Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XXII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [31 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Sta per chiudersi per molti il tempo delle ferie e ci si prepara a riprendere il ritmo abituale della vita. La Parola di Dio ci viene incontro con appropriati consigli.
*Prima Lettura dal libro del Siracide (3, 17-18. 20. 28-29 NV 3,19-21.30.31)
Questo testo si illumina se si comincia a leggerlo dalla fine: “Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio” (v.29). Quando la Bibbia parla di saggezza intende l’arte di vivere felici. Essere un “un uomo saggio” è l’ideale di tutti in Israele: un popolo così piccolo, nato come “popolo” solo al momento dell’uscita dall’Egitto, ha il privilegio, grazie alla Rivelazione, di sapere che “ogni sapienza viene dal Signore” (Sir 1,1), nel senso che solo Dio conosce i misteri della vita e il segreto della felicità. È dunque al Signore che bisogna chiedere la sapienza perché, nella sua libertà sovrana, Egli ha scelto Israele per essere il depositario della sua sapienza. Yeshua Ben Sira (Gesù figlio di Sira), l’autore del libro, fa parlare la sapienza stessa come se fosse una persona (cf. Sir 24,8); Israele ricerca ogni giorno la sapienza (cf. Sir 51,14) e, secondo il Salmo 1, in essa trova la sua felicità: “Beato l’uomo che medita la legge del Signore giorno e notte (1,2). “Giorno e notte” significa sempre. Chi cerca trova, dirà più tardi Gesù: ma bisogna cercare, cioè riconoscere di non possedere tutto e bisognosi sempre di qualcosa. Ben Sira aveva aperto a Gerusalemme verso il 180 a.C. una scuola di teologia (beth midrash) e per promuoverla diceva: “Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola” (Sir 51,23). Un vero figlio d’Israele sa che la sapienza viene da Dio, si lascia istruire da Lui, medita le massime della sapienza e il suo ideale è un orecchio che ascolta. Israele ha talmente fatto tesoro di questa lezione che recita più volte al giorno lo “Shema‘ Israel, Ascolta, Israele” (Dt 6,4). Un’“orecchio aperto” significa ascoltare consigli, indicazioni, comandamenti; il superbo invece crede di sapere tutto e chiude le orecchie, ma dimentica che, se la casa ha le imposte chiuse, il sole non potrà entrarvi. Leggiamo al v. 28: ”Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. In altre parole, il superbo è un malato incurabile perché, essendo pieno di sé, chiude il cuore. Interessante al riguardo la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18): il pubblicano si è limitato ad essere vero perché l’umile ha i piedi per terra e per questo si riconosce povero e conta solo su Dio. Il fariseo, autosufficiente in tutto, tornò a casa come era venuto mentre il pubblicano trasformato. Isaia descrive la gioia di questi umili: “Gli umili si rallegreranno sempre di più nel Signore, e i poveri esulteranno a causa del Santo d’Israele” (Is 29,19) e Gesù esclamerà: “Ti rendo lode, Padre…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.” (Mt 11,25 // Lc 10,21). Dio può realizzare grandi cose con gli umili, facendoli servitori del suo progetto, come con Mosè, grande e instancabile suo servitore, il cui segreto, come leggiamo nel libro dei Numeri, è che era uomo molto umile, più di ogni altro sulla terra” (12,3) e Gesù, il Servo di Dio, dice di sé:” Io sono mite e umile di cuore.» (Mt 11,29), mentre Paolo scrive: “Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza… Il Signore mi ha detto…la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.» (2Cor 11,30; 12,9). In definitiva, l’umiltà è più che una virtù: è un minimo vitale e condizione preliminare.
*Salmo responsoriale (67/68)
”Signore è il suo nome” (v.5), questa frase piccolissima fa capire il tono dell’insieme: “Signore” è il nome tetragramma (YHWH) rivelato a Mosè che esprime la presenza permanente di Dio in mezzo ai suoi “Ehyeh-Asher-Ehyeh”(Io sono colui che sono). E poiché Egli ci circonda in ogni tempo della sua sollecitudine, ciascuno dei versetti può essere letto a più livelli e la ricchezza e complessità di questo salmo sta nel poterlo cantare in ogni epoca sentendosi coinvolti. “I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia. Cantate a Dio, inneggiate al suo nome. Signore è il suo nome” (vv4-5). Anche Davide danza davanti all’Arca, ma qui si parla della gioia del popolo liberato dall’Egitto: il canto di Mosè dopo il passaggio del mare; Miriam, sorella di Aronne (e di Mosè), prese in mano il tamburello e tutte le donne uscirono dietro a lei, danzando e suonando il tamburello. In seguito durante l’Esodo molteplici furono i motivi per cantare e danzare. Questo emerge nei seguenti versetti: “fa uscire con gioia i prigionieri” (7). “Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio” (10-11). Qui si sovrappongono diversi livelli di lettura, ma ogni allusione alla liberazione riguarda sempre sia l’uscita dall’Egitto, sia il ritorno dall’esilio babilonese e anche le altre liberazioni, cioè ogni volta che persone o interi popoli avanzano verso più giustizia e libertà e infine la liberazione definitiva, che ancora attendiamo. “Fa uscire con gioia i prigionieri”: per noi cristiani è il richiamo alla Risurrezione di Cristo pensando alla nostra. “Pioggia abbondante hai riversato” questo richiamo all’Esodo offre più letture: la manna nel deserto (cf. Es 16, 4.13-15) e molto probabilmente pure la pioggia benefica da cui dipende ogni vita perché senza “l’abbondante pioggia” la terra promessa non stilla «latte e miele». Nel passato ci sono state siccità (e quindi carestie) memorabili: i sette anni di carestia che portarono i figli di Giacobbe con il padre a scendere in Egitto da Giuseppe; la siccità al tempo di Elia (1Re 17-18) con il duro confronto tra Elia e la regina Gezabele, adoratrice di Baal, il dio della fecondità, della tempesta e della pioggia; la carestia sotto l’imperatore Claudio quando le comunità cristiane del bacino del Mediterraneo, regioni non colpite, furono invitate a soccorrere economicamente i sinistrati e san Paolo fece un richiamo alla comunità di Corinto per la lentezza a dare il loro contributo (cf. 2Cor 8-9). Infine anche noi abbiamo motivo di rendere grazie per la nuova manna, nostro pane quotidiano: Gesù Cristo, pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,48-51).
*Seconda Lettura dalla lettera agli Ebrei (12, 18-19. 22-24a)
Essendo indirizzata a cristiani di origine ebraica, la Lettera agli Ebrei ha come obiettivo di collocare correttamente la Nuova Alleanza rispetto all’Antica. Con la vita terrena, passione, morte e risurrezione di Cristo, l’intero passato è considerato dai cristiani come una tappa necessaria nella storia della salvezza, ma ormai superata anche se non annullata per cui tra la Prima e la Nuova Alleanza c’è sia continuità ma anche radicale novità. A favore della continuità ci sono elementi familiari a Israele: Sinai, fuoco, oscurità, tenebre, uragano, trombe, Sion, Gerusalemme, i nomi scritti nei cieli, giudice e giustizia, alleanza con un linguaggio che evoca tutta l’esperienza spirituale del popolo dell’Alleanza e di certo ben familiare agli ascoltatori di allora. (cf. Es 19,16-19;20,18.21; Dt 4,11). Israele si nutre di questi racconti essendo titoli di gloria del popolo dell’Alleanza. La Lettera agli Ebrei sembra però sminuire questa esperienza memorabile perché quell’Alleanza è ora completamente rinnovata. Mosè si avvicinava a Dio, ma il popolo restava a distanza; nella Nuova Alleanza i battezzati sono introdotti in una vera intimità con Dio e l’autore descrive questa nuova esperienza spirituale come ingresso in un mondo nuovo di bellezza e di festa (cf. vv. 22-24). La “paura di Dio” nell’AT era timore dinanzi a manifestazioni di potenza, tanto che il popolo arrivò a chiedere di non udire più la voce di Dio ma in seguito, a poco a poco, il rapporto con Dio si è trasformato e il timore è diventato fiducia filiale. Coloro che hanno conosciuto Gesù hanno scoperto in Lui il vero volto del Padre: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15-16). Gesù, dunque, svolge pienamente il ruolo di mediatore della Nuova Alleanza e permette a tutti i battezzati di accostarsi a Dio e di diventare “primogeniti” (nel senso di “consacrati”). Così, l’antica promessa a Mosè sul Sinai: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli… sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,4) si realizza finalmente in Cristo e per questo anche noi “accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16).
*Dal vangelo secondo Luca (14, 1a. 7 – 14)
Nel Vangelo di Luca si trovano spesso scene di pasti: a casa di Simone il fariseo (7,36); da Marta e Maria (10,38); di nuovo a casa di un fariseo (11,37); da Zaccheo (19); il pasto pasquale (22). L’importanza che Gesù attribuiva ai pasti faceva perfino dire ai malintenzionati: “Ecco un mangione e un beone” (Lc 7,34). Tre di questi pasti si svolgono in casa di farisei e diventano occasione di disaccordo. Durante il primo, a casa di Simone (Lc 7,36), una donna di cattiva reputazione si era gettata ai piedi di Gesù e, contro ogni aspettativa, Egli l’aveva presa come esempio. Il secondo (Lc 11,37) fu ugualmente occasione di un grave malinteso, questa volta perché Gesù non si era lavato le mani prima di mettersi a tavola: la discussione degenera e Gesù ne approfitta per intavolare una severa diatriba tanto che l’episodio si chiude con gli scribi e i farisei che cominciano ad accanirsi contro di lui tendendogli insidie per sorprenderlo in fallo (cf. Lc 11,53). Oggi il terzo pasto in casa di un fariseo avviene di sabato, giorno di riposo (“shabbat” in ebraico significa cessare ogni attività) e di festa: memoria della creazione del mondo, della liberazione del popolo dall’Egitto e attesa della grande festa del Giorno in cui Dio rinnoverà l’intera creazione. Il sabato prevedeva un pasto solenne, spesso occasione per invitare correligionari, anche se i divieti rituali della Legge erano così numerosi che il rispetto delle prescrizioni aveva, per alcuni, oscurato l’essenziale: la carità fraterna. Quel sabato Gesù aveva guarito un malato di idropisia (scena che non figura nella nostra lettura liturgica: cf.Lc14, 2-6) e si aprono vive discussioni perché si accusa Gesù di aver infranto il sabato. Qui mi fermo e pongo una domanda: i rapporti tra Gesù e i farisei sono sempre uno scontro? In verità sono un misto di simpatia e di severità: simpatia perché il loro movimento religioso, nato verso il 135 a.C. da un desiderio di conversione, era stimato e il nome “fariseo”, che significa “separato”, esprimeva il rifiuto di ogni compromesso politico, di ogni lassismo nella pratica religiosa, due problemi allora assai presenti. Al tempo di Cristo se ne apprezzava la fervente fede e il coraggio per il rispetto della tradizione, da non intendere in senso peggiorativo, ma come la ricchezza ricevuta dai padri e trasmessa sotto forma di precetti concernenti i minimi dettagli della vita quotidiana. Queste norme, messe per iscritto dopo il 70 d.C., somigliano a quelle di Gesù stesso e per questo erano rispettabili tanto che Gesù non rifiutava di parlare con loro come dimostrano questi pasti e l’incontro con Nicodemo (cf. Gv 3). Sotto Erode il Grande (39-4 a.C.), seimila di loro, per restare ligi alla Legge, rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Roma e a Erode e furono puniti con pesanti ammende. Tuttavia il rigore nell’osservanza generava talora eccessiva sicurezza di sé e disprezzo per gli altri e Gesù a questo reagiva perché creava alcune ambiguità e deviazioni ben simboleggiate nella parabola della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5; Lc 6,41-42). Nel testo odierno Gesù invita a non occupare i primi posti non per richiamare una norma di buona educazione e di filantropia, ma, alla maniera dei profeti, cerca di aprire i loro occhi prima che sia troppo tardi perché un eccessivo compiacimento di sé può condurre alla cecità. E quindi, proprio perché persone di valore e fedeli praticanti della religione giudaica, Gesù smaschera il rischio del loro disprezzo verso gli altri ricordando che per entrare nel Regno bisogna farsi come bambini (cf Lc 9,46-48; Mt 18,4), accogliendoli e rispettandoli senza attendere nulla in cambio e anzi aprendo il cuore a poveri, storpi, zoppi, ciechi (v.13). Una lezione per i farisei di ieri e di oggi tenendo ben presente quel che san Giacomo scrive: non mescolare mai favoritismi personali con la fede nel Cristo (cf. Gc 2,1).
+ Giovanni D’Ercole
(Mc 6,17-29)
La domanda «Gesù, Chi è?» cresce lungo tutto il Vangelo di Mc, sino alla risposta del centurione sotto la Croce (Mc 15,39).
Il bilancio sulle opinioni della gente (vv.14-16) lascia intendere che anche attorno alle prime assemblee di credenti qualcuno tentava di comprendere Cristo a partire da quanto si sapeva già.
Non pochi desideravano capire la sua Persona sulla base di criteri tratti dalle Scritture o dalla Tradizione anche orale del popolo eletto; dalle credenze e suggestioni antiche - persino superstiziose [come nel caso di Erode].
Ma l’Araldo di Dio non è stato un purificatore del Tempio, né semplice rabberciatore della religiosità datata, d’idee culturali addomesticate. Neppure uno dei tanti “riformatori”… tutto sommato conformisti.
Egli capovolge le speranze del popolo, così inquieta qualsiasi scuola di pensiero; in particolare, coloro che detengono l’esclusiva.
Quando avverte un pericolo, chi è avvolto di lustro e potere diventa sfrontato e disposto a ogni violenza, anche per un falso punto d’onore.
I tiranni si fanno sempre beffe dell’isolato, scomodo e indifeso.
Ma capi e potenti sono anche vigliacchi: non intendono perdere la faccia davanti agli alleati del loro ambiente smodato e senza controllo, ammantato di esenzioni.
Giuseppe Flavio riferisce che Giovanni era in prigione per timore del sovrano di una sommossa popolare - e stava valutando che fosse bene per lui agire in anticipo.
La trama dell’assassinio è stata occasionale.
Il coraggioso che denuncia soprusi viene stroncato, ma la Voce del suo martirio non tace più.
Per questo motivo l’episodio non induce Gesù a maggiore prudenza. Ucciso un inviato, subentra un altro maggiore e più incisivo: all’ultimo dei Profeti, il Figlio di Dio.
Sembrava assurdo che in quella società qualcuno osasse infrangere il muro omertoso che garantiva ai facinorosi di considerarsi intoccabili.
Di fronte al ricatto [senza troppi complimenti] dei privilegiati che avevano il controllo d’ogni ceto sociale e culturale, pareva impossibile iniziare un nuovo cammino, o dire e fare qualsiasi cosa non allineata.
Giovanni e Gesù sfidano lo status quo e attraggono su di sé le vendette di coloro che tentano di perpetuare le prerogative del cosmo gerarchico antico, e le rabbie di quanti vengono smascherati nelle loro ipocrisie.
È la difficoltà reale che incontra l’Annuncio del nuovo Regno nel mondo. Il suo rifiuto sprezzante e ogni tentativo di omicidio saranno una cartina al tornasole d’una nostra nobile franchezza critica, la cui ‘rivelazione’ correrà parallela ai Due.
Il Maestro si è eretto in difesa della coscienza e della stessa legge divina, contro le autorità opportuniste, che ha sfidato a viso aperto.
Anche oggi chiede coraggio di non piegarsi di fronte alla corruzione, al male, alla mentalità corrente; di essere diversi nel modo di pensare, di parlare, di scegliere e agire.
Non ascoltati, derisi, osteggiati da molti cortigiani, i figli di Dio rendono testimonianza alla Verità, pagando di persona: perfetta Letizia.
Autentica Pienezza.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Chi è Gesù secondo te e gli altri?
[Martirio di s. Giovanni Battista, 29 agosto]
(Mc 6,17-29)
La domanda «Gesù, Chi è?» cresce lungo tutto il Vangelo di Mc, sino alla risposta del centurione sotto la Croce (Mc 15,39).
Il bilancio delle opinioni della gente (Mt 14,1-2; Mc 6,14-16; Lc 9,7-9) lascia intendere che anche attorno alle prime assemblee di credenti si tentava di capire Cristo a partire da quanto si sapeva già [dai criteri delle Scritture e della tradizione, dalle credenze e suggestioni antiche - persino superstiziose].
Ma l’uomo di Dio non è semplice purificatore del Tempio, né un rabberciatore della religiosità conformista. Egli capovolge le speranze popolaresche, emotive o standard.
In tal guisa, ogni Profeta inquieta tutti coloro che detengono l’esclusiva.
Quando avverte un pericolo, chi è ammantato di lustro e potere diventa sfrontato e disposto a ogni violenza, anche per un falso punto d’onore.
I tiranni si fanno sempre beffe dell’isolato, scomodo e indifeso, ma capi e potenti sono anche vigliacchi: non intendono perdere la faccia davanti agli alleati del loro ambiente smodato e senza controllo, ammantato di esenzioni.
Durante più di 40 anni di regno, Erode Antipa aveva creato una classe di funzionari e un sistema di privilegiati che avevano in pugno il governo, il fisco, l’economia, la giustizia, ogni aspetto della vita civile e di polizia, e il suo comando copriva capillarmente il territorio.
In ogni villaggio il sovrano poteva contare sull’appoggio di tutte le cricche e dei vari leaders locali, interessati al controllo delle coscienze - insieme a scribi e farisei compromessi, legati alla sua politica.
Oltre che fantoccio di Roma - cui garantiva il controllo del territorio e il flusso delle imposte - Erode era un depravato e superstizioso: pensava che perfino il giuramento leggero a una ballerina andasse mantenuto.
Giuseppe Flavio riferisce invece che Giovanni era in prigione per il timore del sovrano di una sommossa popolare - e stava valutando che fosse bene per lui agire in anticipo. La trama dell’assassinio è stata probabilmente occasionale.
Il coraggioso che denuncia soprusi viene stroncato, ma la voce del suo martirio non tacerà più.
Per questo motivo l’episodio non induce Gesù a maggiore prudenza. Ucciso un profeta, subentra un altro maggiore e più incisivo: all’ultimo dei Profeti, il Figlio di Dio.
I delinquenti non devono illudersi che la Provvidenza non sappia equipaggiare anche le alte sfere (e più smidollate) del contraltare di persone coerenti e valide.
Sia Giovanni che il Signore non hanno mai frequentato la nuova capitale erodiana, Tiberiade, la città dei palazzi di corte, costruita - dopo Sefforis, dove anche Gesù ha lavorato - in diplomatico omaggio all’imperatore romano.
La religiosità generica e confusionaria può adattarsi a ogni stagione ed esser fatta propria anche da chi pensa che la vita altrui non valga nulla, ma un Profeta non si arresta di fronte al capriccio del sistema corrotto.
Nei villaggi palestinesi la vita della gente era vessata di tasse e abusi di latifondisti [che neppure risiedevano in loco]; controllata dal perfetto connubio d’interessi fra potere civile e religioso - che in modo astuto tentavano d’imporre il loro stile di vita e trasmettere alle folle un sapere (inutile) ormai consolidato.
I leaders della fede popolare, ortodossa e confacente - come spesso capita - erano a guinzaglio delle autorità sul territorio, le quali si consideravano definitive e trovavano forza nella coalizione.
Sembrava assurdo che in quella società qualcuno osasse infrangere il muro omertoso il quale garantiva ai facinorosi, alle autorità “spirituali” e ai prepotenti persino d’infimo livello di considerarsi intoccabili.
Di fronte al ricatto [senza troppi complimenti] dei privilegiati che avevano il controllo d’ogni ceto sociale e culturale, pareva impossibile iniziare un nuovo cammino, o dire e fare qualsiasi cosa non allineata.
Giovanni e Gesù sfidano lo status quo e attraggono su di sé le vendette di coloro che tentano di perpetuare le prerogative del cosmo gerarchico antico, e le rabbie di quanti vengono smascherati nelle loro ipocrisie.
È la difficoltà reale che incontra l’Annuncio del nuovo Regno nel mondo. Il suo rifiuto sprezzante e ogni tentativo di omicidio saranno una cartina al tornasole della profezia critica, la cui rivelazione correrà parallela ai Due.
Il Battezzatore è stato un intrepido denunciatore del vizio, della superficialità, del malcostume, delle perversioni dei potenti.
Papa Francesco avrebbe parlato di buone maniere (nella ricerca di alleanze di cordata) e pessime abitudini - nella vita privata irresponsabile e insulsa, e nella violenza con cui si perpetua il dominio sui piccoli.
Anche Gesù ha puntato i piedi, invece di fare carriera interna. Malgrado il presagio di Giovanni, ha rifiutato la strada delle astuzie soppesate, della finzione, della diplomazia e delle piroette di circostanza.
Il Maestro si è eretto in difesa della coscienza e della stessa legge divina, contro le autorità religiose e politiche opportuniste, che ha sfidato a viso aperto.
Il Signore chiede il coraggio di non piegarsi di fronte alla corruzione, al male, alla mentalità corrente; di essere diversi nel modo di pensare, di parlare (mellifluo), di scegliere e agire.
Non ascoltati, derisi, osteggiati da signori, luminari e cortigiani, i figli di Dio rendono testimonianza alla Verità, pagando di persona: perfetta Letizia.
Autentica Pienezza.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Conosci vittime di autoritarismo, corruzione, dominio di potenti, eccesso e strafottenza di potere? Anche nella Chiesa?
Come mai ancora capita questo (e tutto prima o poi vien messo a tacere)?
Chi è Gesù secondo te e gli altri? E che direbbe?
Cari fratelli e sorelle,
[…] ricorre la memoria liturgica del martirio di san Giovanni Battista, il precursore di Gesù. Nel Calendario Romano, è l’unico Santo del quale si celebra sia la nascita, il 24 giugno, sia la morte avvenuta attraverso il martirio. Quella odierna è una memoria che risale alla dedicazione di una cripta di Sebaste, in Samaria, dove, già a metà del secolo IV, si venerava il suo capo. Il culto si estese poi a Gerusalemme, nelle Chiese d’Oriente e a Roma, col titolo di Decollazione di san Giovanni Battista. Nel Martirologio Romano, si fa riferimento ad un secondo ritrovamento della preziosa reliquia, trasportata, per l’occasione, nella chiesa di S. Silvestro a Campo Marzio, in Roma.
Questi piccoli riferimenti storici ci aiutano a capire quanto antica e profonda sia la venerazione di san Giovanni Battista. Nei Vangeli risalta molto bene il suo ruolo in riferimento a Gesù. In particolare, san Luca ne racconta la nascita, la vita nel deserto, la predicazione, e san Marco ci parla della sua drammatica morte nel Vangelo di oggi. Giovanni Battista inizia la sua predicazione sotto l’imperatore Tiberio, nel 27-28 d.C., e il chiaro invito che rivolge alla gente accorsa per ascoltarlo, è quello a preparare la via per accogliere il Signore, a raddrizzare le strade storte della propria vita attraverso una radicale conversione del cuore (cfr Lc 3, 4). Però il Battista non si limita a predicare la penitenza, la conversione, ma, riconoscendo Gesù come «l’Agnello di Dio» venuto a togliere il peccato del mondo (Gv 1, 29), ha la profonda umiltà di mostrare in Gesù il vero Inviato di Dio, facendosi da parte perché Cristo possa crescere, essere ascoltato e seguito. Come ultimo atto, il Battista testimonia con il sangue la sua fedeltà ai comandamenti di Dio, senza cedere o indietreggiare, compiendo fino in fondo la sua missione. San Beda, monaco del IX secolo, nelle sue Omelie dice così: San Giovanni Per [Cristo] diede la sua vita, anche se non gli fu ingiunto di rinnegare Gesù Cristo, gli fu ingiunto solo di tacere la verità. (cfr Om. 23: CCL 122, 354). E non taceva la verità e così morì per Cristo che è la Verità. Proprio per l’amore alla verità, non scese a compromessi e non ebbe timore di rivolgere parole forti a chi aveva smarrito la strada di Dio.
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio, dalla preghiera, che è il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Giovanni è il dono divino lungamente invocato dai suoi genitori, Zaccaria ed Elisabetta (cfr Lc 1,13); un dono grande, umanamente insperabile, perché entrambi erano avanti negli anni ed Elisabetta era sterile (cfr Lc 1,7); ma nulla è impossibile a Dio (cfr Lc 1,36). L’annuncio di questa nascita avviene proprio nel luogo della preghiera, al tempio di Gerusalemme, anzi avviene quando a Zaccaria tocca il grande privilegio di entrare nel luogo più sacro del tempio per fare l’offerta dell’incenso al Signore (cfr Lc 1,8-20). Anche la nascita del Battista è segnata dalla preghiera: il canto di gioia, di lode e di ringraziamento che Zaccaria eleva al Signore e che recitiamo ogni mattina nelle Lodi, il «Benedictus», esalta l’azione di Dio nella storia e indica profeticamente la missione del figlio Giovanni: precedere il Figlio di Dio fattosi carne per preparargli le strade (cfr Lc 1,67-79). L’esistenza intera del Precursore di Gesù è alimentata dal rapporto con Dio, in particolare il periodo trascorso in regioni deserte (cfr Lc 1,80); le regioni deserte che sono luogo della tentazione, ma anche luogo in cui l’uomo sente la propria povertà perché privo di appoggi e sicurezze materiali, e comprende come l’unico punto di riferimento solido rimane Dio stesso. Ma Giovanni Battista non è solo uomo di preghiera, del contatto permanente con Dio, ma anche una guida a questo rapporto. L’Evangelista Luca riportando la preghiera che Gesù insegna ai discepoli, il «Padre nostro», annota che la richiesta viene formulata dai discepoli con queste parole: «Signore insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (cfr Lc 11,1).
Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità. La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio. La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita. Grazie.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 29 agosto 2012]
Il primo e principale significato della penitenza è interiore, spirituale. Il principale sforzo della penitenza consiste “nell’entrare in se stesso”, nella propria entità più profonda, entrare in questa dimensione della propria umanità in cui, in un certo senso, ci attende Dio. L’uomo “esteriore” deve – direi – cedere, in ognuno di noi, all’uomo “interiore” e, in un certo senso, “lasciargli il posto”. Nella vita corrente l’uomo non vive abbastanza “interiormente”. Gesù Cristo indica chiaramente che anche gli atti di devozione e di penitenza (come digiuno, elemosina, preghiera) che per la loro finalità religiosa sono principalmente “interiori”, possono cedere all’“esteriorismo” corrente, e quindi possono essere falsificati. Invece la penitenza, come conversione a Dio, richiede soprattutto che l’uomo respinga le apparenze, sappia liberarsi dalla falsità e ritrovarsi in tutta la sua verità interiore. Anche uno sguardo rapido, sommario, nel divino fulgore è già un successo. Bisogna però abilmente consolidare questo successo mediante un lavoro sistematico su se stessi. Tale lavoro viene chiamato “ascesi” (così lo avevano già denominato i Greci dei tempi delle origini del cristianesimo). Ascesi vuol dire sforzo interiore per non lasciarsi rapire e spingere dalle diverse correnti “esteriori”, così da rimanere sempre se stessi e conservare la dignità della propria umanità.
Però il Signore Gesù ci chiama a far ancora qualcosa di più. Quando dice “entra nella tua camera e chiudi la porta”, indica uno sforzo ascetico dello spirito umano, che non deve terminare nell’uomo stesso. Quel chiudersi è, nello stesso tempo, la più profonda apertura del cuore umano. È indispensabile allo scopo di incontrarsi col Padre, e per questo deve essere intrapreso. “Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Qui si tratta di riacquistare la semplicità del pensiero, della volontà e del cuore, che è indispensabile per incontrarsi nel proprio “io” interiore con Dio. E Dio attende ciò, per avvicinarsi all’uomo internamente raccolto e nel contempo aperto alla sua parola e al suo amore! Dio desidera comunicarsi all’anima così disposta. Desidera donarle la verità e l’amore, che hanno in lui la vera sorgente.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 febbraio 1979]
Un uomo, Giovanni, e una strada, che è quella di Gesù, indicata dal Battista, ma è anche la nostra, nella quale tutti siamo chiamati al momento della prova.
Parte dalla figura di Giovanni, «il grande Giovanni: al dire di Gesù “l’uomo più grande nato da donna”» la riflessione di Papa Francesco nella messa celebrata a Santa Marta venerdì 6 febbraio. Il vangelo di Marco (6, 14-29) racconta della prigionia e del martirio di quest’«uomo fedele alla sua missione; l’uomo che ha sofferto tante tentazioni» e che «mai, mai ha tradito la sua vocazione». Un uomo «fedele» e «di grande autorità, rispettato da tutti: il grande di quel tempo».
Papa Francesco si è soffermato ad analizzare la sua figura: «Quello che gli usciva dalla bocca era giusto. Il suo cuore era giusto». Era tanto grande che «Gesù dirà anche di lui che “è Elia che è tornato, per pulire la casa, per preparare il cammino”». E Giovanni «era cosciente che il suo dovere era soltanto annunziare: annunziare la prossimità del Messia. Lui era cosciente, come ci fa riflettere sant’Agostino, che lui era la voce soltanto, la Parola era un altro». Anche quando «è stato tentato di “rapinare” questa verità, lui è rimasto giusto: “Io non sono, dietro di me viene, ma io non sono: io sono il servo; io sono il servitore; io sono quello che apre le porte, perché lui venga».
A questo punto il Pontefice ha introdotto il concetto di strada, perché, ha ricordato: «Giovanni è il precursore: precursore non solo della entrata del Signore nella vita pubblica, ma di tutta la vita del Signore». Il Battista «va avanti nel cammino del Signore; dà testimonianza del Signore non soltanto mostrandolo — “È questo!”— ma anche portando la vita fino alla fine come l’ha portata il Signore». E finendo la vita «col martirio» è stato «precursore della vita e della morte di Gesù Cristo».
Il Papa ha continuato a riflettere su queste strade parallele lungo le quali «il grande» soffre «tante prove e diventa piccolo, piccolo, piccolo, piccolo fino al disprezzo». Giovanni, come Gesù, «si annienta, conosce la strada dell’annientamento. Giovanni con tutta quella autorità, pensando alla sua vita, comparandola con quella di Gesù, dice alla gente chi è lui, come sarà la sua vita: “Conviene che lui cresca, io invece debbo diminuire”». È questa, ha sottolineato il Papa, «la vita di Giovanni: diminuire davanti a Cristo, perché Cristo cresca». È «la vita del servo che fa posto, fa strada perché venga il Signore».
La vita di Giovanni «non è stata facile»: infatti, «quando Gesù ha incominciato la sua vita pubblica», egli era «vicino agli Esseni, cioè agli osservanti della legge, ma anche delle preghiere, delle penitenze». Così, a un certo punto, nel periodo in cui era in carcere, «ha sofferto la prova del buio, della notte nella sua anima». E quella scena, ha commentato Francesco, «commuove: il grande, il più grande manda da Gesù due discepoli per domandargli: “Ma Giovanni ti domanda: sei tu o ho sbagliato e dobbiamo aspettare un altro?”». Lungo la strada di Giovanni si è affacciato quindi «il buio dello sbaglio, il buio di una vita bruciata nell’errore. E questa per lui è stata una croce».
Alla domanda di Giovanni «Gesù risponde con le parole di Isaia»: il Battista «capisce, ma il suo cuore rimane nel buio». Ciò nonostante si presta alle richieste del re, «al quale piaceva sentirlo, al quale piaceva portare avanti una vita adultera», e «quasi diventava un predicatore di corte, di questo re perplesso». Ma «lui si umiliava» perché «pensava di convertire quest’uomo».
Infine, ha detto il Papa, «dopo questa purificazione, dopo questo calare continuo nell’annientamento, facendo strada all’annientamento di Gesù, finisce la sua vita». Quel re da perplesso «diventa capace di una decisione, ma non perché il suo cuore sia stato convertito»; piuttosto «perché il vino gli dà coraggio».
E così Giovanni finisce la sua vita «sotto l’autorità di un re mediocre, ubriaco e corrotto, per il capriccio di una ballerina e per l’odio vendicativo di un’adultera». Così «finisce il grande, l’uomo più grande nato da donna», ha commentato Francesco che ha confessato: «Quando io leggo questo brano, mi commuovo». E ha aggiunto una considerazione utile alla vita spirituale di ogni cristiano: «Penso a due cose: primo, penso ai nostri martiri, ai martiri dei nostri giorni, quegli uomini, donne, bambini che sono perseguitati, odiati, cacciati via dalle case, torturati, massacrati». E questa, ha sottolineato, «non è una cosa del passato: oggi succede questo. I nostri martiri, che finiscono la loro vita sotto l’autorità corrotta di gente che odia Gesù Cristo». Perciò «ci farà bene pensare ai nostri martiri. Oggi pensiamo a Paolo Miki, ma quello è successo nel 1600. Pensiamo a quelli di oggi, del 2015».
Il Pontefice ha proseguito aggiungendo che questo brano lo spinge anche a riflettere su se stesso: «Anche io finirò. Tutti noi finiremo. Nessuno ha la vita “comprata”. Anche noi, volendo o non volendo, andiamo sulla strada dell’annientamento esistenziale della vita». E ciò, ha detto, lo spinge «a pregare che questo annientamento assomigli il più possibile a Gesù Cristo, al suo annientamento».
Si chiude così il cerchio della meditazione di Francesco: «Giovanni, il grande, che diminuisce continuamente fino al nulla; i martiri, che diminuiscono oggi, nella nostra Chiesa di oggi, fino al nulla; e noi, che siamo su questa strada e andiamo verso la terra, dove tutti finiremo». In questo senso la preghiera finale del Papa: «Che il Signore ci illumini, ci faccia capire questa strada di Giovanni, il precursore della strada di Gesù; e la strada di Gesù, che ci insegna come deve essere la nostra».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 07.02.2015]
XXI Domenica Tempo Ordinario (anno C) [24 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Utile in questi tempi rileggere questi testi biblici alla luce di quanto sta succedendo nel Medio Oriente.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66,18-21)
I profeti parlano in nome di Dio e gli ascoltatori lo sanno bene, ma quando vogliono sottolineare l’importanza delle loro affermazioni, ricordano che si tratta proprio della parola del Signore, quindi di qualcosa di molto importante, e in questo brano ci sono almeno due grandi annunci: la dimensione universale del progetto di Dio “ Io verrò a radunare”, e il ruolo del piccolo resto dei credenti, “i superstiti”, gli scampati che fra lo scoraggiamento generale conservano la fede. Mentre il primo Isaia o Michea (VIII secolo a.C.) annunciavano soltanto la salvezza del “piccolo Resto d’Israele”, durante e dopo l’esilio (VI secolo) Israele scopre la dimensione universale del progetto di Dio e impara a considerare la propria elezione non come un privilegio esclusivo, ma come una vocazione. Questo è un discorso nuovo perché pone in luce il ruolo missionario che Dio affidata a Israele al servizio dell’intera umanità, la dimensione universale del progetto di Dio: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue” e più sorprendente ancora: “essi verranno e vedranno la mia gloria” (v.18). Il termine gloria indica il fulgore della presenza di Dio (letteralmente in ebraico «peso»). Dio non ha bisogno che noi lo gloriamo; siamo invece noi a diventare felici quando viviamo nell’alleanza d’amore con Lui. “Vedranno la mia gloria” significa riconoscerlo come unico Dio liberando l’umanità da ogni forma di idolatria. E il testo continua: “Manderò i loro superstiti alle popolazioni più lontane… questi messaggeri annunceranno la mia gloria alle genti .. ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti, come offerta al Signore…al mio santo santo di Gerusalemme”(v.20). Ecco realizzata la vocazione del popolo eletto: essere luce delle nazioni, perché la salvezza giunga fino all’estremità della terra (cf Is 49,6). Questa è anche la vocazione della Chiesa, popolo di Dio chiamato a testimoniare la verità di Dio nel mondo, anche se non sostituisce Israele: annunciare la gloria di Dio a tutti i popoli, testimoniare il vangelo che illumina la vita: “Io porrò in essi un segno” (v.19) e in questa luce comprendiamo quel che Gesù dirà: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,32). L’ultima frase è un terzo annuncio importante: non solo i popoli si avvicineranno al Signore, ma “anche tra loro prenderò sacerdoti e leviti” (v.21), il che significa che non saranno più richieste le condizioni abituali per il sacerdozio e ogni essere umano può avvicinarsi al Dio vivente. Si capisce perché qualche versetto prima della lettura di questa domenica, Isaia invitava a rallegrarsi Gerusalemme tutti quelli che l’amano perché il Signore farà “scorrere verso di essa, come un fiume, la pace, e come un torrente in piena la gloria delle nazioni” (Is 66,10…12).
Alcune Note *Scrive sant’Agostino: «Chi sarebbe tanto folle da credere che Dio abbia bisogno dei sacrifici che gli si offrono? Il culto reso a Dio giova all’uomo e non a Dio. Non è alla sorgente che giova se vi si beve, né alla luce se la si vede» (La città di Dio, X, 5-6).
*Nel Terzo Isaia (profeta del dopo l’silio) si ritrova la teologia del “resto salvatore”, di cui leggiamo una traccia nel Salmo 39/40: “Molti vedranno, avranno timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4) da accostare all’annuncio che troviamo qui in Isaia (vv20-21)
*Nella Bibbia, non sempre si parla delle nazioni in modo positivo e il termine è carico di significati talvolta decisamente negativi: Il libro del Deuteronomio, ad esempio, parla delle “abominazioni delle nazioni” (18,9-12) a causa delle loro pratiche religiose in generale e i sacrifici umani in particolare. Nella pedagogia biblica, il popolo eletto viene guidato a restare fedele a Dio, a scoprire il volto del Dio unico, evitando ogni contatto con le nazioni a rischio di contagio idolatrico. Questa visione positiva è già con Abramo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3). Con fede più salda, Israele scoprirà l’universalismo del progetto di Dio comprendendo progressivamente di essere il fratello maggiore, non il figlio unico con il ruolo di aprire a tutta l’umanità la via verso il suo Dio: se Dio è l’unico vero Dio, è il Dio di tutti.
Salmo responsoriale 116/117
Questo salmo è più breve del salterio che potrebbe riassumersi in una sola parola: Alleluia, ultima parola del salmo, ma anche la prima, poiché, Lodate il Signore (v. 1) equivale a Alleluia: “Allelu” è imperativo: Lodate e “Ia” è la prima sillaba del nome di Dio. L’obiettivo dell’intero salterio, che significa “Lodi” (in ebraico Tehillim), deriva dalla stessa radice di Alleluia. Ecco il commento che i rabbini fanno dell’Alleluia: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre allo splendore, dalla schiavitù alla redenzione. Per questo, cantiamo davanti a lui l’Alleluia». “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà”: è ciò che Dio ha fatto per il suo popolo, ma è anche il progetto di Dio per tutta l’umanità. La salvezza del suo popolo è l’inizio e promessa di ciò che Dio farà per tutta l’umanità quando annunciò ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). E già Salomone lo aveva sognato: «Tutti i popoli della terra, come il tuo popolo Israele, riconosceranno il tuo Nome e ti adoreranno» (1Re 8,41-43; cfr. la prima lettura). Da qui la struttura di questo salmo, molto semplice ma suggestiva: “Lodate Dio”(v.1); “Poiché ha dimostrato il suo amore (v.2)”. Guardando più da vicino, leggiamo: “Lodate Dio, voi tutte le nazioni”(v.1); Per la sua opera a favore del suo popolo: “Poiché ha dimostrato il suo amore per noi”. Qui il «poiché» è molto importante: quando le nazioni vedranno ciò che Dio ha fatto per noi, crederanno. In altre parole: poiché Dio ha dato prova di sé salvando il suo popolo, le altre nazioni potranno credere in lui. Lo stesso ragionamento si trova nel Salmo 39/40 (XX domenica dell’anno C) dove il salmista dice: “Dio mi ha tratto dalla fossa della morte… vedendo questo, molti saranno presi da timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4). Allo stesso modo, il Salmo 125/126 canta, a proposito dell’esilio a Babilonia: «Allora si diceva fra le nazioni: Grandi cose ha fatto il Signore per loro!» (Sal 125/126,2). Questa idea si incontra più volte nei profeti: quando il popolo è nella disgrazia, le altre nazioni possono dubitare della potenza di Dio. È in questo senso che Ezechiele osa dire che l’esilio a Babilonia è una vergogna per Dio e arriva perfino ad affermare che l’esilio del popolo di Dio “profanava” il nome di Dio, mentre la liberazione, al contrario, sarà davanti a tutti la prova della sua potenza liberatrice. Questo lo porta a proclamare, in pieno esilio babilonese: “Mostrerò la santità del mio grande nome, profanato fra le nazioni, che voi avete profanato in mezzo a loro; allora le nazioni sapranno che io sono il Signore…quando avrò mostrato la mia santità in voi sotto i loro occhi” (Ez 36,23; 36,36). Riconoscere il Nome di Dio nel linguaggio biblico significa scoprire il Dio di tenerezza e fedeltà rivelato a Mosè (Es 34,6): tenerezza e fedeltà che Israele ha sperimentato lungo tutta la sua storia. Questo è il senso del secondo versetto del salmo: ” forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”. Ultima osservazione: questo salmo fa parte dell’Hallel (dal salmo 112/113 a 117/118) e occupa un posto particolare nella liturgia di Israele perché la sua recitazione segue il pasto pasquale. Gesù stesso lo ha cantato la sera del Giovedì Santo e i vangeli di Matteo e Marco ne fanno eco (cf. Mt 26,30; Mc 14,26). Possiamo ripetere anche noi: “Ha dimostrato il suo amore per noi” ascoltando Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13) e “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12, 5-7.11-13)
I destinatari della Lettera agli Ebrei, cristiani che attraversano un periodo di forte persecuzione, hanno già molto sofferto per la loro fede, come appare chiaramente nel capitolo 10,32-34. L’autore per consolarli e infondere coraggio, dice loro di non dimenticare l’esortazione a loro rivolta e si immerge nell’Antico Testamento riprendendo ciò che il profeta Isaia diceva ai suoi compatrioti esiliati in Babilonia: “Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche” (v12). Parla loro come se anche essi vivessero un esilio e affronta il problema della sofferenza non per giustificarla o spiegarla, ma per darle un senso. Invita alla perseveranza, virtù indispensabile nei tempi della prova quando Dio come un Padre mostra il suo amore anche con modi apparentemente assurdi. L’immagine dominante è dunque quella paterno pedagogica di Dio presente nella letteratura sapienziale della Bibbia, dove la sofferenza può diventare un cammino, una prova per la fede del credente, il quale sa che, qualunque cosa accada, Dio tace, ma non è né sordo né indifferente. Al contrario, come un padre, ci accompagna su questo difficile sentiero e da ogni male ci aiuta a uscire rafforzati. Quello che sopportate è dunque una “correzione” con richiami al libro dei Proverbi:”Non disprezzare, figlio mio, la correzione del Signore, e non stancarti delle sue riprensioni. Perché il Signore corregge colui che ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11-12). Per i primi cristiani, questo tema era familiare, poiché conoscevano bene il libro del Deuteronomio, che paragonava Dio a un pedagogo che accompagna la crescita di coloro che educa (cf Dt 8,2-5). Vissuta nella fiducia in Dio, la sofferenza può diventare un’occasione di testimonianza della speranza e della pace interiore che dona lo Spirito. La sofferenza può dunque diventare una scuola, in cui impariamo a vivere nello Spirito tutto ciò che accade perché, come scrive san Paolo, la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata, la virtù provata la speranza che non delude grazie all’amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfRm 5,3-4). La sofferenza dunque fa parte della condizione umana: anche in una tale situazione Dio ci affida l’onore e la responsabilità di testimoniare la fede e, se la persecuzione fa parte del cammino della vita, non è perché Dio la voglia, ma per cause legate a comportamenti umani. Quando Gesù diceva che è necessario che il Figlio dell’uomo soffra, non parlava di una richiesta di Dio, ma della triste realtà dell’opposizione umana e san Paolo, rivolgendosi alle prime comunità dell’Asia Minore, anch’esse perseguitate ricordava che dobbiamo entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni (cf. At 14,22).
Dal vangelo secondo Luca (13,22-30)
Gesù è in cammino verso Gerusalemme e, visibilmente, non perde occasione di insegnare, ma ciò che dice non è sempre quello che ci si aspetta. Qui, per esempio, qualcuno fa una domanda concernente la salvezza e lui non risponde direttamente: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (v.23). La risposta non riguarda chi si salva, come se ci fossero in anticipo degli eletti e degli esclusi, ma quale è la condizione per entrare nel regno: passare per porta! “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non ci riusciranno” (v.24). L’immagine della porta stretta è suggestiva ed eloquente: un tale eccessivamente obeso o chi si carica di pacchi ingombranti non riesce a passare per una porta stretta, a meno che non compia una forte cura dimagrante o decida di abbandonare ogni ingombro. Il testo che segue permette di capire quale sia l’obesità spirituale e quali i bagagli con cui non si riesce a transitare. Bussando alla porta questi diranno: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (vv25-26). Qui Gesù denuncia la sicurezza dei suoi interlocutori, convinti che, per il solo fatto di essere nati nel popolo eletto, abbiano diritto alla salvezza e che per loro la porta si aprirà. Gesù però precisa che la porta è la stessa per tutti e allora perché non riusciranno a passarla? Anzi il padrone preciserà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia” (v.27). È vero che Gesù è uno di loro, che ha mangiato e bevuto con loro e ha insegnato in mezzo a loro; è vero che i loro antenati Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti sono nel Regno di Dio, ma tutto ciò non dà loro diritti. L’obesità spirituale e i pesi ingombranti sono le loro certezze: non accolgono il regno di Dio come un dono, convinti di avere dei diritti. Allora appare chiara l’ultima frase: “vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” (v30). I primi nel disegno di Dio, come afferma san Paolo, sono i figli d’Israele, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, le alleanze, la Legge, il culto, le promesse, i patriarchi, ed è da loro che è nato il Cristo. (cf.Rm 9,4-5). Il popolo ebraico è il popolo dell’Alleanza per scelta sovrana di Dio come leggiamo nel Deuteronomio: «Solo ai tuoi padri il Signore si è attaccato per amarli; e dopo di loro, è la loro discendenza, cioè voi, che ha scelto fra tutti i popoli.» (Dt 10,15). E con giusto motivo, il popolo d’Israele era felice e fiero di essere scelto da Dio come è detto nel salmo 32/33: “Beata la nazione che ha il Signore per Dio. Beato il popolo che si è scelto come patrimonio… Noi aspettiamo il Signore. Egli è il nostro aiuto e il nostro scudo. La gioia del nostro cuore viene da lui e la nostra fiducia è nel suo santo nome.» (Sal 32/33,12.20-21). Ma, come ogni vocazione, la scelta di Dio è una missione: i primi invitati al regno avevano il compito di farvi entrare tutta l’umanità come Isaia ricordava più volte (cf Is 42,6; 49,5-6) perché la salvezza la raggiungesse tutta. Quando Gesù parla, loro rifiutano il suo insegnamento perché disturba le loro certezze e il loro compiacimento di sé e quando Gesù dice loro di allontanarsi perché compiono il male non intende azioni malvagie, ma si riferisce a questa chiusura del cuore. Poco prima egli aveva guarito una donna inferma in una sinagoga di sabato e invece di gioire per la guarigione, avevano criticato il luogo e il momento. Questa stessa ottusità spirituale e visione egoistica della fede può segnare la nostra vita di cristiani. Chiudendo il cuore alla Grazia diventiamo ciechi e obesi spiritualmente perché, come alcuni contemporanei di Gesù chiusi nelle loro certezze, non riuscirono a riconoscerlo e seguirlo come il Messia. Papa Francesco ripeteva che un cuore chiuso non ascolta la voce di Dio né riconosce il volto dei fratelli. Accogliamo allora l’invito del Signore a togliere dal nostro cuore la durezza, per ricevere in dono un cuore di carne: solo così potremo comprendere la sua volontà e annunciare il suo vangelo con gioia.
+ Giovanni D’Ercole
(Mt 24,42-51)
Chiave di lettura del brano potrebbe essere la celebre espressione di s. Agostino: «Timeo Dominum transeuntem».
Incarnazione è filo diretto con la realtà e la condizione divina insieme.
Il tempo della persona di Fede è come stagione d’attesa, ma non di provvisorietà: piuttosto, capitalizzazione e rivolgimento continui.
Né il momento della Chiesa si configura come periodo istituzionale, un lasso di pausa - a orario, con scadenza.
Certo, non è neppure un’età d’allestimento a partire dalle nostre idee, bensì di accoglienza del Regno, che giunge nel suo Appello - oggi con proposte chiarissime (perfino nelle sue sottrazioni).
Siamo chiamati a essere pronti in ogni istante, e veloci come un ‘ladro di notte’…
Forse vuol portarci via qualcosa che crediamo assolutamente nostro, cui però siamo troppo legati.
Fin dalle prime generazioni di credenti sorgevano gruppi di visionari - purtroppo sprovveduti - collegati a un’idea di catastrofe imminente.
L’attesa del ‘ritorno’ subitaneo d’un Messia che doveva porre fine all’ingiustizia e realizzare il Giudizio finale, era aspettativa comune di quanti desideravano s’inaugurasse una nuova fase della storia.
Tuttavia, in nessun punto dei Vangeli è scritto: Gesù “torna”, come se si fosse allontanato.
Egli sopraggiunge, certo: «Viene» - non “ritorna”.
Nel Nuovo Testamento il Risorto è Veniente [‘o Erchòmenos] ossia Colui che irrompe, che incessantemente si rende Presente.
Il punto della Vita è accorgersi, percepire la Presenza di Qualcuno dentro qualcosa; nelle cose sommarie e nelle vicende di liberazione.
Anche nel dramma della rinascita dalla crisi globale.
Nessuna forma di alienazione proviene dai Vangeli: Cristo è «con-noi» in ogni momento; nel nostro impegno in favore della natura, delle culture, della vita di tutti.
L’esperienza piena, totale, di completezza, non è data nel tempo particolare.
Ma ad es. lo spirito di disinteresse che si diffonde e già rende nuove le relazioni e le cose rimane una garanzia del Regno.
Seme e preludio del nuovo mondo che la Chiesa è chiamata ad annunciare e costruire - includendolo a braccia aperte.
Con a centro il «Figlio dell’uomo» che «viene», passo dopo passo, non perdiamo l‘intesa.
Ogni momento è buono per acuire la perspicacia nello Spirito.
La flessibilità del cuore prevarrà sui pronostici, sugli imperativi della mente.
Ecco l’accorgersi e percepire le opportunità; aprire gli occhi, decifrare gli accadimenti, spostare lo sguardo - onde cogliere la Venuta del Signore, fiutarne il Senso, intuirla come Fonte di Speranza.
Nell’Eucaristia proclamiamo appunto la Venuta del Signore, perché la vita in Cristo è in ogni evento anticipazione e preparazione all’Incontro sponsale.
In ottica di Fede, qualsiasi istante critico coopera al bene.
È Chiamata e opportunità di risposta, non timore permanente.
[Giovedì 21.a sett. T.O. 28 agosto 2025]
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
These words are full of the disarming power of truth that pulls down the wall of hypocrisy and opens consciences [Pope Benedict]
Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze [Papa Benedetto]
While the various currents of human thought both in the past and at the present have tended and still tend to separate theocentrism and anthropocentrism, and even to set them in opposition to each other, the Church, following Christ, seeks to link them up in human history, in a deep and organic way [Dives in Misericordia n.1]
Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda [Dives in Misericordia n.1]
Jesus, however, reverses the question — which stresses quantity, that is: “are they few?...” — and instead places the question in the context of responsibility, inviting us to make good use of the present (Pope Francis)
Gesù però capovolge la domanda – che punta più sulla quantità, cioè “sono pochi?...” – e invece colloca la risposta sul piano della responsabilità, invitandoci a usare bene il tempo presente (Papa Francesco)
The Lord Jesus presented himself to the world as a servant, completely stripping himself and lowering himself to give on the Cross the most eloquent lesson of humility and love (Pope Benedict)
Il Signore Gesù si è presentato al mondo come servo, spogliando totalmente se stesso e abbassandosi fino a dare sulla croce la più eloquente lezione di umiltà e di amore (Papa Benedetto)
More than 600 precepts are mentioned in the Law of Moses. How should the great commandment be distinguished among these? (Pope Francis)
Nella Legge di Mosè sono menzionati oltre seicento precetti. Come distinguere, tra tutti questi, il grande comandamento? (Papa Francesco)
The invitation has three characteristics: freely offered, breadth and universality. Many people were invited, but something surprising happened: none of the intended guests came to take part in the feast, saying they had other things to do; indeed, some were even indifferent, impertinent, even annoyed (Pope Francis)
L’invito ha tre caratteristiche: la gratuità, la larghezza, l’universalità. Gli invitati sono tanti, ma avviene qualcosa di sorprendente: nessuno dei prescelti accetta di prendere parte alla festa, dicono che hanno altro da fare; anzi alcuni mostrano indifferenza, estraneità, perfino fastidio (Papa Francesco)
Those who are considered the "last", if they accept, become the "first", whereas the "first" can risk becoming the "last" (Pope Benedict)
Proprio quelli che sono considerati "ultimi", se lo accettano, diventano "primi", mentre i "primi" possono rischiare di finire "ultimi" (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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