Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Solennità di Cristo Re dell’Universo [23 Novembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Chiudiamo con animo grato al l’Anno liturgico C preparandoci a riprendere il cammino con l’Avvento.
*Prima Lettura dal secondo libro di Samuele (5,1-3)
Questi sono i primi passi della monarchia in Israele. Tutto comincia a Ebron, antica città delle montagne di Giudea, dove riposano i patriarchi d’Israele: Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lea, e persino Giuseppe, le cui ossa furono riportate dall’Egitto. È un luogo carico di memoria e di fede, e proprio qui Davide diventa re di tutte le dodici tribù d’Israele. Dopo la morte di Mosè, verso il 1200 a.C., il popolo d’Israele si stabilì in Palestina. Le tribù vivevano in modo autonomo, unite soltanto dal ricordo della liberazione dall’Egitto e dalla fede nel loro unico Dio. Nei momenti di pericolo, Dio suscitava dei capi temporanei, i Giudici, che guidavano il popolo e spesso agivano anche come profeti. Uno di questi fu Samuele, grande uomo di Dio. Col tempo, però, gli Israeliti vollero essere “come gli altri popoli” e chiesero a Samuele di avere un re. Il profeta ne fu turbato, perché Israele doveva riconoscere solo Dio come Re, ma alla fine, su comando divino, consacrò Saul, il primo re d’Israele. Dopo un inizio promettente, Saul cadde nella disobbedienza e nella follia e Dio scelse un altro uomo: Davide, il giovane pastore di Betlemme, al quale Samuele versò l’olio dell’unzione. Davide non prese subito il potere: servì Saul con fedeltà, divenne suo musicista e valoroso guerriero, amato dal popolo e legato da profonda amicizia a Gionata, il figlio di Saul. Ma la gelosia del re si trasformò in odio, e Davide fu costretto a fuggire, pur rifiutandosi sempre di alzare la mano contro “l’unto del Signore”. Dopo la morte di Saul, Israele si divise: Davide regnava a Ebron sulla tribù di Giuda, mentre al Nord un figlio di Saul regnava per breve tempo. Quando quest’ultimo fu ucciso, le tribù del Nord si radunarono a Ebron e riconobbero Davide come loro re. Quel giorno nacque il regno unito d’Israele: dodici tribù sotto un solo pastore, scelto da Dio e riconosciuto dai fratelli. L’unzione con l’olio sacro fece di Davide il “Messia”, cioè l’“unto del Signore”. Egli doveva essere un re secondo il cuore di Dio, un pastore che guida il suo popolo verso l’unità e la pace. Ma la storia mostrò quanto fosse difficile realizzare questo ideale. Tuttavia, la speranza non morì: Israele attese sempre il vero Messia, il discendente di Davide che avrebbe instaurato un regno eterno. E mille anni dopo, Gesù Cristo, chiamato “Figlio di Davide”, si presentò come il Buon Pastore, colui che offre la vita per il suo gregge. Ogni domenica, nell’Eucaristia, Egli rinnova la sua alleanza e ci dice: “Voi siete del mio stesso sangue.”
*Salmo responsoriale (121/122,1-2,3-4,5-6a.7a)
“Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore” . Un pellegrino racconta la sua emozione: dopo un lungo viaggio, finalmente i suoi piedi si fermano alle porte di Gerusalemme. Siamo nel tempo del ritorno dall’esilio babilonese: la città è stata ricostruita, il Tempio restaurato (attorno al 515 a.C.), e il popolo ritrova nella casa del Signore il segno vivo dell’Alleanza. Davanti alla città risorta, il pellegrino esclama: Gerusalemme, eccoti dentro le tue mura, città ben compatta, dove tutto insieme forma un solo corpo! Gerusalemme non è solo un luogo geografico: è il cuore del popolo di Dio, simbolo della unità e della comunione. Ogni pietra, ogni muro ricorda che Israele è un popolo radunato da un’unica promessa e da un destino comune. Dio stesso ha voluto che Israele salisse ogni anno in pellegrinaggio a Gerusalemme, perché il cammino comune e la fatica condivisa mantenessero vivo il legame dell’Alleanza. Per questo il Salmo proclama:”E’ là che salgono le tribù, le tribù del Signore…per lodare il nome del Signore”. Il verbo “salire” indica sia la posizione elevata della città, sia la salita spirituale del popolo verso il suo Dio liberatore, lo stesso che li fece salire cioè uscire dall’Egitto. La formula “le tribù del Signore” richiama l’appartenenza reciproca dell’Alleanza: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio.” Il pellegrinaggio, fatto a piedi, tra fatica, sete e canti, è un cammino di fede e di fraternità. Quando il pellegrino esclama: Ora il nostro cammino ha fine!, esprime la gioia di chi ha raggiunto non solo una meta geografica, ma anche spirituale: l’incontro con Dio nella città della sua presenza. Rendere grazie al Signore è la vocazione di Israele. Finché il mondo intero non riconoscerà Dio, Israele è chiamato a essere nel mondo il popolo dell’azione di grazie, testimone della fedeltà divina. Così ogni pellegrinaggio a Gerusalemme rinnova la missione di Israele: ringraziare, lodare e mostrare la via alle altre nazioni. Il profeta Isaia aveva preannunciato questo disegno universale:”Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti,e tutte le nazioni affluiranno ad esso…Da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.” (Is 2,2-3) Gerusalemme diventa allora segno profetico del mondo rinnovato, dove tutti i popoli saranno uniti nella stessa lode e nella stessa pace. Il Salmo ricorda ancora:”Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide.” Con queste parole, Israele rievoca la promessa fatta da Dio a Davide per mezzo del profeta Natan: “Susciterò dalla tua discendenza un re, e renderò stabile il suo regno.” (2 Sam 7,12). Dopo l’esilio, non c’è più un re sul trono, ma la promessa resta viva: Dio non si smentisce. Nelle celebrazioni al Tempio, questo ricordo diventa preghiera e speranza: verrà il giorno in cui Dio susciterà un re secondo il suo cuore, giusto e fedele, che ristabilirà la pace e la giustizia. Il nome stesso di Gerusalemme significa “città della pace”. Quando si prega: «Domandate pace per Gerusalemme, vivano sicuri quelli che ti amano!» (Sal 122,6) non si pronuncia un semplice augurio, ma una professione di fede: solo Dio può dare la pace vera, e Israele è chiamato a esserne testimone nel mondo. Con il passare dei secoli, la speranza di un re giusto trova compimento in Gesù Cristo, il Figlio di Davide. È Lui che inaugura il Regno di vita e di verità, di grazia e di santità, di giustizia, d’amore e di pace, come proclama la liturgia della festa di Cristo Re. In Lui la Gerusalemme terrena diventa Gerusalemme nuova, la città dell’incontro definitivo tra Dio e l’uomo. Ogni Eucaristia è una salita verso quella città, un pellegrinaggio dell’anima che termina nel cuore di Dio. Il pellegrinaggio di Israele verso Gerusalemme diventa allora simbolo del cammino di tutta l’umanità verso la comunione con Dio. E come i pellegrini del Salmo, anche noi, Chiesa del Nuovo Testamento, possiamo dire con gioia: “Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore”
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,12-20)
Il volto invisibile di Dio. C’era una volta un mondo che cercava Dio, ma non sapeva come vederlo. Gli uomini alzavano gli occhi al cielo, costruivano templi, offrivano sacrifici, ma Dio restava invisibile, lontano. Poi, un giorno, il Verbo si fece carne: il Dio che nessuno aveva mai visto prese un volto umano, e quel volto fu quello di Gesù di Nazareth. Da allora, ogni volta che un uomo guarda Gesù, guarda Dio.San Paolo lo ha detto con parole che sembrano un canto: ”Egli è immagine del Dio invisibile, il primogenito di tutta la creazione”. In Lui, tutto ciò che esiste trova origine e senso. Non è solo il principio del mondo, ma anche il suo cuore: in Lui tutto è stato creato, e in Lui tutto è stato riconciliato. Questo piano di Dio non è nato ieri e Paolo parla di un disegno pensato da sempre: “Egli ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel Regno del Figlio del suo amore.” Da sempre Dio ha sognato l’uomo libero, luminoso, capace di comunione. Ma ciò che Dio aveva preparato nell’eternità si è realizzato nel tempo, nel presente del Cristo. Per questo Paolo scrive: “In Lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.” Il mistero di Gesù non è un ricordo, è una realtà viva che ogni giorno continua a operare nel cuore dei credenti. Dio aveva fatto l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. Ma quell’immagine, nel peccato, si era come appannata. Allora Dio stesso è venuto a mostrarci che cosa significa essere uomo. In Gesù, l’uomo è restituito alla sua bellezza originaria. Quando Pilato lo mostra alla folla e dice: “Ecco l’uomo!” non sa di pronunciare una profezia: in quel volto ferito, in quel silenzio umile, si manifesta l’uomo vero, come Dio lo aveva voluto. Ma in quel volto c’è anche il volto di Dio. Gesù è la visibilità dell’invisibile. È Dio che si lascia guardare, toccare, ascoltare. “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, dirà a Filippo. E Paolo aggiungerà: “In Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità.” In Gesù, Dio e l’uomo si incontrano per sempre. L’infinito ha preso corpo, il cielo si è fatto carne. E’ il mistero della Croce. Ma come può la Croce essere segno di pace e di riconciliazione? Paolo lo spiega così: “Dio ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, facendo la pace per mezzo del sangue della sua croce.” Non è Dio a volere la sofferenza del Figlio. È l’odio degli uomini che lo uccide. Eppure, Dio trasforma quell’odio in amore redentore. È il grande rovesciamento della storia: la violenza si fa perdono, la morte diventa vita, la croce diventa albero di pace. Abbiamo visto nella storia uomini che hanno testimoniato la pace e sono stati uccisi per questo — Gandhi, Martin Luther King, Itzhak Rabin, Sadat… — ma solo Cristo, essendo uomo e Dio insieme, ha potuto trasformare il male in grazia per tutto il mondo. Nel suo perdono ai crocifissori — “Padre, perdonali” — si rivela il perdono stesso di Dio. Da quel giorno, sappiamo che nessun peccato è più grande dell’amore di Dio. Sulla croce, tutto è compiuto. Paolo scrive: “Dio ha voluto che in Lui abitasse tutta la pienezza, e che tutto, per mezzo di Lui, fosse riconciliato.” La creazione trova finalmente la sua unità, la sua pace. Il primo a entrare in questo Regno è il ladrone pentito: “Oggi sarai con me in paradiso”. E da allora, ogni uomo che si apre al perdono entra in quella stessa luce. L’Ecaristia è cuore del mistero Di fronte a un tale dono, la risposta possibile è una sola: rendere grazie. Per questo Paolo invita: “Rendete grazie a Dio Padre, che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce.” L’Eucaristia — in greco eucharistia significa proprio “rendimento di grazie” — è il luogo dove la Chiesa rivive questo mistero. Ogni Messa è memoria viva di questa riconciliazione: Dio si dona, il mondo viene rinnovato, l’uomo ritrova se stesso. È lì che tutto si ricompone: il visibile e l’invisibile, la terra e il cielo, l’uomo e Dio. E così, nella storia del mondo, un volto ha rivelato l’invisibile. Un cuore trafitto ha portato la pace. Un pane spezzato continua a rendere presente la pienezza dell’amore. E ogni volta che la Chiesa si raduna per l’Eucaristia, il canto di Paolo si rinnova come una lode cosmica: Cristo è l’immagine del Dio invisibile, il primo e l’ultimo, colui che riconcilia il mondo con il Padre, colui nel quale tutto sussiste. In Lui, tutto trova senso. In Lui, tutto è grazia. In Lui, il Dio invisibile ha finalmente un volto: Gesù Cristo, Signore del cielo e della terra.
*Dal Vangelo secondo Luca (23, 35-43)
La logica degli uomini e la logica di Dio. Tre volte, ai piedi della croce, risuona la stessa provocazione a Gesù:”Se tu sei…” — “Se tu sei il Messia”, deridono i capi religiosi; “Se tu sei il re dei Giudei”, sogghignano i soldati romani;” Se tu sei il Messia”, lo insulta uno dei malfattori crocifissi con lui. Ognuno parla a partire dal proprio punto di vista: i capi d’Israele aspettano un Messia potente, ma davanti a loro c’è un uomo vinto e crocifisso; i soldati, uomini del potere terreno, ridono di un “re” senza difese; il malfattore, invece, attende un salvatore che lo liberi dalla morte. Queste tre voci ricordano le tre tentazioni nel deserto (Lc 4): anche allora il tentatore ripeteva: «Se tu sei Figlio di Dio…». Tentazioni di potere, di dominio e di miracolo. Gesù aveva risposto ogni volta con la Parola: “Sta scritto: l’uomo non vive di solo pane…” “Adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo renderai culto…” “Non tenterai il Signore tuo Dio”. La Scrittura era stata la sua forza per rimanere fedele alla missione del Messia povero e obbediente. Sulla croce, invece, Gesù tace. Non risponde più alle provocazioni. Eppure sa bene chi è: il Messia, il Salvatore. Ma non secondo la logica degli uomini, che vorrebbero un Dio capace di salvarsi da solo, di dominare, di vincere con la forza. Gesù muore proprio perché non corrisponde a questa logica umana. La sua logica è quella di Dio: salvare donandosi, senza imporsi. Il suo silenzio non è vuoto, ma pieno di fiducia. Il suo stesso nome, Gesù, significa: «Dio salva». Attende il suo riscatto da Dio solo, non da sé stesso. Le tentazioni sono vinte per sempre: egli rimane fedele, consegnato totalmente nelle mani degli uomini, ma confidando nel Padre. In mezzo alle offese, due parole racchiudono il mistero della Croce. La prima: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. La seconda, rivolta al “buon ladrone”: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Il perdono e la salvezza: due gesti divini e umani insieme. In Gesù, Dio stesso perdona e riconcilia l’umanità. Il ladrone pentito — che si rivolge a lui dicendo: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno” — è il primo a comprendere chi è veramente Cristo. Non chiede di scendere dalla croce, ma di essere accolto. In quella supplica di umiltà e fiducia, il “ricordati” diventa la preghiera che apre il Paradiso. Là dove Adamo, nel giardino dell’Eden, aveva ceduto alla tentazione di “essere come Dio”, Gesù, il nuovo Adamo, vince attendendo tutto da Dio. Adamo aveva voluto decidere da solo la propria grandezza ed era stato cacciato dal Paradiso; Gesù, invece, accettando di essere Figlio nel totale abbandono, riapre il Paradiso all’umanità. Nel racconto della Passione, si incrociano due logiche: quella degli uomini, che cercano un Dio potente, e quella di Dio, che salva attraverso l’amore e la debolezza. Gesù rifiuta la tentazione di dimostrare la propria forza; sceglie invece di fidarsi del Padre fino alla fine. Nel suo silenzio e nel suo perdono, la potenza divina si manifesta come misericordia. Accanto a lui, il ladrone pentito diventa il primo testimone del Regno: riconosce in Cristo il vero Re, non dei potenti, ma dei salvati. Dove Adamo aveva chiuso le porte del Paradiso, Gesù le riapre: “Oggi sarai con me in Paradiso” è la risposta definitiva di Dio alla logica del mondo.
+ Giovanni D’Ercole
XXXIII Domenica Tempo Ordinario C [16 Novembre 2025]
Prima Lettura dal libro del profeta Malachia (3,19-20 a)
Quando Malachia scrive queste parole, verso il 450 a.C., il popolo è scoraggiato: la fede sembra spegnersi, persino tra i sacerdoti di Gerusalemme, che ormai celebrano il culto in modo superficiale. Tutti si chiedono: “Che cosa fa Dio? Ci ha dimenticati? La vita è ingiusta! Ai malvagi tutto riesce, a che serve essere il popolo eletto e osservare i comandamenti? Dov’è la giustizia di Dio?”. Il profeta allora compie il suo compito: risvegliare la fede e le energie interiori. Rimprovera sacerdoti e laici, ma soprattutto proclama che Dio è giusto e che il suo progetto di giustizia sta avanzando irresistibilmente. “Ecco, sta per venire il giorno del Signore”: la storia non è un ciclo che si ripete, ma cammina verso un compimento. Per chi crede, questa è una verità di fede: il giorno del Signore viene. Secondo l’immagine che ciascuno ha di Dio, questa venuta può far paura o suscitare attesa ardente. Ma per chi riconosce che Dio è Padre, il giorno del Signore è una buona notizia, un giorno di amore e di luce. Malachia usa l’immagine del sole: “Ecco, viene il giorno del Signore, ardente come un forno”. Non è una minaccia! All’inizio del libro Dio dice: “Vi amo” (Ml 1,2) e “Io sono Padre” (Ml 1,6). La “il forno” non è punizione, ma simbolo dell’amore incandescente di Dio. Come i discepoli di Emmaus sentivano il cuore ardere nel petto, così chi incontra Dio è avvolto nel calore del suo amore. Il “sole di giustizia” è dunque fuoco d’amore: nel giorno dell’incontro con Dio saremo immersi in questo oceano ardente di misericordia. Dio non può che amare, soprattutto tutto ciò che è povero, nudo, senza difesa. È il senso stesso della misericordia: un cuore che si piega sulla miseria. Malachia parla anche di giudizio. Il sole, infatti, può bruciare o guarire: è ambivalente. Allo stesso modo, il “Sole di Dio” rivela tutto, illumina senza lasciare zone d’ombra: nessuna menzogna o ipocrisia può nascondersi davanti alla sua luce. Il giudizio di Dio non è distruzione, ma rivelazione e purificazione. Il sole “brucerà” gli arroganti e gli empi, ma “guarirà” coloro che temono il suo nome. L’arroganza, il cuore chiuso, si consumeranno come paglia; l’umiltà e la fede saranno trasfigurate. In ciascuno di noi convivono orgoglio e umiltà, egoismo e amore. Il giudizio di Dio avverrà dentro di noi: ciò che è “paglia” brucerà, ciò che è “buon seme” germoglierà al sole di Dio. Sarà un processo di purificazione interiore, fino a che in noi risplenderà l’immagine e somiglianza di Dio. Malachia usa anche altre due immagini: quella del fonditore, che purifica l’oro non per distruggerlo, ma perché brilli di tutta la sua bellezza; e quella del candeggiatore, che non rovina la veste, ma la rende splendente. Così, il giudizio di Dio è un’opera di luce: tutto ciò che è amore, servizio e misericordia sarà esaltato; tutto ciò che non è amore sparirà. Alla fine resterà solo ciò che riflette il volto di Dio. Il contesto storico: ci aiuta a capire questo testo: Israele vive una crisi di fede e di speranza dopo l’esilio; i sacerdoti sono tiepidi e il popolo è disilluso. Messaggio del profeta: Dio non è assente né ingiusto. Il suo “giorno” verrà: è il momento in cui la sua giustizia e il suo amore si manifesteranno pienamente. Immagine centrale è il Sole di giustizia, simbolo dell’amore purificatore di Dio. Come il sole, l’amore divino brucia e guarisce, consuma il male e fa fiorire il bene. In ognuno di noi Dio non condanna, ma trasforma tutto in salvezza compiendo un discernimento che glorifica l’amore e dissolve l’orgoglio. Il fuoco, il sole, il fonditore e il candeggiatore indicano la purificazione che porta alla bellezza originaria dell’uomo creato a immagine di Dio. Infine: non c’è nulla da temere: per chi crede, il giorno del Signore rivela è l’amore. “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (Ml 3,20).
Salmo Responsoriale (97/98, 5-6, 7-8, 9)
Questo salmo ci trasporta idealmente alla fine dei tempi, quando tutta la creazione rinnovata acclama con gioia l’avvento del Regno di Dio. Il testo parla infatti del mare e delle sue ricchezze, del mondo e dei suoi abitanti, dei fiumi e dei monti: tutta la creazione è coinvolta. San Paolo, nella Lettera agli Efesini (1,9-10), ricorda che questo è il disegno eterno di Dio: «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra». Dio vuole riunire tutto, creare una comunione piena fra il cosmo e le creature, instaurare l’armonia universale. Nel salmo questa armonia è già cantata come realizzata: il mare rimbomba, i fiumi battono le mani, le montagne esultano. È il sogno di Dio, annunciato già dal profeta Isaia (11,6-9): «Il lupo dimorerà con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto… nessuno farà più del male né distruzione su tutto il mio monte santo». Ma la realtà è ben diversa: l’uomo conosce i pericoli del mare, i conflitti con la natura e con i suoi simili. La creazione è segnata da lotta e disarmonia. Tuttavia, la fede biblica sa che verrà il giorno in cui il sogno diventerà realtà, perché è il progetto di Dio stesso. l ruolo dei profeti, come Isaia, è quello di ravvivare la speranza di questo Regno messianico di giustizia e fedeltà. Anche i Salmi ripetono instancabilmente i motivi di questa speranza: nel Salmo 97(98) si canta il Regno di Dio come ristabilimento dell’ordine e della pace universale. Dopo tanti re ingiusti, si attende un Regno di giustizia e rettitudine. Il popolo canta come se tutto fosse già compiuto“Cantate inni al Signore che viene a giudicare la terra…e i popoli con rettitudine” All’inizio del salmo si ricordano le meraviglie del passato — l’esodo dall’Egitto, la fedeltà di Dio nella storia d’Israele — ma ora si proclama che Dio viene: il suo Regno è certo, anche se non ancora pienamente visibile. L’esperienza del passato diventa garanzia dell’avvenire: Dio ha già mostrato la sua fedeltà, e ciò permette al credente di anticipare con gioia l’avvento del Regno.Come dice il Salmo 89(90): “Mille anni ai tuoi occhi sono come il giorno di ieri”. E san Pietro (2 Pt 3,8-9) ricorda che Dio non ritarda la sua promessa, ma attende la conversione di tutti. Questo salmo dunque fa eco alle promesse del profeta Malachia: “Sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (Ml 3,20). I cantori di questo salmo sono i poveri del Signore, coloro che attendono la venuta del Cristo come luce e calore.Un tempo era Israele solo a cantare: “Acclama al Signore, terra intera, acclama il tuo re!” Ma nei tempi ultimi sarà tutta la creazione a unirsi in questo canto di vittoria, non più soltanto il popolo eletto. In ebraico, il verbo “acclamare” evoca il grido di trionfo del vincitore sul campo di battaglia (“teru‘ah”). Ma nel mondo nuovo, questo grido non sarà più di guerra, bensì di gioia e salvezza, perché — come dice Isaia (51,8): “La mia giustizia durerà per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione”.Gesù ci insegna a pregare: “Venga il tuo Regno”, che è il compimento del sogno eterno di Dio: la riconciliazione e la comunione universale, in cui tutta la creazione canterà all’unisono la giustizia e la pace del suo Signore.
Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (3, 7-12)
San Paolo scrive: “Chi non vuole lavorare, neppure mangi” (2 Ts 3,10). Questa frase, oggi, non potrebbe essere ripetuta alla lettera, perché non si riferisce ai disoccupati di buona volontà del nostro tempo, ma a una situazione del tutto diversa. Paolo non parla di chi non può lavorare, ma di chi non vuole lavorare, approfittando dell’attesa della venuta imminente del Signore per vivere nell’inerzia. Nel mondo di Paolo il lavoro non mancava. Egli stesso, arrivato a Corinto, trovò facilmente impiego presso Priscilla e Aquila, che esercitavano il suo stesso mestiere: fabbricanti di tende (At 18,1-3). Il suo lavoro manuale, tessere tele di capra, un’arte imparata a Tarso in Cilicia, era faticoso e poco redditizio, ma gli permetteva di non essere di peso a nessuno: «Nella fatica e nella pena, notte e giorno abbiamo lavorato per non essere di peso a nessuno» (2 Ts 3,8). Questo lavoro continuo, sostenuto anche dall’aiuto economico dei Filippesi, diventa per Paolo una testimonianza viva contro l’ozio di coloro che, convinti dell’imminente ritorno di Cristo, avevano abbandonato ogni impegno. La sua frase «chi non vuole lavorare, non mangi» non è un’invenzione personale, ma un detto rabbinico corrente, espressione di una saggezza antica che univa fede e responsabilità concreta. Il primo motivo che Paolo addduce è il rispetto degli altri: non approfittare della comunità, non vivere a spese altrui.La fede nell’avvento del Regno non deve diventare un pretesto per la passività. Al contrario, l’attesa del Regno si traduce in un impegno operoso e solidale: il cristiano collabora alla costruzione del mondo nuovo con le proprie mani, la propria intelligenza, la propria dedizione. Paolo ricorda implicitamente il mandato della Genesi:«Dominate la terra e sottomettetela» (Gn 1,28), che non significa sfruttare, ma prendere parte al progetto di Dio, trasformando la terra in un luogo di giustizia e di amore, anticipo del suo Regno. Il Regno non nasce fuori dal mondo, ma cresce dentro la storia, attraverso la collaborazione degli uomini. Come canta il padre Aimé Duval: “Il tuo cielo si farà sulla terra con le tue braccia”. E come scrive Khalil Gibran ne Il Profeta: “Quando lavorate, realizzate una parte del sogno della terra… Il lavoro è l’amore reso visibile”. In questa prospettiva, ogni gesto di amore, di cura, di servizio, anche se non retribuito, è una partecipazione alla costruzione del Regno di Dio. Lavorare, creare, servire, è collaborare con il Creatore. San Pietro ricorda: «Per il Signore, un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno… Egli non ritarda nel compiere la sua promessa, ma usa pazienza, volendo che tutti giungano alla conversione» (2 Pt 3,8-9). Questo significa che il tempo dell’attesa non è un vuoto, ma un tempo affidato alla nostra responsabilità. Ogni atto di giustizia, ogni opera buona, ogni gesto d’amore accelera la venuta del Regno. Perciò — conclude il testo — se desideriamo davvero che il Regno di Dio arrivi più presto, non abbiamo un minuto da perdere. Ecco una piccola sintesi spirituale: L’ozio non è semplice mancanza di lavoro, ma rinuncia alla collaborazione con Dio. l lavoro, in qualunque forma, è parte del sogno divino: rendere la terra luogo di comunione e di giustizia. Attendere il Regno non significa evadere dal mondo, ma impegnarsi a trasfigurarlo. Ogni gesto d’amore è una pietra posata per il Regno che viene. Chi lavora con cuore puro accelera l’alba del “Sole di giustizia” promesso dai profeti.
Dal Vangelo secondo Luca (21, 5-19)
“Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” Qui c’è un linguaggio profetico, non letterale. Constatiamo ogni giorno che i capelli si perdono davvero! Ciò dimostra che le parole di Gesù non vanno prese alla lettera, ma come un linguaggio simbolico. Gesù, come i profeti prima di lui, non fa predizioni sul futuro: fa predicazioni. Non annuncia cronache di avvenimenti, ma chiavi di fede per interpretare la storia. Anche il suo discorso sulla fine del Tempio va compreso così: non è un oroscopo dell’apocalisse, ma un insegnamento per vivere con fede il presente, soprattutto quando tutto sembra crollare. Il messaggio è chiaro: “Qualunque cosa accada… non abbiate paura!» Gesù invita a non fondare la vita su ciò che passa. Il Tempio di Gerusalemme, restaurato da Erode e coperto d’oro, era splendido, ma destinato a crollare. Ogni realtà terrena, anche la più sacra o solida, è provvisoria. La vera stabilità non sta nelle pietre, ma in Dio. Gesù non offre dettagli sul “quando” o sul “come” del Regno; egli sposta la questione: “Fate attenzione a non lasciarvi ingannare…” Non ci serve conoscere il calendario del futuro, ma vivere il presente nella fedeltà. Gesù avverte i suoi discepoli: “Prima di tutto questo vi perseguiteranno, vi trascineranno davanti ai re e ai governatori a causa del mio Nome». Luca, che scrive dopo anni di persecuzioni, sa bene quanto questo si sia avverato: da Stefano a Giacomo, da Pietro a Paolo, fino a tanti altri. Ma anche nelle persecuzioni, Gesù promette: «Io vi darò una parola e una sapienza alla quale nessuno potrà resistere». Questo non significa che i cristiani saranno risparmiati dalla morte — «uccideranno alcuni di voi» —, ma che nessuna violenza potrà distruggere ciò che siete in Dio :«Neppure un capello del vostro capo andrà perduto». È un modo per dire: la vostra vita è custodita nelle mani del Padre. Anche attraverso la morte, rimanete vivi della vita di Dio Gesù pronuncia due volte l’espressione «a causa del mio Nome». Nel linguaggio ebraico, “Il Nome” indica Dio stesso: dire “a causa del Nome” è dire “a causa di Dio”. Così Gesù rivela la sua stessa divinità: soffrire per il suo Nome è partecipare al mistero del suo amore. San Luca, negli Atti degli Apostoli, mostra Pietro e Giovanni che, dopo essere stati flagellati, «se ne andarono pieni di gioia, perché si erano sentiti degni di soffrire per il Nome di Gesù» (At 5,41).È la stessa certezza che san Paolo esprimerà nella Lettera ai Romani: «Né la morte né la vita, né alcuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù» (Rm 8,38-39). Le catastrofi, le guerre, le epidemie — tutte queste “scosse” del mondo — non devono toglierci la pace. Il vero segno dei credenti è la serenità che viene dalla fiducia. Nell’agitazione del mondo, la calma dei figli di Dio è già una testimonianza. Gesù lo riassume in una parola: Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Ed ecco una sintesi spirituale: Gesù non promette una vita senza prove, ma una salvezza più forte della morte. Neppure un capello…» significa: nessun frammento di te è dimenticato da Dio. La persecuzione non distrugge, ma purifica la fede. Niente potrà separarci dall’amore di Dio: la nostra sicurezza è il Cristo risorto. Credere è rimanere saldi, anche quando tutto trema.
+ Giovanni D’Ercole
(Lc 23,35-43)
Il Figlio è crocifisso tra criminali. Per il potere politico e religioso, lui era un pericolo assai peggiore.
Secondo Lc solo uno lo oltraggiava; l’altro chiama Gesù per nome e gli si affida (v.42).
All’inizio del Vangelo la venuta del Signore è collocata fra gli ultimi della terra.
Egli si manifesta al mondo tra gente impura e persone disprezzate [addirittura sicure di dover essere fatte fuori dal Messia giudice, e che quindi ne avevano timore] non fra i giusti e santi del Tempio.
Poi tutta la sua vita si svolge in mezzo a pubblicani e peccatori, perché venuto per loro.
Infatti: chi riporta in casa del Padre? Uno qualunque, che rappresenta tutti noi - un malfattore che aveva compiuto omicidi - perché tutti i peccati consistono nel togliere vita e gioia di vivere a qualcuno.
Così quell’assassino ci rappresenta. E il Cristo inizia a edificare Famiglia proprio con un criminale accanto, che siamo noi: peccatori recuperati dal suo amore senza condizioni.
In Lc la folla è allo sbando.
La gente non insulta il Fedele accusato dalle autorità religiose, ma rimane perplessa, non capisce.
Il popolo non ha avuto guide spirituali sane, in grado di far riconoscere il proprio del mondo di Dio - e viceversa, ciò che lo rende caricaturale.
Quello di Re universale è un titolo che oggi reca con sé non pochi equivoci - quando attribuito al Cristo autentico, ridotto a zero.
Ciò perché confuso con grandezze artificiose, magnificenze di sola appariscenza.
La regalità dei credenti in Lui è inapparente, tutta sostanza. Potenza che apre nuove possibilità, persino in dimensione buia.
Nulla a che fare con le tentazioni di realizzarsi pensando in modo banale, precipitoso, esteriore, confortevole, e promuovendo unicamente se stessi (vv.37.39).
Nei Vangeli - infatti - il male si presenta non come avversario cattivo e antagonista, ma consigliere affabile e compiacente, che sembra trasmettere sicurezza dagli imprevisti, e farci conquistare posizioni.
Amico che ci vuol bene e tutela, perciò dà le dritte per farsi valere, imporre, riuscire.
Ma centrarsi sulle parvenze finisce per farci ignorare e non comprendere i percorsi profondi dell’anima.
Alla parola «regno», Pilato pensava immediatamente quello di Tiberio (vv.2-4).
Qui la dimensione del Regno è capovolta: non mostra i muscoli.
Il suo Re si fa accanto, è Persona in grado di creare sintonie di bellezza dentro; una strada più silenziosa.
La Salvezza viene da ciò che nella nostra vita è considerato insulso e un nulla, eppure spalanca l’infinito che ci abita - lo sconfinato dell’Amico primordiale, presente e finale.
Egli riverbera in cuore, e indirizza - Eterno che intimamente risuona, anche in situazioni tragiche.
Ciò Viene addirittura da chi - Gesù benevolo oppresso - è stato valutato un maledetto da Dio e considerato feccia della società à la page.
Viceversa, Presenza amica; che ci fa “vedere” e sblocca.
La differenza radicale tra religiosità e Fede? Il senso di un Mistero intimo e sorprendente, che ci desta.
Vino, non «aceto» [vino inacidito (v.36)]: corruzione dell’amore e della festa.
Il Dio delle religioni scaccia la donna e l’uomo contraddittori e inadeguati dal Paradiso. Il Padre li accoglie.
[34.a Domenica T.O. (anno C), 23 Novembre 2025, Cristo Re]
(Lc 23,35-43)
Il Figlio è crocifisso tra criminali. Per il potere politico e religioso, lui era un pericolo assai peggiore.
Secondo Lc solo uno lo oltraggiava; l’altro chiama Gesù per nome e gli si affida (v.42).
All’inizio del Vangelo la venuta del Signore è collocata fra gli ultimi della terra.
Egli sin dall’inizio si manifesta al mondo tra gente impura e persone disprezzate [addirittura sicure di dover essere fatte fuori dal Messia giudice, e che quindi ne avevano timore] non fra i giusti e santi del Tempio.
Poi tutta la sua vita si svolge in mezzo a pubblicani e peccatori, perché venuto per loro.
Infatti: chi riporta in casa del Padre? Uno qualunque, che rappresenta tutti noi - un malfattore che aveva compiuto omicidi - perché tutti i peccati consistono nel togliere vita e gioia di vivere a qualcuno.
Così quell’assassino ci rappresenta. E il Cristo inizia a edificare Famiglia proprio con un criminale accanto, che siamo noi: peccatori recuperati dal suo amore senza condizioni.
Quali proposte ci offrono una spinta valida e non amputano parti preziose di noi stessi?
Cosa riteniamo possa divinizzarci, portando vicini alla vita completa?
Chi è amico che non s’interrompe, e chi nemico - in grado di farci crescere (o disumanizzare)?
In Lc la folla è allo sbando.
La gente non insulta il Fedele accusato dalle autorità religiose, ma rimane perplessa, non capisce.
Il popolo non ha avuto guide spirituali sane, in grado di far riconoscere il proprio del mondo di Dio - e viceversa, ciò che lo rende caricaturale.
Quello di Re universale è un titolo che oggi reca con sé non pochi equivoci - quando attribuito al Cristo autentico, ridotto a zero.
Ciò perché confuso con benemerenze fatue, grandezze artificiose, magnificenze da teatro e di sola appariscenza [per lo più ridicole].
La regalità dei credenti in Lui è inapparente, ma tutta sostanza. Potenza che apre nuove possibilità, persino in dimensione buia.
Nulla a che fare con le tentazioni di realizzarsi pensando in modo banale, precipitoso, esteriore, confortevole, e promuovendo unicamente se stessi (vv.37.39).
Nei Vangeli - infatti - il male si presenta non come avversario cattivo e antagonista, ma come consigliere affabile e compiacente, che sembra trasmettere sicurezza dagli imprevisti, e farci conquistare posizioni.
Amico che ci vuol bene e tutela, perciò dà le dritte per farsi valere, imporre, riuscire. E pur affermare nelle cose di rilievo sociale [ma epidermico] degradanti la personale vocazione.
Anche (così è sembrato spesso, purtroppo) in campo spirituale.
Ma centrarsi sulle parvenze finisce per farci ignorare e non comprendere i percorsi profondi dell’anima.
Sul Calvario il Signore realizza una regalità, un modo di coronare la vita, un innalzamento di sé, diametralmente opposto a quanto suggerito dal maligno.
E rieccolo all’appuntamento cruciale fissato sin dall’inizio della sua vicenda pubblica (Lc 4,1-13), nel momento della debolezza estrema!
Insomma, vogliamo essere grandi, capaci di sorpassare, e ben considerati, anche nella vita spirituale.
Ma per diventare capi-villaggio bisogna farsi astuti o confondersi nel branco, e seguire criteri che con la vita di Gesù nulla hanno a che fare.
Allearsi con gente che conta, introdursi, farsi conoscere, imparare a sedurre, essere svelti, ammanicati, lesti, abili.
In tal guisa, anche nel Cammino verso Dio cediamo alla tentazione del ruolo, del calibro, della notorietà, della considerazione, della visibilità, dell’agio. E bocche cucite, altrimenti niente carriera.
La spinta della pancia raccomanda: “Dài che insieme riusciamo a fare qualcosa di grosso, e sarai il dominante del nido. Invece che un fallito qualsiasi; diventerai qualcuno da riverire”.
Ma la dimensione del Regno è capovolta.
Alla parola «regno», Pilato pensava immediatamente quello di Tiberio (vv.2-4).
Invece, al termine della vita, il trono di Gesù qual è stato? E i servi ossequienti?
Sotto aveva una platea che lo insultava e sfidava.
Le guardie del corpo? Dove sono finiti i ministri arrembanti, i generali e colonnelli, quelli che scattano ai suoi ordini?
Due sventurati, sfigurati dai propri errori, che ci rappresentano.
Ma qualcuno recita sino alla fine il mantra: «Salvati!».
Cristo e i suoi intimi non intendono distruggere l’anima, perciò non scendono dal patibolo, anzi lo riconoscono “proprio”: opportunità suprema.
Non vogliamo aggiungere più anni, ma più intensità di vita.
Non adeguiamo il cuore alla regalità antica, quella di coloro che intimidiscono, mostrano i muscoli, usano le proprie capacità e persino la parvenza devota solo per tornaconto - edificando situazioni di cartapesta, senza nerbo.
Gente pericolosissima: sono i gendarmi del mondo ambizioso, concorrenziale, cinico. Abituati al servilismo adulatore che fa chinare il capo a tutti.
Essi porgono «aceto», vino inacidito (v.36): la corruzione dell’amore e della festa.
Il loro prodotto amaro è quel voler bene al sistema delle cose, e ad una caricatura di felicità legata al potere che “conta”.
Se approvati, rischiano di farci rinunciare al desiderio d’un mondo alternativo, e ripiegare su noi stessi.
Invece il malfattore lo chiama per Nome, riconoscendolo compagno di viaggio, confidente e alleato naturale.
Uno che si fa accanto, e in grado di creare sintonie di bellezza dentro; una strada più silenziosa.
Allora, come si correlano in noi Vittoria e Pace?
È un “tempo” che forse ancora non conosciamo, malgrado il virtuosismo degli adempimenti devoti (che a volte radicano nei disturbi peggiori).
Diventando sempre più attenti e amabili, meno lontani e competitivi, forse risponderemmo in modo sorprendente a un tale quesito:
È il prevalere che reca senso di armonia, brio e completezza, o viceversa?
Cosa distrae dal gorgo degli idoli che sviano l’esistenza e confondono la destinazione?
La Salvezza viene da ciò che nella nostra vita è considerato insulso e un nulla, eppure spalanca l’infinito che già ci abita - lo sconfinato dell’Amico primordiale, presente e finale.
Egli riverbera in cuore, e indirizza - Eterno che intimamente risuona, anche in situazioni tragiche.
Ciò Viene addirittura da chi - Gesù benevolo oppresso - è stato valutato un maledetto da Dio e considerato feccia della società à la page.
Viceversa, Presenza amica; che ci fa “vedere” e sblocca.
La differenza radicale tra religiosità e Fede? Il senso di un Mistero intimo e sorprendente, che ci desta.
Il Dio delle religioni scaccia la donna e l’uomo contraddittori e inadeguati dal Paradiso. Il Padre li accoglie.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
I capi deridono: “Tu hai capacità: pensa a te, affermati, disinteressati; devi sovrastare, o almeno galleggiare. Non preoccuparti d’altro!”.
In quale personaggio ti riconosci?
Nel momento della debolezza, ti si ripresentano le tentazioni del potere, o vedi dentro e meglio - proprio attraversando la tua inadeguatezza?
Nel Vangelo si vede che tutti chiedono a Gesù di scendere dalla croce. Lo deridono, ma è anche un modo per discolparsi, come dire: non è colpa nostra se tu sei lì sulla croce; è solo colpa tua, perché se tu fossi veramente il Figlio di Dio, il Re dei Giudei, tu non staresti lì, ma ti salveresti scendendo da quel patibolo infame. Dunque, se rimani lì, vuol dire che tu hai torto e noi abbiamo ragione. Il dramma che si svolge sotto la croce di Gesù è un dramma universale; riguarda tutti gli uomini di fronte a Dio che si rivela per quello che è, cioè Amore. In Gesù crocifisso la divinità è sfigurata, spogliata di ogni gloria visibile, ma è presente e reale. Solo la fede sa riconoscerla: la fede di Maria, che unisce nel suo cuore anche questa ultima tessera del mosaico della vita del suo Figlio; Ella non vede ancora il tutto, ma continua a confidare in Dio, ripetendo ancora una volta con lo stesso abbandono “Ecco la serva del Signore” (Lc 1,38). E poi c’è la fede del buon ladrone: una fede appena abbozzata, ma sufficiente ad assicurargli la salvezza: “Oggi con me sarai nel paradiso”. Decisivo è quel “con me”. Sì, è questo che lo salva. Certo, il buon ladrone è sulla croce come Gesù, ma soprattutto è sulla croce con Gesù. E, a differenza dell’altro malfattore, e di tutti gli altri che li scherniscono, non chiede a Gesù di scendere dalla croce né di farlo scendere. Dice invece: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Lo vede in croce, sfigurato, irriconoscibile, eppure si affida a Lui come ad un re, anzi, come al Re. Il buon ladrone crede a ciò che c’è scritto su quella tavola sopra la testa di Gesù: “Il re dei Giudei”: ci crede, e si affida. Per questo è già, subito, nell’“oggi” di Dio, in paradiso, perché il paradiso è questo: essere con Gesù, essere con Dio.
[Papa Benedetto, omelia al Concistoro 21 novembre 2010]
Il testo del Vangelo di san Luca, ora proclamato, ci riporta col pensiero alla scena altamente drammatica che si svolge nel “luogo detto Calvario” (Lc 23,33) e ci presenta, intorno a Gesù crocifisso, tre gruppi di persone che variamente discutono della sua “figura” e della sua “fine”. Chi è, in realtà, colui che sta lì crocifisso? Mentre la gente comune ed anonima resta piuttosto incerta e si limita a guardare, “i capi invece lo schernivano, dicendo: Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. Come si vede, la loro arma è l’ironia negatrice e demolitrice. Ma anche i soldati - il secondo gruppo - lo deridevano e, quasi in tono di provocazione e di sfida, gli dicevano: “Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso”, prendendo forse lo spunto dalle parole stesse della scritta, che vedevano posta sopra il suo capo. C’erano, poi, i due malfattori in contrasto tra loro nel giudicare il compagno di pena: mentre uno lo bestemmiava, raccogliendo e ripetendo le espressioni sprezzanti dei soldati e dei capi, l’altro dichiarava apertamente che Gesù “non aveva fatto nulla di male” e, rivolgendosi a lui, così l’implorava: “Signore, ricordati di me, quando sarai nel tuo regno”.
Ecco come, nel momento culminante della crocifissione, proprio quando la vita del profeta di Nazaret sta per essere soppressa, noi possiamo raccogliere, sia pure nel vivo di discussioni e contraddizioni, queste arcane allusioni al re ed al regno.
2. Tale scena vi è ben nota, fratelli e figli carissimi, e non ha bisogno di altri commenti. Ma quanto è opportuno e significativo e, direi, quanto è giusto e necessario che l’odierna festa di Cristo re sia inquadrato appunto sul Calvario. Possiamo dire senz’altro che la regalità di Cristo, quale anche oggi noi celebriamo e meditiamo, deve esser sempre riferita all’evento, che si svolge su quel colle, ed esser compresa nel mistero salvifico, ivi operato da Cristo: dico l’evento ed il mistero della redenzione dell’uomo. Cristo Gesù - dobbiamo rilevare - si afferma re proprio nel momento in cui, tra i dolori e gli strazi della croce, tra le incomprensioni e le bestemmie degli astanti, agonizza e muore. Davvero, una regalità singolare è la sua, tale che solo l’occhio della fede può riconoscerla: “Regnavit a ligno Deus”!
3. La regalità di Cristo, che scaturisce dalla morte sul Calvario e culmina con l’evento da essa indissociabile della risurrezione, ci richiama a quella centralità, che a lui compete in ragione di quel che è e di quel che ha fatto. Verbo di Dio e Figlio di Dio, innanzitutto e soprattutto, “per mezzo del quale - come tra poco ripeteremo nel “credo” - tutte le cose sono state create”, egli ha un intrinseco, essenziale ed inalienabile primato nell’ordine della creazione, rispetto alla quale è la suprema causa esemplare. E dopo che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14), anche come uomo e figlio dell’uomo, egli consegue un secondo titolo nell’ordine della redenzione, mediante l’ubbidienza al disegno del Padre, mediante la sofferenza della morte ed il conseguente trionfo della risurrezione.
Convergendo in lui questo duplice primato, noi abbiamo, dunque, non solo il diritto e il dovere, ma anche la soddisfazione e l’onore di confessare l’eccelsa sua signoria sulle cose e sugli uomini, che con termine non certo improprio né metaforico può esser chiamata regalità. “Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte ed alla morte di croce. Per questo, Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e negli inferi; ed ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore” (Fil 2,8-11).
Ecco il nome di cui ci parla l’apostolo: è il nome di Signore e vale a designare l’impareggiabile dignità, la quale spetta a lui solo e pone lui solo - come ho scritto, all’inizio della mia prima enciclica - al centro, anzi al vertice del cosmo e della storia. “Ave Dominus noster! Ave rex noster”!
4. Ma volendo considerare, oltre ai titoli ed alle ragioni, anche la natura e l’ambito della regalità di Cristo nostro Signore, noi non possiamo fare a meno di risalire a quella potestà che egli stesso, sul punto di lasciare questa terra, definì totale ed universale, ponendola alla base della missione confidata agli apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,18-20). In queste parole non c’è solo - com’è evidente - l’esplicita rivendicazione di un’autorità sovrana, ma è altresì indicata, nell’atto stesso in cui essa viene partecipata agli apostoli, una sua ramificazione in distinte, pur se coordinate, funzioni spirituali. Se, infatti, Cristo risorto dice ai suoi di andare e ricorda ciò che ha già comandato, se dà loro l’incarico sia di ammaestrare che di battezzare, ciò si spiega perché egli stesso, proprio in forza della somma potestà che gli appartiene, possiede in pienezza tali diritti ed è abilitato ad esercitare tali funzioni, come re, maestro e sacerdote.
Non è certo il caso di chiederci quale sia il primo di questi tre titoli, perché, nel contesto generale della missione salvifica che Cristo ha ricevuto dal Padre, a ciascuno di essi corrispondono funzioni ugualmente necessarie e importanti. Tuttavia, anche per mantenerci aderenti al contenuto dell’odierna liturgia, è opportuno insistere sulla funzione regale e concentrare il nostro sguardo, illuminato dalla fede, sulla figura di Cristo come re e signore.
Al riguardo, ovvia appare l’esclusione di qualsiasi riferimento di natura politica o temporalistica.
Alla formale domanda fattagli da Pilato: “Sei tu il re dei giudei?” (Gv 18,33), Gesù risponde esplicitamente che il suo regno non è di questo mondo e, dinanzi all’insistenza del procuratore romano, afferma: “Tu lo dici: io sono re”, aggiungendo subito dopo: “Per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). In tal modo, egli dichiara quale sia l’esatta dimensione della sua regalità e la sfera in cui si esercita: è la dimensione spirituale che comprende, in primo luogo, la verità da annunciare e da servire. Il suo regno, anche se comincia quaggiù sulla terra, nulla ha però di terreno e trascende ogni umana limitazione, proteso com’è verso la sua consumazione oltre il tempo, nell’infinità dell’eterno.
5.È a questo regno che Cristo Signore ci ha chiamato, facendoci dono di una vocazione che è partecipazione a quei suoi poteri che ho già ricordato. Noi tutti siamo al servizio del regno e, nello stesso tempo, in forza della consacrazione battesimale, siamo investiti di una dignità e di un ufficio regale, sacerdotale e profetico, al fine di poter efficacemente collaborare alla sua crescita ed alla sua diffusione. Questa tematica, sulla quale ha tanto provvidenzialmente insistito il Concilio Vaticano nella costituzione sulla Chiesa e nel decreto sull’apostolato dei laici (cf. Lumen Gentium, 31-36; Apostolicam Actuositatem, 2-3), vi è certamente familiare, carissimi fratelli e figli della diocesi di Roma che mi state ascoltando. Ma oggi, proprio nella circostanza della festa di Cristo re, desidero richiamarla e raccomandarla vivamente alla vostra attenzione e sensibilità.
Voi, infatti, siete venuti a questa sacra assemblea, come rappresentanti e primi responsabili del laicato romano, che più direttamente è impegnato nell’azione apostolica. Chi più e meglio di voi, anche per il dovere dell’esemplarità che incombe sui cristiani dell’urbe, in una ricorrenza così significativa è sollecitato a riflettere circa il modo di concepire e di svolgere un tale lavoro? Si tratta realmente di un servizio del regno, e proprio questo è il motivo per cui oggi vi ho convocato nella Basilica vaticana, per incoraggiare i vostri animi a prestare un sempre vigile, concreto e generoso servizio al regno di Cristo.
So che, in vista del nuovo anno pastorale, state studiando il tema “comunità e comunione”, ed avete posto a base delle vostre riflessioni le note parole rivolte dall’apostolo Giovanni ai primi battezzati, le quali possono esser considerate come il programma dinamico di ogni comunità cristiana: “Ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita,... noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1Gv 1,1.3).
Ecco enunciato, carissimi, il vostro schema di vita e di lavoro: voi, credenti e cristiani, laici e sacerdoti impegnati, raccogliendo la testimonianza degli apostoli, avete già visto il Cristo redentore e re, vi siete con lui incontrati nella realtà della sua presenza umana e divina, storica e trascendente, siete entrati in comunicazione con lui, con la sua grazia, con la verità e con la salvezza da lui portate, ed ora, in base a questa forte esperienza, intendete annunciarlo alla città di Roma, alle persone, alle famiglie, alle comunità che in essa vivono. È questo un grande compito, un alto onore, un dono ineffabile: servire Cristo re ed impegnare tempo, fatica, intelligenza e fervore per farlo conoscere, amare, seguire, nella certezza che solo in Cristo - via, verità e vita (Gv 14,6) - la società e il singolo potranno trovare il vero significato dell’esistenza, il codice dei valori autentici, la giusta linea morale, la necessaria forza nelle avversità, la luce e la speranza circa le realtà metastoriche. Se grande è la vostra dignità e magnifica è la vostra missione, siate sempre pronti e lieti nel servire Cristo re in ogni luogo, in ogni momento, in ogni ambiente.
Conosco bene le gravi difficoltà che si trovano nella società moderna e, in modo particolare, nelle città popolose e febbrili, come è la Roma d’oggi. Nonostante certe situazioni complicate e a volte ostili, io vi esorto a non perdervi mai d’animo. Coraggio! Lavorate con zelo nell’ambito dell’intera diocesi e delle singole parrocchie e comunità, portando dappertutto l’entusiasmo della vostra fede e del vostro amore per un servizio puntuale e fedele a Cristo Signore. Così sia.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 23 novembre 1980]
Nell’ultima domenica dell’anno liturgico, uniamo le nostre voci a quella del malfattore che, crocifisso con Gesù, lo riconobbe e lo proclamò re. Lì, nel momento meno trionfante e glorioso, in mezzo alle grida di scherno e di umiliazione, quel delinquente è stato capace di alzare la voce e fare la sua professione di fede. Queste sono le ultime parole che Gesù ascolta e, a loro volta, sono le ultime parole che Lui pronuncia prima di consegnarsi al Padre: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Il tortuoso passato del ladro sembra, per un istante, assumere un nuovo significato: accompagnare da vicino il supplizio del Signore; e questo istante non fa altro che confermare la vita del Signore: offrire sempre e dovunque la salvezza. Il Calvario, luogo di smarrimento e di ingiustizia, dove l’impotenza e l’incomprensione sono accompagnate dalla mormorazione sussurrata e indifferente dei beffardi di turno davanti alla morte dell’innocente, si trasforma, grazie all’atteggiamento del buon ladrone, in una parola di speranza per tutta l’umanità. Le burle e le grida di “salva te stesso” di fronte all’innocente sofferente non saranno l’ultima parola; anzi, susciteranno la voce di quelli che si lasciano toccare il cuore e scelgono la compassione come vero modo per costruire la storia.
Oggi qui vogliamo rinnovare la nostra fede e il nostro impegno. Conosciamo bene la storia dei nostri fallimenti, peccati e limiti, come il buon ladrone, ma non vogliamo che sia questo a determinare o definire il nostro presente e futuro. Sappiamo che non di rado possiamo cadere nel clima pigro che fa dire con facilità e indifferenza “salva te stesso”, e perdere la memoria di ciò che significa sopportare la sofferenza di tanti innocenti. Queste terre hanno sperimentato, come poche altre, la capacità distruttiva a cui può giungere l’essere umano. Perciò, come il buon ladrone, vogliamo vivere l’istante in cui poter alzare le nostre voci e professare la nostra fede a difesa e a servizio del Signore, l’Innocente sofferente. Vogliamo accompagnare il suo supplizio, sostenere la sua solitudine e il suo abbandono, e ascoltare, ancora una volta, che la salvezza è la parola che il Padre vuole offrire a tutti: «Oggi sarai con me nel paradiso».
Salvezza e certezza che hanno testimoniato coraggiosamente con la vita San Paolo Miki e si suoi compagni, come pure le migliaia di martiri che segnano la vostra eredità spirituale. Sulle loro orme vogliamo camminare, sui loro passi vogliamo andare per professare con coraggio che l’amore dato, sacrificato e celebrato da Cristo sulla croce è in grado di vincere ogni tipo di odio, egoismo, oltraggio o cattiva evasione; è in grado di vincere ogni pessimismo indolente o benessere narcotizzante, che finisce per paralizzare ogni buona azione e scelta. Ce lo ricordava il Concilio Vaticano II: sono lontani dalla verità coloro che, sapendo che non abbiamo qui una città permanente ma siamo protesi a quella futura, pensano che per questo possiamo trascurare i nostri doveri terreni, senza accorgersi che, proprio per la fede stessa che professiamo, siamo tenuti a compierli così da attestare e manifestare la nobiltà della vocazione alla quale siamo stati chiamati (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 43).
La nostra fede è nel Dio dei viventi. Cristo è vivo e agisce in mezzo a noi, guidandoci tutti alla pienezza della vita. È vivo e ci vuole vivi. Cristo è la nostra speranza (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 1). Lo imploriamo ogni giorno: venga il tuo Regno, Signore. E così facendo vogliamo anche che la nostra vita e le nostre azioni diventino una lode. Se la nostra missione come discepoli missionari è di essere testimoni e araldi di ciò che verrà, essa non ci permette di rassegnarci davanti al male e ai mali, ma ci spinge a essere lievito del suo Regno dovunque siamo: in famiglia, al lavoro, nella società; ci spinge ad essere una piccola apertura in cui lo Spirito continua a soffiare speranza tra i popoli. Il Regno dei cieli è la nostra meta comune, una meta che non può essere solo per il domani, ma la imploriamo e iniziamo a viverla oggi, accanto all’indifferenza che circonda e fa tacere tante volte i nostri malati e disabili, anziani e abbandonati, rifugiati e lavoratori stranieri: tutti loro sono sacramento vivo di Cristo, nostro Re (cfr Mt 25,31-46); perché «se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49).
Quel giorno, sul Calvario, molte voci tacevano, tante altre deridevano; solo quella del ladrone seppe alzarsi e difendere l’innocente sofferente: una coraggiosa professione di fede. Spetta ad ognuno di noi la decisione di tacere, di deridere o di profetizzare. Cari fratelli, Nagasaki porta nella propria anima una ferita difficile da guarire, segno della sofferenza inspiegabile di tanti innocenti; vittime colpite dalle guerre di ieri ma che ancora oggi soffrono per questa terza guerra mondiale a pezzi. Alziamo qui le nostre voci, in una preghiera comune per tutti coloro che oggi stanno patendo nella loro carne questo peccato che grida in cielo, e perché siano sempre di più quelli che, come il buon ladrone, sono capaci di non tacere né deridere, ma di profetizzare con la propria voce un regno di verità e di giustizia, di santità e di grazia, di amore e di pace.
[Papa Francesco, omelia Nagasaki 24 novembre 2019]
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà.
Ma se Dio ci crea e chiama incessantemente per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai farisei e - sembra - anche a Gesù.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita, e nella Torah pareva loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
In effetti i Farisei credevano alla risuscitazione dei morti in senso molto banale: una sorta di miglioramento e sublimazione delle (medesime) condizioni di essere naturale.
Per loro la vita dell’aldilà non era che un prolungamento accentuato, nobilitato e imbellito di questa nostra forma d’esistere.
Invece la vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta. Paragonabile all’immediatezza dell’amore.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
‘Risurrezione della carne’ designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste forme di vita: (traslitterando) Bìos e Zoe Aiònios [Vita dell’Eterno] che non ha a che vedere con la realtà solo biologica [v.36: «uguali agli angeli»].
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di ‘comunicazione diretta’.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un ‘essere-con e per’ gli altri; prontamente, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù. Egli ammutolisce pure i Sadducei facendoli riflettere; e trae il fondamento della Risurrezione (ma come la intende Lui) proprio da Esodo.
Così mostra che già nella Legge c’è una presentazione di Dio incompatibile con un destino d’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi. Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica l’Altissimo prendeva nome dalla regione o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi, non della polvere o del nulla.
Questo il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”.
[Sabato 33.a sett. T.O. 22 novembre 2025]
E Dio che lega il suo cuore all’umanità
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà, infondendo disorientamento e angoscia di pensieri sul senso della vita, sul motivo per cui ciascuno di noi esiste.
Se Dio ci crea e chiama incessantemente, per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai Farisei e - sembra - anche a Gesù.
Egli però riteneva che il Padre era ben altro che un Vivente… il quale infine si metteva a risuscitare cadaveri!
[È il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”].
Nella mentalità semitica la norma del ‘levirato’ era specchio di un’idea fiacca dell’esistenza dopo la morte - relegata alla semplice continuità del nome.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita: predicavano la religione che serviva a ottenere benedizioni per esistere su questa terra in modo agiato - e tanto loro bastava.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
I sadducei il loro “paradiso” se l’erano già costruito in città e fuori.
Le loro ampie ville con corte interna e piscina privata per le abluzioni erano proprio sulla collina dirimpetto al Tempio di Gerusalemme, dalla parte opposta del Monte degli Ulivi (ossia verso ovest).
Le loro seconde case - dove passavano l’inverno - erano a Gerico.
Anche per interesse diretto nell’attività sacrificale che svolgevano, ritenevano comunque che i testi profetici non avessero dignità di Scrittura sacra: solo la Legge rispecchiava la volontà di Dio.
E nella Torah sembrava loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione dei morti.
Così tentano d’incastrare anche Gesù, con un paradosso costruito ad arte, per evidenziare le contraddizioni di questa credenza - apparsa solo dal 2° sec. a.C. nel libro di Daniele e in Maccabei.
Essi la ritenevano assurda - quindi intendevano screditare il «Maestro» [termine con cui lo designano per metterlo in ridicolo: v.28].
In effetti l’appiglio c’era, perché i Farisei credevano alla risuscitazione nel senso banale. Una sorta di accentuazione, miglioramento o sublimazione delle (medesime) condizioni di vita - e legami - naturali.
Quindi non una forma definitiva, senza confini, qualitativamente indistruttibile.
In sostanza, nel ‘mondo di là’ ognuno avrebbe goduto completamente degli affetti famigliari e di clan della precedente forma di vita - e così via.
‘L’aldilà’ non doveva essere che un prolungamento sublimato, nobilitato e imbellito di questo nostro modo di esistere; senza malattie, sofferenze, problemi vari.
[Insomma, vita solo progredita; forse come ci è stata un tempo trasmessa da catechisti volenterosi... ma poco attenti alla Parola di Dio].
Così appunto i sadducei - conservatori - che accettavano unicamente il Pentateuco - ove sostenevano appunto che non si accenna a un’altra vita, ulteriore.
In tal guisa, essi avevano gioco facile a smascherare la fragilità di quella credenza popolare, cui i leaders del fariseismo erano viceversa legati.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
Nell’ambiente latino, tuttora, il modo d’intendere la Risurrezione risente non poco delle modalità rappresentative della tradizione pittorica.
Leggendo le raffigurazioni cui siamo abituati… notiamo che subito il Risorto mette a terra i gendarmi e spaventa tutti.
Esce dal sepolcro con il vessillo di vittoria, forte e muscoloso. Irrompe come tornando di qua per battere gli avversari.
Pretese descrittive e naturalistiche che non rendono merito alla Fede e quasi ridicolizzano i Vangeli.
Viceversa, nelle icone orientali la Risurrezione è intesa e figurata in modo sostanziale, misterico: la Discesa agli Inferi.
Non è un trionfo di Dio, che s’impone al mondo. Egli non ne ha bisogno alcuno.
Piuttosto l’evento teologico resta a sostegno della vittoria dei suoi figli, i quali ricevono vita direttamente dal Padre.
Ecco il riscatto della donna e dell’uomo qualunque [Adamo ed Eva] che vengono tratti dai sepolcri dalla forza divina - non naturale - del Cristo Risorto.
Il mondo definitivo stravolge l’idea dello Sheôl e lo scardina totalmente, sgombrando il buio - e quel grande dramma dell’umanità.
Si entra nel mondo di Dio; non si torna di qua - magari per vivere meglio: ringiovaniti e sani invece che malati, in villa con giardino piuttosto che in monolocale.
La vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta.
Paragonabile all’immediatezza dell’amore: un essere-con e per gli altri. Collimante al modo di esistere degli Angeli (v.36): essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
“Risurrezione della carne” designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, all’intimità stessa di Dio - nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Ovviamente non si può credere di venire introdotti nella Condizione Divina se durante il corso terreno non abbiamo sperimentato un costante vettore esistenziale morte-risurrezione.
È l’esperienza del guadagno nella sconfitta; in particolare, la scoperta di una vita impensabile, che ci ha fatto trasalire di Felicità. Per lo Stupore: nella provvidenziale trasmutazione dei nostri lati deboli e oscuri, da fiacche parvenze a punti di forza.
Diventati evolutivi, forse il meglio di noi.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste due forme di essere: (traslitterando dal greco) Bìos, e Zoè Aiònios.
La Zoe, Vita stessa dell’Eterno, è acutamente relazionale e sperimentabile - ma non ha a che vedere con l’esistenza biologica e la nostra carcassa [«uguali agli angeli» v.36].
Ciò che non muore non è il dna del corpo, bensì il dna celeste, che abbiamo ricevuto in dono dal Padre.
L’Oro divino ci abita e - se vogliamo - può affiorare già, in un’esistenza piena, di realizzazione della propria Vocazione, in clima di Comunione.
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di comunicazione diretta.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un essere-con e per gli altri; con prontezza, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma appunto da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù.
Egli ammutolisce pure i sadducei, facendoli riflettere, trattandoli da incompetenti.
Trae infatti il fondamento della “dottrina” della Risurrezione [ma come la intende Lui] proprio dal libro dell’Esodo.
Così mostra che sin dai rotoli della Legge c’è una presentazione dell’Eterno incompatibile col destino di un’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi.
Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica ogni santuario prendeva nome dalla divinità, specificata dal suo territorio o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Un brutto vizio pagano che purtroppo abbiamo ereditato.
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».
Ai tre Patriarchi era stato possibile avere discendenza, non per concatenazione naturale.
In quella mentalità, unica possibilità di perpetuare la vita di generazione in generazione era di poter trasmettere il proprio nome al primogenito maschio.
Ciò era accaduto invece per intervento dall’alto, mentre le mogli erano sterili [matriarche infertili: Sara, Rebecca, Rachele, a lungo senza eredi].
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi - non di morti (della polvere, dell’inconsistenza, del nulla).
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Ecclesial life is made up of exclusive inclinations, and of tasks that may seem exceptional - or less relevant. What matters is not to be embittered by the titles of others, therefore not to play to the downside, nor to fear the more of the Love that risks (for afraid of making mistakes)
La vita ecclesiale è fatta di inclinazioni esclusive, e di incarichi che possono sembrare eccezionali - o meno rilevanti. Ciò che conta è non amareggiarsi dei titoli altrui, quindi non giocare al ribasso, né temere il di più dell’Amore che rischia (per paura di sbagliare).
Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
The story of the healed blind man wants to help us look up, first planted on the ground due to a life of habit. Prodigy of the priesthood of Jesus
La vicenda del cieco risanato vuole aiutarci a sollevare lo sguardo, prima piantato a terra a causa di una vita abitudinaria. Prodigio del sacerdozio di Gesù.
Firstly, not to let oneself be fooled by false prophets nor to be paralyzed by fear. Secondly, to live this time of expectation as a time of witness and perseverance (Pope Francis)
Primo: non lasciarsi ingannare dai falsi messia e non lasciarsi paralizzare dalla paura. Secondo: vivere il tempo dell’attesa come tempo della testimonianza e della perseveranza (Papa Francesco)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
don Giuseppe Nespeca
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