E cercate di fare già della vostra vita un servizio per gli altri. Questa parola di Gesù è anche per voi: “Come il Padre mi ha mandato nel mondo, anch’io vi ho mandato nel mondo”.

7. “Quils soient un comme nous sommes un” (Io. 17, 11).

Au-delà de la famille, cette prière de Jésus vaut pour toutes les communautés de ses disciples, partout où elles se réalisent, pour vos communautés paroissiales, pour vos mouvements chrétiens largement représentés ici. Puisse-t-on y trouver toujours l’unité héritée du Christ! La fidélité à sa Vérité! L’accueil fraternel et le soutien effectif des membres qui sont dans le besoin, étrangers ou malades.

Je salue ici avec une particulière affection les malades et les handicapés, spécialement ceux qui participaient hier aux “Spartakiades”.

Chers Frères et Sœurs,

pour vous - comme pour vos familles et pour tous ceux qui n’ont pas pu être présents ici à cause de l’âge ou de la maladie -, je demande à Dieu, non seulement de vous garder en son Nom, mais de faire de vous, en ce monde, partout où vous conduisent vos relations et votre travail professionnel, les témoins de sa Vérité, de son amour. Pour donner un témoignage direct sur le Christ Sauveur, sur sa Bonne Nouvelle, de façon à faciliter à vos contemporains l’accès à la foi. Et pour contribuer, avec eux, à mettre votre société sur les chemins de la paix, de la justice, de la fidélité, de la fraternité, qui correspondent au Règne de Dieu.

7. “Perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17, 11). Al di là della famiglia, questa preghiera di Gesù vale per tutte le comunità dei suoi discepoli, ovunque si realizzano, per le vostre comunità parrocchiali, per i vostri movimenti cristiani qui largamente rappresentati. Vi si possa sempre trovare l’unità ereditata da Cristo! La fedeltà alla sua verità! L’accoglimento fraterno e il sostegno effettivo delle persone che sono nel bisogno, straniere o malate. Saluto qui con particolare affetto i malati e gli handicappati, specialmente quelli che hanno partecipato ieri alle “Spartakiadi”.

Cari fratelli e sorelle, per voi - come per le vostre famiglie e per tutti coloro che non hanno potuto essere qui presenti a causa dell’età o della malattia - io chiedo a Dio, non solo di conservarvi nel suo nome, ma anche di fare di voi, in questo mondo, ovunque vi portino i vostri rapporti sociali e il vostro lavoro professionale, i testimoni della sua verità, del suo amore, per dare testimonianza diretta di Cristo Salvatore, della sua buona novella, in modo da facilitare ai vostri contemporanei l’accesso alla fede e per contribuire, con essi, a mettere la vostra società sulle vie della pace, della giustizia, della devozione, della fraternità, che corrispondono al regno di Dio.

8. L’unité héritée des Apôtres, c’est celle de l’Eglise universelle, confiée aux évêques en communion étroite avec le successeur de Pierre. Elle est présente en chacune des Eglises locales, à commencer par la vénérable Eglise qui est à Malines-Bruxelles, Mechelen-Brussel, celle qui est à Antwerpen, à Brugge, à Gent, à Liège, à Namur, que je suis heureux de visiter aussi.

Je salue particulièrement les fidèles qui sont venus des diocèses de Tournai et de Hasselt. Le temps nécessairement limité de mon séjour dans votre pays ne me permet pas de vous rencontrer dans vos diocèses mêmes. Mais je vous remercie d'être venus ici en grand nombre pour me rencontrer.

Chers chrétiens du diocèse de Tournai, vous appartenez à un diocèse d’une tradition très riche. Aujourd’hui, vous essayez d’être des témoins fidèles de l’Evangile dans une période difficile. Vous vivez dans une des provinces belges les plus touchées par la crise économique. Comme chrétiens pratiquants, vous êtes souvent une minorité au milieu de beaucoup d’autres personnes que vous aimez et que vous voulez servir. Dans cette situation, je vous encourage à garder la paix et la joie. Car, comme le dit la devise de votre évêque, “la joie du Seigneur, c’est notre force”.

8. L’unità ereditata dagli apostoli, è quella della Chiesa universale, affidata ai vescovi in stretta comunione col successore di Pietro. Essa è presente a Bruges, a Gand, a Liegi, a Namur, che sono felice di visitare.

Saluto in modo particolare i fedeli giunti dalle diocesi di Tournai e di Hasselt. Il tempo necessariamente limitato del mio soggiorno nel vostro Paese non mi permette di incontrarmi con voi nelle vostre diocesi. Vi ringrazio però d’esser venuti qui in gran numero per incontrarvi con me.

Cari cristiani della diocesi di Tournai, voi appartenete a una diocesi dalla ricchissima tradizione. Oggi voi cercate d’essere testimoni fedeli del Vangelo in un periodo difficile. Vivete in una delle province del Belgio più colpite dalla crisi economica. Come cristiani praticanti, siete spesso una minoranza in mezzo a molte altre persone che amate e che volete servire. In questa situazione, vi incoraggio a conservare la pace e la gioia, poiché, come dice il motto del vostro vescovo, “la gioia del Signore è la nostra forza”.

Cari cristiani della diocesi di Hasselt, voi cercate di approfondire la fede nella vostra comunità per mezzo di molteplici iniziative d’animazione pastorale. Nella vostra diocesi i giovani sono molto numerosi. Grazie alla formazione ricevuta nei loro movimenti e nei gruppi di spiritualità, essi cercano di essere testimoni del Vangelo ovunque vivono. Siate solidali nella crisi economica che vi colpisce così duramente. Continuate a sviluppare il dialogo tra le culture degli autoctoni e degli immigrati della vostra diocesi. E che la santa Vergine, “ragione della nostra gioia”, venerata a Tongres, il più antico luogo di venerazione mariana dell’Europa settentrionale, sia per ciascuno di voi una fonte di continua gioia!

Sì, nel nome di Gesù, ripeto la sua preghiera sacerdotale per ciascuna delle vostre Chiese, per il suo vescovo, il pastore che ha l’incarico di radunarla nell’unità, di vegliare su di essa come Gesù sui suoi discepoli, di conservarla nella fedeltà al nome del Signore, nella fedeltà alla tradizione apostolica, in unione con la Sede apostolica di Roma, di farla procedere nell’amore che viene da Dio.

9. In questo luogo, che è la capitale del Paese, come non pensare alla nazione belga tutt’intera? Questa terra nella quale vivete ha avuto una storia movimentata; ha dovuto lottare per conservare la propria personalità culturale, economica, amministrativa, politica e anche religiosa. La ricca personalità di questa nazione e la sua disponibilità sono del resto state spesso fonte di scambi culturali, artistici ed economici con tutti i Paesi che la circondano. Non perdete la vostra ricca personalità, la vostra comunione nella pace, la reciproca stima e il dialogo tra le diverse comunità belghe e straniere. Siatene consapevoli: le cose che vi uniscono sono più di quelle che vi dividono. Coltivate questo modello di convivenza che può essere d’esempio al mondo. Fondatelo sull’amore, sul rispetto delle istituzioni della nazione, dei suoi governi e del re, nella fedeltà alla civiltà cristiana che tanto vi ha segnati.

10. Zusammen mit dem Nachfolger des heiligen Petrus betet die Kirche dieses Landes heute mit den Worten des Psalms:

“Lobe den Herrn meine Seele und alles in mir seinen heiligen Namen!” (Ps. 103, 1).

Der Name Gottes ist uns in seiner Fülle durch Jesus Christus offenbart worden. Er ist ”unser Vater“: Gott, der die Liebe ist, der uns zuerst geliebt hat, der am Anfang wie am Ziel unseres Lebens steht, der uns auf dem Weg ständig begleitet, auch dort, wo das Leben hart mit uns umgeht, auch dann, wenn wir nicht nach dem Maß seiner Liebe gelebt haben; Gott, der uns an seinem göttlichen Leben teilhaben läßt, der uns mit der Freude Christi erfüllt, seines vielgeliebten Sohnes (Cfr. Io. 17, 13).

Ja, ”Vater unser im Himmel, geheiligt werde dein Name, dein Reich komme, dein Wille geschehe . . .!“.

Das Gebet, das uns Jesus Christus selbst gelehrt hat, ist tief im Hohenpriesterlichen Gebet des Abendmahlssaales verwurzelt.

”Lobe den Herrn meine Seele, und vergiß nicht, was er dir Guten getan hat“ (Ps. 103, 27).

Vergiß es nicht!

Liebe Mitchristen deutscher Sprache, vergeßt nicht das Erbe so vieler Generationen des Bundes mit Gott in der Kirche Christi, vergeßt es nicht!

Chers chrétiens d’expression française, n’oubliez pas l’héritage de tant de générations de l’Alliance avec Dieu dans l’Eglise du Christ, n’oubliez pas!

10. Oggi, la Chiesa di questo Paese prega insieme al successore di Pietro con le parole del salmo: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome” (Sal 103, 1). Il nome di Dio ci è stato rivelato nella pienezza di Gesù Cristo: è “Padre nostro”: Dio che è amore, che è stato il primo ad amarci, che è all’origine della nostra vita, al suo orizzonte, è continuamente in cammino con noi, anche se la vita ci ferisce, anche se noi non siamo vissuti all’altezza del suo amore; Dio che ci fa partecipare alla sua vita divina, che ci fa avere la pienezza della gioia di Cristo, il Figlio suo diletto (cf. Gv 17, 13).

Sì, Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà . . .! La preghiera che ci ha insegnato Gesù Cristo è profondamente radicata nella preghiera sacerdotale del Cenacolo. “Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici” (Sal 103, 2). Non dimenticare!

Cari cristiani di lingua tedesca, non dimenticate l’eredità di tante generazioni dell’alleanza di Dio con la Chiesa di Cristo, non dimenticate!

Cari cristiani di lingua fiamminga, non dimenticate l’eredità di tante generazioni dell’alleanza con Dio nella Chiesa di Cristo, non dimenticate!

Cari cristiani di lingua francese, non dimenticate l’eredità di tante generazioni dell’alleanza con Dio nella Chiesa di Cristo, non dimenticate!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Bruxelles 19 maggio 1985]

Martedì, 27 Maggio 2025 04:50

Custodiscili dalle divisioni

Nelle ultime catechesi, abbiamo cercato di mettere in luce la natura e la bellezza della Chiesa, e ci siamo chiesti che cosa comporta per ciascuno di noi far parte di questo popolo, popolo di Dio che è la Chiesa. Non dobbiamo, però, dimenticare che ci sono tanti fratelli che condividono con noi la fede in Cristo, ma che appartengono ad altre confessioni o a tradizioni differenti dalla nostra. Molti si sono rassegnati a questa divisione - anche dentro alla nostra Chiesa cattolica si sono rassegnati - che nel corso della storia è stata spesso causa di conflitti e di sofferenze, anche di guerre e questo è una vergogna! Anche oggi i rapporti non sono sempre improntati al rispetto e alla cordialità… Ma, mi domando: noi, come ci poniamo di fronte a tutto questo? Siamo anche noi rassegnati, se non addirittura indifferenti a questa divisione? Oppure crediamo fermamente che si possa e si debba camminare nella direzione della riconciliazione e della piena comunione? La piena comunione, cioè poter partecipare tutti insieme al corpo e al sangue di Cristo.

Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo. Sappiamo bene quanto stesse a cuore a Gesù che i suoi discepoli rimanessero uniti nel suo amore. Basta pensare alle sue parole riportate nel capitolo diciassettesimo del Vangelo di Giovanni, la preghiera rivolta al Padre nell’imminenza della passione: «Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Gv 17,11). Questa unità era già minacciata mentre Gesù era ancora tra i suoi: nel Vangelo, infatti, si ricorda che gli apostoli discutevano tra loro su chi fosse il più grande, il più importante (cfr Lc 9,46). Il Signore, però, ha insistito tanto sull’unità nel nome del Padre, facendoci intendere che il nostro annuncio e la nostra testimonianza saranno tanto più credibili quanto più noi per primi saremo capaci di vivere in comunione e di volerci bene. È quello che i suoi apostoli, con la grazia dello Spirito Santo, poi compresero profondamente e si presero a cuore, tanto che san Paolo arriverà a implorare la comunità di Corinto con queste parole: «Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire» (1 Cor 1,10).

Durante il suo cammino nella storia, la Chiesa è tentata dal maligno, che cerca di dividerla, e purtroppo è stata segnata da separazioni gravi e dolorose. Sono divisioni che a volte si sono protratte a lungo nel tempo, fino ad oggi, per cui risulta ormai difficile ricostruirne tutte le motivazioni e soprattutto trovare delle possibili soluzioni. Le ragioni che hanno portato alle fratture e alle separazioni possono essere le più diverse: dalle divergenze su principi dogmatici e morali e su concezioni teologiche e pastorali differenti, ai motivi politici e di convenienza, fino agli scontri dovuti ad antipatie e ambizioni personali… Quello che è certo è che, in un modo o nell’altro, dietro queste lacerazioni ci sono sempre la superbia e l’egoismo, che sono causa di ogni disaccordo e che ci rendono intolleranti, incapaci di ascoltare e di accettare chi ha una visione o una posizione diversa dalla nostra.

Ora, di fronte a tutto questo, c’è qualcosa che ognuno di noi, come membri della santa madre Chiesa, possiamo e dobbiamo fare? Senz’altro non deve mancare la preghiera, in continuità e in comunione con quella di Gesù, la preghiera per l’unità dei cristiani. E insieme con la preghiera, il Signore ci chiede una rinnovata apertura: ci chiede di non chiuderci al dialogo e all’incontro, ma di cogliere tutto ciò che di valido e di positivo ci viene offerto anche da chi la pensa diversamente da noi o si pone su posizioni differenti. Ci chiede di non fissare lo sguardo su ciò che ci divide, ma piuttosto su quello che ci unisce, cercando di meglio conoscere e amare Gesù e condividere la ricchezza del suo amore. E questo comporta concretamente l’adesione alla verità, insieme con la capacità di perdonarsi, di sentirsi parte della stessa famiglia cristiana, di considerarsi l’uno un dono per l’altro e fare insieme tante cose buone, e opere di carità.

È un dolore ma ci sono divisioni, ci sono cristiani divisi, ci siamo divisi fra di noi. Ma tutti abbiamo qualcosa in comune: tutti crediamo in Gesù Cristo, il Signore. Tutti crediamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, e tutti camminiamo insieme, siamo in cammino. Aiutiamoci l’un l’altro! Ma tu la pensi così, tu la pensi così … In tutte le comunità ci sono bravi teologi: che loro discutano, che loro cerchino la verità teologica perché è un dovere, ma noi camminiamo insieme, pregando l’uno per l’altro e facendo opere di carità. E così facciamo la comunione in cammino. Questo si chiama ecumenismo spirituale: camminare il cammino della vita tutti insieme nella nostra fede, in Gesù Cristo il Signore. Si dice che non si deve parlare di cose personali, ma non resisto alla tentazione. Stiamo parlando di comunione … comunione tra noi. Ed oggi, io sono tanto grato al Signore perché oggi sono 70 anni che ho fatto la Prima Comunione. Ma fare la Prima Comunione tutti noi dobbiamo sapere che significa entrare in comunione con gli altri, in comunione con i fratelli della nostra Chiesa, ma anche in comunione con tutti quelli che appartengono a comunità diverse ma credono in Gesù. Ringraziamo il Signore per il nostro Battesimo, ringraziamo il Signore per la nostra comunione, e perché questa comunione finisca per essere di tutti, insieme.

Cari amici, andiamo avanti allora verso la piena unità! La storia ci ha separato, ma siamo in cammino verso la riconciliazione e la comunione! E questo è vero! E questo dobbiamo difenderlo! Tutti siamo in cammino verso la comunione. E quando la meta ci può sembrare troppo distante, quasi irraggiungibile, e ci sentiamo presi dallo sconforto, ci rincuori l’idea che Dio non può chiudere l’orecchio alla voce del proprio Figlio Gesù e non esaudire la sua e la nostra preghiera, affinché tutti i cristiani siano davvero una cosa sola.

[Papa Francesco, Udienza Generale 8 ottobre 2014]

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Unity is not made with glue [...] The great prayer of Jesus is to «resemble» the Father (Pope Francis)
L’Unità non si fa con la colla […] La grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre (Papa Francesco)
Divisions among Christians, while they wound the Church, wound Christ; and divided, we cause a wound to Christ: the Church is indeed the body of which Christ is the Head (Pope Francis)
Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo (Papa Francesco)
The glorification that Jesus asks for himself as High Priest, is the entry into full obedience to the Father, an obedience that leads to his fullest filial condition [Pope Benedict]
La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale [Papa Benedetto]
All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]
Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza [Papa Francesco]
The Ascension does not point to Jesus’ absence, but tells us that he is alive in our midst in a new way. He is no longer in a specific place in the world as he was before the Ascension. He is now in the lordship of God, present in every space and time, close to each one of us. In our life we are never alone (Pope Francis)
L’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli (Papa Francesco)
The Magnificat is the hymn of praise which rises from humanity redeemed by divine mercy, it rises from all the People of God; at the same time, it is a hymn that denounces the illusion of those who think they are lords of history and masters of their own destiny (Pope Benedict)
Il Magnificat è il canto di lode che sale dall’umanità redenta dalla divina misericordia, sale da tutto il popolo di Dio; in pari tempo è l’inno che denuncia l’illusione di coloro che si credono signori della storia e arbitri del loro destino (Papa Benedetto)
This unknown “thing” is the true “hope” which drives us, and at the same time the fact that it is unknown is the cause of all forms of despair and also of all efforts, whether positive or destructive, directed towards worldly authenticity and human authenticity (Spe Salvi n.12)
Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo (Spe Salvi n.12)
«When the servant of God is troubled, as it happens, by something, he must get up immediately to pray, and persevere before the Supreme Father until he restores to him the joy of his salvation. Because if it remains in sadness, that Babylonian evil will grow and, in the end, will generate in the heart an indelible rust, if it is not removed with tears» (St Francis of Assisi, FS 709)

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