don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Il doppio indirizzo del culto, ma l’Asse è stare con Lui

(Lc 6,12-19)

 

«Uscì verso il Monte per pregare e passò la notte nella preghiera a Dio» (v.12).

«E tutta la folla cercava di toccarlo poiché una Forza usciva da Lui e guariva tutti» (v.19).

 

Lc riflette il doppio indirizzo del culto nelle comunità primitive.

Anzitutto, la Preghiera come significativa apertura al Padre e celebrazione interna fra discepoli (vv.13-17). Quindi il pubblico Annuncio (con opere) al popolo.

 

La comunità è vicina: Dio è nella nostra storia.

L’idea di un Regno distante produce separazioni, gerarchie piramidali (pastoralmente) inconsistenti. Talora, dispersiva coltivazione d’interessi interni spacciati per grande sensibilità e altruismo.

Insomma, per camminare sul serio accanto a se stessi e agli altri è fondamentale prima maturare, ovunque viviamo.

Ciò vale per assumere differenti iniziative; anche eventualmente per ribellarsi al panorama stagnante che ama tornare alle sicurezze antiche.

In tal guisa, ci possono essere motivi poco nobili per voler giungere subito ovunque, correre dappertutto a fare proseliti, e farlo per contrapposizione, senza un «sogno di amicizia» [cf. enciclica Fratelli Tutti, passim].

Infatti chi coltiva molte brame, le proietta; procura i suoi stessi influssi torbidi.

Per questo è necessaria l’orazione, e la riflessone - indispensabili anche a Gesù (v.12) - che ci porgono il senso del nostro stare al mondo, la Visione del Padre, e una retta disposizione.

 

Meditazioni profonde e preghiere spontanee annientano le infedeltà che non propongono vita genuina, né motivazioni autentiche, o valori dello spirito.

Le orazioni intaccano e demoliscono le disumanizzazioni, le emozioni che ci alienano e allontanano dai fratelli, i tranelli che tendono a edificare altri templi e santuari.

La stessa carica di universalità e il “senso di urgenza” sono contenuti nel radicamento ai valori trasmesso dal dialogo con Dio. E il suo Mistero (per noi), nelle relazioni, nella conoscenza intima di sé.

Infatti... stimoli, princìpi virtuosi, lacune e lati nascosti sono aspetti energetici complementari.

Sembra un paradosso, ma l’interesse verso i bisogni delle moltitudini è un problema squisitamente radicato nell’intimo, per nulla esteriore.

È da se stessi e a partire dalla comunità che si guarda con empatia il mondo, sapendone recuperare gli opposti.

È la Via dell’Interno che compenetra e attiva la via dell’esterno.

Così volentieri preghiamo: per immergerci nella Fonte vibrante dell’essere, e spostare lo sguardo precipitoso.

 

Per contrasto e impedimento, la parzialità abitudinaria che “si mette in mezzo” non coglie il valore del poliedro sociale e culturale.

D’altro canto, purtroppo, solo amando la forza si preferisce partire dal troppo distante.

Bisogna anzitutto guarire ciò ch’è intimo e prossimo. Chi non è libero non può emancipare nessuno.

Così, unico modo di scrutare lontano è attenersi alla ragione delle cose - principio che si conosce attivamente, se non fuorviati da superficialità e riduzioni [individualiste o monovalenti, unilaterali e di club].

Intesa la natura delle creature e conformandovisi in modo crescente, tutti vengono ispirati a trasmutare e completarsi.

Processo non alienante, che arricchisce anche la possibile sclerosi culturale, senza forzature isteriche o esterne.

Tutto ciò, esercitando una pratica di bontà anche con se stessi.

 

Dice il Tao (XLVII): «Senza uscir dalla porta, conosci il mondo; senza guardar dalla finestra, scorgi la Via del Cielo. Più lungi te ne vai, meno conosci. Per questo il santo non va dattorno eppur conosce, non vede eppur discerne, non agisce eppur completa».

Solo dalla Fonte dell’essere - casa comune - scaturisce una vita non dissociata, da salvati a tutto tondo, che efficacemente permane e può dilatarsi. 

Siamo segno di dedizione e persone protese? Non lo faremo per “merito” o al fine di cattivarsi le simpatie.

Senza fare la setta, dopo una buona formazione - la quale ci trasmette anche una sapiente tolleranza, a partire dal mondo di dentro.

Nessuno scopo estrinseco, che perderebbe l’anima e non recherebbe svolta alcuna.

Non per distinguere il momento della Vocazione da quello dell’Invio ministeriale.

La via del Cielo è intrecciata alla strada della Persona e a quella della Natura [«come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia»: Laudato Si’, n.1] o saremo operatori da strapazzo.

 

Nessuno degli Apostoli - personaggi ordinari - era degno della Chiamata (vv.13-15).

Per capire questo, e avvicinarsi al senso della loro unicità missionale, Gesù deve trascorrere una intera notte in preghiera (v.12).

Gran parte dei primi seguaci ha nomi tipici del giudaismo, addirittura del tempo dei Patriarchi - il che indica un’estrazione mentale e spirituale radicata più nella religione antica che nella nuova Fede; bagaglio non facile da gestire.

Ma anche per gli indecisi il Signore sprigiona la sua forza di Vita piena, proprio perché in sé persone assolutamente comuni e piene di limiti; non di rado perplessi, perfino aperti oppositori.

Pietro smaniava per farsi avanti, pur retrocedendo spesso - marcia indietro - sino a diventare per Gesù un «satàn» [(Mt 16,23; Mc 8,33): nella cultura dell’oriente antico, un funzionario del gran sovrano, inviato a fare il controllore e delatore - praticamente un accusatore].

Giacomo di Zebedeo e Giovanni erano fratelli, accesi fondamentalisti, e in modo iroso volevano il Maestro solo per loro, nonché i primi posti.

Filippo [condizionato forse da un’estrazione ellenista, come indica il suo nome] a prima vista non sembrava un tipo molto pratico, né svelto a cogliere le cose di Dio.

Andrea pare invece se la cavasse bene: persona inclusiva.

Stando a note identificazioni tradizionali, Bartolomeo era forse aperto ma perplesso, perché il Messia non gli corrispondeva granché.

Tommaso sempre un poco dentro e un po’ fuori.

Matteo… un collaborazionista, avido complice del sistema oppressivo, e che volentieri estorceva denaro alla sua gente [il popolo lo condannava in modo spietato].

Simone - lo zelota, il cananeo - una testa calda.

Giuda Iscariota un tormentato, che si autodistrugge per essersi fidato di vecchie guide spirituali - impregnate d’ideologia nazionalista, interesse privato, opportunismo e potere.

Altri due (Giacomo il minore figlio di Alfeo, e Giuda Taddeo) semplici discepoli forse di non grande rilievo o capacità d’iniziativa.

Ma il Regno è «locale e universale» [Fratelli Tutti, nn.142-153], Vicino e per Nome - come si evince dal passo del Vangelo di Lc.

Questa la forza molteplice, graffiante, impareggiabile, prossima e appunto personale, la quale vince ogni possibilità di sabotaggio ideale (a motivo di circostanze avverse).

Potenza attinta sia dalla preghiera diretta al Padre in Cristo - nel suo Ascolto notturno (v.12) - nonché dalle opere d’amore (vv.17-19).

Potenze in simbiosi personale, sensibile, condivisa.

Non per soli eccellenti… o anche nel tempo dell’emergenza globale non vi sarà opera sanante (v.19) bensì solo esterna, accusatoria e finalizzata alla propaganda, al proselitismo.

 

Annuncio e Missione di nuova Luce accolta in Dono: dove appunto non appare una sola forma o un solo colore.

E l’Asse è «stare» con Lui.

«È quanto la tradizione ha poi formulato con la nota espressione: “Contemplata aliis tradere” (cfr San Tommaso, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 188, art. 6)» [Papa Benedetto].

Per un contagio non allarmistico né unilaterale, monocromatico, bensì florido, poliedrico, talora “nascosto”, e inquieto.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua esperienza, quale catena ha unito il Cielo e la terra?

L’elenco (accusatorio) e lo sforzo delle trasgressioni da correggere in modo nevrotico?

O una Chiamata personale, inclusiva dei tuoi molti volti nell’anima - Vocazione sostenuta da una Chiesa fattasi eco e Fonte gratuita di comprensione a tutto tondo?

Il giorno dell’Ordinazione episcopale, prima dell’imposizione delle mani, la Chiesa chiede al candidato di assumere alcuni impegni fra i quali, oltre quello di annunziare con fedeltà il Vangelo e custodire la fede, vi è anche quello di “perseverare nella preghiera a Dio onnipotente per il bene del suo popolo santo”. Vorrei soffermarmi con voi proprio sul carattere apostolico e pastorale della preghiera del Vescovo.

L’evangelista Luca scrive che Gesù Cristo scelse i dodici Apostoli dopo aver passato sul monte tutta la notte a pregare (Lc 6,12); e l’evangelista Marco precisa che i Dodici furono scelti perchè “stessero con lui e per mandarli” (Mc 3,14). Come gli Apostoli anche noi, carissimi Confratelli, in quanto loro successori, siamo stati chiamati innanzitutto per stare con Cristo, per conoscerlo più profondamente ed essere partecipi del suo mistero di amore e della sua relazione piena di confidenza con il Padre. Nella preghiera intima e personale il Vescovo, come e più di tutti i fedeli, è chiamato a crescere nello spirito filiale verso Dio, apprendendo da Gesù stesso la confidenza, la fiducia e la fedeltà, atteggiamenti suoi propri nel rapporto col Padre.

E gli Apostoli avevano compreso bene come l’ascolto nella preghiera e l’annuncio delle cose ascoltate dovevano avere il primato sulle molte cose da fare, perché decisero: “Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola” (At 6,4). Questo programma apostolico è quanto mai attuale. Oggi, nel ministero di un Vescovo, gli aspetti organizzativi sono assorbenti, gli impegni sono molteplici, le necessità sempre tante, ma il primo posto nella vita di un successore degli Apostoli deve essere riservato a Dio. Già San Gregorio Magno nella “Regola pastorale” avvertiva che il pastore “in modo singolare deve essere capace di elevarsi su tutti gli altri per la preghiera e la contemplazione (II, 5). È quanto la tradizione ha poi formulato con la nota espressione: “Contemplata aliis tradere” (cfr San Tommaso, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 188, art. 6).

Nell’Enciclica “Deus caritas est ”, riferendomi alla narrazione dell’episodio biblico della scala di Giacobbe, ho voluto evidenziare come proprio attraverso la preghiera il pastore divenga sensibile e misericordioso verso tutti (cfr n. 7). E ho ricordato il pensiero di San Gregorio Magno, secondo il quale il pastore radicato nella contemplazione sa accogliere le necessità degli altri, che nella preghiera diventano sue: “per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat  (Regola pastorale, ibid.). La preghiera educa all’amore e apre il cuore alla carità pastorale per accogliere tutti coloro che ricorrono al Vescovo. Egli, plasmato interiormente dallo Spirito Santo, consola con il balsamo della grazia divina, illumina con la luce della Parola, riconcilia ed edifica nella comunione fraterna.

[Papa Benedetto, ai vescovi di recente nomina 22 settembre 2007]

1. Comunità sacerdotale, sacramentale, profetica, la Chiesa è stata istituita da Gesù Cristo come una società strutturata, gerarchica e ministeriale, in funzione del governo pastorale per la formazione e la crescita continua della comunità. I primi soggetti di tale funzione ministeriale e pastorale sono i dodici Apostoli, scelti da Gesù Cristo come fondamenti visibili della sua Chiesa. Come dice il Concilio Vaticano II, “Gesù Cristo, Pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli Apostoli come Egli stesso era mandato dal Padre (cf. Gv 20, 21), e volle che i loro successori, cioè i Vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli” (LG 18). Questo passo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa - Lumen gentium - ci richiama anzitutto alla posizione originale e unica degli Apostoli nel quadro istituzionale della Chiesa. Dalla storia evangelica sappiamo che Gesù ha chiamato dei discepoli a seguirlo e fra loro ne ha scelto dodici (cf. Lc 6, 13).

La narrazione evangelica ci fa conoscere che per Gesù si trattava di una scelta decisiva, fatta dopo una notte di preghiera (cf. Lc 6, 12); di una scelta fatta con una libertà sovrana: ci dice Marco che Gesù, salito sul monte, chiamò a sé “quelli che volle” (Mc 3, 13). I testi evangelici riportano i nomi dei singoli chiamati (cf. Mc 3, 16-19 e par.): segno che la loro importanza era stata percepita e riconosciuta nella Chiesa primitiva.

2. Col creare il gruppo dei Dodici, Gesù creava la Chiesa, come visibile società strutturata al servizio del Vangelo e dell’avvento del Regno di Dio. Il numero dodici aveva riferimento alle dodici tribù d’Israele, e l’uso che ne fece Gesù svela la sua intenzione di creare un nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio istituito come Chiesa. L’intenzione creatrice di Gesù traspare dallo stesso verbo usato da Marco per descrivere l’istituzione: “Ne fece dodici . . . Fece i dodici”. “Fare” ricorda il verbo usato nel racconto della Genesi sulla creazione del mondo e nel Deutero-Isaia (Is 43, 1; 44, 2) sulla creazione del popolo di Dio, l’antico Israele. La volontà creatrice si esprime anche nei nuovi nomi dati a Simone (Pietro) e a Giacomo e Giovanni (Figli del tuono), ma anche a tutto il gruppo o collegio nel suo insieme. Scrive, infatti, Luca che Gesù “ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6, 13). I Dodici Apostoli diventavano così una realtà socio-ecclesiale caratteristica, distinta e, sotto certi aspetti, irripetibile. Nel loro gruppo emergeva l’apostolo Pietro, circa il quale Gesù manifestava in modo più esplicito l’intenzione di fondare un nuovo Israele, con quel nome dato a Simone: “pietra”, su cui Gesù voleva edificare la sua Chiesa (cf. Mt 16, 18).

3. Lo scopo di Gesù, nell’istituire i Dodici, viene definito da Marco: “Ne fece dodici perché stessero con lui, e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3, 14-15). Il primo elemento costitutivo del gruppo dei Dodici è dunque un attaccamento assoluto a Cristo: si tratta di persone chiamate a “essere con lui”, cioè a seguirlo lasciando tutto. Il secondo elemento è quello missionario, espresso sul modello della missione stessa di Gesù, che predicava e scacciava i demoni. La missione dei Dodici è una partecipazione alla missione di Cristo da parte di uomini strettamente legati a lui come discepoli, amici, fiduciari.

4. Nella missione degli Apostoli l’evangelista Marco sottolinea “il potere di scacciare i demoni”. È un potere sulla potenza del male, che in positivo significa il potere di dare agli uomini la salvezza di Cristo, Colui che getta fuori il “principe di questo mondo” (Gv 12, 31). Luca conferma il senso di questo potere e lo scopo della istituzione dei Dodici, riportando la parola di Gesù che conferisce agli Apostoli l’autorità nel Regno: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove. E io dispongo per voi un regno come il Padre ne ha disposto per me” (Lc 22, 28). Anche in questa dichiarazione, sono intimamente legate la perseveranza nell’unione con Cristo e l’autorità concessa nel regno. Si tratta di un’autorità pastorale, come risulta dal testo sulla missione affidata specificamente a Pietro: “Pasci i miei agnelli . . . Pasci le mie pecorelle” (Gv 21, 15-17). Pietro riceve personalmente l’autorità suprema nella missione di pastore. Questa missione è esercitata come partecipazione all’autorità dell’unico Pastore e Maestro, Cristo. L’autorità suprema affidata a Pietro non annulla l’autorità conferita agli altri Apostoli nel regno. La missione pastorale è condivisa dai Dodici sotto l’autorità di un solo Pastore universale, mandatario e rappresentante del Buon Pastore, Cristo.

5. I compiti specifici inerenti alla missione affidata da Gesù Cristo ai Dodici sono i seguenti: a) missione e potere di evangelizzare tutte le nazioni, come attestano chiaramente i tre Sinottici (cf. Mt 28, 18-20; Mc 16, 16-18; Lc 24, 45-48). Tra di essi, Matteo mette in evidenza il rapporto stabilito da Gesù stesso tra la sua potestà messianica e il mandato da lui conferito agli Apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 18). Gli Apostoli potranno e dovranno svolgere la loro missione grazie al potere di Cristo che si manifesterà in loro. b) missione e potere di battezzare (Mt 28, 19), come adempimento del mandato di Cristo, con un battesimo nel nome della SS. Trinità (Ivi), che, essendo legato al mistero pasquale di Cristo, negli Atti degli Apostoli viene anche considerato come battesimo nel nome di Gesù (cf. At 2, 38; 8, 16). c) missione e potere di celebrare l’eucaristia: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24-25). L’incarico di rifare ciò che Gesù ha compiuto nell’ultima Cena, con la consacrazione del pane e del vino, implica un potere di altissimo livello; dire nel nome di Cristo: “Questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”, è quasi un identificarsi a Cristo nell’atto sacramentale. d) missione e potere di rimettere i peccati (Gv 20, 22-23). È una partecipazione degli Apostoli al potere del Figlio dell’uomo di rimettere i peccati sulla terra (cf. Mc 2, 10): quel potere che nella vita pubblica di Gesù aveva provocato lo stupore della folla, della quale l’evangelista Matteo ci dice che “rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini” (Mt 9, 8).

6. Per compiere questa missione gli Apostoli hanno ricevuto, oltre il potere, il dono speciale dello Spirito Santo (cf. Gv 20, 21-22), che si è manifestato nella Pentecoste, secondo la promessa di Gesù (cf. At 1, 8). In forza di questo dono, dal momento della Pentecoste essi hanno cominciato ad adempiere il mandato della evangelizzazione di tutti i popoli. Ce lo dice il Concilio Vaticano II nella Costituzione Lumen gentium: “Gli Apostoli . . . predicando ovunque il Vangelo, accolto dagli uditori per mozione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale, che il Signore ha fondato sugli Apostoli e ha edificato sul beato Pietro, loro capo, mentre Gesù Cristo stesso ne è la pietra maestra angolare (cf. Ap 21, 14; Mt 16, 18; Ef 2, 20)” (LG 19).

7. La missione dei Dodici comprendeva un ruolo fondamentale loro riservato, che non sarebbe stato ereditato da altri: essere testimoni oculari della vita, morte e risurrezione di Cristo (cf. Lc 24, 48), trasmettere il suo messaggio alla comunità primitiva, come cerniera tra la rivelazione divina e la Chiesa, e per ciò stesso dare inizio alla Chiesa in nome e per virtù di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo. Per questa loro funzione i Dodici Apostoli costituiscono un gruppo di importanza unica nella Chiesa, la quale fin dal Simbolo niceno-costantinopolitano è definita apostolica (Credo una sanctam, catholicam et “apostolicam” Ecclesiam) per questo indissolubile legame ai Dodici. Ciò spiega perché anche nella liturgia la Chiesa ha inserito e riservato delle celebrazioni particolari solenni in onore degli Apostoli.

8. Tuttavia Gesù ha conferito agli Apostoli una missione di evangelizzazione di tutte le genti, che richiede un tempo molto lungo, e che anzi dura “sino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Gli Apostoli capirono che era volontà di Cristo che provvedessero ad avere dei successori, che, come loro eredi e legati, portassero avanti la loro missione. Stabilirono quindi “episcopi e diaconi” nelle diverse comunità “e disposero che dopo il loro decesso altri uomini approvati ricevessero la loro successione nel ministero” (Clemente Romano, Ep. Ad Cor., 44, 2; cf. 42, 1. 4). In questo modo Cristo ha istituito una struttura gerarchica e ministeriale della Chiesa, formata dagli Apostoli e dai loro successori; struttura che non è derivata da una precedente comunità già costituita, ma è stata creata direttamente da lui. Gli Apostoli sono stati, a un tempo, i semi del nuovo Israele e l’origine della sacra gerarchia, come si legge nella Costituzione Ad gentes del Concilio (AG 5). Tale struttura appartiene dunque alla natura stessa della Chiesa, secondo il disegno divino realizzato da Gesù. Secondo questo stesso disegno essa ha un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della comunità cristiana, dal giorno della Pentecoste alla fine dei tempi, quando nella Gerusalemme celeste tutti gli eletti saranno pienamente partecipi della “Nuova vita” per l’eternità.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 1 luglio 1992]

«Preghiera e testimonianza» sono i «due compiti dei vescovi» che sono «colonne della Chiesa». Ma se si indeboliscono a soffrirne è tutto il popolo di Dio. Perciò, ha chiesto Papa Francesco durante la messa celebrata venerdì mattina 22 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta, bisogna pregare insistentemente per i successori dei dodici apostoli.

La riflessione del Pontefice sulla figura e la missione del vescovo ha preso le mosse dal passo dell’evangelista Marco (3, 13-19) proclamato durante la liturgia odierna. «C’è una parola, in questo passo del Vangelo, che attira l’attenzione: Gesù “costituì”». E questa parola «appare due volte». Scrive infatti Marco: «“Ne costituì dodici, che chiamò apostoli”. E poi riprende: “Costituì dunque i dodici”, e li nomina, uno dietro l’altro». Dunque, ha spiegato il Pontefice, «Gesù, tra tanta gente che lo seguiva — ci dice il Vangelo — “chiamò a sé quelli che voleva”». Insomma «c’è una scelta: Gesù ha scelto quelli che Lui voleva». E, appunto, «ne costituì dodici. Che chiamò apostoli». Infatti, ha proseguito Francesco, «c’erano altri: c’erano i discepoli» e «il Vangelo parla di settantadue, in una occasione». Ma «questi erano un’altra cosa».

I «dodici sono costituiti perché stiano con Lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» ha spiegato il Papa. «È il gruppo più importante che Gesù ha scelto, “perché stessero con Lui”, più vicini, “e per mandarli a predicare” il Vangelo». E «con il potere di scacciare i demoni», aggiunge ancora Marco. Proprio quei «dodici sono i primi vescovi, il primo gruppo di vescovi».

Questi dodici «eletti — ha fatto notare Francesco — avevano coscienza dell’importanza di questa elezione, tanto che dopo che Gesù era stato assunto in cielo, Pietro parlò agli altri e spiegò loro che, visto il tradimento di Giuda, era necessario fare qualcosa». E così proprio tra coloro che erano stati con Gesù, dal battesimo di Giovanni fino all’ascensione, scelsero «un testimone “con noi” — dice Pietro — della risurrezione». Ecco, ha proseguito il Papa, che «il posto di Giuda viene occupato, viene preso da Mattia: è stato eletto Mattia».

Poi «la liturgia della Chiesa, riferendosi ad «alcune espressioni di Paolo», chiama i dodici «le colonne della Chiesa». Sì, ha affermato il Pontefice, «gli apostoli sono le colonne della Chiesa. E i vescovi sono colonne della Chiesa. Quella elezione di Mattia è stata la prima ordinazione episcopale della Chiesa».

«Mi piacerebbe oggi dire qualche parola sui vescovi» ha confidato Francesco. «Noi vescovi abbiamo questa responsabilità di essere testimoni: testimoni che il Signore Gesù è vivo, che il Signore Gesù è risorto, che il Signore Gesù cammina con noi, che il Signore Gesù ci salva, che il Signore Gesù ha dato la sua vita per noi, che il Signore Gesù è la nostra speranza, che il Signore Gesù ci accoglie sempre e ci perdona». Ecco «la testimonianza». Di conseguenza, ha proseguito, «la nostra vita dev’essere questo: una testimonianza, una vera testimonianza della risurrezione di Cristo».

E quando Gesù, come racconta Marco, fa «questa scelta» dei dodici, ha due ragioni. Anzitutto «perché stessero con Lui». Perciò «il vescovo ha l’obbligo di stare con Gesù». Sì, «è il primo obbligo del vescovo: stare con Gesù». Ed è vero «a tal punto che quando è sorto, ai primi tempi, il problema che gli orfani e le vedove non erano ben curati, i vescovi — questi dodici — si sono radunati, e hanno pensato a cosa fare». E «hanno introdotto la figura dei diaconi, dicendo: “Che i diaconi si occupino degli orfani, delle vedove”». Mentre ai dodici, «dice Pietro», spettano «due compiti: la preghiera e l’annuncio del Vangelo».

Dunque, ha rilanciato Francesco, «il primo compito del vescovo è stare con Gesù nella preghiera». Infatti «il primo compito del vescovo non è fare piani pastorali... no, no!». È «pregare: questo è il primo compito». Mentre «il secondo compito è essere testimone, cioè predicare: predicare la salvezza che il Signore Gesù ci ha portato».

Sono «due compiti non facili — ha riconosciuto il Pontefice — ma sono propriamente questi due compiti che fanno forte le colonne della Chiesa». Infatti «se queste colonne si indeboliscono, perché il vescovo non prega o prega poco, si dimentica di pregare; o perché il vescovo non annuncia il Vangelo, si occupa di altre cose, la Chiesa anche si indebolisce; soffre. Il popolo di Dio soffre». Proprio «perché le colonne sono deboli».

Per questa ragione, ha affermato Francesco, «io vorrei oggi invitare voi a pregare per noi vescovi: perché anche noi siamo peccatori, anche noi abbiamo debolezze, anche noi abbiamo il pericolo di Giuda: anche lui era stato eletto come colonna». Sì, ha proseguito, «anche noi corriamo il pericolo di non pregare, di fare qualcosa che non sia annunciare il Vangelo e scacciare i demoni». Di qui, ha ribadito il Papa, l’invito a «pregare perché i vescovi siano quello che Gesù voleva e che tutti noi diamo testimonianza della risurrezione di Gesù».

Del resto, ha aggiunto, «il popolo di Dio prega per i vescovi, in ogni messa si prega per i vescovi: si prega per Pietro, il capo del collegio episcopale, e si prega per il vescovo del luogo». Ma «questo può non essere abbastanza: si dice il nome per abitudine e si va avanti». È importante «pregare per il vescovo con il cuore, chiedere al Signore: “Signore, abbi cura del mio vescovo; abbi cura di tutti i vescovi, e mandaci vescovi che siano veri testimoni, vescovi che preghino e vescovi che ci aiutino, con la loro predica, a capire il Vangelo, a essere sicuri che Tu, Signore, sei vivo, sei fra noi”».

Prima di riprendere la celebrazione, il Papa ha suggerito, nuovamente, di pregare «dunque per i nostri vescovi: è un compito dei fedeli». Infatti «la Chiesa senza vescovo non può andare avanti». Ecco, allora, che «la preghiera di tutti noi per i nostri vescovi è un obbligo, ma un obbligo d’amore, un obbligo dei figli nei confronti del Padre, un obbligo di fratelli, perché la famiglia rimanga unita nella confessione di Gesù Cristo, vivo e risorto».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 23/01/2016]

Sollecitudini diverse, e l’Azione Umanizzante

(Lc 6,6-11)

 

Procurare il bene e sollevare la persona reale - così com’è, nella propria unicità - è l’unico valore assoluto; criterio di tutto il Vangelo.

Anche la Torah nel suo nucleo e senso voleva essere un mezzo importante della pedagogia umana, personale, religiosa - non il fine.

Le norme ci accompagnano ben volentieri, quando facilitano la strada per dialogare con il Signore in noi e nei fratelli. Ma la “lettera” è fredda e immotivata.

Avvenuto l’Incontro, la precedenza va data al Progetto di Dio, sollecito a realizzarci e farci fiorire; non alle procedure.

Infatti, le prescrizioni mettono tutti e sempre in allerta nei confronti del ‘bisogno diverso’.

Per questo, solidarietà e fraternità sono poste al di sopra di qualsiasi ossequio devoto e identitario, o necessità dottrinale, nonché osservanza esteriore del culto (se vissuto da automi).

Le stesse norme vanno comprese affinché conducano alla vita con e in Cristo - per la realizzazione e pienezza di essere.

Altrimenti la virtù scrupolosa di religione si converte in azione maligna e vizio di fede - che perde la totalità della persona [v.9 testo greco].

 

In tal guisa, nel giorno della sinagoga non si deve celebrare una restaurazione che timbri il cartellino.

Piuttosto, ci si raduna in assemblea per meglio restituire la donna e l’uomo alla loro dignità di esseri sublimi, da promuovere in modo illimitato.

Il sabato del Messia non è giorno delle parzialità di costume: è tempo di benessere recuperato - di Liberazione e Creazione, di promozione delle energie vitali, secondo il Disegno originario e pieno del Padre.

Infatti, nel luogo del rito abitudinario, dove vige la mentalità compassata, Gesù non va a pregare, bensì a insegnare e curare.

 

Neppure il paralizzato aveva chiesto guarigione - tanto gli sembrava normale stare lì in quel modo e non ricevere attenzioni, né alcuno stimolo; neanche il bene.

Nondimeno l’Amore è nucleo ed essenza della Legge: anche in giorno di precetto l’aiuto era pur consentito dalle stesse prescrizioni, in caso di necessità estrema o ripercussione sugli altri.

Gesù sta dicendo che sbloccare la persona che non riesce a fare nulla di buono [«mano destra arida»: v.6] è questione di vita o di morte, anche per tutta la comunità [guarire o «annientare»: v.9].

Osservare il giorno del Signore significa, anche per noi: potenziare le possibilità espressive dell’umanità e reintegrarla in un ‘ordine nuovo’.

 

Per adempiere il “precetto” redentivo, gli atteggiamenti devianti vanno per primi anch’essi assunti, e salvati - al pari di energie preparatorie di nuovi assetti.

Non possiamo permetterci ulteriori trascuratezze.

La crisi che investe tutti fa trapelare la differenza tra… contenuti inconsci e verità, fossilizzazioni ed energie nascoste; religiosità e Fede - discrimine della vita in Cristo e nello Spirito.

Nei suoi lati di limitazione e Completezza, legalismo o Liberazione, stasi e Rinascita, ritorno a “come sempre” o Rigenerazione, formalismo e Letizia [così via], oggi il discernimento si fa più acuto.

 

 

[Lunedì 23.a sett. T.O.  9 settembre 2024]

Ago 28, 2024

Il discernimento si fa acuto

Pubblicato in il Mistero

Sollecitudini diverse: l’azione umanizzante, e quella secca dei gufi

(Lc 6,6-11)

 

Commentando il Tao Tê Ching (XLVII), il maestro Ho-shang Kung scrive: «Il santo conosce il grande basandosi sul piccolo, l’esteriore esaminando l’interiore».

E ribadisce: «Senza salire in cielo e senza scendere negli abissi, il santo conosce il Cielo e la Terra: li conosce con il cuore».

 

Procurare il bene e sollevare la persona reale - così com’è, nella propria unicità - è l’unico valore non negoziabile; criterio di tutto il Vangelo.

Anche la Torah nel suo nucleo e senso voleva essere un mezzo importante della pedagogia umana, personale, religiosa - non il fine.

Le norme ci accompagnano volentieri, quando esse facilitano la strada per dialogare con il Signore, incontrandolo in noi e nei fratelli.

Ma la “lettera” è fredda e immotivata.

Avvenuto l’Incontro, la precedenza va data al Progetto di Dio, sollecito a realizzarci e lasciar fiorire; non alle procedure.

Infatti, le prescrizioni mettono tutti e sempre in allerta nei confronti del “bisogno diverso”.

Per questo, solidarietà e fraternità sono poste al di sopra di qualsiasi ossequio devoto e identitario, o necessità dottrinale, nonché osservanza esteriore del culto [se vissuto da automi].

Le stesse norme vanno comprese affinché conducano alla vita con e in Cristo - per la realizzazione e pienezza di essere.

Altrimenti la virtù scrupolosa di religione si converte in azione maligna e vizio di fede - che perde la totalità della persona [v.9 testo greco].

 

In tal guisa, nel giorno della sinagoga non si deve celebrare una restaurazione che timbri il cartellino.

Piuttosto, ci si raduna in assemblea per meglio restituire l’uomo alla sua dignità di essere sublime, da promuovere in modo illimitato.

Il sabato del Messia non è il giorno delle parzialità di costume: gesti e parole esprimono il Volto del Padre, la sua sollecitudine.

È tempo insieme di Liberazione e Creazione, di promozione delle energie vitali, secondo il Disegno originario e pieno.

Ma nel luogo del rito abitudinario, dove vige la mentalità tradizionale [ovvero à la page] compassata, Gesù non va a pregare, bensì a insegnare e curare.

Neppure il paralizzato aveva chiesto guarigione - tanto gli sembrava normale stare lì in quel modo e non ricevere attenzioni, né alcuno stimolo; neanche il bene.

Nondimeno l’Amore è nucleo ed essenza della Legge: anche in giorno di precetto l’aiuto era pur consentito (dalle stesse prescrizioni) in caso di necessità estrema o ripercussione sugli altri.

 

Il Signore sta dicendo ai [suoi intimi] responsabili di chiesa:

Sbloccare la persona che non riesce a fare nulla di buono [«mano destra arida»: v.6] è questione di vita o di morte, anche per tutta la comunità [guarire o «annientare»: v.9].

Quando i parrucconi della religione indifferente e secca, e i primi della classe della devozione distorta, vengono provocati, la maschera pia scompare.

Diventano violenti anche di fronte al bene che Dio opera su chi è malmesso - e votato al peggio senza neanche accorgersi.

La mano [l’azione] da guarire resta anzitutto quella delle mummie unilaterali cui si rivolge l’insegnamento forte dell’episodio.

Osservare il giorno del Signore significa, anche per noi: potenziare le possibilità espressive dell’uomo e reintegrarlo in un ‘ordine nuovo’.

Ciò sgombrando l’ambiente incline al settarismo [o all’ideologismo] da gufi vecchi e nuovi che intendono salvare le apparenze per mantenere potere, finto prestigio dottrinale, sudditanza delle coscienze.

Ma per adempiere il “precetto” redentivo, gli atteggiamenti devianti vanno per primi anch’essi assunti, e salvati - al pari di energie preparatorie di nuovi assetti.

 

Ancora il maestro Ho-shang: «Quando chi sta in alto ama la Via, chi sta in basso ama la virtù; quando chi sta in alto ama la guerra, chi sta in basso ama la forza».

Le agenzie di plagio di alcune “chiesuole” particolari che vogliono le anime bloccate su rapporti di dominio, volentieri progetterebbero di far permanere i malati nel loro stato di dipendenza.

Per alcuni perversi meccanismi di pastorale e catechesi di massa, i timorosi e insicuri devono restare anonimi; anche nel tempo del cammino sinodale.

I senza voce sono sempre utili, affinché i ben introdotti possano continuare a galleggiare sul mondo - con le loro immutate manfrine o teorie.

Per interesse devoto, moralista, o di parte [questa sì privata e glamour, ovvero colma d’insidie legaliste] ben volentieri li lascerebbero incerti e inconsapevoli, o peggio - anche se si presentasse Gesù in persona a liberarli.

Non ce lo possiamo più permettere.

Non possiamo più acconsentire trascuratezze: l’attuale scossone della crisi globale sta accelerando la caduta delle maschere, degli atteggiamenti paludosi o istrionici; e delle pratiche simboliche fini a se stesse.

L’emergenza che investe tutti fa comprendere meglio la differenza tra contenuti inconsci e verità, fossilizzazioni sedentarie ed energie nascoste; religiosità e Fede - discrimine della vita in Cristo e nello Spirito.

Nei suoi lati di limitazione e Completezza, legalismo e Liberazione, stasi e Rinascita, ritorno a come sempre o Rigenerazione, formalismo e Letizia, oggi il discernimento si fa più acuto.

 

 

Avendo già valutato inutile approfittare dell’istituzione religiosa ufficiale per immettere in essa la novità del Regno, [ad es. fin nel cap. 3 di Mc, primo dei Vangeli] si propugna un nuovo progetto di comunità.

Il Maestro vuole guidare le persone di ogni ceto a sentire e vivere profondamente la propria e altrui dimensione umana, segnata dalla paradossale feconda esperienza della fallibilità.

Solo quando ne interiorizzassero il senso e vivessero così, le autorità e i credenti farebbero davvero l’esperienza di provare compassione verso i limiti della carne - comprensione caratteristica dell’essere “umani”.

 

In tale opera il Signore parte sempre dalle masse abbandonate dai loro pastori.

L’incipit autentico viene da gente insignificante ma svincolata dalle autorità del tessuto religioso-politico, e dalle linee di successione dinastica ufficiali.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quando hai notato virtù di religione convertite in vizi di fede?

Cosa intendi per Salvezza assicurata dal Regno di Dio?

 

 

Teologia e simbologia della Mano:

 

«Riflettiamo perciò nuovamente sui segni nei quali il Sacramento ci è stato donato. Al centro c'è il gesto antichissimo dell'imposizione delle mani, col quale Egli ha preso possesso di me dicendomi: "Tu mi appartieni". Ma con ciò ha anche detto: "Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue".

Ricordiamo poi che le nostre mani sono state unte con l'olio che è il segno dello Spirito Santo e della sua forza. Perché proprio le mani? La mano dell'uomo è lo strumento del suo agire, è il simbolo della sua capacità di affrontare il mondo, appunto di "prenderlo in mano". Il Signore ci ha imposto le mani e vuole ora le nostre mani affinché, nel mondo, diventino le sue. Vuole che non siano più strumenti per prendere le cose, gli uomini, il mondo per noi, per ridurlo in nostro possesso, ma che invece trasmettano il suo tocco divino, ponendosi a servizio del suo amore. Vuole che siano strumenti del servire e quindi espressione della missione dell'intera persona che si fa garante di Lui e lo porta agli uomini. Se le mani dell'uomo rappresentano simbolicamente le sue facoltà e, generalmente, la tecnica come potere di disporre del mondo, allora le mani unte devono essere un segno della sua capacità di donare, della creatività nel plasmare il mondo con l'amore – e per questo, senz'altro, abbiamo bisogno dello Spirito Santo. Nell'Antico Testamento l'unzione è segno dell'assunzione in servizio: il re, il profeta, il sacerdote fa e dona più di quello che deriva da lui stesso. In un certo qual modo è espropriato di sé in funzione di un servizio, nel quale si mette a disposizione di uno più grande di lui. Se Gesù si presenta oggi nel Vangelo come l'Unto di Dio, il Cristo, allora questo vuol proprio dire che Egli agisce per missione del Padre e nell'unità con lo Spirito Santo e che, in questo modo, dona al mondo una nuova regalità, un nuovo sacerdozio, un nuovo modo d'essere profeta, che non cerca se stesso, ma vive per Colui, in vista del quale il mondo è stato creato. Mettiamo le nostre mani oggi nuovamente a sua disposizione e preghiamolo di prenderci sempre di nuovo per mano e di guidarci».

[Papa Benedetto, omelia del Crisma 13 aprile 2006]

Riflettiamo perciò nuovamente sui segni nei quali il Sacramento ci è stato donato. Al centro c'è il gesto antichissimo dell'imposizione delle mani, col quale Egli ha preso possesso di me dicendomi: "Tu mi appartieni". Ma con ciò ha anche detto: "Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue".

Ricordiamo poi che le nostre mani sono state unte con l'olio che è il segno dello Spirito Santo e della sua forza. Perché proprio le mani? La mano dell'uomo è lo strumento del suo agire, è il simbolo della sua capacità di affrontare il mondo, appunto di "prenderlo in mano". Il Signore ci ha imposto le mani e vuole ora le nostre mani affinché, nel mondo, diventino le sue. Vuole che non siano più strumenti per prendere le cose, gli uomini, il mondo per noi, per ridurlo in nostro possesso, ma che invece trasmettano il suo tocco divino, ponendosi a servizio del suo amore. Vuole che siano strumenti del servire e quindi espressione della missione dell'intera persona che si fa garante di Lui e lo porta agli uomini. Se le mani dell'uomo rappresentano simbolicamente le sue facoltà e, generalmente, la tecnica come potere di disporre del mondo, allora le mani unte devono essere un segno della sua capacità di donare, della creatività nel plasmare il mondo con l'amore – e per questo, senz'altro, abbiamo bisogno dello Spirito Santo. Nell'Antico Testamento l'unzione è segno dell'assunzione in servizio: il re, il profeta, il sacerdote fa e dona più di quello che deriva da lui stesso. In un certo qual modo è espropriato di sé in funzione di un servizio, nel quale si mette a disposizione di uno più grande di lui. Se Gesù si presenta oggi nel Vangelo come l'Unto di Dio, il Cristo, allora questo vuol proprio dire che Egli agisce per missione del Padre e nell'unità con lo Spirito Santo e che, in questo modo, dona al mondo una nuova regalità, un nuovo sacerdozio, un nuovo modo d'essere profeta, che non cerca se stesso, ma vive per Colui, in vista del quale il mondo è stato creato. Mettiamo le nostre mani oggi nuovamente a sua disposizione e preghiamolo di prenderci sempre di nuovo per mano e di guidarci.

[Papa Benedetto, omelia del Crisma 13 aprile 2006]

2. Con il Vangelo del Regno, Cristo si collega alle Scritture Sacre che, attraverso l’immagine regale, celebrano la signoria di Dio sul cosmo e sulla storia. Così leggiamo nel Salterio: ‘Dite tra i popoli: Il Signore regna! Sorregge il mondo, perché non vacilli; governa le nazioni’ (Sal 96,10). Il Regno è, quindi, l’azione efficace ma misteriosa che Dio svolge nell’universo e nel groviglio delle vicende umane. Egli vince le resistenze del male con pazienza, non con prepotenza e clamore.

Per questo il Regno è paragonato da Gesù al granello di senape, il più piccolo di tutti i semi, destinato però a diventare un albero frondoso (cfr Mt 13,31-32), o al seme che un uomo ha deposto nella terra: ‘dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa’ (Mc 4,27). Il Regno è grazia, amore di Dio per il mondo, sorgente per noi di serenità e di fiducia: ‘Non temere, piccolo gregge - dice Gesù - perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno’ (Lc 12,32). Le paure, gli affanni, gli incubi si dissolvono, perché il Regno di Dio è in mezzo a noi nella persona di Cristo (cfr Lc 17,21).

3. Tuttavia l’uomo non è un inerte testimone dell’ingresso di Dio nella storia. Gesù ci invita a ‘cercare’ attivamente ‘il Regno di Dio e la sua giustizia’ e a fare di questa ricerca la nostra preoccupazione principale (Mt 6,33). A quelli che ‘credevano che il Regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro’ (Lc 10,11), egli prescrisse un atteggiamento attivo invece di una attesa passiva, raccontando loro la parabola delle dieci mine da far fruttare (cfr Lc 19,12-27). Dal canto suo, l’apostolo Paolo dichiara che ‘il Regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è - anzitutto – giustizia’ (Rm 14,17) ed invita pressantemente i fedeli a mettere le loro membra a servizio della giustizia in vista della santificazione (cfr Rm 6,13.19).

La persona umana è quindi chiamata a cooperare con le sue mani, la sua mente ed il suo cuore all’avvento del Regno di Dio nel mondo. Questo è vero specialmente di coloro che sono chiamati all’apostolato, e che sono, come dice Paolo, ‘cooperatori del Regno di Dio’ (Col 4,11), ma è anche vero di ogni persona umana.

[Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 dicembre 2000]

 

Vincere con il bene

1. All'inizio del nuovo anno, torno a rivolgere la mia parola ai responsabili delle Nazioni ed a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, che avvertono quanto necessario sia costruire la pace nel mondo. Ho scelto come tema per la Giornata Mondiale della Pace 2005 l'esortazione di san Paolo nella Lettera ai Romani: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (12, 21). Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male.

La prospettiva delineata dal grande Apostolo pone in evidenza una verità di fondo: la pace è il risultato di una lunga ed impegnativa battaglia, vinta quando il male è sconfitto con il bene. Di fronte ai drammatici scenari di violenti scontri fratricidi, in atto in varie parti del mondo, dinanzi alle inenarrabili sofferenze ed ingiustizie che ne scaturiscono, l'unica scelta veramente costruttiva è di fuggire il male con orrore e di attaccarsi al bene (cfr Rm 12, 9), come suggerisce ancora san Paolo.

La pace è un bene da promuovere con il bene: essa è un bene per le persone, per le famiglie, per le Nazioni della terra e per l'intera umanità; è però un bene da custodire e coltivare mediante scelte e opere di bene. Si comprende allora la profonda verità di un'altra massima di Paolo: « Non rendete a nessuno male per male » (Rm 12, 17). L'unico modo per uscire dal circolo vizioso del male per il male è quello di accogliere la parola dell'Apostolo: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (Rm 12, 21).

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2005]

La «speranza è una virtù» considerata «abitualmente di seconda classe. Non crediamo tanto — ha spiegato — nella speranza: parliamo della fede e della carità, ma la speranza è un po’, come diceva uno scrittore francese, la virtù umile, la serva delle virtù; e non la capiamo bene».

L’ottimismo, ha spiegato, è un atteggiamento umano che dipende da tante cose; ma la speranza è un’altra cosa: «È un dono, è un regalo dello Spirito Santo e per questo Paolo dirà che non delude mai». E ha anche un nome. E «questo nome è Gesù»: non si può dire di sperare nella vita se non si spera in Gesù. «Non si tratterebbe di speranza — ha precisato — ma sarebbe buonumore, ottimismo, come nel caso di quelle persone solari, positive, che vedono sempre la metà piena del bicchiere e non quella vuota».

Una conferma di questo concetto il Papa l’ha indicata nel brano del Vangelo di Luca (6, 6-11), nel riferimento al tema della libertà. Il racconto di Luca mette davanti agli occhi una duplice schiavitù: quella dell’uomo «con la mano paralizzata, schiavo della sua malattia», e quella «dei farisei, degli scribi, schiavi dei loro atteggiamenti rigidi, legalistici». Gesù «libera entrambi: fa vedere ai rigidi che quella non è la strada della libertà; e l’uomo dalla mano paralizzata lo libera dalla malattia». Cosa vuole dimostrare? Che «libertà e speranza vanno insieme: dove non c’è speranza, non può esserci libertà».

Tuttavia il vero insegnamento da trarre dalla liturgia odierna è che Gesù «non è un guaritore, è un uomo che ricrea l’esistenza. E questo — ha sottolineato il vescovo di Roma — ci dà speranza, perché Gesù è venuto proprio per questo grande miracolo, per ricreare tutto». Tanto che la Chiesa in una bellissima preghiera dice: «Tu, Signore, che sei stato tanto grande, tanto meraviglioso nella creazione, ma più meraviglioso nella redenzione...». Dunque, ha aggiunto il Papa, «la grande meraviglia è la grande riforma di Gesù. E questo ci dà speranza: Gesù che ricrea tutto». E quando «ci uniamo a Gesù nella sua passione — ha concluso il Papa — con lui rifacciamo il mondo, lo facciamo nuovo».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 9-10/09/2013]

Ago 27, 2024

Iniziazione alla Fede

Pubblicato in Commento precedente

Stura le orecchie a sordi e balbuzienti, nel vuoto dei sensi interiori

 

(Mc 7,31-37)

 

Lo sfondo del passo di Vangelo è il tema dell’iniziazione alla Fede, che investe i ‘sensi’ [interiori] i quali rischiano di spegnersi.

Anche ogni credente infatti corre il pericolo di affievolire la percezione, circoscrivere l’energia vitale, ridurre in modo drastico il rapporto con la realtà profonda, e l’orizzonte del suo cammino.

«Effatà» era una formula liturgica globalmente espressiva, impiegata dalle chiese primitive nel Battesimo.

L’itinerario inverosimile di Gesù (v.31) suggerisce quasi un suo essere restio a tornare indietro, trattenendosi piuttosto fra pagani. Perché?

Si rende conto che i “lontani” sembrano meno sordi alla Parola di Dio, rispetto alla gente d’Israele: hanno una coscienza ancora viva.

I seguaci non espongono messaggi autentici. Si mostrano intimi, però malgrado le apparenze non sanno ancora ascoltare.

Ciò per il fatto che le orecchie di alcuni di loro sono aperte alle sole furbizie: devono essere «sturate» senza troppi complimenti.

Infatti l’azione di Gesù è violenta [v.33 testo greco].

Gli apostoli ritenevano che il Tesoro di Dio fosse esclusivamente destinato agli “interni” - non ai popoli.

Ma il giovane Rabbi non vuole che il discepolo si rassegni, si ripieghi, si affezioni alla propria malattia.

Condizione di vita trasandata e vuota di senso, da cui i ‘padrini’ del Battesimo vorrebbero emanciparci (v.32a).

Sono i veri collaboratori del Messia, che gli portano un «sordo» [non muto ma] «balbuziente».

Cristo allora ci tira fuori, «in disparte» (v.33). Vuole separarci dal modo di ragionare attorno; distaccarci dagli obbiettivi qualunquisti.

«Apriti!» resta l’invito pressante a spalancare ancora nuovi percorsi: slacciare il dialogo, essere concreti e rispettosi, rimettere in causa la vita. Arricchendo se stessi e gli altri.

Unico ‘miracolo’ grande è dischiudere ogni persona alla percezione e comunicazione, prolungando l’Azione creatrice.

Perché cercando la verità nell’ascolto profondo, non si balbetta più.

Nella cultura semitica la ‘saliva’ [v.33: «e avendo sputato, toccò la sua lingua»] era considerata alito condensato.

Immagine dello stesso Spirito che libera da alienazioni - beninteso, non a partire da fuori.

Anche l’evangelizzazione deve configurarsi in tale concomitanza, solidale con la realizzazione, e impegnata nei processi; da dentro.

Così vivremo in modo fluente, e proclameremo la Buona Notizia in favore della nostra Felicità; trovando soluzioni inattese.

Purtroppo i discepoli più “stretti” continuavano a voler predicare il «Figlio dell’uomo» come «il» [quel] Messia che si attendevano (v.36).

Così però si turavano le orecchie e legavano la lingua, rattrappendo anima, spirito, e mani.

Nel Battesimo - al contrario - il Maestro e Signore ci abilita all’ascolto della «Parola» che si fa «evento», affinché facciamo risuonare agli altri quanto viene proclamato.

Attraverso questo dissigillo siamo stati costituiti credenti e profeti. Prima eravamo balbettoni.

 

L’attitudine del ‘figlio’? Spalancare l’anima al mondo.

E la missione della Chiesa non è quella di decidere tutto, bensì far udire e parlare. Senza l’a-priori di riferimenti inutili.

 

«Aprirci» resta la nostra Vocazione decisiva.

 

 

[23.a Domenica T.O. (anno B)  8 settembre 2024]

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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