In occasione della recente scomparsa dei miei genitori, allo strazio della malattia e della perdita di entrambi (a breve) si è aggiunto il fastidio di un ambiente che continuava a farmi le “condoglianze”.
Come per buona educazione, certo, ma chi ha assimilato il linguaggio della Fede non fa cordoglio alcuno, né parla di “morti” bensì di Defunti. Essi vivono.
Non da sopravvissuti ai colpi che la vita riserva, ma come dei ‘dilatati’, autentici, adorni - e finalmente realizzati appieno.
Donne e uomini ‘fioriti’ in tutto, che hanno sperimentato un nuovo genere di essere nella propria essenza; un’esistenza differente.
Come in una atmosfera d’amore puro, dove come Gesù non si vive più per se stessi, ma uno con l’altro e uno per l’altro.
Senza i cronometri pressanti, né gli abbandoni.
Il termine Defunti deriva dal verbo latino «defungor» [infinito «defungi»] il quale indica il termine parziale di una vicenda, non un compimento totale.
Non un confine definitivo che si aprirebbe sull’abisso nullificante e cavernicolo di ombre smarrite o larve senza slancio, prive d’identità e futuro - dopo il transito nel tempo.
Le condoglianze [dal latino «cum-dolēre»] si porgevano volentieri all’interno di una mentalità prettamente pagana o legata a un senso archetipo di religiosità.
Quel genere di convinzioni induceva nei parenti e amici un affliggersi - un piangere senza speranza - che Gesù rimprovera apertamente [Gv 11,33 testo greco; la traduzione italiana è incerta].
Credere che con la morte tutto finisca significa immaginare che l’esistenza sia un progressivo decadere nel vuoto.
Tale convinzione fa ritenere assurdo ogni cammino di crescita anche spirituale. E postula l’insensatezza di coinvolgersi, d’impegnarsi nell’ideale del Bene duraturo - per un Bello che prosegua oltre la nostra vicenda terrena e in favore del prossimo.
Le “condoglianze” stanno quindi per sé a indicare che tutto è finito.
In epigrafe al portale di un cimitero di una cittadina non troppo lontana da me si legge una scritta in caratteri cubitali: «qui nei secoli posano affetti vanità speranze».
Il freddo della fine di tutte le cose belle, e il “ghiaccio” del neoclassico rivisitato in stile primo Novecento... perfettamente abbinati su rivestimento di travertino imbiancato.
Invece la Speranza ci attira e rinfranca lo spirito, supera l’oltraggio, dona senso al nostro andare.
Già i credenti dei primi secoli avevano soppiantato l’idea pagana dell’appuntamento di nostra sorella morte quale «dies infaustus», sostituendolo nel suo opposto: «dies Natalis».
Giorno della vera Nascita, all’interno di una stessa Vita; ora completa, risanata.
Vita, che appunto continua - oltre i parametri temporali o di località.
Senza la fatica dell’esistere che sperimentiamo. Immersi nella vastità dell’essere.
Vita senza le lotte contro di sé, e che prosegue nell’Abbraccio appagante, benedicente, di un Padre che non spersonalizza ma dilata l’esistere caratteriale, le qualità dei suoi figli.
In tale sbocciare pieno di luce e calore siamo come rifoggiati sul prototipo-Progetto dell’autentico Figlio.
Tratto di Alleanza che dovevamo e forse potevamo essere.
Sopraffatti di Felicità beata, perché la nostra parte-ombra è ora inclusa; priva di giudizi e commenti.
[Tutti i Fedeli Defunti, 2 novembre 2024]