Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
1. “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25).
Veniamo qui, cari fratelli, per ripetere con Cristo Signore queste parole, per “benedire il Padre”.
– veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi;
– le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”;
– le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”;
– queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco.
Mediante Francesco di Pietro di Bernardone, figlio cioè di un ricco commerciante d’Assisi, che abbandonò tutta l’eredità del padre terreno e sposò “Madonna Povertà”, l’eredità del Padre celeste offertagli in Cristo crocifisso e risorto.
Il primo scopo del nostro pellegrinaggio di quest’anno ad Assisi è di rendere gloria a Dio.
In spirito di venerazione, celebriamo pure insieme l’Eucaristia, noi tutti, Pastori della Chiesa che è in Italia con il Vescovo di Roma, successore di Pietro.
2. “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11, 26).
Dopo otto secoli sono rimaste le reliquie e i ricordi. Tutta Assisi è una viva reliquia e una testimonianza dell’uomo. Dell’uomo soltanto? Dell’uomo insolito soltanto?
– Essa è la testimonianza di un particolare compiacimento che il Padre Celeste, per opera del suo Figlio Unigenito, ebbe in questo uomo, in questo “piccolino”, nel “Poverello”, in Francesco che – come pochissimi nel corso della storia della Chiesa e dell’umanità – ha imparato da Cristo ad essere mite e umile di cuore.
Sì, Padre, tale fu il tuo compiacimento. Tanti uomini vengono qui per seguire le orme del tuo compiacimento. Oggi veniamo noi, Vescovi d’Italia.
Siamo venuti per chiudere e, al tempo stesso, coronare in questo anno giubilare di san Francesco d’Assisi l’opera svoltasi durante l’anno intero della visita “ad limina Apostolorum” alla quale la tradizione e la legge della Chiesa hanno invitato il nostro episcopato proprio in questo tempo.
3. Ci troviamo in presenza del Santo, che contemporaneamente è il patrono d’Italia, quindi Colui che tra i numerosi figli e figlie di questa terra, canonizzati e beatificati, unisce in modo particolare l’Italia con la Chiesa. Infatti, compito della Chiesa è di proclamare e realizzare in ogni nazione quella vocazione alla santità che abbiamo dal Padre nello Spirito Santo per opera di Cristo crocifisso e risorto; di questo Cristo, le cui ferite san Francesco d’Assisi portò nel suo corpo: “Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo” (Gal 6, 17).
Ci troviamo quindi alla sua presenza e meditiamo sulle parole del Vangelo, frase dopo frase:
“Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).
Ecco, ci troviamo davanti ad un uomo, al quale il Figlio di Dio ha voluto rivelare, in misura particolare e con particolare abbondanza, ciò che gli è stato dato dal Padre per tutti gli uomini, per tutti i tempi. Certo, Francesco fu mandato col Vangelo di Cristo specialmente ai suoi tempi, a trapasso dal XII al XIII secolo, in pieno medioevo italiano, che fu periodo splendido e insieme difficile: ma ogni epoca ne ha conservato in sé qualche cosa. Tuttavia, la missione francescana non si è conclusa allora; essa dura tuttora.
Ed ecco noi, Vescovi e Pastori della Chiesa, ai quali sono affidati il Vangelo e la Chiesa dei nostri tempi – quanto apparentemente splendidi, quanto lontani dal medioevo secondo la misura del progresso terreno! e insieme quanto, quanto difficili! – noi Vescovi e Pastori della Chiesa in questa medesima Italia, preghiamo soprattutto per una cosa. Preghiamo che si compiano su di noi le stesse parole del nostro Maestro, che si sono compiute su san Francesco; che siamo i depositari sicuri della Rivelazione del Figlio! che siamo i fedeli amministratori di ciò che il Padre stesso ha tramandato al Figlio Unigenito, nato dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo. Che siamo amministratori di questa verità e di quest’amore, di questa parola e di questa salvezza, che l’umanità intera e ogni uomo e ogni nazione hanno in lui e da lui; perché “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).
Tale è lo scopo pastorale e apostolico del nostro odierno pellegrinaggio.
4. Ed ecco, Francesco sembra rivolgersi a noi e parlarci con gli accenti di Paolo apostolo: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia col vostro spirito, fratelli” (Gal 6, 18)!
Grazie, santo Poverello, per questi auguri con i quali ci stai ricevendo!
Guardando con gli occhi dello spirito
la tua figura
e meditando sulle parole della lettera ai Galati,
con le quali ci parla l’odierna liturgia,
desideriamo imparare da te
questa “appartenenza a Gesù”,
di cui tutta la tua vita costituisce
un così perfetto esempio e modello.
“Quanto a me...
non ci sia altro vanto che nella croce
del Signore nostro Gesù Cristo,
per mezzo della quale il mondo per me
è stato crocifisso come io per il mondo” (Gal 6, 14).
Sentiamo le parole di Paolo,
che pure sono, Francesco,
le tue parole.
Il tuo spirito si esprime in esse.
Gesù Cristo ti ha consentito,
così come un tempo
aveva consentito a quell’Apostolo,
che divenne “strumento eletto” (At 9, 15),
di “vantarsi”, soltanto ed esclusivamente,
nella Croce della nostra Redenzione.
In questo modo sei arrivato al cuore stesso
della conoscenza della verità su Dio,
sul mondo e sull’uomo;
verità che si può vedere
soltanto con gli occhi dell’amore.
Ora che ci troviamo davanti a te,
come successori degli Apostoli,
mandati agli uomini dei nostri tempi
con lo stesso Vangelo della Croce di Cristo,
chiediamo: insegnaci, così come l’apostolo Paolo
ha insegnato a te,
a non avere “altro vanto che
nella Croce del Signore nostro Gesù Cristo”.
Che ciascuno di noi,
con tutta la perspicacia del dono del timore,
della sapienza e della fortezza,
sappia penetrare nella verità
di queste parole circa la Croce
in cui inizia la “nuova creatura”,
circa la Croce che porta costantemente
all’umanità “la pace e la misericordia”.
Mediante la Croce Dio si è espresso fino alla fine nella storia dell’uomo; Dio che è “ricco di misericordia” (Ef 2, 4). Nella Croce è rivelata la gloria dell’Amore disposto a tutto. Soltanto con la Croce nella mano – come un libro aperto – l’uomo può imparare fino in fondo se stesso e la sua dignità.
Egli deve infine, fissando gli occhi sulla Croce, chiedersi: “chi sono” io, uomo, agli occhi di Dio, se egli paga per me e per il mio amore un tale prezzo!
“La Croce sul Calvario – ho scritto nell’enciclica "Redemptor Hominis" – per mezzo della quale Gesù Cristo – uomo, figlio di Maria Vergine, figlio putativo di Giuseppe di Nazaret – "lascia" questo mondo, è al tempo stesso una nuova manifestazione dell’eterna paternità di Dio, il quale in lui si avvicina di nuovo all’umanità, ad ogni uomo, donandogli il tre volte santo "Spirito di Verità" (cf. Gv 16, 13)... Il suo è amore che non indietreggia davanti a nulla di ciò che in lui stesso esige la giustizia.
E per questo il Figlio
"che non aveva conosciuto peccato,
Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2 Cor 5, 21; cf. Gal 3, 13).
Se "trattò da peccato"
Colui che era assolutamente
senza alcun peccato,
lo fece per rivelare l’amore
che è sempre più grande
di tutto il creato,
l’amore che è lui stesso,
perché "Dio è amore" (1 Gv 4, 8.16)” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 9).
Proprio così hai guardato le cose
tu, Francesco.
Ti hanno chiamato “Poverello d’Assisi”,
e tu eri e sei rimasto
uno degli uomini che hanno donato
più generosamente agli altri.
Avevi quindi un’enorme ricchezza,
un grande tesoro.
E il segreto della tua ricchezza
si nascondeva nella Croce di Cristo.
Insegna a noi,
Vescovi e Pastori del XX secolo
che si sta avviando verso la fine,
a vantarci similmente nella Croce,
insegnaci questa ricchezza nella povertà
e questo donare nell’abbondanza.
5. Nella prima lettura del libro del Siracide sono ricordate le parole sul sommo sacerdote Simone, figlio di Onia, che “nella sua vita riparò il tempio e nei suoi giorni fortificò il santuario” (Sir 50, 1).
La liturgia riferisce queste parole a Francesco d’Assisi. Egli rimase nella tradizione, nella letteratura e nell’arte come colui che “riparò il tempio... e fortificò il santuario”. Come colui che “premuroso di impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città contro un assedio (Sir 50, 4).
La lettura continua a parlare ancora di Simone, figlio di Onia, e noi riferiamo tali parole a Francesco, figlio di Pietro di Bernardone. A lui applichiamo anche questi paragoni:
“Come un astro mattutino fra le nubi, / come la luna nei giorni in cui è piena, / come il sole sfolgorante sul tempio dell’Altissimo, / come l’arcobaleno splendente fra nubi di gloria” (Sir 50, 6-7).
6. Volentieri prendiamo queste parole in prestito dal libro del Siracide per venerare, dopo ottocento anni, Francesco d’Assisi, patrono d’Italia.
Per questo siamo venuti qui noi tutti, Vescovi e Pastori della Chiesa che è in tutta l’Italia insieme col Vescovo di Roma, successore di Pietro.
Tuttavia lo scopo del nostro pellegrinaggio è particolarmente apostolico e pastorale.
Quando sentiamo le parole di Cristo sul giogo che è dolce e sul carico che è leggero, (cf. Mt 11, 30) pensiamo alla nostra missione di Vescovi e al servizio pastorale.
E ripetiamo con fiducia e con gioia le parole del Salmo responsoriale: “Ho detto a Dio: "Sei tu il mio Signore, /senza di te non ho alcun bene". / Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita. / Benedico il Signore che mi ha dato consiglio... / Io pongo sempre innanzi a me il Signore, / sta alla mia destra, non posso vacillare” (Sal 15 [16]).
Con gioia abbiamo accettato l’invito di venire qui ad Assisi, sentito in certo modo nelle parole del nostro Signore e Maestro: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Speriamo che esse si attuino su di noi tutti, così come anche quelle ulteriori: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11, 29).
Così vogliamo, Cristo! Così desideriamo! Con un tale pensiero siamo venuti oggi ad Assisi. Ti ringraziamo per il santo “carico” del sacerdozio e dell’episcopato. Ti ringraziamo per san Francesco, che non si è sentito degno di accettare l’ordinazione sacerdotale. Eppure a lui hai affidato, in modo così eccezionale, la tua Chiesa.
7. Ed ecco, guardando verso Francesco che “povero e umile, entra ricco nel cielo, onorato con inni celesti” (Cant. ad Evang.), vorremmo ancora applicare a lui le parole del libro del Siracide, che tanto bene riassumono la sua celebre visione: “Francesco, abbi premura di impedire la caduta del tuo popolo”!
Francesco! come nella tua vita, così anche adesso, ripara il tempio! Fortifica il santuario!
Per questo preghiamo noi, Pastori della Chiesa, che alla scuola del Concilio Vaticano II abbiamo imparato nuovamente a circondare con una comune sollecitudine la Chiesa, l’Italia e il mondo contemporaneo.
E con le nostre amatissime popolazioni ripetiamo:
“Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita. / Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;... / Io pongo sempre innanzi a me il Signore”.
Si, fratelli e sorelle, sempre! E così sia.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Assisi 12 marzo 1982]
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25).
Pace e bene a tutti! Con questo saluto francescano vi ringrazio per essere venuti qui, in questa Piazza, carica di storia e di fede, a pregare insieme.
Oggi anch’io, come tanti pellegrini, sono venuto per rendere lode al Padre di tutto ciò che ha voluto rivelare a uno di questi “piccoli” di cui ci parla il Vangelo: Francesco, figlio di un ricco commerciante di Assisi. L’incontro con Gesù lo portò a spogliarsi di una vita agiata e spensierata, per sposare “Madonna Povertà” e vivere da vero figlio del Padre che è nei cieli. Questa scelta, da parte di san Francesco, rappresentava un modo radicale di imitare Cristo, di rivestirsi di Colui che, da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi per mezzo della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9). In tutta la vita di Francesco l’amore per i poveri e l’imitazione di Cristo povero sono due elementi uniti in modo inscindibile, le due facce di una stessa medaglia.
Che cosa testimonia san Francesco a noi, oggi? Che cosa ci dice, non con le parole – questo è facile – ma con la vita?
1. La prima cosa che ci dice, la realtà fondamentale che ci testimonia è questa: essere cristiani è un rapporto vitale con la Persona di Gesù, è rivestirsi di Lui, è assimilazione a Lui.
Da dove parte il cammino di Francesco verso Cristo? Parte dallo sguardo di Gesù sulla croce. Lasciarsi guardare da Lui nel momento in cui dona la vita per noi e ci attira a Lui. Francesco ha fatto questa esperienza in modo particolare nella chiesetta di san Damiano, pregando davanti al crocifisso, che anch’io oggi potrò venerare. In quel crocifisso Gesù non appare morto, ma vivo! Il sangue scende dalle ferite delle mani, dei piedi e del costato, ma quel sangue esprime vita. Gesù non ha gli occhi chiusi, ma aperti, spalancati: uno sguardo che parla al cuore. E il Crocifisso non ci parla di sconfitta, di fallimento; paradossalmente ci parla di una morte che è vita, che genera vita, perché ci parla di amore, perché è l’Amore di Dio incarnato, e l’Amore non muore, anzi, sconfigge il male e la morte. Chi si lascia guardare da Gesù crocifisso viene ri-creato, diventa una «nuova creatura». Da qui parte tutto: è l’esperienza della Grazia che trasforma, l’essere amati senza merito, pur essendo peccatori. Per questo Francesco può dire, come san Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14).
Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: insegnaci a rimanere davanti al Crocifisso, a lasciarci guardare da Lui, a lasciarci perdonare, ricreare dal suo amore.
2. Nel Vangelo abbiamo ascoltato queste parole: «Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,28-29).
Questa è la seconda cosa che Francesco ci testimonia: chi segue Cristo, riceve la vera pace, quella che solo Lui, e non il mondo, ci può dare. San Francesco viene associato da molti alla pace, ed è giusto, ma pochi vanno in profondità. Qual è la pace che Francesco ha accolto e vissuto e ci trasmette? Quella di Cristo, passata attraverso l’amore più grande, quello della Croce. E’ la pace che Gesù Risorto donò ai discepoli quando apparve in mezzo a loro (cfr Gv 20,19.20).
La pace francescana non è un sentimento sdolcinato. Per favore: questo san Francesco non esiste! E neppure è una specie di armonia panteistica con le energie del cosmo… Anche questo non è francescano! Anche questo non è francescano, ma è un’idea che alcuni hanno costruito! La pace di san Francesco è quella di Cristo, e la trova chi “prende su di sé” il suo “giogo”, cioè il suo comandamento: Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato (cfr Gv 13,34; 15,12). E questo giogo non si può portare con arroganza, con presunzione, con superbia, ma solo si può portare con mitezza e umiltà di cuore.
Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: insegnaci ad essere “strumenti della pace”, della pace che ha la sua sorgente in Dio, la pace che ci ha portato il Signore Gesù.
3. Francesco inizia il Cantico così: “Altissimo, onnipotente, bon Signore… Laudato sie… cun tutte le tue creature” (FF, 1820). L’amore per tutta la creazione, per la sua armonia! Il Santo d’Assisi testimonia il rispetto per tutto ciò che Dio ha creato e come Lui lo ha creato, senza sperimentare sul creato per distruggerlo; aiutarlo a crescere, a essere più bello e più simile a quello che Dio ha creato. E soprattutto san Francesco testimonia il rispetto per tutto, testimonia che l’uomo è chiamato a custodire l’uomo, che l’uomo sia al centro della creazione, al posto dove Dio - il Creatore - lo ha voluto. Non strumento degli idoli che noi creiamo! L’armonia e la pace! Francesco è stato uomo di armonia, uomo di pace. Da questa Città della Pace, ripeto con la forza e la mitezza dell’amore: rispettiamo la creazione, non siamo strumenti di distruzione! Rispettiamo ogni essere umano: cessino i conflitti armati che insanguinano la terra, tacciano le armi e dovunque l’odio ceda il posto all’amore, l’offesa al perdono e la discordia all’unione. Sentiamo il grido di coloro che piangono, soffrono e muoiono a causa della violenza, del terrorismo o della guerra, in Terra Santa, tanto amata da san Francesco, in Siria, nell’intero Medio Oriente, in tutto il mondo.
Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: ottienici da Dio il dono che in questo nostro mondo ci sia armonia, pace e rispetto per il Creato!
Non posso dimenticare, infine, che oggi l’Italia celebra san Francesco quale suo Patrono. […] Preghiamo per la Nazione italiana, perché ciascuno lavori sempre per il bene comune, guardando a ciò che unisce più che a ciò che divide.
Faccio mia la preghiera di san Francesco per Assisi, per l’Italia, per il mondo: «Ti prego dunque, o Signore Gesù Cristo, padre delle misericordie, di non voler guardare alla nostra ingratitudine, ma di ricordarti sempre della sovrabbondante pietà che in [questa città] hai mostrato, affinché sia sempre il luogo e la dimora di quelli che veramente ti conoscono e glorificano il tuo nome benedetto e gloriosissimo nei secoli dei secoli. Amen» (Specchio di perfezione, 124: FF, 1824).
[Papa Francesco, omelia Assisi 4 ottobre 2013]
Perché l’Annuncio, senza nodi alla gola
(Lc 10,13-16)
La differenza tra religiosità e Fede è nel Soggetto, della Vita nello Spirito: non siamo noi a disporre, allestire, cieli e terra nuovi - bensì la Grazia che silenziosamente dissoda e precede.
Ecco perché nell’Annuncio non siamo orfani, e con tanti nodi alla gola.
Il Maestro stesso non è solo. La testimonianza anche dei non discepoli si inserisce nella Via del Cristo verso il Padre.
Strada che Viene. Non è l’impegno “interno” assodato che edifica un mondo più autentico, dai tratti divini.
È piuttosto il Regno - effusivo in se stesso - che dà origine al cammino verso i “lontani”, e attiva scenari impensabili.
Essi giungono a noi come proposta di Pace: apertura a un Disegno più vasto, e giustizia interumana.
L’esperienza variegata, l’ambiente pieno di sorprese dei non seguaci, genera fioriture, di ciascuno - nella scoperta del limite, dei propri stati profondi - per la comunione.
Nessuna riserva elettiva; nessun diritto di prelazione. Salvezza secondo il Padre, non “a modo nostro”.
Il Vangelo supera le barriere di popoli e se necessario lascia indietro la sua culla di culture attenuanti, chiuse in una mentalità ingessata, forse intollerante; seccata di tutto.
Chi in piena avvertenza e deliberato consenso rigetta la Parola perché il mondo non sarà più “come prima”, si ritrova d’improvviso senza speranza, senza figli, senza possibilità di vita e d’espandersi.
Senza Presenza, senza la Spiritualità del Patto - che concatena ogni testimone al Figlio e al Padre. E solo Dio può superare la forza degli ostacoli; potenze interne ed esterne.
Unicamente nella fiaccola della condizione divina [autentica Sorgente, misura che Cristo vive e ci stupisce] si apprende il senso del nostro essere, comunicare, andare.
L’inaccessibile interroga, e diventa vicinissimo. Annienta le zavorre esclusive, che permangono invano.
Così l’Annuncio scatena lo Spirito, spalanca porte inusitate: anche una finestra sul mondo interiore. Dove gli opposti hanno già diritto di esistere. Anzi, chiamano all’Alleanza nuova, che insegna a stare coi lati che non piacciono.
In tal guisa indagheremo e scopriremo: la lotta dei blocchi, delle paure di ciò che non vogliamo vedere all’esterno e dentro di noi, deve cessare.
Le tendenze che pensavamo dovessero essere negate diventano fonte imprevedibile di altre luci e virtù, intime e nei rapporti.
Anche e soprattutto le ombre chiamano l’Esodo, un nuovo Patto - dove non siamo assolutamente soli e unilaterali, bensì più completi.
Insomma, il Mistero che ci abita oltrepassa i lacci delle convinzioni, ci rende meno divisi. A partire dalla scaturigine dell’essere.
Si fa trascendenza-immanenza reale, stringente; per tutti. Consapevolezza di Vita Nuova.
«Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me ma chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato» (v.16).
«Il Padre infatti non giudica nessuno ma ha dato ogni giudizio al Figlio affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato» (Gv 5,22-23).
[Venerdì 26.a sett. T.O. 3 ottobre 2025]
Silenzio e contemplazione servono per poter trovare nella dispersione di ogni giorno questa profonda, continua, unione con Dio. Silenzio e contemplazione: la bella vocazione del teologo è parlare. Questa è la sua missione: nella loquacità del nostro tempo, e di altri tempi, nell’inflazione delle parole, rendere presenti le parole essenziali. Nelle parole rendere presente la Parola, la Parola che viene da Dio, la Parola che è Dio.
Ma come potremmo, essendo parte di questo mondo con tutte le sue parole, rendere presente la Parola nelle parole, se non mediante un processo di purificazione del nostro pensare, che soprattutto deve essere anche un processo di purificazione delle nostre parole? Come potremmo aprire il mondo, e prima noi stessi, alla Parola senza entrare nel silenzio di Dio, dal quale procede la sua Parola? Per la purificazione delle nostre parole, e quindi per la purificazione delle parole del mondo, abbiamo bisogno di quel silenzio che diventa contemplazione, che ci fa entrare nel silenzio di Dio e così arrivare al punto dove nasce la Parola, la Parola redentrice.
San Tommaso d'Aquino, con una lunga tradizione, dice che nella teologia Dio non è l'oggetto del quale parliamo. Questa è la nostra concezione normale. In realtà, Dio non è l'oggetto; Dio è il soggetto della teologia. Chi parla nella teologia, il soggetto parlante, dovrebbe essere Dio stesso. E il nostro parlare e pensare dovrebbe solo servire perché possa essere ascoltato, possa trovare spazio nel mondo, il parlare di Dio, la Parola di Dio. E così, di nuovo, ci troviamo invitati a questo cammino della rinuncia a parole nostre; a questo cammino della purificazione, perché le nostre parole siano solo strumento mediante il quale Dio possa parlare, e così Dio sia realmente non oggetto, ma soggetto della teologia.
[Papa Benedetto, omelia 6 ottobre 2006]
“Chi accoglie Cristo accoglie colui che lo ha mandato, il Padre” (cf. Mt 10, 40).
Cari fratelli e sorelle,
1. Esprimiamo la gioia di accogliere Cristo. Rallegriamoci del fatto che dai tempi apostolici Roma, la capitale dell’antico Impero, ha accettato Cristo. Cantiamo la nostra gioia perché i nomi degli apostoli Pietro e Paolo sono indelebilmente legati a questa città. Essi vennero qui mandati dal Signore. Dopo la risurrezione, Cristo disse agli apostoli: “Come il Padre ha mandato me... ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 21-22). E così noi crediamo che fu lo Spirito Santo a dirigere i passi di Pietro, il pescatore di Galilea, e di Paolo, il discepolo di Tarso, verso questa Città di Roma. Attraverso il loro ministero apostolico e, infine, attraverso il loro martirio essi hanno confermato le parole del loro Signore e Maestro.
Cristo ha detto: “Chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me” (Mt 10, 38). E qui a Roma Pietro prese la sua croce su cui offrì la sua vita. Cristo ha detto anche: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la ritroverà” (Mt 10, 39). E così Paolo – come Pietro – qui a Roma perse la sua vita per la salvezza di Cristo, “Sanguis martyrum semen christianorum” (cf. Tertulliano, Apologeticus, 50): la Chiesa cresce saldamente sull’esempio dei martiri. Così le parole di Cristo si adempirono negli apostoli: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10, 40).
7. “Chi accoglie un Apostolo accoglie Cristo” (cf. Mt 10, 40). Gli Apostoli, e in particolare Pietro e Paolo, hanno trasmesso il Vangelo nella forma di una consapevolezza di Vita Nuova. Questa è la Vita Nuova che scaturisce dalla morte redentrice di Cristo: “noi crediamo che essendo morti con Cristo risorgeremo con lui: Cristo, come sappiamo, essendo risorto dalla morte non morrà mai più. La morte non ha più alcun potere su di lui... la sua vita ora è la vita con Dio; e in questo modo, anche noi dobbiamo considerarci morti al peccato ma vivi per Dio in Cristo Gesù” (cf. Rm 6, 8-11).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 27 giugno 1993]
L’uomo vive «dentro di sé il dramma di non accettare la salvezza di Dio», perché vorrebbe «essere salvato a modo suo». E Gesù arriva persino a piangere per questa «resistenza» dell’uomo, riproponendo sempre la sua misericordia e il suo perdono. Insomma, non possiamo proprio dire «Salvaci, Signore, ma a modo nostro!» ha fatto presente Papa Francesco nella messa celebrata venerdì 3 ottobre nella cappella della Casa Santa Marta.
Nel passo del Vangelo proposto dalla liturgia, Luca (10, 13-16) presenta Gesù che «sembra un po’ arrabbiato». E «parla a questa gente per farla ragionare» dicendo: «Se nelle città pagane fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e comparse di cenere, si sarebbero convertite. E voi, no». Così Gesù traccia «proprio un riassunto di tutta la storia di salvezza: è il dramma di non volere essere salvati; è il dramma di non accettare la salvezza di Dio». È come se dicessimo: «Salvaci, Signore, ma a modo nostro!».
Gesù stesso ricorda tante volte «come questo popolo abbia respinto i profeti, abbia lapidato quelli che sono stati loro inviati perché risultavano scomodi». Il pensiero è sempre lo stesso: «Vogliamo la salvezza, ma come noi la vogliamo! Non come la vuole il Signore».
Siamo davanti, ha precisato il Pontefice, al «dramma della resistenza a essere salvati». Si tratta di «una eredità che tutti noi abbiamo ricevuto», perché «anche nel nostro cuore c’è questo seme di resistenza a essere salvati come il Signore vuole salvarci».
Il contesto del brano evangelico di Luca vede Gesù che «parla ai suoi discepoli tornati da una missione». E anche a loro dice: «Chi vi ascolta, ascolta me; chi vi disprezza, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza colui che mi ha inviato. Lo stesso hanno fatto i vostri padri con i profeti». Di nuovo è il pensiero di voler «essere salvati» a modo nostro. Certo «il Signore ci salva nella nostra libertà» ha precisato il Papa, aggiungendo però che «noi vogliamo essere salvati non con la libertà, ma con l’autonomia nostra: le regole le facciamo noi».
Proprio «questo — ha fatto notare Francesco — è il dramma delle storie della salvezza, dal primo momento». È anzitutto «un dramma del popolo», perché «il popolo si ribella tante volte, nel deserto per esempio». Comunque, ha aggiunto, «con le prove il popolo matura: è più maturo». E così «riconosce in Gesù un grande profeta e dice anche: Dio ha visitato il suo popolo».
Invece, ha proseguito, «è proprio la classe dirigente quella che chiude le porte al modo col quale Dio vuole salvarci». In questo senso «si capiscono i dialoghi forti di Gesù con la classe dirigente del suo tempo: litigano, lo mettono alla prova, gli fanno trappole per vedere se cade», perché in loro c’è appunto «la resistenza a essere salvati».
Di fronte a questo atteggiamento Gesù dice loro: «Ma io non vi capisco! Voi siete come quei bambini: vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. Ma cosa volete?». La risposta è ancora: «Vogliamo fare la salvezza a modo nostro». Ritorna, dunque, «sempre questa chiusura» al modo di operare di Dio.
Poi «quando il Signore va avanti — ha ricordato il Papa — anche nel gruppo vicino a loro incominciano i dubbi». Lo riferisce Giovanni nel sesto capitolo del suo Vangelo, dando voce a quanti dicono di Gesù: «Ma quest’uomo è un po’ strano, come può darci da mangiare il suo corpo? Ma forse è un po’ strano». Probabilmente qualcuno diceva queste cose, ha affermato Francesco, e persino «i suoi discepoli incominciarono a tornare indietro». Così «Gesù guarda i dodici» e dice loro: «Se anche voi volete andare...».
Non c’è dubbio, ha spiegato il Pontefice, che «questa parola è dura: la parola della croce sempre è dura». Ma è anche «l’unica porta di salvezza». E «il popolo credente la accetta: cercava Gesù per guarire» e «per sentire la sua parola». Infatti diceva: «Questo parla con autorità. Non come la nostra classe, i farisei, i dottori della legge, i sadducei che parlavano un linguaggio che nessuno capiva». Per questi tutta la salvezza era nel compimento dei numerosissimi comandamenti «che la loro febbre intellettuale e teologica aveva creato». Ma «il povero popolo non trovava un’uscita di salvezza». La trova invece in Gesù.
Tuttavia alla fine, ha affermato il Papa, «hanno fatto lo stesso dei loro padri: hanno deciso di uccidere Gesù». Il Signore rimprovera questo modo di fare: «I vostri padri hanno ucciso i profeti, ma voi per pulirvi la coscienza, fate loro un monumento bello». Ecco, dunque, che «prendono la decisione di uccidere Gesù, cioè di farlo fuori», perché, dicono, «quest’uomo ci porterà problemi: questa salvezza noi non la vogliamo! Vogliamo una salvezza ben disciplinata, sicura. Questa noi non la vogliamo!». Di conseguenza «decidono anche di uccidere Lazzaro, perché è il testimone di quello che porta Gesù: la vita», in quanto è «risorto dai morti».
«Con questa decisione quella classe dirigente cancella l’onnipotenza di Dio» ha commentato il vescovo di Roma, ricordando che «oggi nella preghiera, all’inizio della messa, abbiamo lodato tanto bene l’onnipotenza di Dio: “Signore che riveli la tua onnipotenza, principalmente nella misericordia e nel perdono”». Il «dramma della resistenza alla salvezza» porta a non credere «nella misericordia e nel perdono» ma nei sacrifici. E spinge a volere «tutto ben sistemato, tutto chiaro».
È «un dramma», ha ricordato Francesco, che «ha dentro anche ognuno di noi». Per questo ha suggerito alcune domande per un esame di coscienza: «Come voglio io essere salvato? A modo mio? Al modo di una spiritualità, che è buona, che mi fa bene, ma che è fissa, ha tutto chiaro e non c’è rischio? O al modo divino, cioè sulla strada di Gesù, che sempre ci sorprende, che sempre ci apre le porte a quel mistero dell’onnipotenza di Dio, che è la misericordia e il perdono?».
Gesù, ha assicurato il Pontefice, «quando vede questo dramma della resistenza, anche quando vede la nostra, piange». Egli «ha pianto davanti alla tomba di Lazzaro; ha pianto guardando Gerusalemme» e dicendo: «Ma tu che uccidi i profeti e lapidi tutti quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali!». E piange anche «davanti a questo dramma di non accettare la sua salvezza, come il Padre la vuole».
Papa Francesco ha invitato perciò a «pensare che questo dramma è nel nostro cuore», insistendo perché ciascuno di noi domandi a se stesso: «Come penso che sia la strada della mia salvezza: quella di Gesù o un’altra? Io sono libero per accettare la salvezza o confondo libertà con autonomia e voglio la mia salvezza, quella che io credo che sia la giusta? Credo che Gesù sia il maestro che ci insegna la salvezza o vado dappertutto ad affittare guru che me ne insegnino un’altra? Un cammino più sicuro o mi rifugio sotto il tetto delle prescrizioni e dei tanti comandamenti fatti da uomini? E così mi sento sicuro e con questa — è un po’ duro dire questo — sicurezza compro la mia salvezza che Gesù dà gratuitamente, con la gratuità di Dio?».
Tutte queste domande, che «ci farà bene oggi farci», culminano nell’ultima proposta del Papa: «Io resisto alla salvezza di Gesù?».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 04/10/2014]
Volto alla Persona, Padre in relazione
Mt 18,1-5.10.(12-14)
Il brano di Vangelo detta la linea di tutto il discorso ecclesiale di Mt (18,1-35).
Il termine chiave dei vv.1-5 è «paidìon» - diminutivo di «pàis» - che sta a indicare il garzone di bottega, il ragazzino fra 9-11 anni circa, che anche in casa doveva scattare dopo ogni ordine ricevuto.
Gesù tramortisce le ambizioni di grandezza dei suoi bramosi discepoli, che vorrebbero pignorarlo e mettergli il guinzaglio.
Modello del Regno non è il comandante, bensì il servitore; colui che non agisce con mentalità corrente, per spirito d’interesse o promozione.
Non è un peccato desiderare di dare significato alla propria vita, ma c’è un rovesciamento: ‘maggiore’ è il ‘minore’ - colui che non brama posti preminenti; resta umile di sentimento, condizione, e posizioni.
L’importanza palese è un inganno: i veri “grandi” della comunità ecclesiale non appartengono al mondo dei perfettamente installati, che si fanno avanti, che sanno a chi appoggiarsi, e così sanno imporsi.
Dal v.6 l’autore parla di «mikròi»: i senza voce. Sono coloro che non hanno peso alcuno.
Questi “piccoli” sono «minuscoli» che hanno sentito parlare dello spirito di comunione che vige tra sorelle e fratelli di Fede...
Vorrebbero sperimentare il beneficio di questa nuova Via senza pretese mortificanti, sollecita al recupero...
Provano a iniziare, ma talora se ne scostano. Affaticati da situazioni improprie.
Gesù ci spiazza: gli ‘esclusi’ sono gli unici che fanno gridare di gioia, e valgono più di tutto il gregge dei soliti abitudinari (vv.12-14).
Il Richiamo vale anche per noi: proprio nelle persone isolate, smarrite e apparentemente più insignificanti è particolarmente vivace la fioritura dei grandi contenuti spontanei.
In essi si annida la Linfa che rigenera il mondo, e si rivela la Novità di Dio [che anche oggi vuole guidarci nell’esodo vocazionale e sociale].
Insomma: le idee fisse condizionano la vita e non lasciano che l’organismo interiore - psichico e spirituale - possa nutrirsi di verità trasparenti (non pregiudicate) e sensazioni sincere, che vorrebbero donarci respiro.
Liberarsi da soliti modi di scendere in campo, sciogliere pregiudizi e convinzioni schematiche, consentirebbe di spezzare le catene che trattengono le facoltà, spalancando altre visuali.
Infatti, la soluzione delle complicazioni che soffocano l’anima e l’esperienza della pienezza di essere che cerchiamo non è esterna, bensì insita nella nostra stessa domanda.
Nel linguaggio biblico, la figura dell’Angelo (v.10) esprime Dio stesso in dialogo con l’anima personale; la Sua Presenza in noi, in situazione - e qui la nostra paradossale fecondità.
L’Angelo è il nostro stesso Sé eminente e totale, che sa recuperare gli opposti, che coglie i segreti, suggerisce, guida; conosce la nostra poliedricità unica, e in tal guisa sa dove andare.
Così, la vita autentica è avvolta di Mistero, perfino nel passo dopo passo.
L’esistenza che ci contraddistingue non è tutta nel circolo dei traguardi visibili, delle apparenti affermazioni, e delle cose materiali, banali, più o meno a portata di mano.
La Vita completa introduce nella Chiamata per Nome che sfocia nella realizzazione e fioritura, ci apre alla Relazione che vale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Secondo te perché Gesù parla di Angeli in cielo, e di Gioia in riferimento all’unica pecorella?
[Ss. Angeli Custodi, 2 ottobre]
Volto alla persona, Padre in relazione
(Mt 18,1-5.10.12-14)
Il brano di Vangelo detta la linea di tutto il discorso ecclesiale di Mt (18,1-35). Il termine chiave dei vv.1-5 è paidìon - diminutivo di pàis - che sta a indicare il garzone di bottega, il ragazzino fra 9-11 anni circa, che anche in casa doveva scattare dopo ogni ordine ricevuto.
Gesù tramortisce le ambizioni di grandezza dei suoi bramosi apostoli, che vogliono sequestrarlo per se stessi. Sì, lo tallonano sempre, ma non lo seguono - anzi, vorrebbero pignorarlo e mettergli il guinzaglio.
Modello del Regno non è il comandante, bensì il servitore; colui che non agisce con mentalità corrente, per spirito d’interesse o promozione.
Non è un peccato desiderare di dare significato alla propria vita, ma c’è un rovesciamento: maggiore è il minore - colui che non brama posti preminenti, resta umile di sentimento, condizione e posizioni.
Anche nella vita spirituale, chi vuole subito arrivare o fa il buono (non per gratuità ma solo) per assicurarsi posizioni future, disperde la propria Perla. L’importanza palese è un inganno: i veri “grandi” della comunità ecclesiale non appartengono al mondo dei “migliori”, dei perfettamente installati in società - gli svelti che si fanno avanti e sanno imporsi.
Dal v.6 l’autore parla di mikròi: i senza voce. Sono coloro che non hanno peso alcuno, magari quelli che non riescono neppure a farsi accettare in qualche gruppo di pressione o cricca “spirituale” esclusiva.
Questi “piccoli” sono coloro che prima o poi - malgrado l’esclusione preventiva - trovano il modo di accostarsi alla comunità dei fedeli in Cristo. Hanno sentito parlare dello spirito di collaborazione, sinergia e comunione che vige tra sorelle e fratelli di Fede. Vorrebbero sperimentare il beneficio di questa nuova Via di convivenza senza pretese umilianti, e sollecita al recupero...
Provano a iniziare, ma talora se ne scostano. Affaticati dalla trafila, impossibilitati a un rapporto personale con il Signore (in quanto davanti e in ogni occasione si ritrovano la solita siepe di dirigenti cui dovrebbero pagare dazi e sottostare), spesso irritati dalla vuota vanità di coloro che non di rado si rivelano persone senza scrupoli e pericolosissime.
Gesù non ci va liscio: gli esclusi sono gli unici che fanno gridare di gioia, e valgono molto molto più di tutto il gregge dei soliti inclusi (vv.12-14).
Il Richiamo vale anche per noi: proprio nelle persone isolate, smarrite e apparentemente più insignificanti è particolarmente vivace la fioritura dei grandi contenuti spontanei.
In essi si annida la Linfa che rigenera il mondo, e si rivela la Novità di Dio (che anche oggi vuole guidarci nell’esodo vocazionale e sociale).
Semplicità e sconvolgimenti: Rinascita senza mortificazione
Non si tratta di trovare scuse per giustificare la pigrizia nella ricerca e nell’esodo spirituale: piccoli, spontanei e naturali - ma ricchi dentro - si diventa, abbassandosi (Mt 18,3-4 testo greco) dal proprio personaggio.
È l’arte di rendere densa e complessa la vita, poliedrica e vasta, semplificando poi, senza disperdere. Spesso basta solo osservare in maniera diversa o posare lo sguardo altrove, per trovare mille sbocchi inattesi e auto-rigeneranti.
Infatti, la soluzione delle complicazioni che soffocano l’anima e l’esperienza della pienezza di essere che cerchiamo, non è esterna, ma insita nella nostra stessa domanda. Non di rado appartiene alle precomprensioni più che alla realtà o alla marea che viene, la quale vuole semplicemente trascinarci sul territorio della crescita.
Siamo obnubilati dai pensieri. Ma esiste un sapere innato che veglia sulla nostra unicità e non intossica l’anima. C’è un tempo e uno spazio segreti, che ci abitano: essi risuonano in sintonia coi Vangeli. Non c’è da “rimettersi al passo” di sempre.
Se ci arrendiamo a tale istinto sapiente, confortato dalla Parola, il Nucleo dell’essere scenderà in campo con le sue energie primordiali - che ricreano la terra come il mitico Bimbo del mondo: un piccolo Gesù - dentro e fuori di noi. Così si annienta anche il disastro del Coronavirus, e si risorge: ciascuno a modo proprio (che non è “suo” nel senso dell’arbitrio).
E quando nei casi particolari saremo capaci di accogliere gli accadimenti come una Chiamata a uscire dalle gabbie affinché percepiamo l’altrove, troveremo un risultato intimo che sbroglia e rilancia la via personale e le possibilità di scambio di doni inediti, non stereotipi - senza neppure provare la stanchezza e le sottili insoddisfazioni che conosciamo.
Proiettati totalmente nei problemi esterni, sovraccarichiamo la mente e lo spirito di aspettative indotte dal paradigma culturale (un tempo) in voga, cui siamo abituati. Così l’esistenza ridiventa subito conformista, stagnante nei soliti mezzi e mète, priva di nuovi picchi, relazioni autentiche e vitalità impensate.
Il diktat dell’obbiettivo indotto dai ruoli che immaginavamo acquisiti ci sfibra, e l’idea istituita di perfezione sterilizza l’humus - c’impoverisce, mettendo fra parentesi le esigenze effettive; così facendo prevalere i modi di essere, i ruoli consolidati già espressi, inaridendo i rapporti (rendendo di nuovo torbidi gli ambienti).
Le idee fisse condizionano la vita e non lasciano che l’organismo interiore - psichico e spirituale - possa nutrirsi di verità trasparenti (non pregiudicate) e sensazioni sincere, che vorrebbero donarci respiro.
Liberarci da soliti modi di scendere in campo, dai giudizi e convinzioni apodittiche, consentirebbe di spezzare le catene che trattengono le facoltà luminose e arcobaleno, nonché la capacità di corrispondere all’irripetibile vocazione, spalancando altre visuali.
Il “vuoto” propugnato dal Tao somiglia solo a orecchio al “vuoto” di altre sapienze orientali (decisamente più spersonalizzanti) perché l’insegnamento della Via non smarrisce il senso di unicità ed eccezionalità del singolo seme. Anzi, ne rispetta appieno la vocazione propulsiva... rimanendo se stessi, non solo malgrado - ma a motivo - dell’abisso obbligatorio che abbiamo vissuto.
Minimizzando invece i propositi di riedizione dell’antico maquillage - e tutti i condizionamenti non epocali (che non ci chiamano, e neppure vorremmo) - sgombriamo l'anima dalle zavorre. Faremmo affiorare il suo peso specifico eccezionale e il carattere irripetibile, per alleggerirla e colmarla solo di quanto serve per attivare i nuovi sentieri che ci attendono.
Il rallentamento e il lasciar scorrere che Lao Tse propugna non guida all’insignificante appiattimento delle differenze, ma a dilatare i tempi sacri e naturali dell’azione sapiente, e apprezzarne il valore.
Tappe e traguardi che non ci corrispondono non daranno appagamento, costringendoci ad amplificare i rapporti solo per coprire il problema con se stessi, o addirittura di coppia, gruppo, movimento, comunità e ambiente di lavoro.
Mentre desideriamo rivestire (e non deporre) di senso di permanenza il personaggio di prima - cliché che non ci corrisponde - giriamo a vuoto, caricandoci di attese fuori scala e inutile stress (che non fa spazio all’amore con cui s’incontra se stessi, le cose, sorelle e fratelli, i tanti eventi).
La Sapienza naturale, gli accadimenti anche amareggianti, e la Bibbia, ci ricordano che il volto... ogni percorso, nome e ritmo sono solo nostri. Anche la sintesi lo è: ciascuno è chiamato a scrivere la sua irripetibile lieta notizia a favore della donna e dell’uomo di ogni tempo (Gv 20,30-31).
Nota bene: la Fraternità non è livellamento:
“Ma ci sono molte altre cose che Gesù ha fatto, le quali se fossero scritte una per una, penso che neppure il mondo stesso potrebbe contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,25).
Sarebbe la Felicità nella nuova Bellezza eminente, dal disagio.
Nel linguaggio biblico, la figura dell’Angelo (v.10) esprime Dio stesso in dialogo con l’anima personale; la Sua Presenza in noi, in situazione - e qui la nostra paradossale fecondità.
L’Angelo è il nostro stesso Sé eminente e totale, che sa recuperare gli opposti, che coglie i segreti, suggerisce, guida; conosce la nostra feconda poliedricità, e in tal guisa sa dove andare.
Insomma, la vita autentica è avvolta di Mistero, perfino nel passo dopo passo.
L’esistenza che ci contraddistingue non è tutta nel circolo dei traguardi visibili, delle apparenti affermazioni, e delle cose materiali, banali, più o meno a portata di mano.
La Vita completa ci introduce nella Chiamata per Nome che sfocia nella realizzazione e fioritura, ci apre alla Relazione che vale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Secondo te perché Gesù parla di Angeli in cielo, e di Gioia in riferimento all’unica pecorella?
Perché Gesù parla di Gioia in riferimento all’unica pecorella?
Valore dell'unicità imperfetta
(Mt 18,12-14)
Il cambiamento di rotta e di sorte del Regno. Un Dio in ricerca dei perduti e disuguali, per dilatarci la vita. Cristologia del Pallio, potenza delle carezze, energia gioiosa (nella dissociazione).
Dice il Tao Tê Ching (x): «Preserva l’Uno dimorando nelle due anime: sei capace di non farle separare?».
Anche nel cammino spirituale, Gesù si guarda bene dal proporre un universalismo dettato o pianificato, come se il suo fosse un modello ideale, «allo scopo di omogeneizzare» [Fratelli Tutti n.100].
Il tipo di Comunione che il Signore ci propone non mira a «un’uniformità unidimensionale che cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità».
Perché «il futuro non è “monocromatico” ma se ne abbiamo il coraggio è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» [da un Discorso ai giovani in Tokyo, novembre 2019].
Sebbene la pietà e la speranza dei rappresentanti della religiosità ufficiale fosse fondata su una struttura di sicurezze umane, etniche, culturali e una visione del Mistero consolidati da una grande tradizione, Gesù sgretola tutte le prevedibilità.
Nel Figlio, Dio viene rivelato non più come proprietà esclusiva, bensì Potenza d’Amore che perdona gli emarginati e smarriti: salva e crea, liberando. E mediante i discepoli dispiega il suo Volto che recupera, abbatte le barriere consuete, chiama moltitudini misere.
Sembra un’utopia impossibile da realizzare nel concreto (oggi della crisi sanitaria e globale) ma è il senso del passaggio di consegne alla Chiesa, chiamata a farsi incessante pungolo d’Infinito e fermento d’un mondo alternativo, per lo sviluppo umano integrale:
«Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» [FT n.8].
Attraverso una domanda assurda (formulata in modo retorico) Gesù vuole destare la coscienza dei “giusti”: c’è una controparte di noi che suppone di sé, molto pericolosa, perché porta all’esclusione, all’abbandono.
Invece l’Amore inesauribile cerca. E trova l’imperfetto e irrequieto.
La palude di energia stagnante che si genera accentuando i confini non fa crescere nessuno: blocca nelle solite posizioni e lascia che ciascuno si arrangi o si perda. Per disinteresse interessato - che impoverisce tutti.
Tutto ciò faceva cadere le virtù creative nella disperazione.
Fa cadere nella disperazione chi è fuori del giro degli eletti - anteposti che non avevano nulla di superiore. Infatti gli evangelisti li tratteggiano del tutto incapaci di trasalire di gioia umana per il progresso altrui.
Calcolatori, recitanti e conformi - i dirigenti fondamentalisti o troppo sofisticati e disincarnati usano la religione come un’arma.
Invece Dio è agli antipodi degli sterilizzati finti - o del pensiero disincarnato - e alla ricerca di colui che vaga malfermo, facilmente si disorienta, smarrisce la strada.
Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino. Per questo motivo il Padre è alla ricerca dell’insufficiente.
La persona così limpida e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro i lati apparentemente detestabili. Forse ch’egli stesso non apprezza.
Questo il principio di Redenzione che sbalordisce e rende interessante i nostri percorsi spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore” - nella Fede generando però autostima, credito, pienezza e gioia.
L’impegno del purificatore e l’impeto del riformatore sono “mestieri” che in apparenza si contrappongono, ma facili facili… e tipici di chi pensa che le cose da contestare e cambiare siano sempre fuori di sé.
Ad esempio nei meccanismi, nelle regole generali, nell’assetto giuridico, nelle visioni del mondo, negli aspetti formali (o istrionici) invece che nell’artigianato del bene particolare concreto; così via.
Sembrano scuse per non guardarsi dentro e mettersi in gioco, per non incontrare i propri stati profondi in tutti i versanti e non solo nelle linee guida. E recuperare o rallegrare individui concretamente smarriti, tristi, in tutti i lati oscuri e difficili.
Ma Dio è agli antipodi degli sterilizzati di maniera o degli idealisti finti, e alla ricerca dell’insufficiente: colui che vaga e smarrisce la strada. Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino.
La persona trasparente e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro gli aspetti apparentemente detestabili (forse ch’egli stesso non apprezza).
Chiediamo allora soluzione alle nuove energie interpersonali misteriose, imprevedibili, che entrano in gioco; da dentro le cose.
Senza interferire con idee di passato o di futuro che non vediamo, ovvero opponendosi ad esse. Piuttosto possedendone l’anima, il suo farmaco spontaneo.
Questo il principio della Salvezza che sbalordisce e rende interessante i nostri percorsi [spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore”] - generando infine autostima, credito e gioia.
L’idea che l’Altissimo sia un notaio o principe di un foro, e che operi netta distinzione fra giusti e trasgressori, è caricatura.
Del resto, una vita da salvati non è produzione propria, né possesso esclusivo o proprietà privata - che si capovolge in doppiezza.
Non è l’atteggiamento schizzinoso, né quello cerebrale, che unisce a Lui. Il Padre non blandisce amicizie supponenti, né ha interessi esterni.
Egli si rallegra con tutti, ed è il bisogno che lo attira a noi. Quindi non temiamo di farci trovare e lasciarci riportare (cf. Lc 15,5) in Casa sua, che è casa nostra.
Se c’è uno smarrimento, vi sarà un ritrovamento, e questo non è una perdita per nessuno - salvo per gli invidiosi nemici della libertà (v.10).
L’Eterno infatti non si compiace di emarginazioni, né intende spegnere il lucignolo fumigante.
Gesù non viene per puntare il dito sui momenti no, ma per recuperare, facendo leva sul coinvolgimento intimo. Forza invincibile di fedeltà.
Questo lo stile d’una Chiesa dal Cuore Sacro, amabile, elevato e benedetto.
[Ciò che attira a partecipare ed esprimersi è sentirsi capiti, restituiti a dignità piena - non condannati].
Diceva Carlo Carretto: «È sentendosi amato, non criticato, che l’uomo inizia il suo cammino di trasformazione».
Come sottolinea ancora l’enciclica Fratelli Tutti:
Gesù - nostro Motore e Motivo - «aveva un cuore aperto, che faceva propri i drammi degli altri» (n.84).
E aggiunge ad esempio della nostra grande Tradizione:
«Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti [...] bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione [...] Altrimenti avremo solo apparenza».
«San Bonaventura spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti come Dio li intende» (n.91).
Nelle sètte o nei gruppi d’ispirazione unilaterale, per emarginazione saccente le ricchezze umane e spirituali vengono depositate in luogo appartato, così invecchiano e sviliscono.
Nelle assemblee dei figli sono invece condivise: si accrescono e comunicano; moltiplicandosi rinverdiscono, con beneficio universale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ti attira della Chiesa? Nei confronti coi primi della classe, ti senti giudicato o adeguato?
Provi l’Amore che salva, anche se permani incerto?
Dicevo poco fa che quest’oggi la liturgia ci invita a ricordare i santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Ognuno di loro, come leggiamo nella Bibbia, ha svolto una peculiare missione nella storia della salvezza. Cari fratelli e sorelle, invochiamo con fiducia il loro aiuto, come pure la protezione degli Angeli custodi, la cui festa celebreremo fra qualche giorno, il 2 ottobre. L’invisibile presenza di questi Spiriti beati ci è di grande aiuto e conforto: essi camminano al nostro fianco e ci proteggono in ogni circostanza, ci difendono dai pericoli e ad essi possiamo ricorrere in ogni momento. Molti santi intrattenevano con gli Angeli un rapporto di vera amicizia, e numerosi sono gli episodi che testimoniano la loro assistenza in particolari occasioni. Gli Angeli vengono inviati da Dio “a servire coloro che erediteranno la salvezza”, come ricorda la Lettera agli Ebrei (1,14), e pertanto ci sono di valido ausilio nel pellegrinaggio terreno verso la Patria celeste.
[Papa Benedetto, Castel Gandolfo, saluto 29 settembre 2008]
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)
Pride compromises every good deed, empties prayer, creates distance from God and from others. If God prefers humility it is not to dishearten us: rather, humility is the necessary condition to be raised (Pope Francis)
La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati (Papa Francesco)
A “year” of grace: the period of Christ’s ministry, the time of the Church before his glorious return, an interval of our life (Pope Francis)
Un “anno” di grazia: il tempo del ministero di Cristo, il tempo della Chiesa prima del suo ritorno glorioso, il tempo della nostra vita (Papa Francesco)
The Church, having before her eyes the picture of the generation to which we belong, shares the uneasiness of so many of the people of our time (Dives in Misericordia n.12)
Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei (Dives in Misericordia n.12)
Addressing this state of mind, the Church testifies to her hope, based on the conviction that evil, the mysterium iniquitatis, does not have the final word in human affairs (Pope John Paul II)
Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane (Papa Giovanni Paolo II)
Jesus reminds us today that the expectation of the eternal beatitude does not relieve us of the duty to render the world more just and more liveable (Pope Francis)
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo (Papa Francesco)
Those who open to Him will be blessed, because they will have a great reward: indeed, the Lord will make himself a servant to his servants — it is a beautiful reward — in the great banquet of his Kingdom He himself will serve them [Pope Francis]
E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli [Papa Francesco]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
don Giuseppe Nespeca
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