don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Domenica, 15 Settembre 2024 18:54

Grandezza nella piccolezza

Iniziati, cerchie, pregiudizi, o strade diverse

(Lc 9,46-50)

 

La Redenzione presenta due aspetti essenziali: Dono della Chiamata e capacità di accogliere la Proposta.

Di onda in onda ciò realizza una nuova Creazione della persona, della fraternità, della Chiesa, e del mondo.

Così la Fede: relazione di accoglienza e incisività, che si riverbera; sempre giovane. Tale l’infanzia spirituale.

È per questo motivo che il testo greco parla di garzone di bottega, il servetto di casa [«paidìon»: vv.47-48] come modello del discepolo vicino al Signore - pronto a scattare di fronte a ogni richiesta di vita. 

Grandezza nella piccolezza.

Ma in questo passo Lc congiunge a quella del servitore anche un’idea di “primo periodo” tipica di coloro che si presentano alla soglia delle comunità: «mikròi» [v.48: incipienti e malfermi].

Spesso coloro che hanno meno energia.

Però, invece d’un incondizionato benvenuto, questi ultimi sentono la diffidenza dei veterani, i quali disdegnano il dialogo e confronto; sempre guardinghi sulle novità - e il pericolo di poter  essere messi “in ombra”.

La vita inedita che potrebbe sorgere viene subito soffocata o incasellata da sedicenti esperti (v.49), trascurando e smorzando il rinnovato Dono di Dio all’assemblea.

Insomma, evitando di cronicizzare gli assetti, la Comunità deve tornare al suo Principio immediato e spontaneo.

Al «seguire insieme con noi» [invece che seguire personalmente Lui, v.49] si contrappone la ricchezza semplice dell’infanzia spirituale e del servizio, nella coesistenza e condivisione più ampie.

Conosciamo anche in noi stessi le smanie di dominio; ma chi si fa «minimo», «servetto», «senza voce», lascia vasto spazio alla forza e all’opera tollerante - trasmutativa - della vita.

Il Nuovo irraggia l’imprevedibile divino e umano. E l’audacia del pudore che ascolta e ha rispetto della propria anima e del fratello come dono-proposta, può far ritrovare ciascuno, dall’intimo.

Pura freschezza che evoca la gioia della Grazia; che mantiene uno sguardo chiaro su tutto - anche sulle astuzie altrui, perché anch’esse possono farci prendere direzioni differenti.

Il posto d’onore è tanto ambito, ma chi resta senza pretese può assai meglio farsi disponibile a una condizione impareggiabile, e alla fraternità che rispetta la vocazione di ciascuno.

In tal guisa, evitiamo di punteggiare il presente in Cristo di modelli (vv.49-50) perché nel seguire il Signore non tutti camminano nello stesso modo.

La marea che Viene vuol trascinarci sul territorio della crescita senza mortificazione: dentro, esiste ed è eloquente un tempo e uno spazio segreti, che ci abitano.

Essi risuonano in sintonia coi Vangeli. Non c’è da “rimettersi al passo” di sempre, né solo trovare una via d’uscita.

Arrendiamoci all’istinto giovane e creativo. Sarebbe il viaggio della Gioia: nella nuova realtà e Bellezza eminente, dal disagio.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa alimenta il tuo desiderio di Dio, di giovinezza, dei fratelli?

 

 

[Lunedì 26.a sett. T.O.  30 settembre 2024]

Domenica, 15 Settembre 2024 18:50

Grandezza nella piccolezza

Iniziati, cerchie, pregiudizi, e strade diverse - dal “vuoto”

(Lc 9,46-50)

 

Secondo il Tao Tê Ching (LXXXI) «Il santo non accumula; più ha fatto per gli altri, più possiede; più ha dato agli altri, più abbonda».

La Redenzione presenta due aspetti essenziali: Dono della Chiamata e capacità di accogliere la Proposta.

Di onda in onda ciò realizza una nuova Creazione della persona, della fraternità, della Chiesa, e del mondo.

Così la Fede: relazione di accoglienza e incisività che si riverbera, sempre giovane. Tale l’infanzia spirituale.

È per questo motivo che il testo greco parla di garzone di bottega, il servetto di casa [«paidìon»: vv.47-48] come modello del discepolo vicino al Signore - pronto a scattare di fronte a ogni richiesta di vita.

Grandezza nella piccolezza.

Ma in questo passo Lc congiunge a quella del servitore anche un’idea di “primo periodo” tipica di coloro che si presentano alla soglia delle comunità: «mikròi» [v.48: incipienti e malfermi]. Spesso coloro che hanno meno energia.

Però, invece d’un incondizionato benvenuto, questi ultimi sentono la diffidenza dei veterani, i quali disdegnano il dialogo e confronto; sempre guardinghi sulle novità - e il pericolo di poter  essere messi “in ombra”.

La vita inedita che potrebbe sorge viene subito soffocata o incasellata da sedicenti esperti (v.49), trascurando e smorzando il rinnovato Dono di Dio all’assemblea.

Insomma, la Comunità deve tornare al suo Principio immediato e spontaneo: l’amore fraterno e universale - riattualizzato dal bussare alla porta delle chiese dei poco importanti in società.

Ma spesso si va come in guerra, perché i primi della classe pretendono di essere solo serviti e riveriti - dai nuovi e da chi è destinato a sforzi, obblighi... e formulazione di propositi impersonali.

Altro che accoglienza totale: il piccolo è considerato usurpatore di proprietà privata - lui che invero farebbe diventare “grandi” gli attori della santità finalmente somiglianti al Padre.

I responsabili sul territorio continuano invece a inaridire le cose e le situazioni, e irrigidire tutti entro forme immobili.

Anche l'attività missionaria degli estranei al gruppo ufficiale viene denigrata, subisce derisioni e conosce ostacoli artificiosi che tentano di cronicizzare gli assetti.

Così l’evangelizzazione viene soppesata: non servizio al Signore e ai fratelli, ma territorio di conquista per sentirsi protagonisti - e i molti concorrenti sembrano pericolosi... all’autoaffermazione.

A tali dovizie del «seguire insieme con noi» (v.49) invece che seguire personalmente Lui, si contrappone la ricchezza semplice dell’infanzia spirituale e del servizio nella coesistenza e condivisione più ampie.

Conosciamo anche in noi stessi le manie di dominio che travalicano l’umiltà, le ansie d’imprese memorabili e gesta importanti che riteniamo di fatto più significative della comprensione e della fluidità.

Ma chi si fa «minimo» lascia vasto spazio alla forza e all’opera tollerante e trasmutativa della vita.

Percepisce l’interno di sé e prende atto delle cose nuove, per esistere davvero e non sentirsi orfano - anzi, sbaragliare le situazioni e portare l’attenzione su altre dimensioni.

L’audacia del pudore che ascolta e ha rispetto della propria anima e del fratello come dono e proposta, può far ritrovare dentro ciascuno il «servetto» e il «senza voce» che attende di essere richiamato in vita.

Pura freschezza che evoca la gioia della Grazia; che mantiene uno sguardo chiaro su tutto, anche sulle astuzie decisioniste altrui, perché anch’esse possono farci prendere direzioni differenti.

Il posto d’onore è tanto ambito, ma chi resta senza pretese può assai meglio essere se stesso e farsi disponibile a una condizione d’altro Regno - alla fraternità che rispetta la vocazione impareggiabile di ciascuno.

Non dobbiamo punteggiare il presente in Cristo di modelli, perché nel seguire il Signore non tutti camminano nello stesso modo. E il nuovo irraggia l’imprevedibile.

 

 

 

Semplicità e sconvolgimenti: Rinascita senza mortificazione

 

Non si tratta di trovare scuse per giustificare la pigrizia nella ricerca e nell’esodo spirituale: piccoli, spontanei e naturali - ma ricchi dentro - si diventa, abbassandosi dal proprio personaggio.

È l’arte di rendere densa e complessa la vita, poliedrica e vasta, semplificando poi, senza disperdere.

Spesso basta solo osservare in maniera singolare e personale, o posare lo sguardo in diverso luogo, per trovare mille sbocchi inattesi e auto-rigeneranti.

Infatti, la soluzione delle complicazioni che soffocano l’anima e l’esperienza della pienezza di essere che cerchiamo, è insita nella nostra stessa domanda.

Non di rado appartiene alle precomprensioni più che alla realtà o alla marea che viene, la quale vuole trascinarci sul territorio della crescita - semplicemente, col suo ritmo.

Siamo obnubilati dai pensieri. Ma esiste un sapere innato che veglia sulla nostra unicità e non intossica l’anima.

Esiste ed è eloquente dentro, un tempo e uno spazio segreti, che ci abitano: essi risuonano in sintonia coi Vangeli.

Non c’è da “rimettersi al passo” di sempre, né solo trovare una via d’uscita.

Se ci arrendiamo a tale istinto giovane e creativo, più sapiente, confortato dalla Parola, il Nucleo dell’essere scenderà in campo con le sue energie primordiali.

Virtù che ricreano la terra come il mitico Bimbo del mondo: un piccolo Gesù - dentro e fuori di noi.

Così si annienta anche il disastro della crisi globale, e si risorge: ciascuno a modo proprio (che non è “suo” nel senso dell’arbitrio).

E quando nei casi particolari saremo capaci di accogliere gli accadimenti come una Chiamata a uscire dalle gabbie affinché percepiamo l’Altrove, troveremo un risultato intimo.

La spina nel fianco sbroglierà e rilancerà la via speciale; accentuerà le possibilità di scambio di doni inediti, non stereotipi - senza neppure provare stanchezza, e le sottili insoddisfazioni che conosciamo.

 

Proiettati totalmente nei problemi esterni, sovraccarichiamo la mente e lo spirito di aspettative indotte da paradigmi culturali in voga [antiquati o disincarnati che siano] o cui siamo abituati.

Così l’esistenza ridiventa subito conformista, stagnante nei soliti mezzi e mète, priva di nuovi picchi o relazioni autentiche e vitalità impensate.

Il diktat dell’obbiettivo indotto dai ruoli che immaginavamo acquisiti ci sfibra, e l’idea istituita di perfezione sterilizza l’humus - impoverisce dentro.

Il riduzionismo in atto mette fra parentesi le esigenze effettive.

L’unilateralità poi lascia prevalere i modi di essere, i ruoli già espressi; inaridisce i rapporti, rendendo di nuovo torbidi gli ambienti (tutti impermeabili e consolidati).

Le idee fisse condizionano la vita e non lasciano che l’organismo interiore - psichico e spirituale - possa nutrirsi di verità trasparenti, non pregiudicate; e sensazioni sincere, che vorrebbero donarci respiro.

Liberarci da soliti modi di scendere in campo, da giudizi e convinzioni apodittiche, consentirebbe viceversa di spezzare le catene che trattengono le facoltà luminose e arcobaleno.

Nonché la capacità di corrispondere all’inedita Chiamata personale, spalancando altre visuali.

 

Il “vuoto” propugnato dal Tao somiglia solo a orecchio al “vuoto” di altre sapienze orientali, decisamente più spersonalizzanti.

L’insegnamento orientale della Via non smarrisce il senso di rilievo ed eccezionalità del singolo seme.

Anzi, ne rispetta appieno la vocazione propulsiva. Rimanendo se stessi, non solo malgrado - ma a motivo - dell’abisso obbligatorio che abbiamo attraversato.

Minimizzando i propositi di riedizione dell’antico maquillage - e tutti i convincimenti non epocali, che non ci chiamano, e neppure vorremmo - sgombriamo l'anima dalle zavorre.

In ta guisa faremo affiorare il suo peso specifico eccezionale e il carattere irripetibile, per alleggerirla e colmarla solo di quanto serve, onde attivare i nuovi sentieri che ci attendono.

Il rallentamento e il lasciar scorrere che Lao Tse propugna non guida all’insignificante appiattimento delle differenze, ma a dilatare i tempi sacri e naturali dell’azione sapiente, e apprezzarne il valore.

Tappe e traguardi che non ci corrispondono, non daranno appagamento.

Gli artifizi costringono infatti ad amplificare i rapporti -ma solo per coprire il problema con se stessi, o addirittura di coppia, di gruppo, movimento, comunità, ambiente di lavoro.

Mentre desideriamo rivestire [e non deporre] di senso di permanenza il personaggio di prima - cliché che non ci corrisponde - giriamo a vuoto. Ci carichiamo di attese fuori scala, d’inutile stress che non fa spazio all’amore [amicizia con cui s’incontra se stessi, le cose, sorelle e fratelli, i tanti eventi].

 

La Sapienza naturale, gli accadimenti anche amareggianti, e la Bibbia, ci ricordano che il volto... ogni percorso, il nome, e il ritmo, sono solo nostri.

Anche la sintesi lo è: ciascuno è chiamato a scrivere la sua eccentrica lieta notizia a favore della donna e dell’uomo di ogni tempo (Gv 20,30-31).

Nota bene: la Fraternità non è livellamento:

«Ma ci sono molte altre cose che Gesù ha fatto, le quali se fossero scritte una per una, penso che neppure il mondo stesso potrebbe contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25).

 

Sarebbe il viaggio della Gioia: nella nuova realtà e Bellezza eminente, dal disagio.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa alimenta il tuo desiderio di Dio e dei fratelli?

Domenica, 15 Settembre 2024 18:44

Piccoli: Segno di Dio

Il segno di Dio è la semplicità. Il segno di Dio è il bambino. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo per noi. È questo il suo modo di regnare. Egli non viene con potenza e grandiosità esterne. Egli viene come bambino – inerme e bisognoso del nostro aiuto. Non vuole sopraffarci con la forza. Ci toglie la paura della sua grandezza. Egli chiede il nostro amore: perciò si fa bambino. Nient'altro vuole da noi se non il nostro amore, mediante il quale impariamo spontaneamente ad entrare nei suoi sentimenti, nel suo pensiero e nella sua volontà – impariamo a vivere con Lui e a praticare con Lui anche l'umiltà della rinuncia che fa parte dell'essenza dell'amore. Dio si è fatto piccolo affinché noi potessimo comprenderLo, accoglierLo, amarLo. I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca dell'Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia che anche Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero già preannunciate nell'Antico Testamento. Lì si leggeva: "Dio ha reso breve la sua Parola, l'ha abbreviata" (Is 10,23; Rom 9,28). I Padri lo interpretavano in un duplice senso. Il Figlio stesso è la Parola, il Logos; la Parola eterna si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile. Così Dio ci insegna ad amare i piccoli. Ci insegna così ad amare i deboli. Ci insegna in questo modo il rispetto di fronte ai bambini. Il bambino di Betlemme dirige il nostro sguardo verso tutti i bambini sofferenti ed abusati nel mondo, i nati come i non nati. Verso i bambini che, come soldati, vengono introdotti in un mondo di violenza; verso i bambini che devono mendicare; verso i bambini che soffrono la miseria e la fame; verso i bambini che non sperimentano nessun amore. In tutti loro è il bambino di Betlemme che ci chiama in causa; ci chiama in causa il Dio che si è fatto piccolo. Preghiamo in questa notte, affinché il fulgore dell’amore di Dio accarezzi tutti questi bambini, e chiediamo a Dio di aiutarci a fare la nostra parte perché sia rispettata la dignità dei bambini; che per tutti sorga la luce dell’amore, di cui l’uomo ha più bisogno che non delle cose materiali necessarie per vivere.

[Papa Benedetto, omelia di Natale 24 dicembre 2006]

1. Le difficoltà che talora accompagnano lo sviluppo dell’evangelizzazione pongono in luce un problema delicato la cui soluzione non va cercata in termini puramente storici o sociologici: il problema della salvezza di coloro che non appartengono visibilmente alla Chiesa. Non ci è data la possibilità di scrutare il mistero dell’azione divina nelle menti e nei cuori, per valutare la potenza della grazia di Cristo nel prendere possesso, in vita e in morte, di quanti “il Padre gli ha dato”, e che Egli stesso ha proclamato di non voler “perdere”. Lo sentiamo ripetere in una delle letture evangeliche proposte per la Messa dei defunti (cf. Gv 6, 39-40).

Ma, come ho scritto nell’Enciclica Redemptoris Missio, non si può limitare il dono della salvezza “a coloro che, in modo esplicito, credono in Dio e sono entrati nella Chiesa. Se è destinata a tutti la salvezza deve essere messa in concreto a disposizione di tutti”. E, ammettendo che è concretamente impossibile per tanta gente accedere al messaggio cristiano, ho aggiunto: “Molti uomini non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del Vangelo di entrare nella Chiesa. Essi vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose” (Redemptoris Missio, 10).

Dobbiamo riconoscere che per quanto rientra nelle umane capacità di previsione e di conoscenza questa impossibilità pratica sembrerebbe destinata a durare ancora a lungo forse anche fino al compimento finale dell’opera di evangelizzazione. Gesù stesso ha ammonito che solo il Padre conosce “i tempi e i momenti” da lui fissati per l’instaurazione del suo Regno nel mondo (cf. At 1, 7).

2. Quanto sopra ho detto non giustifica però la posizione relativistica di chi ritiene che in qualsiasi religione si possa trovare una via di salvezza, anche indipendentemente dalla fede in Cristo Redentore, e che su questa ambigua concezione debba basarsi il dialogo interreligioso. Non è qui la soluzione conforme al Vangelo del problema della salvezza di chi non professa il Credo cristiano. Dobbiamo invece sostenere che la strada della salvezza passa sempre per Cristo, e che quindi spetta alla Chiesa e ai suoi missionari il compito di farlo conoscere ed amare in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni cultura. Al di fuori di Cristo non “vi è salvezza”. Come proclamava Pietro davanti al Sinedrio, fin dall’inizio della predicazione apostolica: “Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 12).

Anche per coloro che senza loro colpa non conoscono Cristo e non si riconoscono cristiani, il piano divino ha predisposto una via di salvezza. Come leggiamo nel Decreto conciliare sull’attività missionaria Ad Gentes, noi crediamo che “Dio, attraverso le vie che lui solo conosce può portare gli uomini che senza loro colpa ignorano il Vangelo” alla fede necessaria alla salvezza (Ad Gentes, 7). Certo, la condizione “senza loro colpa” non può essere verificata né apprezzata da una valutazione umana, ma deve essere lasciata unicamente al giudizio divino. Per questo nella Costituzione Gaudium et Spes il Concilio dichiara che nel cuore di ogni uomo di buona volontà “opera invisibilmente la grazia”, e che “lo Spirito Santo dà a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col Mistero pasquale” (Gaudium et Spes, 22).

3. E importante sottolineare che la via della salvezza percorsa da quanti ignorano il Vangelo non è una via fuori di Cristo e della Chiesa. La volontà salvifica universale è legata all’unica mediazione di Cristo. Lo afferma la Prima Lettera a Timoteo: “Dio nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio, e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tm 2, 3-6). Lo proclama Pietro quando dice che “in nessun altro c’è salvezza”, e chiama Gesù “testata d’angolo” (At 4,11-12), ponendo in evidenza il ruolo necessario di Cristo a fondamento della Chiesa.

Questa affermazione della “unicità” del Salvatore trae la sua origine dalle stesse parole del Signore, il quale afferma di essere venuto “per dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45), cioè per l’umanità, come spiega San Paolo quando scrive: “Uno è morto per tutti” (2 Cor 5, 14 cf. Rm 5, 18). Cristo ha ottenuto la salvezza universale con il dono della propria vita: nessun altro mediatore è stato stabilito da Dio come Salvatore. Il valore unico del sacrificio della Croce deve essere sempre riconosciuto nel destino di ogni uomo.

4. E siccome Cristo opera la salvezza mediante il suo mistico Corpo, che è la Chiesa, la via di salvezza è essenzialmente legata alla Chiesa. L’assioma extra Ecclesiam nulla salus – “fuori della Chiesa non c’è salvezza” –, enunciato da San Cipriano (Epist 73,21: PL 1123 AB), appartiene alla tradizione cristiana ed è stato inserito nel Concilio Lateranense IV (Denz.-S. 802), nella bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII (Denz.-S. 870) e nel Concilio di Firenze (Decretum pro Jacobitis, Denz.-S. 1351).

L’assioma significa che per quanti non ignorano che la Chiesa è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria c’è l’obbligo di entrare e di perseverare in essa al fine di ottenere la salvezza (cf. Lumen Gentium, 14). Per coloro che invece non hanno ricevuto l’annunzio del Vangelo, come ho scritto nell’Enciclica Redemptoris Missio, la salvezza è accessibile attraverso vie misteriose in quanto la grazia divina viene loro conferita in virtù del sacrificio redentore di Cristo, senza adesione esterna alla Chiesa ma sempre, tuttavia, in relazione con essa (cf. Redemptoris Missio, 10). Si tratta di una “misteriosa relazione”: misteriosa per coloro che la ricevono, perché essi non conoscono la Chiesa e anzi, talvolta, esternamente la respingono; misteriosa anche in se stessa perché legata al mistero salvifico della grazia, che comporta un riferimento essenziale alla Chiesa fondata dal Salvatore.

La grazia salvifica, per operare, richiede un’adesione, una cooperazione, un sì alla divina donazione: e tale adesione è, almeno implicitamente, orientata verso Cristo e la Chiesa. Perciò si può dire anche sine Ecclesia nulla salus – “senza la Chiesa non c’è salvezza” –: l’adesione alla Chiesa-Corpo mistico di Cristo, per quanto implicita è appunto misteriosa, costituisce una condizione essenziale per la salvezza.

5. Le religioni possono esercitare un influsso positivo sul destino di chi ne fa parte e ne segue le indicazioni con sincerità di spirito. Ma se l’azione decisiva per la salvezza è opera dello Spirito Santo dobbiamo tener presente che l’uomo riceve soltanto da Cristo, mediante lo Spirito Santo, la sua salvezza. Essa ha inizio già nella vita terrena, che la grazia, accettata e corrisposta, rende fruttuosa, in senso evangelico, per la terra e per il cielo.

Di qui l’importanza del ruolo indispensabile della Chiesa, la quale “non è fine a se stessa ma fervidamente sollecita di essere tutta di Cristo, in Cristo e per Cristo, e tutta degli uomini, fra gli uomini e per gli uomini”. Un ruolo che non è dunque “ecclesiocentrico” come a volte si è detto: la Chiesa non esiste infatti né lavora per se stessa, ma è al servizio di una umanità chiamata alla filiazione divina in Cristo (cf. Redemptoris Missio, 19). Essa esercita perciò una mediazione implicita anche nei confronti di quanti ignorano il Vangelo.

Ciò non deve però portare alla conclusione che la sua attività missionaria sia in tali circostanze meno necessaria. Tutt’altro. In effetti chi ignora Cristo, pur senza sua colpa, viene a trovarsi in una condizione di oscurità e di carestia spirituale con riflessi negativi spesso anche sul piano culturale e morale. L’azione missionaria della Chiesa può procurargli le condizioni di pieno sviluppo della grazia salvatrice di Cristo, proponendo l’adesione piena e consapevole al messaggio della fede e la partecipazione attiva alla vita ecclesiale nei sacramenti.

Questa è la linea teologica tratta dalla tradizione cristiana. Il magistero della Chiesa l’ha seguita nella dottrina e nella prassi come via segnata da Cristo stesso per gli Apostoli e per i missionari di tutti i tempi.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 31 maggio 1995]

Domenica, 15 Settembre 2024 18:35

Non esiste un’evangelizzazione a distanza

[…] ritorniamo a Gerusalemme, nel Cenacolo, come guidati dai due discepoli di Emmaus, i quali avevano ascoltato con grande emozione le parole di Gesù lungo la via e poi lo avevano riconosciuto «nello spezzare il pane» (Lc 24,35). Ora, nel Cenacolo, Cristo risorto si presenta in mezzo al gruppo dei discepoli e li saluta: «Pace a voi!» (v. 36). Ma essi sono spaventati e credono «di vedere un fantasma», così dice il Vangelo (v. 37). Allora Gesù mostra loro le ferite del suo corpo e dice: «Guardate le mie mani e i miei piedi – le piaghe –: sono proprio io! Toccatemi» (v. 39). E per convincerli, chiede del cibo e lo mangia sotto i loro sguardi sbalorditi (cfr vv. 41-42).

C’è un particolare qui, in questa descrizione. Dice il Vangelo che gli Apostoli “per la grande gioia ancora non credevano”. Era tale la gioia che avevano che non potevano credere che quella cosa fosse vera. E un secondo particolare: erano stupefatti, stupiti; stupiti perché l’incontro con Dio ti porta sempre allo stupore: va oltre l’entusiasmo, oltre la gioia, è un’altra esperienza. E questi erano gioiosi, ma una gioia che faceva pensare loro: no, questo non può essere vero!… È lo stupore della presenza di Dio. Non dimenticare questo stato d’animo, che è tanto bello.

Questa pagina evangelica è caratterizzata da tre verbi molto concreti, che riflettono in un certo senso la nostra vita personale e comunitaria: guardare, toccare e mangiare. Tre azioni che possono dare la gioia di un vero incontro con Gesù vivo.

Guardare. “Guardate le mie mani e i miei piedi” – dice Gesù. Guardare non è solo vedere, è di più, comporta anche l’intenzione, la volontà. Per questo è uno dei verbi dell’amore. La mamma e il papà guardano il loro bambino, gli innamorati si guardano a vicenda; il bravo medico guarda il paziente con attenzione… Guardare è un primo passo contro l’indifferenza, contro la tentazione di girare la faccia da un’altra parte, davanti alle difficoltà e alle sofferenze degli altri. Guardare. Io vedo o guardo Gesù?

Il secondo verbo è toccare. Invitando i discepoli a toccarlo, per constatare che non è un fantasma – toccatemi! –, Gesù indica a loro e a noi che la relazione con Lui e con i nostri fratelli non può rimanere “a distanza”, non esiste un cristianesimo a distanza, non esiste un cristianesimo soltanto sul piano dello sguardo. L’amore chiede il guardare e chiede anche la vicinanza, chiede il contatto, la condivisione della vita. Il buon samaritano non si è limitato a guardare quell’uomo che ha trovato mezzo morto lungo la strada: si è fermato, si è chinato, gli ha medicato le ferite, lo ha toccato, lo ha caricato sulla sua cavalcatura e l’ha portato alla locanda. E così con Gesù stesso: amarlo significa entrare in una comunione di vita, una comunione con Lui.

E veniamo allora al terzo verbo, mangiare, che esprime bene la nostra umanità nella sua più naturale indigenza, cioè il bisogno di nutrirci per vivere. Ma il mangiare, quando lo facciamo insieme, in famiglia o tra amici, diventa pure espressione di amore, espressione di comunione, di festa... Quante volte i Vangeli ci presentano Gesù che vive questa dimensione conviviale! Anche da Risorto, con i suoi discepoli. Al punto che il Convito eucaristico è diventato il segno emblematico della comunità cristiana. Mangiare insieme il corpo di Cristo: questo è il centro della vita cristiana.

Fratelli e sorelle, questa pagina evangelica ci dice che Gesù non è un “fantasma”, ma una Persona viva; che Gesù quando si avvicina a noi ci riempie di gioia, al punto di non credere, e ci lascia stupefatti, con quello stupore che soltanto la presenza di Dio dà, perché Gesù è una Persona viva. Essere cristiani non è prima di tutto una dottrina o un ideale morale, è la relazione viva con Lui, con il Signore Risorto: lo guardiamo, lo tocchiamo, ci nutriamo di Lui e, trasformati dal suo Amore, guardiamo, tocchiamo e nutriamo gli altri come fratelli e sorelle. La Vergine Maria ci aiuti a vivere questa esperienza di grazia.

[Papa Francesco, Angelus 18 aprile 2021]

Domenica, 15 Settembre 2024 05:28

Ecclesiologia e piccoli gesti

La concezione di chiusura e inquisizione

(Mc 9,38-40)

 

Non è strano che la santa Inquisizione sia nata nel tempo di una ecclesiologia assente.

Il ‘lievito’ dei farisei e di Erode (Mc 8,14) porta anche i discepoli diretti di Cristo a una mentalità sigillata - secondo la quale se qualcuno “non è dei nostri” [«non ‘ci’ seguiva» v.38] dev’essere emarginato.

Non c’è nessun criterio banale che porga l’imprimatur di poter discriminare “fedeli” e “non”.

Vale: quanto conta la Persona del Figlio dell’uomo, per la nostra vita e nelle scelte quotidiane?

Per il Signore ciò che conta non è l’appartenenza formale - che tende a omologare.

Vediamo infatti che proprio le situazioni fuori le righe diventano pungolo: sollecitano i ‘cristiani’ scialbi e opachi a farsi Seme.

Così, anche la “comunità” non è importante perché si ritiene tale.

 

La chiamata universale alla promozione dell’umanità è divina: ricchezza che sorvola gli ostacoli, patrimonio di gioia da qualsiasi parte provenga.

Se relegata e stretta negli schedari, la storia della Salvezza non si fa vita da salvati.

«Ma Gesù disse: Non glielo impedite. Infatti non c’è nessuno che faccia una meraviglia potente nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me» (v.39).

Con i suoi intimi, il Maestro non usa un linguaggio diplomatico [espressioni attente a non offendere la loro suscettibilità di esperti].

 

La formazione dei discepoli è essenziale alla costruzione del Regno dai larghi confini, anzitutto mentali.

Nelle religioni esoteriche esistono modelli. Qui no, solo carismi, anche personalissimi - condizione dell’amore vero.

Siamo governati da Dio solo - unico a sapere quel che suscita in ciascuno, e ‘dove andare’.

 

Gesù è rivelatore e cardine di questa Notizia lieta, impensabile: ma nel senso di Motivo e Motore intimo, del tutto non esteriore - che chiama la persona nel modo che agli altri pare incomprensibile.

Cristo marca la sua Amicizia nella vita dei credenti, quale centro e asse. Eppure sono moltissimi i gesti e le sensibilità che il mondo nuovo suscita, e parimenti segnano la sua Presenza.

Né si stanca di ripetere ciò che non desideriamo capire.

Ordina solo di ‘percepire’ bene la realtà (Mc 8,27-29) dove si annida il segreto di Dio - che il pensiero conformista non riesce neanche lontanamente a immaginare (Mc 8,30-35).

 

Lo standard non ha peso specifico per l’eccedenza dell'avventura di Fede.

Lo squilibrio dell’amore è personale: serenamente ammette la diversità e l’incremento eccentrico di vita che ne sussegue.

È tale la nuova coscienza della Missione fatta nell’Ascolto, e nel rispetto non solo nei confronti dell’intelligenza e cultura altrui, ma anche di se stessi.

Nessuno ha il monopolio della Grazia: motivo per non rattrappire il cuore sui canoni o sulle mode.

 

Nella verità del Bene, il senso di proprietà è fuori luogo. 

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Che peso hanno su di te gli interessi materiali, le vuote rigidezze, o le fantasie senza nerbo, di chi (senza neppure aver titolo) scimmiotta piccole gerarchie e fulmina i diversi con mediocri sentenze impersonali?

Come vivi la Parola: «Chi non è contro, è per»?

 

 

Il rapporto con gli esclusi e le loro esigenze (modeste)

(Mc 9,41-50)

 

Con linguaggio tipico della vivacità orientale, le esortazioni di Gesù alla convivenza rovesciano la gerarchia tra forti e deboli.

Nelle religioni troviamo frotte di emarginati che non possono accedere agli allestimenti della religione piramidale.

Al contrario, chi come Gesù è in grado di donare tutto, non deve dimenticare i piccoli gesti, che parlano d’un gratis non “esemplare” quindi autentico [limitato nel giorno dopo giorno].

È questo venire incontro nel sommario - poco encomiato - che valorizza il clima e non spinge i deboli al risentimento, e al male.

La nuova ‘dottrina’ di Gesù è sapiente e finalizzata alla decisione. E non smarrisce l’entusiasmo; anzi, ci fa già sperimentare la stessa qualità di Vita come dell’Eterno, allontanando da ciò che corrompe.

Chi è tutto preso dal “grande” e non s’accorge del dettaglio, mai ha il senso del valore delle cose, e presto o tardi finirà per disprezzare tutto.

 

Gesù s’identifica con noi (v.41) perché ci abita: siamo la sua Vittoria reale, incarnata.

Una pietra d’inciampo o anche solo nella scarpa (v.42) allontana i «mikròi» dal cammino di Fede.

Gli «incipienti» - appunto, i dotati di poca energia e relazioni - iniziano a fare i primi passi… sono ancora fuori dalle cordate.

Coloro che pretendono e si mettono di traverso, o danno scialba e pessima testimonianza, hanno però in serbo altro che una pietruzza: una mola al collo e una fine indegna (esistenza mortifera: v.42).

Non perché Dio la fa pagare, ma perché buttano la vita e rovinano gli altri, che infine si allontanano ripugnati - mentre l’avventura di condivisione potrebbe essere meravigliosa per ciascuno.

 

La scelta - se c’è - è radicale, o non convince più. E l’odore che si sprigiona è peggio che maleodorante (v.43).

Invece, la comunità in cui si sperimenta gioia è come quel pizzico di sapidità e sapienza che rende piena - bella - l’onda vitale spontanea della gente.

Ciò nelle religioni dell’impero era abituale pensarlo, anche in nome della legge... dunque, qual è la differenza?

«Avere sale in noi stessi» (v.50) significa che in Cristo siamo resi capaci di dare alle cose minime e consuete quella tonalità e ‘gusto’ in grado di trasmettere anche al prossimo il sapore di una vita da salvati - a partire ‘da dentro’.

 

Nella cultura del medio oriente antico, il «sale» era messo in relazione con Dio e aveva dunque un’importanza anche religiosa: simbolo di durata [per conservare i cibi] e di coraggio [sapidità, condimento, purificazione].

Il sale aveva potere di scacciare i demoni, che corrompevano la vita e suscitavano fetore. Per tale motivo era largamente usato nei sacrifici cultuali e nel sancire Alleanze.

Insomma, il sale era garanzia di durata genuina.

Ma il sale cristiano è solo… Amore al prossimo e capacità di corrispondere alla propria Vocazione.

Se non vi fosse, scomparirebbe il carattere stesso della vita in Cristo.

 

Quindi il «patto del sale» è essenziale per la credibilità, per l’Annuncio, per il tenore della vita; per la sopravvivenza stessa delle comunità, e il loro tocco inconfondibile. 

Nessun’altra opera di difesa dall’esterno - inquisizione, prevenzione o repressione - può garantire la sopravvivenza della Chiesa.

Per il nostro progresso umano, spirituale e della vita intera, Gesù parteggia forse non come ci si attenderebbe - perché a nessuno è data l’esclusiva.

 

 

[26.a Domenica T.O. (B)  29 settembre 2024]

Domenica, 15 Settembre 2024 05:24

Ecclesiologia e piccoli gesti

(Mc 9,38-43.45.47-48)

 

La concezione di chiusura e inquisizione

(Mc 9,38-40)

 

Non è strano che la santa Inquisizione sia nata nel tempo di una ecclesiologia assente.

La malattia della casta - sempre incline al sequestro di Gesù - e il senso dell’assoluto monopolio... erano già tentazioni delle prime comunità, segnatamente degli Apostoli di spicco.

I superApostoli pretendevano fissare la tipologia dei membri di Chiesa, comprese autorizzazioni, deferenze, caratteristiche.

Invece - sebbene in semplicità - non c’è nessun criterio banale che porga l’imprimatur di poter discriminare “fedeli” e “non”.

Vale: quanto conta la Persona del Figlio dell’uomo, per la nostra vita e nelle scelte quotidiane?

Sentire - o meno - amico chiunque s’impegni ad annientare il male (ricorrendo magari al suo modo libero di recepire Dio) fa riflettere anche oggi.

Siamo solo alle soglie d’un cammino nello Spirito? Il segno di una separazione di fatto dal disegno di Dio sulla donna e l’uomo viene forse celato da espressioni epidermiche.

Probabilmente non abbiamo ben capito che ogni passo di liberazione - ovunque provenga - avvicina al Padre e ci umanizza anche la testa.

 

Il lievito dei farisei e di Erode (Mc 8,14) porta anche i discepoli diretti di Cristo a una mentalità sigillata - secondo la quale se qualcuno “non è dei nostri” («non ci seguiva» v.38) dev’essere emarginato.

La differenza tra religiosità e Fede: non c’è più bisogno di aderire a un modo di pensare riconosciuto, né essere membro d’un club ufficiale.

Saggezza spirituale e Apertura sono la stessa cosa. Ogni gesto vitale spalanca possibilità felici: l’essere «attirati da Dio» è tutto questo.

Per fare il bene (scacciare i demoni, v.38) non conta il distintivo (ad es il nome sul registro dei Battesimi) o essere confermato in circoli esclusivi.

Nell’avventura personale della Fede genuina, non c’è monopolio - neppure per l’apostolo Giovanni. Nessuno è abilitato a sentenziare in nome dell’assemblea!

La santità come separazione attiene i criteri, la mentalità, la concatenazione dei princìpi (o il loro rovesciamento): non l’elezione-predestinazione di un “popolo di puri”.

Per Cristo ciò che conta non è l’appartenenza formale - che tende a omologare - ma cosa fare nel concreto (ovviamente su base vocazionale e d’inclinazione irripetibile).

Non ha peso alcuno il sentirsi discepolo, bensì l’esserlo di fatto. L’amore per la “verità” non esclude, bensì include tutti coloro che hanno alti valori (anche sovrannaturali, e che non capiamo).

L’adesione autentica è sul bene - unica Vittoria del popolo dei rinati nel Risorto. Opera di vita che anche la Chiesa ufficiale è chiamata a edificare, senza atteggiamenti schizzinosi.

Anzi, vediamo che proprio le situazioni fuori le righe diventano pungolo: sollecitano i “cristiani” scialbi e opachi a farsi seme.

 

La “comunità” non è importante perché si ritiene tale.

La chiamata universale alla promozione dell’umanità è divina: ricchezza che sorvola gli ostacoli, patrimonio di gioia da qualsiasi parte provenga.

Se relegata e stretta negli schedari, la storia della Salvezza non si fa vita da salvati.

Il Corpo mistico del Signore rifugge l’ideologia di potere e lo stile supponente dei manipolatori (arraffoni spirituali) che immaginano di essere chissà cosa.

«Ma Gesù disse: Non glielo impedite. Infatti non c’è nessuno che faccia una meraviglia potente nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me» (v.39).

Per formare i discepoli, Cristo non solletica l'amor proprio allestendo un festival o promuovendo fictions.

Con i suoi intimi, il Maestro non usa un linguaggio diplomatico (espressioni attente a non offendere la loro suscettibilità di esperti).

 

La formazione dei discepoli è essenziale alla costruzione del Regno dai larghi confini, anzitutto mentali.

Nelle religioni esoteriche esistono modelli. Qui no, solo carismi, anche personalissimi - condizione dell’amore vero.

Siamo governati da Dio solo - unico a sapere quel che suscita in ciascuno, e dove andare.

Gesù è rivelatore e cardine di questa Notizia lieta, impensabile: ma nel senso di Motivo e Motore intimo, del tutto non esteriore.

Il Signore chiama la persona nel modo che agli altri pare incomprensibile.

Cristo marca la sua Amicizia nella vita dei credenti, quale centro e asse. Eppure sono moltissimi i gesti e le sensibilità che il mondo nuovo suscita, e parimenti segnano la sua Presenza.

L’educazione interiore e la scommessa della Fede riflessa nelle attività ci prepara alla vita quotidiana, nonché alla grande missione.

Formandoci alla Parola-evento schietta, il Messia dimesso trasmette la sua stessa esperienza del Padre.

Egli ci coinvolge con incredibile e immeritata fiducia nell’opera di evangelizzazione.

Né si stanca di ripetere ciò che non desideriamo capire.

Il Figlio dell’uomo ordina solo di percepire bene la realtà (Mc 8,27-29) dove si annida il segreto di Dio (che il pensiero conformista non riesce neanche lontanamente a immaginare: Mc 8,30-35).

La Regola vale solo per la devozione normalizzata, la quale pone sempre più risposte (già antiche) che domande.

Lo standard non ha peso specifico per l’eccedenza dell'avventura di Fede.

Lo squilibrio dell’amore è personale: serenamente ammette la diversità e l’incremento eccentrico di vita che ne sussegue.

 

È tale la nuova coscienza della Missione fatta nell’ascolto, e nel rispetto non solo nei confronti dell’intelligenza e cultura altrui, ma anche di se stessi.

Tuttora in mille guise e finalmente con l’aiuto di un Magistero ecclesiale più saggio, la Provvidenza incoraggia a collocarci meglio - in appoggio proprio agli esclusi dal “giro”.

L’opera della “conversione evangelica” giunge chiara e forte sino a noi, sorvolando qualsiasi considerazione fatta dal punto di vista di Chiesa trionfante o di antico diritto.

Nessuno ha il monopolio della Grazia: motivo per non rattrappire il cuore sui canoni o sulle mode.

Nella verità del Bene, il senso di proprietà è fuori luogo. 

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Che peso hanno su di te gli interessi materiali, le vuote rigidezze, o le fantasie senza nerbo, di chi (senza neppure aver titolo) scimmiotta piccole gerarchie e fulmina i diversi con mediocri sentenze impersonali?

Come vivi la Parola: «Chi non è contro, è per»?

 

 

Il rapporto con gli esclusi e le loro esigenze (modeste)

(Mc 9,41-50)

 

Con linguaggio tipico della vivacità orientale, le esortazioni di Gesù alla convivenza rovesciano la gerarchia tra forti e deboli.

Nelle religioni troviamo frotte di emarginati che non possono accedere né partecipare agli allestimenti di coloro che ingannano le folle (anche se stessi) usando la religione piramidale.

La vigliaccheria delle classi abbienti produce l’esitazione dei senza voce, indefinitamente.

Nella Chiesa di Dio - segno di società alternativa - non ci dev’essere dubbio, a partire dalle piccole privazioni.

Men che mai in ambito ben strutturato nei ruoli, i miseri attenderebbero di vedere (non dico realizzate le speranze di riscatto, ma semplicemente) esaudite le esigenze modeste che si trascinano dietro, per motivi di giustizia.

Purtroppo, ancora oggi risultano piuttosto beffeggiati e castigati - da coloro che temono di perdere visibilità, privilegi e ruoli.

Al contrario, chi come Gesù è in grado di donare tutto, non deve dimenticare i piccoli gesti, che parlano d’un gratis non “esemplare” quindi autentico (limitato nel giorno dopo giorno).

È questo venire incontro nel sommario - poco encomiato - che valorizza il clima e non spinge i deboli al risentimento, e al male.

La nuova “dottrina” di Gesù è sapiente e finalizzata alla decisione, perché non smarrisce l’entusiasmo. Anzi ci fa già sperimentare la stessa qualità di vita dell’Eterno, allontanando da ciò che corrompe.

 

Chi è tutto preso dal grande e non s’accorge del dettaglio, mai ha il senso del valore delle cose, e presto o tardi finirà per disprezzare tutto.

Gesù s’identifica con noi (v.41) perché ci abita: siamo la sua Vittoria reale, incarnata.

Una pietra d’inciampo o anche solo nella scarpa (v.42) allontana i «mikròi» dal cammino di Fede.

Gli «incipienti» - appunto, i dotati di poca energia e relazioni - iniziano a fare i primi passi… sono ancora fuori dalle cricche e dalle cordate (perfino interne).

Coloro che pretendono e si mettono di traverso, o danno scialba e pessima testimonianza, hanno però in serbo altro che una pietruzza: una mola al collo e una fine indegna (esistenza mortifera: v.42).

“Meglio” quella dei finti devoti che la mortificazione ulteriore di tutti, dai primi della classe costretti a vivere male.

Non perché Dio la fa pagare, ma perché buttano la vita e rovinano gli altri, che infine si allontanano, giustamente ripugnati - mentre l’avventura di condivisione potrebbe essere meravigliosa per ciascuno.

È questo del non senso (per usare un eufemismo) il tratto che spinge le folle a cercare un cristianesimo più autentico di quello vissuto solo nei segni, nelle passerelle e nelle formule, o nelle strutture preposte.

 

La scelta - se c’è - è radicale, o non convince più. E l’odore che si sprigiona è peggio che maleodorante (v.43).

A forza di professare, molti restano senza Dio e senza umanità; neanche si accorgono che esistono gli altri - differenti e legittime aspirazioni di vita (verso di sé ben riconosciute e trattenute).

Invece, la comunità in cui si sperimenta gioia è come quel pizzico di sapidità e sapienza che rende piena - bella - l’onda vitale spontanea della gente.

Il fermento che non fa lievitare non serve più a nulla.

A maggior ragione è vacuo anzitutto ai piccoli e malfermi che si accostano alla Chiesa per sentirsi bene, o finalmente non più esposti al ludibrio della società tutta esterna delle competizioni.

Atmosfera artificiosa, buona solo a ridurre al silenzio gl’indifesi, disprezzati e ridotti all’obbedienza - e che si fa burle dell’accoglienza.

 

Ciò nelle religioni dell’impero era abituale pensarlo, anche in nome della legge “divina”... dunque, qual è la differenza?

«Avere sale in noi stessi» (v.50) significa che in Cristo siamo resi capaci di dare alle cose minime e consuete quella tonalità e gusto in grado di trasmettere anche al prossimo il sapore di una vita da salvati - a partire da “dentro”.

Nella cultura del medio oriente antico, il sale era messo in relazione con Dio e aveva dunque un’importanza anche religiosa: simbolo di durata (per conservare i cibi) e di coraggio (sapidità, condimento, purificazione).

Il sale aveva potere di scacciare i demoni, che corrompevano la vita e suscitavano fetore. Per tale motivo era largamente usato nei sacrifici cultuali e nel sancire “alleanze”.

Insomma, il sale era garanzia di durata genuina.

Ma il sale cristiano è solo… Amore al prossimo e capacità di corrispondere alla propria Vocazione.

Se non vi fosse, scomparirebbe il carattere stesso della vita in Cristo.

Quindi il «patto del sale» è essenziale per la credibilità, per l’Annuncio, per il tenore della vita; per la sopravvivenza stessa delle comunità, e il loro tocco inconfondibile. 

L’Ascolto dello Spirito e reciproco permane così ingrediente irrinunciabile dello «Shalôm».

 

Nessun’altra opera di difesa dall’esterno - inquisizione, prevenzione o repressione - può garantire la sopravvivenza della Chiesa.

 

Differenza tra religione e Fede? La norma, usata per promuovere o legittimare situazioni (di emarginazione e dominio).

Per il nostro progresso umano, spirituale e della vita intera, Gesù parteggia (forse non come ci si attenderebbe) - perché a nessuno è data l’esclusiva.

 

 

Per interiorizzare il messaggio:

 

Nella tua comunità sono i piccoli che devono adeguarsi ai grandi e ai loro circoli... o viceversa, c’è serio ascolto dei nuovi dalle scarse energie e relazioni, malfermi e disadattati?

Domenica, 15 Settembre 2024 05:20

En passant (mica tanto)

Il Vangelo di questa domenica presenta uno di quegli episodi della vita di Cristo che, pur essendo colti, per così dire, en passant, contengono un profondo significato (cfr Mc 9,38-41). Si tratta del fatto che un tale, che non era dei seguaci di Gesù, aveva scacciato dei demoni nel suo nome. L’apostolo Giovanni, giovane e zelante come era, vorrebbe impedirglielo, ma Gesù non lo permette, anzi, prende spunto da quella occasione per insegnare ai suoi discepoli che Dio può operare cose buone e persino prodigiose anche al di fuori della loro cerchia, e che si può collaborare alla causa del Regno di Dio in diversi modi, anche offrendo un semplice bicchiere d’acqua ad un missionario (v. 41). Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» (Agostino, Sul battesimo contro i donatisti: PL 43, VII, 39, 77). Perciò, i membri della Chiesa non devono provare gelosia, ma rallegrarsi se qualcuno esterno alla comunità opera il bene nel nome di Cristo, purché lo faccia con intenzione retta e con rispetto. Anche all’interno della Chiesa stessa, può capitare, a volte, che si faccia fatica a valorizzare e ad apprezzare, in uno spirito di profonda comunione, le cose buone compiute dalle varie realtà ecclesiali. Invece dobbiamo essere tutti e sempre capaci di apprezzarci e stimarci a vicenda, lodando il Signore per l’infinita ‘fantasia’ con cui opera nella Chiesa e nel mondo.

Nella Liturgia odierna risuona anche l’invettiva dell’apostolo Giacomo contri i ricchi disonesti, che ripongono la loro sicurezza nelle ricchezze accumulate a forza di soprusi (cfr Gc 5,1-6). Al riguardo, Cesario di Arles così afferma in un suo discorso: «La ricchezza non può fare del male a un uomo buono, perché la dona con misericordia, così come non può aiutare un uomo cattivo, finché la conserva avidamente o la spreca nella dissipazione» (Sermoni 35, 4). Le parole dell’apostolo Giacomo, mentre mettono in guardia dalla vana bramosia dei beni materiali, costituiscono un forte richiamo ad usarli nella prospettiva della solidarietà e del bene comune, operando sempre con equità e moralità, a tutti i livelli.

Cari amici, per intercessione di Maria Santissima, preghiamo affinché sappiamo gioire per ogni gesto e iniziativa di bene, senza invidie e gelosie, e usare saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni.

[Papa Benedetto, Angelus 30 settembre 2012]

Domenica, 15 Settembre 2024 05:17

Accenti d’Oriente e Occidente

Il testo di questa Via Crucis è stato scritto da un cristiano laico, membro della Chiesa Ortodossa. Questo laico sente di essere uno qualunque, ed ha accettato l'invito con molta emozione e riconoscenza per almeno due motivi principali.

Prima di tutto, perché sul cammino verso il Golgota non ci può più essere alcuna separazione. La morte d'amore del Cristo rende irrisorio ogni atteggiamento che non sia di penitenza e di riconciliazione.

In secondo luogo, perché scrivere una Via Crucis, significa meditare, attraverso una strana esperienza mistica, le parole e i gesti del Dio fatto uomo nel momento in cui assume fino in fondo la nostra condizione, per conoscere dal di dentro la morte e aprirla alla risurrezione.

Esistono, come si è potuto costatare negli ultimi anni, due versioni della Via Crucis. La più recente cita e commenta soltanto testi del vangelo. Quella più antica aggiunge delle stazioni nate dalla sensibilità medievale, soprattutto francescana: quali le tre cadute di Gesù, oppure il suo incontro con la Veronica, scene che sono commentate con testi dell'Antico Testamento.

Tanti dipinti o sculture che si succedono sui muri delle chiese, in Europa occidentale ed oramai dappertutto nel mondo, tante cappelle e tante croci erette lungo i sentieri dei pellegrinaggi, sulle montagne, hanno reso familiari a tutti le rappresentazioni di queste scene della Via Crucis. E per questo il commentatore ha preferito seguire la forma tradizionale, per entrare pienamente e senza nulla perdere della propria visione della redenzione, nella sensibilità del mondo cattolico.

Si ripete spesso che l'Occidente cristiano aveva messo l'accento sul Venerdì Santo e l'Oriente sulla Pasqua. Ciò sarebbe dimenticare che la Croce e la Risurrezione sono inseparabili, come sottolinea questo commento. Gli stigmatizzati del mondo cattolico sapevano (e sanno) che il sangue che scorre dalle loro piaghe è un sangue di luce, e gli ortodossi, celebrando durante i Vespri del Venerdì Santo l'ufficio delle « sante sofferenze », oppure affermando che ogni uomo di preghiera e di compassione è uno stauroforo, cioè un « portatore della Croce », hanno sempre capito che soltanto la Croce è portatrice di risurrezione.

Per un ortodosso, entrare nella spiritualità francescana della Via Crucis, era tentare di sottolinearne la profondità non solo umana ma divino-umana. Perché è Dio stesso che sul Golgota soffre umanamente le nostre agonie disperate per aprirci cammini (forse inattesi) di risurrezione.

L'epoca moderna, come si sa, ha intentato un processo accanito e senza pietà contro Dio, sia Egli l'onnipotente, nel senso umano della parola (allora perché il mondo è assurdo e cattivo?), sia Egli Colui che ci ha creati liberi, ma sapendo che cosa avremmo fatto della nostra libertà. Bisognava far vedere — tentare di far vedere — che all'insolubile questione del male, l'unica risposta è appunto la Via Crucis.

Dio scende volontariamente nel male, nella morte, — un male e una morte di cui non è affatto responsabile, di cui forse non ha neanche l'idea, come ha detto un teologo contemporaneo — scende per frapporsi per sempre fra il nulla e noi, per farci sentire, farci vivere, che al fondo delle cose, non c'è il nulla, ma l'amore.

Dio al di là di Dio, questo « oceano della limpidezza », e questo uomo coperto di sangue e di sputi che barcolla e cade sotto il peso di tutte le nostre croci, è lo stesso, sì veramente è lo stesso nella sua trascendenza e nella sua « follia d'amore ». Tale antinomia fa l'inimmaginabile originalità del cristianesimo. La sofferenza del corpo, la derisione sociale, la disperazione dell'anima abbandonata, tutto si concentra affinché Dio si riveli qui, non come pienezza che schiaccia, giudica e condanna, ma come apertura senza limite di amore nel rispetto senza limite della nostra libertà.

Ecco che la distanza impensabile fra Dio e il Crocifisso — « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? » — si riempie tutto ad un tratto del soffio dello Spirito, del soffio della risurrezione.

Si apre l'ultima tappa della storia umana e del divenire del cosmo: nel sangue che sgorga dal costato trafitto del Cristo, il fuoco che egli è venuto a gettare sulla terra brucia ormai, questo fuoco dello Spirito Santo che feconda la nostra libertà affinché diventi capace di cambiare in risurrezione la lunga passione della storia. Effusione di pace e di luce che non può appunto manifestarsi se non attraverso questa libertà che egli libera e che lo libera...

Da qui viene senza dubbio l'ultima caratteristica di questa Via Crucis ripresa nella sua forma tradizionale: il ruolo più grande delle donne, le uniche rimaste fedeli, a parte Giovanni, le più esposte, le più capaci di amore. Come dimostra il gesto della Veronica che asciuga il Volto di Cristo con un velo sul quale esso si imprime e si trasmette alle nostre chiese: tanti Santo Volto in cui si mostra nella sua pasta umana il volto di Dio, affinché noi possiamo vedere in Dio ogni volto umano.

 

[Olivier Clément, presentazione Via Crucis 10 aprile 1998]

Il Vangelo di questa domenica (cfr Mc 9,38-43.45.47-48) ci presenta uno di quei particolari molto istruttivi della vita di Gesù con i suoi discepoli. Questi avevano visto che un uomo, il quale non faceva parte del gruppo dei seguaci di Gesù, scacciava i demoni nel nome di Gesù, e perciò volevano proibirglielo. Giovanni, con l’entusiasmo zelante tipico dei giovani, riferisce la cosa al Maestro cercando il suo appoggio; ma Gesù, al contrario, risponde: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (vv. 39-40).

Giovanni e gli altri discepoli manifestano un atteggiamento di chiusura davanti a un avvenimento che non rientra nei loro schemi, in questo caso l’azione, pur buona, di una persona “esterna” alla cerchia dei seguaci. Invece Gesù appare molto libero, pienamente aperto alla libertà dello Spirito di Dio, che nella sua azione non è limitato da alcun confine e da alcun recinto. Gesù vuole educare i suoi discepoli, anche noi oggi, a questa libertà interiore.

Ci fa bene riflettere su questo episodio, e fare un po’ di esame di coscienza. L’atteggiamento dei discepoli di Gesù è molto umano, molto comune, e lo possiamo riscontrare nelle comunità cristiane di tutti i tempi, probabilmente anche in noi stessi. In buona fede, anzi, con zelo, si vorrebbe proteggere l’autenticità di una certa esperienza, tutelando il fondatore o il leader dai falsi imitatori. Ma al tempo stesso c’è come il timore della “concorrenza” – e questo è brutto: il timore della concorrenza –, che qualcuno possa sottrarre nuovi seguaci, e allora non si riesce ad apprezzare il bene che gli altri fanno: non va bene perché “non è dei nostri”, si dice. E’ una forma di autoreferenzialità. Anzi, qui c’è la radice del proselitismo. E la Chiesa – diceva Papa Benedetto – non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, cioè cresce per la testimonianza data agli altri con la forza dello Spirito Santo.

La grande libertà di Dio nel donarsi a noi costituisce una sfida e una esortazione a modificare i nostri atteggiamenti e i nostri rapporti. È l’invito che ci rivolge Gesù oggi. Egli ci chiama a non pensare secondo le categorie di “amico/nemico”, “noi/loro”, “chi è dentro/chi è fuori”, “mio/tuo”, ma ad andare oltre, ad aprire il cuore per poter riconoscere la sua presenza e l’azione di Dio anche in ambiti insoliti e imprevedibili e in persone che non fanno parte della nostra cerchia. Si tratta di essere attenti più alla genuinità del bene, del bello e del vero che viene compiuto, che non al nome e alla provenienza di chi lo compie. E – come ci suggerisce la restante parte del Vangelo di oggi – invece di giudicare gli altri, dobbiamo esaminare noi stessi, e “tagliare” senza compromessi tutto ciò che può scandalizzare le persone più deboli nella fede.

La Vergine Maria, modello di docile accoglienza delle sorprese di Dio, ci aiuti a riconoscere i segni della presenza del Signore in mezzo a noi, scoprendolo dovunque Egli si manifesti, anche nelle situazioni più impensabili e inconsuete. Ci insegni ad amare la nostra comunità senza gelosie e chiusure, sempre aperti  all’orizzonte vasto dell’azione dello Spirito Santo.

[Papa Francesco, Angelus 30 settembre 2018]

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"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]
Who is freer than the One who is the Almighty? He did not, however, live his freedom as an arbitrary power or as domination (Pope Benedict)
Chi è libero più di Lui che è l'Onnipotente? Egli però non ha vissuto la sua libertà come arbitrio o come dominio (Papa Benedetto)
The Church with her permanent contradiction: between the ideal and reality, the more annoying contradiction, the more the ideal is affirmed sublime, evangelical, sacred, divine, and the reality is often petty, narrow, defective, sometimes even selfish (Pope Paul VI)
La Chiesa con la sua permanente contraddizione: tra l’ideale e la realtà, tanto più fastidiosa contraddizione, quanto più l’ideale è affermato sublime, evangelico, sacro, divino, e la realtà si presenta spesso meschina, angusta, difettosa, alcune volte perfino egoista (Papa Paolo VI)
St Augustine wrote in this regard: “as, therefore, there is in the Catholic — meaning the Church — something which is not Catholic, so there may be something which is Catholic outside the Catholic Church” [Pope Benedict]
Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» [Papa Benedetto]

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