don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Maria SS. Madre di Dio (anno A)  [1 gennaio 2026]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Auguri per il nuovo anno invocando la benedizione di Dio su tutto il 2026

 

*Prima Lettura dal libro dei Numeri (6, 22-27)

La benedizione “Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia” proviene dal Libro dei Numeri ed era pronunciata dai sacerdoti d’Israele fin dai tempi di Aronne. È entrata stabilmente anche nella liturgia cristiana, come benedizione solenne conclusiva della Messa. L’espressione “invocare il Nome di Dio” va compresa nel contesto biblico: il Nome rappresenta la persona stessa, la sua presenza, la sua protezione. Per questo, pronunciare il Nome di Dio sul popolo significa collocarlo sotto la sua custodia. Quando Dio rivela il suo Nome, si rende accessibile alla preghiera del suo popolo. Di conseguenza, ogni offesa al popolo di Dio è un’offesa al suo stesso Nome. Questo illumina anche le parole di Gesù sul farsi prossimo ai più piccoli: Dio ha posto il suo Nome su ogni persona, che va dunque guardata con rispetto e con occhi nuovi. La benedizione è formulata al singolare (ti benedica), ma si riferisce all’intero popolo: è un singolare collettivo, che Israele ha compreso come esteso a tutta l’umanità. L’uso del congiuntivo non indica un dubbio sulla volontà di Dio di benedire, poiché Dio benedice incessantemente; esso esprime piuttosto la libertà dell’uomo di accogliere o rifiutare questa benedizione. Benedire significa, nel senso biblico, che Dio “dice bene” dell’uomo. La sua Parola è efficace e trasformante: quando Dio dice il bene, lo realizza. Chiedere la benedizione equivale ad aprirsi alla sua azione che trasforma e fa vivere. Essere benedetti non significa essere preservati dalle prove, ma viverle nella comunione con Dio, dentro l’Alleanza, certi della sua presenza fedele. Questo trova il suo compimento in Maria, madre di Dio, la “piena di grazia”, su cui il Nome di Dio è posto in modo unico e definitivo. Il testo ebraico originario arricchisce ulteriormente il significato: il Nome YHWH è promessa di presenza continua e la forma verbale indica una benedizione che attraversa passato, presente e futuro. Dio ha benedetto, benedice e benedirà per sempre il suo popolo.

Elementi importanti: +La benedizione di Nm 6 come patrimonio ebraico e cristiano. +Il Nome di Dio come presenza, protezione e appartenenza. +Il singolare collettivo: benedizione per tutto il popolo e per l’umanità. +Il congiuntivo come espressione della libertà umana di accogliere la grazia. +La benedizione come Parola efficace che trasforma. +Benedizione non come assenza di prove, ma come comunione con Dio. +Maria come pienamente benedetta e portatrice del Nome. +La ricchezza del testo ebraico: benedizione eterna di YHWH.

 

*Salmo responsoriale (66/67)

Il Salmo 66 risponde in modo armonioso alla benedizione sacerdotale del Libro dei Numeri: “Il Signore ti benedica e ti custodisca”. È lo stesso clima spirituale che attraversa il salmo: la certezza che Dio accompagna il suo popolo. Dire che Dio benedice significa affermare che Dio è con noi. Questa è la più autentica definizione di benedizione, come suggerisce il profeta Zaccaria: la presenza di Dio è così evidente da attirare le nazioni. Lo stesso Nome rivelato sul Sinai, YHWH, esprime proprio questa promessa di presenza fedele e permanente. Nel salmo è il popolo stesso a chiedere la benedizione: “Che Dio ci benedica”. Dio benedice senza interruzione; tuttavia l’uomo resta libero di accogliere o di rifiutare questa benedizione. La preghiera diventa allora apertura del cuore all’azione trasformante di Dio. Per questo, nella fede d’Israele, la preghiera è sempre segnata dalla certezza di essere ascoltati ancora prima di domandare. Israele non chiede la benedizione solo per sé. La benedizione ricevuta è destinata a irradiarsi su tutte le nazioni, secondo la promessa fatta ad Abramo. Nel salmo si intrecciano due dimensioni inseparabili: l’elezione di Israele e l’universalità del progetto di Dio. L’espressione “Dio, il nostro Dio” richiama l’Alleanza, mentre l’invito rivolto a tutti i popoli a lodare Dio manifesta che la salvezza è offerta all’intera umanità. Israele comprende progressivamente di essere stato scelto non per esclusione, ma per testimoniare: la luce che lo illumina deve riflettere la luce di Dio per il mondo intero. Questa consapevolezza matura soprattutto dopo l’esilio, quando Israele riconosce che il Dio dell’Alleanza è il Dio dell’universo. La profezia di Zaccaria  (8, 23)esprime chiaramente questa visione: le nazioni si avvicineranno al popolo eletto perché riconoscono che Dio è con lui. Anche i credenti di oggi sono chiamati a essere popolo testimone: ogni benedizione ricevuta è un mandato a diventare riflesso della luce di Dio nel mondo. All’inizio di un nuovo anno, questo diventa un augurio reciproco: portare la luce di Dio là dove non è ancora accolta. Infine, il salmo afferma che “la terra ha dato il suo frutto”. Poiché la Parola di Dio è efficace, essa produce frutto nella storia. Dio ha mantenuto la promessa di una terra feconda e, per i cristiani, questo versetto trova il suo compimento pieno nella nascita del Salvatore: nella pienezza dei tempi, la terra ha portato il suo frutto.

Elementi importanti: +Il Salmo 66 come eco della benedizione di Nm 6. +La benedizione come presenza e accompagnamento di Dio. +Il Nome YHWH come promessa di presenza fedele. +Dio benedice sempre; l’uomo è libero di accogliere. +La preghiera come apertura all’azione trasformante di Dio. +Elezione di Israele e universalità della salvezza. Israele (e la Chiesa) come popolo testimone. +La benedizione destinata a tutte le nazioni. +La Parola di Dio che produce frutto nella storia. +Compimento cristiano nel mistero dell’Incarnazione.

 

Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati (4, 4-7)

“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna”: con questa espressione Paolo annuncia il compimento del progetto di Dio. La storia, per la fede biblica, non è un eterno ritorno, ma un cammino progressivo verso la realizzazione del disegno misericordioso di Dio. Questa prospettiva dell’adempimento è una chiave fondamentale non solo per comprendere le lettere di Paolo, ma l’intera Bibbia, a partire dall’Antico Testamento. Gli autori del Nuovo Testamento insistono nel mostrare che la vita, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù compiono le Scritture. Ciò non significa che tutto fosse programmato in modo rigido e predeterminato: il compimento non va inteso come fatalità, ma come rilettura nella fede di eventi reali attraverso i quali Dio, rispettando la libertà umana, porta avanti il suo progetto. Dio accetta il rischio della libertà dell’uomo, anche quando essa contrasta il suo disegno; tuttavia, egli non si stanca mai di rinnovare la promessa, come attestano Isaia e Geremia. In Gesù, i credenti contemplano il compimento definitivo di queste promesse. Paolo afferma poi che il Figlio di Dio è “nato da donna e nato sotto la Legge”. Con poche parole egli esprime tutto il mistero di Cristo: vero Figlio di Dio, vero uomo, pienamente inserito nel popolo d’Israele. L’espressione “nato da donna” indica semplicemente la sua piena umanità, come attestato dal linguaggio biblico; l’essere “sotto la Legge” significa che Gesù ha condiviso fino in fondo la condizione del suo popolo. Lo scopo di questa venuta è chiaro: riscattare, cioè liberare, coloro che erano sotto la Legge, affinché diventassero figli adottivi. Non si tratta più di vivere come schiavi che obbediscono a ordini, ma come figli che obbediscono per amore e fiducia. Si passa così dalla sottomissione alla Legge alla libertà dell’obbedienza filiale. Questo passaggio è reso possibile dal dono dello Spirito del Figlio, che grida nei cuori “Abbà, Padre”. È il grido dell’abbandono fiducioso, la certezza che Dio è Padre in ogni circostanza. Per questo il credente non è più schiavo, ma figlio e, in quanto figlio, erede: tutto ciò che appartiene al Figlio è promesso anche a lui. La difficoltà dell’uomo sta spesso nel non osare  di credere a questa realtà: non osare di credere che lo Spirito di Dio abiti in lui, che la forza e la capacità di amare di Dio gli siano realmente donate. E tuttavia, tutto questo non è merito umano: se siamo figli ed eredi, lo siamo per grazia. È in questo senso profondo che si può dire che tutto è grazia.

 

Elementi importanti: +La pienezza dei tempi come compimento del progetto di Dio. +La storia come cammino verso il disegno benevolo di Dio. +L’adempimento delle Scritture in Gesù, senza determinismo. +Il rispetto della libertà umana nel progetto divino. +Gesù: Figlio di Dio, vero uomo, nato sotto la Legge. +l riscatto come liberazione dalla schiavitù della Legge. + Il passaggio da schiavi a figli. +Il dono dello Spirito che grida “Abbà, Padre”. La figliolanza come eredità promessa. +La grazia come fondamento di tutto.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (2,16-21)

“Ciò che hai nascosto ai saggi e agli intelligenti, lo hai rivelato ai piccoli” (Lc10,21/ Mt 11,25): questo versetto illumina il racconto della nascita di Gesù, apparentemente semplice ma profondamente teologico. I pastori, uomini marginali e non osservanti la Legge, sono i primi a ricevere l’annuncio dell’angelo: diventano così i primi testimoni, portatori della buona notizia. La narrazione di Luca (Lc 2,8-14) sottolinea come la gloria di Dio li avvolga e come essi siano colti da timore e gioia. La loro esperienza richiama le parole di Gesù: Dio rivela il suo mistero ai piccoli, non ai sapienti. La vicenda si svolge a Betlemme, città di Davide e «casa del pane», dove il neonato è deposto in una mangiatoia: simbolo di colui che si dà come nutrimento per l’umanità. Maria osserva in silenzio, meditando nel cuore tutti gli eventi (Lc 2,19), mostrando una contemplazione attenta e filiale, in contrasto con la loquacità dei pastori. Il suo atteggiamento ricorda quello di Daniele, che custodiva nel cuore le visioni ricevute (Dn 7,28), prefigurando il destino messianico del bambino. Il nome “Gesù”, che significa “Dio salva”, rivela il suo mistero salvifico. Come ogni bambino ebreo, Gesù è circonciso l’ottavo giorno e sottomesso alla Legge di Mosè, in piena solidarietà con il suo popolo. Luca insiste sulla circoncisione e sulla presentazione al Tempio (Lc 2,22-24) per sottolineare l’osservanza perfetta della Legge da parte di Maria e Giuseppe, non per evidenziare un dettaglio rituale, ma per mostrare la completa adesione di Gesù alla storia e alla tradizione del suo popolo. Questo è coerente con la sua futura identificazione con gli empi, come preannunciato: “E fu annoverato fra gli empi” (Lc 22,37). Infine, la discrezione e il silenzio di Maria, madre di Dio, mostrano la sua umiltà e la capacità di farsi strumento del progetto di Dio. Il centro del progetto non è Maria, ma Gesù, il Salvatore.

Sant’Ambrogio di Milano (IV sec.), commentando la scena dei pastori e l’atteggiamento di Maria, Ambrogio scrive: Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore: non cercava di spiegare il mistero con parole, ma lo conservava nella fede.” (cf. Expositio Evangelii secundum Lucam, II)

Elementi importanti: +La rivelazione del mistero di Dio ai «piccoli», non ai sapienti e I pastori: testimoni marginali e primi annunciatori. +Betlemme come città del pane, simbolo del nutrimento salvifico. +Maria medita nel cuore gli eventi, modello di contemplazione e silenzio. +Il nome Gesù significa «Dio salva». +Circoncisione e osservanza della Legge: solidarietà di Gesù con il popolo e Presentazione al Tempio: adesione totale alla Legge di Mosè. +Gesù identificato con gli empi: segno della sua missione. +Silenzio e umiltà di Maria: strumento del progetto divino, non centro. + Il progetto di salvezza ha al centro Gesù, il Salvatore

+Giovanni D’Ercole

Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (anno A)  [28 dicembre 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Ecco il commento dei testi di questa domenica con un augurio per ogni famiglia perché si rispecchi nella sua reale quotidianità in quella di Nazaret che la Bibbia ci mostra veramente provata da tante difficoltà e problemi come ogni famiglia.

 

*Prima Lettura dal libro del Siracide (3,2-6.12-14)  

Ben Sira insiste sul rispetto dovuto ai genitori perché, nel II secolo a.C. (verso il 180), l’autorità familiare stava indebolendosi. A Gerusalemme, sotto il dominio greco, pur nella libertà religiosa, nuove mentalità si diffondevano lentamente: il contatto con il mondo pagano rischiava di modificare il modo di pensare e di vivere degli ebrei. Per questo Ben Sira, maestro di Sapienza, difende i fondamenti della fede a partire dalla famiglia, primo luogo di trasmissione della fede, dei valori e delle pratiche religiose. Il testo è dunque un forte appello a favore della famiglia ed è anche una profonda meditazione sul quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre», formulato nell’Esodo come promessa di lunga vita e nel Deuteronomio anche di felicità. Circa cinquant’anni dopo, il nipote di Ben Sira, traducendo l’opera in greco, aggiunge una motivazione decisiva: i genitori sono strumenti di Dio perché donano la vita; per questo meritano onore, memoria e riconoscenza. Questo comandamento risponde anche al buon senso umano: una società equilibrata nasce da famiglie solide, mentre la loro rottura genera gravi conseguenze psicologiche e sociali. Tuttavia, al livello più profondo, l’armonia familiare appartiene al progetto stesso di Dio. Alcune espressioni di Ben Sira sembrano suggerire un “calcolo” («chi onora il padre ottiene il perdono dei peccati…»), ma in realtà non si tratta di una ricompensa meccanica: la Legge di Dio è sempre via di grazia e di felicità. Come insegna il Deuteronomio, i comandamenti sono dati per il bene e la libertà dell’uomo. Quando Ben Sira afferma che onorare i genitori ottiene il perdono, si coglie un progresso nella rivelazione: la vera riconciliazione con Dio passa attraverso la riconciliazione con il prossimo, in sintonia con i profeti («misericordia voglio e non sacrifici»). Essere figli rispettosi dei genitori significa essere figli fedeli anche verso Dio. Non a caso, tra i Dieci Comandamenti, solo due sono formulati in positivo: il sabato e l’onore dovuto ai genitori. Essi trovano il loro compimento nel grande comandamento dell’amore del prossimo, che inizia proprio dai genitori, i nostri primi “prossimi”. Per questo il testo di Ben Sira risulta particolarmente appropriato nei tempi di festa, quando i legami familiari si rinsaldano o si riscoprono.

 

*Elementi più importanti: +Contesto storico: II secolo a.C., influenza ellenistica. +Famiglia come luogo primario di trasmissione della fede. +Difesa del quarto comandamento. +Genitori come strumenti di Dio nel dono della vita. +Legge di Dio come via di felicità, non di calcol. +Riconciliazione con Dio attraverso il prossimo. +Onorare i genitori come primo atto di amore del prossimo.

 

*Salmo Responsoriale (127/128)

 Questo salmo è chiamato “Cantico delle salite” perché era destinato ad essere cantato durante il pellegrinaggio verso Gerusalemme, probabilmente negli ultimi momenti, salendo i gradini del Tempio. Il testo sembra strutturato come una celebrazione liturgica: all’ingresso del Tempio i sacerdoti accolgono i pellegrini e offrono un’ultima catechesi, proclamando la beatitudine dell’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie. La benedizione riguarda il lavoro, la famiglia, la fecondità e la pace domestica: il frutto delle proprie mani, la moglie come vite feconda, i figli come germogli d’ulivo attorno alla mensa. L’assemblea dei pellegrini risponde confermando che così è benedetto chi teme il Signore. Segue la formula solenne di benedizione sacerdotale: dal monte Sion il Signore accorda la sua benedizione, permettendo di contemplare per tutta la vita il bene di Gerusalemme e la continuità delle generazioni. L’insistenza su lavoro, prosperità e felicità può sembrare troppo “terrena”, ma la Bibbia afferma con forza che Dio ha creato l’uomo per la felicità. Il desiderio umano di riuscita e di armonia familiare coincide con il progetto di Dio; per questo la Scrittura parla spesso di “felicità” e “benedizione”, senza ironia, anche di fronte alle sofferenze della storia. Il termine biblico “felice” non indica una garanzia automatica di successo, ma il vero bene, che è la vicinanza a Dio. È insieme riconoscimento e incoraggiamento. André Chouraqui traduce “felice, beato” con “in cammino”, per dire: sei sulla strada giusta, continua. Israele ha compreso presto che Dio accompagna il suo popolo nel desiderio di felicità e apre davanti a lui una via di speranza (cf. Ger 29,11). Tutta la Bibbia afferma il disegno misericordioso di Dio sull’umanità, come ricorda san Paolo nella lettera agli Efesini. La felicità biblica ha dunque due dimensioni: è anzitutto il progetto di Dio, ma è anche una scelta dell’uomo. Il cammino è chiaro e diritto: la fedeltà alla Legge che si riassume nell’amore di Dio e dell’umanità. Gesù ha percorso questo cammino fino in fondo e invita i discepoli a seguirlo, promettendo la vera beatitudine a chi mette in pratica la sua parola. Resta l’espressione apparentemente paradossale: “Beato chi teme il Signore”. Non si tratta di paura, ma di stupore reverente. Chouraqui rende: “in cammino, tu che fremeresti di Dio”. È l’emozione di chi si sente piccolo davanti a un grande amore. Dopo aver scoperto che Dio è amore, Israele non teme più come lo schiavo, ma come il figlio davanti alla forza e alla tenerezza del padre. Non a caso la Scrittura usa lo stesso verbo per il rispetto dovuto a Dio e ai genitori (Lv 19,3). La fede è quindi la certezza che Dio vuole il bene dell’uomo; per questo “temere il Signore” equivale a “camminare nelle sue vie”. Quando Gerusalemme vivrà questa fedeltà, realizzerà la sua vocazione di città della pace; il salmo lo anticipa proclamando: “Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita”.

*Elementi più importanti: +Il salmo come Cantico delle salite e canto di pellegrinaggio ha la struttura liturgica: sacerdoti, assemblea, benedizione. +Benedizione su lavoro, famiglia e fecondità. +Dio crea l’uomo per la felicità e “beato” chi è vicino a Dio e Chouraqui traduce “beato” = in cammino. +Disegno benevolo di Dio sull’umanità che vede la felicità come dono di Dio e scelta dell’uomo. +Gesù come compimento del cammino dell’amore. +Timore di Dio” come atteggiamento filiale, non paura. +Gerusalemme chiamata a essere città della pace

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Colossesi (3,12-21)          

 La liturgia di oggi invita a contemplare la Santa Famiglia: Giuseppe, Maria e Gesù. È una famiglia semplice, ed è detta “santa” perché al suo centro c’è Dio stesso. Tuttavia, non si tratta di una famiglia idealizzata o irreale: i Vangeli mostrano chiaramente che essa ha attraversato prove e difficoltà concrete. Giuseppe è turbato davanti alla gravidanza misteriosa di Maria, la nascita di Gesù avviene in condizioni povere, la famiglia conosce l’esilio in Egitto e più tardi l’angoscia per Gesù smarrito e ritrovato nel Tempio, senza comprenderne pienamente il senso. Proprio per questo, la Santa Famiglia appare come una vera famiglia, segnata da fatiche e interrogativi simili a quelli di ogni altra famiglia. Questa realtà ci rassicura e dà senso alle raccomandazioni di san Paolo nella lettera ai Colossesi, dove invita alla pazienza e al perdono, virtù necessarie nella vita quotidiana. Colossi, città dell’attuale Turchia, non fu visitata direttamente da Paolo: la comunità cristiana nacque grazie a Epafra, suo discepolo. Paolo scrive dalla prigione, preoccupato per alcune derive che minacciano la purezza della fede cristiana. Il tono della lettera alterna l’entusiasmo contemplativo per il progetto di Dio a richiami molto decisi contro dottrine fuorvianti. Al centro del suo messaggio rimane sempre Gesù Cristo, cuore della storia e del mondo. Paolo invita i cristiani a modellare la loro vita su di Lui: rivestirsi di tenerezza, bontà, pace e gratitudine, facendo ogni cosa nel nome del Signore Gesù. I battezzati, infatti, formano il Corpo di Cristo. Riprendendo e approfondendo un’immagine già usata con i Corinzi, Paolo afferma che Cristo è il capo e i credenti sono le membra, chiamate a sostenersi a vicenda per costruire l’edificio della Chiesa.Il testo affronta anche i rapporti familiari, con espressioni che possono risultare difficili, come l’invito alle mogli alla sottomissione. Nel contesto biblico, però, questa sottomissione non equivale a servitù, ma si inserisce in una visione fondata sull’amore e sulla responsabilità. Paolo, dopo aver richiamato un linguaggio comune all’epoca, rivolge ai mariti un’esigenza ancora più forte: amare la propria moglie con rispetto e senza durezza. L’obbedienza cristiana nasce dalla fiducia nell’amore di Dio e si esprime in relazioni segnate da tenerezza, rispetto e dono reciproco.

*Elementi importanti: +La Santa Famiglia come famiglia reale, non idealizzata con le prove concrete vissute da Giuseppe, Maria e Gesù e invito alla pazienza e al perdono nella vita familiare. +Contesto della lettera ai Colossesi e ruolo di Epafra con la preoccupazione di Paolo per la fedeltà della fede cristiana. +Centralità di Gesù Cristo nella vita dei credenti come Corpo di Cristo, chiamati a sostenersi reciprocamente. +Relazioni familiari fondate sull’amore e sul rispetto dove sottomissione biblica è intesa come fiducia e dono, non come schiavitù. +Obbedienza cristiana radicata nella certezza che Dio è Amore.

 

*Dal Vangelo secondo Matteo (2,13-15.19-239    

L’episodio della fuga della Santa Famiglia in Egitto richiama volutamente un’altra grande vicenda biblica: quella di Mosè e del popolo d’Israele, dodici secoli prima, schiavo in Egitto. Come allora il faraone ordinò l’uccisione dei neonati maschi e Mosè fu salvato per diventare il liberatore del suo popolo, così Gesù sfugge alla strage di Erode e diventerà il salvatore dell’umanità. Matteo invita a riconoscere in Gesù il nuovo Mosè, compimento della promessa di Dt 18,18: un profeta suscitato da Dio come Mosè stesso. Un secondo segno di compimento delle Scritture è la citazione di Os 11,1: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”. In origine riferita al popolo d’Israele, Matteo la applica a Gesù, presentandolo come il Nuovo Israele, colui che realizza pienamente l’Alleanza. Il titolo di Figlio di Dio, già attribuito ai re e al Messia, in Gesù acquista un significato pieno: alla luce della risurrezione e del dono dello Spirito, i credenti riconoscono che Gesù è veramente Figlio di Dio, Dio da Dio, come confessa la fede cristiana. Un terzo segno è l’affermazione: “Sarà chiamato Nazareno”. Sebbene l’Antico Testamento non parli di Nazaret, Matteo gioca su risonanze linguistiche e simboliche: netser (“germoglio” messianico della stirpe di Davide), nazir (consacrato a Dio), e natsar (“custodire”). Nazaret diventa così il segno della scelta divina dell’umile e dell’insignificante. Inoltre, quando i cristiani vengono disprezzati come “Nazorei”, Matteo li incoraggia ricordando che anche Gesù portò quel titolo: ciò che appare spregevole agli uomini è prezioso agli occhi di Dio. Nel racconto, Matteo costruisce due scene parallele: fuga in Egitto e ritorno dall’Egitto. In entrambe c’è un contesto storico, l’apparizione dell’angelo a Giuseppe in sogno, l’obbedienza immediata e la conclusione: così si compì ciò “che era stato detto per mezzo dei profeti”. Il parallelismo mette in relazione i titoli Figlio di Dio e Nazareno, mostrando un Messia inatteso: glorioso e insieme umile. Per questo il testo è proclamato nella festa della Santa Famiglia: Gesù è Figlio di Dio, ma cresce in una famiglia semplice e in un villaggio insignificante. È il grande paradosso cristiano: la storia divina si compie nella quotidianità più ordinaria delle famiglie umane. I commentatori antichi come Pseudo-Dionisio e Pseudo-Crisostomo riflettono sulla fuga in Egitto, non solo un fatto storico ma una manifestazione del disegno salvifico: Cristo, pur essendo Dio, si sottomette alla legge della carne e alla guida divina, dimostrando la vera umanità e obbedienza del Messia. San Girolamo sottolinea invece che non solo Erode, ma anche i sommi sacerdoti e gli scribi cercarono la morte del Signore fin dai primi istanti della sua venuta nel mondo, mostrando l’ostilità spirituale che Gesù incontrerà per tutta la sua missione. Un’altra interpretazione di alcuni Padri antichi vede nella permanenza in Egitto una dimensione salvifica non solo per Gesù stesso, ma simbolicamente per il mondo: Egli va in quella terra storicamente associata all’oppressione e al paganesimo non per restare, ma per portare luce e salvezza, confermando che la venuta di Cristo è per tutti, anche per i popoli lontani da Dio.  Così, per gli antichi commentatori il racconto non è mera narrazione: è rivelazione teologica del mistero di Cristo, che entra nella storia umana come libera obbedienza per la nostra salvezza e compimento delle promesse profetiche.

 

*Sant’Ireneo di Lione Contro le eresie) scrive: “Gesù è ricapitolazione di tutta la storia: ciò che era stato perduto in Adamo, viene ritrovato in Cristo.”. Spesso questo è applicato dai Padri anche alla fuga in Egitto: Cristo ripercorre la storia d’Israele per portarla a compimento.

 

*Elementi importanti: +Parallelismo tra Gesù e Mosè, Gesù come nuovo Mosè e nuovo Israele. +Compimento delle Scritture secondo Matteo “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). +Titolo di Figlio di Dio in senso pieno cristologico. +Significato simbolico di Nazaret / Nazareno. +Scelta divina dell’umile e del disprezzato, eMessia inatteso: gloria divina e umiltà concreta. +Struttura narrativa parallela: fuga e ritorno dall’Egitto. +Santa Famiglia: il divino vissuto nella vita quotidiana

 

+Giovanni D’Ercole

(Mt 2,13-15,19-23)

Matteo 2:13 Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo».

Matteo 2:14 Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto,

Matteo 2:15 dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio.

 

Per prima cosa capiamo come funziona il potere: non vuole rendere omaggio al Re appena nato, ma vuole farlo fuori. È il Rivale, colui che può togliergli il potere e il trono. Il potere, pur di far fuori il Rivale, pur di mantenere il proprio dominio, è pronto a sacrificare la vita dei suoi sudditi. È qualcosa di aberrante; il potere avrebbe il compito di difendere la vita dei sudditi, invece Erode applica la sua strategia senza scrupolo, e fa fuori tutti i bambini pur di conservare il potere.

Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe. Ci sono molti sogni che accompagnano l’infanzia di Gesù: stanno a indicare l’iniziativa e la provvidenza divina che fa fallire i progetti di Erode. L'annuncio dell'angelo ci dice dell'intervento di Dio nella storia. Notiamo come questi sogni vengono dati a Giuseppe e non a Maria. Giuseppe è il responsabile dinanzi a Dio e agli uomini della Madre e del Bambino.

A lui il Signore si rivolge nel sogno e gli trasmette un ordine perentorio, da mettere subito in atto: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò". Giuseppe viene guidato nei minimi particolari. Lui deve andare in Egitto e rimanere là finché il Signore di nuovo non lo avvertirà che può fare ritorno. Perché la salvezza si possa compiere è necessario che l'ordine venga eseguito alla lettera. Il Signore nelle sue cose è perfetto. Se l'uomo, alla perfezione del Signore vi risponde con l’obbedienza, si compie la salvezza. Tutti i mali del mondo nascono quando nella perfezione di Dio si introduce l'insipienza della creatura, la quale osa pensare di essere più saggia di quanto invece non sia.

In questa circostanza l’Egitto è un luogo di protezione. A quei tempi la Sacra Famiglia poteva facilmente trovare da vivere in mezzo alle tante colonie giudaiche, la più grande delle quali era in Alessandria. Ma l’Egitto è anche il luogo doveva aveva avuto inizio la storia d’Israele come popolo di Dio. Il bambino Gesù dovrà ripartire dall’Egitto per entrare nella sua terra. Matteo quindi ripresenta teologicamente l’esodo che compiuto da Gesù, il Messia liberatore, porterà il popolo a una nuova terra di libertà, alla vera liberazione. Partirono di “notte” (v. 14). È un ricordo della liberazione che il popolo d'Israele sperimentò nella notte di Pasqua, descritta nel libro dell’Esodo. Come il popolo fuggì alla minaccia del faraone, così ora Giuseppe porta in salvo Gesù dalla minaccia di Erode.

La salvezza ha però sempre un costo in sofferenza, in sacrificio, in dolore. Senza voler fare un’apologia del dolore, il dolore serve a dare alla persona una santità sempre più grande. Il dolore, la sofferenza è il crogiolo che purifica il nostro spirito da tutte le incrostazioni e ci avvicina alla santità di Dio.

Senza il sacrificio non c'è vera obbedienza, perché la vera obbedienza genera sempre un sacrificio purificatore della vita. È il sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, di cui parla l'apostolo Paolo. Il male del mondo di oggi è proprio nella volontà satanica di abolire dalla nostra vita ogni abnegazione, ogni rinuncia. Si vuole tutto, subito, immediatamente. Si vuole concedere al corpo ogni vizio, all'anima ogni peccato, allo spirito ogni pensiero cattivo. Si vuole vivere in un mondo senza sacrificio, senza sofferenza (per questo prenderà sempre più piede l’eutanasia e l’uccisione di quanti sono ritenuti un peso morto per la società). 

Si vuole vivere in un mondo senza alcuna privazione. Una volta si nasceva e si moriva in casa e c’era partecipazione nella famiglia della più grande gioia e della più grande tristezza, ma almeno il malato moriva con il conforto dei suoi. Si vuole vivere in un mondo che nasconde il mistero della morte e del dolore togliendolo dalle case, ignorando che proprio la vista del dolore è un momento forte di apertura alla fede.

Giuseppe e la famiglia sono rimasti in Egitto fino a dopo la morte di Erode. Matteo dice che questo è avvenuto in adempimento della profezia di Os 11,1 - "Fuor d’Egitto chiamai mio figlio" - il quale parla di tutt’altra cosa, e cioè dell’esperienza storica della nazione d’Israele: l’esodo dall’Egitto. Cosa centra il Messia? L'evangelista crea una sorta di aggancio parallelo tra gli eventi dell'antico Israele e quelli di Gesù, quasi a dire che in Gesù confluisce, in qualche modo, tutta la storia del popolo di Israele, da lui rivissuta nell'obbedienza e nella piena sottomissione al Padre. In altre parole, nell’esperienza analoga di Israele figlio di Dio, e del Messia figlio di Dio, entrambi in Egitto per necessità, ed entrambi liberati dalla provvidenza divina, Matteo vede Gesù che ricapitola la storia d’Israele di cui rivive l’esperienza nella sua propria persona.

Anzi, Gesù ricapitola in sé e attua tutta la storia della salvezza. Come l’uscita dall’Egitto era l’alba della redenzione, così l’infanzia di Gesù è l’alba dell’epoca messianica, e Matteo dimostra l’avverarsi delle Scritture in Gesù. Sarà  da lui  che uscirà un nuovo Israele, rigenerato dallo Spirito.

Tutto ciò che è prima di Cristo è solo immagine di ciò che il Signore avrebbe compiuto per mezzo di Gesù Cristo. Le vicende del popolo d’Israele erano una preparazione alla venuta del Messia, che rappresenta il punto di convergenza di tutta la Scrittura. Il vero Figlio di Dio è Gesù Cristo. Israele è solamente segno di quanto il Signore stava per operare per la salvezza dell'umanità. È questo il motivo per cui Matteo applica a Gesù Cristo tutto ciò che nell'Antico Testamento si riferiva a Israele.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
  • Tutte le generazioni mi chiameranno beata
  •  Cattolici e Protestanti a confronto – In difesa della fede
  •  La Chiesa e Israele secondo San Paolo – Romani 9-11

 

(Disponibili su Amazon)

La potenza della vita grezza

(Gv 1,1-18)

 

Gialal al-Din Rumi, mistico e lirico persiano del XIII sec. scrive nel suo componimento «La Locanda»:

 

 

L’essere umano è una locanda,

ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.

 

Una gioia, una depressione, una meschinità,

qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,

come un visitatore inatteso.

 

Dài il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!

Anche se c’è una folla di dispiaceri

che devasta violenta la casa

spogliandola di tutto il mobilio,

 

lo stesso, tratta ogni ospite con onore:

potrebbe darsi che ti stia liberando

in vista di nuovi piaceri.

 

Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,

vai incontro sulla porta ridendo,

e invitali a entrare.

 

Sii grato per tutto quel che arriva,

perché ogni cosa è stata mandata

come guida dell’aldilà.

 

 

Riconosciamo in questa poesia-emblema alcune chiavi di volta del discernimento, sottese ai paradossi esistenziali della teologia dell’Incarnazione.

Un mistico sufi aiuta a comprendere le colonne portanti del nostro Cammino, meglio di tante dottrine evasive a senso unico.

Sono identiche leggi dell’anima già espresse nel celebre Prologo del quarto Vangelo: la vita grezza è colma di potenze.

Incarnazione: i nostri fulcri più intimi distinguono l’avventura della Fede dall’esistenza unilaterale del credente in Dio.

L’esperienza della pienezza nel mondo è lanciata dai nostri stessi bassifondi. Come suggerisce un aforisma Zen [raccolto in Ts’ai Ken T’an]: «L’acqua troppo pura non ha pesci».

 

Gv scrive che il Logos divenne «carne» nell’accezione semitica di un essere pieno di limiti, incompiuto; per questo votato alla ricerca incessante di senso (parziale sino alla morte).

La debolezza di tutti noi non è redenta ammirando un modello eroico e imitandolo fuori scala, ma in un processo di recupero di tutto l’essere e della nostra storia.

Insomma, non esistono Doni dello Spirito che non passino per la dimensione umana.

Già qui e ora prosperiamo d’una preziosa semente del Verbo. La sua Tenda autentica è in-noi e in tutti i moventi.

Più riusciamo a portare al massimo la nostra realtà creaturale e umanizzante, più saremo sul cammino verso la condizione divina - radicati sulla terra dell’inestimabile stirpe generata dal Logos.

Sapientemente, non lo faremo diventando vincenti, bensì ospitando quel che giunge dalla Provvidenza, dalle persone e dalle emozioni (perfino dai disagi) senza pregiudizio.

Non le Dieci Parole - tipica categoria semitica - ma l’Unica Parola inclusiva (Sogno e Senso della Creazione) è a fondamento dell’Opera del Padre.

Il Logos che attecchisce è qualitativo, non parziale, né incentrato su un unico nome: Uno perché Unitario.

 

Le religioni non accolgono tutti gli ospiti [essi si riveleranno assai più fertili di come immaginiamo] che bussano all’albergo interiore.

 

La vicenda di Gesù di Nazaret suggerisce che il peccato è stato invece stracciato, ossia: l’imperfezione non è un ostacolo alla comunione col Cielo, bensì una molla.

I malesseri non ci rendono inadeguati: mettono in cammino.

Il Signore ha annientato il senso d’insufficienza della condizione carnale e l’umiliazione delle distanze incolmabili.

 

«Parola» Fine sull’univocità.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come inizi le giornate? Accogli i tuoi ospiti (perfino il vuoto)? O li affronti con eccesso di giudizio?

 

 

[31 dicembre, settimo giorno fra l’Ottava di Natale]

La potenza della vita grezza

(Gv 1,1-18)

 

Gialal al-Din Rumi, mistico e lirico persiano del XIII sec. (fondatore della confraternita sufi dei dervisci) scrive nel suo componimento «La Locanda»:

 

L’essere umano è una locanda,

ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.

 

Una gioia, una depressione, una meschinità,

qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,

come un visitatore inatteso.

 

Dài il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!

Anche se c’è una folla di dispiaceri

che devasta violenta la casa

spogliandola di tutto il mobilio,

 

lo stesso, tratta ogni ospite con onore:

potrebbe darsi che ti stia liberando

in vista di nuovi piaceri.

 

Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,

vai incontro sulla porta ridendo,

e invitali a entrare.

 

Sii grato per tutto quel che arriva,

perché ogni cosa è stata mandata

come guida dell’aldilà.

 

 

Riconosciamo in questa poesia-emblema alcune chiavi di volta del discernimento, sottese ai paradossi esistenziali della teologia dell’Incarnazione.

Un mistico sufi aiuta a comprendere le colonne portanti del nostro Cammino, assai meglio di tante dottrine evasive a senso unico.

Sono identiche leggi dell’anima già espresse nel celebre Prologo del quarto Vangelo: la vita grezza è colma di potenze.

Sintesi di tematiche di fondo che specificano la Vita nello Spirito a paragone dell’esperienza religiosa comune.

Incarnazione: i nostri fulcri più intimi distinguono l’avventura della Fede dall’esistenza unilaterale del credente in Dio.

Svegliandoci al mattino, ecco nel nostro “albergo” spuntare un nuovo arrivo - non sempre palesemente edificante.

Ma nella reception di locanda a molte stanze dev’esserci accoglienza, affinché l’incontro non programmato possa aprirci, divenire un aspetto, o motivo e motore dell’Incontro decisivo - forse anch’esso inatteso.

Accadimenti, situazioni, intuizioni, consigli, relazioni, emozioni anche strampalate, nuove consapevolezze, altri progetti che non avevamo prima immaginato o semplicemente inespressi, vengono a trovarci e ci lasciano stupiti.

Gli ospiti vanno accolti, hanno la loro dignità e tutti esprimono lati di noi stessi: siamo tenuti a dare a ciascuno di loro un benvenuto; persino alle rabbie, alle tristezze, alle paure.

I missionari sanno bene che i dubbi sono più fecondi delle certezze, e che l’insicurezza è più sicura di tutte le “sicurezze“.

La folla degli ospiti può rimettere in discussione quanto c’è nella nostra dimora o locanda, e spazzare via tutto o in parte - persino le fondamenta.

Avendo pazienza di onorare ogni inquilino - fossero ricordi antichi o utopie da scapicollo - prepareremo l'anima a un’esperienza di pienezza di essere, lanciata dai nostri stessi bassifondi (letame divenuto territorio di germogli).

A partire dal rispetto dei nostri confini diversi e a motivo di essi, ogni presenza nuova o che si riaffaccia ci concentra sull’ascolto di tutto il marasma che siamo - caos che prepara le delizie che ci appartengono, e solo così coinvolgono.

Il nostro lato eterno - che ha piantato tenda in noi - manda le cose affinché percependo, accogliendo, diventando consapevoli, possiamo preparare lo sviluppo dell’anima, della nostra Casa.

Evoluzione i cui principi [e occasioni di scatto in avanti verso il completamento della nostra personalità piena e divina] semplicemente troviamo innati, dentro, e non in adesioni estrinseche - tipiche della civiltà dell’esterno e di non poche espressioni di fede ridotta a religione.

 

Il Prologo di Gv non fa che ribadire i pilastri eterni di una Sapienza rivelata ma naturale, alla portata di tutti perché narra l’amore, anche nel cammino interiore; difficile da capire solo per chi si lascia influenzare da opinioni e catechismi a codice, abbreviati.

Il Vangelo rassicura: è Notizia a nostro favore, perché dona coscienza che i “signori” che sopraggiungono sono Doni che ripuliscono la dimora, e se la buttano all’aria è solo per rinforzare la nostra essenza, cesellando una irripetibile Vocazione: quella in grado di recuperare ogni brandello della nostra storia e farne un capolavoro.

Sarebbe impossibile imboccare la strada della Felicità piena se non raggranellassimo e assumessimo ogni briciola del nostro essere sparso nel mondo e nel tempo, rendendo significativi e divini ogni attesa, qualsiasi istante, tutte le oscillazioni anche infrante.

Il Logos ha innumerevoli Semi già piantati in noi: sono tutte polarità energetiche plasmabili; non cristalline. Punti di tensione. Molti di essi apparentemente malfermi, ma che riavviano alla destinazione della completezza.

Provvisorietà chiamate a divenire punti fermi - poi di nuovo traballanti, perché solo attraverso processi di fluttuazione s’innescano le dinamiche che guideranno alla crescita totale - con altri momenti di Esodo.

 

Come suggerisce un aforisma Zen [raccolto in Ts’ai Ken T’an]: «L’acqua troppo pura non ha pesci».

Gv non scrive che il Logos divenne “uomo”, bensì «carne» nell’accezione semitica di un essere pieno di limiti, incompiuto; per questo votato alla ricerca incessante di senso, parziale sino alla morte.

La debolezza di donne e uomini non è redenta ammirando un modello eroico e imitandolo fuori scala, ma in un processo di recupero di tutto l’essere e della nostra storia.

Non esistono Doni dello Spirito che non passino per la dimensione umana.

Già qui e ora prosperiamo sulla terra d’una preziosa semente del Verbo. La sua Tenda autentica è in-noi e in tutti i moventi.

Più riusciamo a portare al massimo la nostra realtà creaturale e umanizzante, più saremo sul cammino verso la condizione divina. Radicati sulla terra dell’inestimabile stirpe generata dal Logos.

Per farci coscienti e dilatare la vita, l’Eterno chiede che ospitiamo le proposte con cui irrompe, all’unico scopo non di condizionare ma di completarci, e incrementare l’autostima con cui affrontiamo il presente e attiviamo futuro, faccia a faccia.

Non lo faremo diventando vincenti, ma accogliendo quel che viene dalla Provvidenza, dalle persone e dalle emozioni (perfino dai disagi) senza pregiudizio - neppure quello del sembrare sempre accompagnati da molta gente, facendosi vedere all’esterno sicuri, forti, performanti.

Sceneggiate che invadono la vita e tolgono la Percezione essenziale dell’essere presenti agli atti minimi e alle relazioni, al guardare dentro e fuori. Coscienza nitida di sé, dell’umano, del mondo che guida verso la nostra direzione e la nostra vera natura.

 

Non le Dieci Parole - tipica categoria semitica - ma l’Unica Parola inclusiva, Sogno e Senso della Creazione, sono a fondamento dell’Opera del Padre.

Il Logos che attecchisce è qualitativo, non parziale, né incentrato su un unico nome: Uno perché Unitario.

 

La vicenda di Gesù di Nazaret suggerisce che il peccato è stato stracciato, ossia: l’imperfezione non è un ostacolo alla comunione col Cielo, bensì una molla.

I malesseri non ci rendono inadeguati: mettono in cammino.

Il Signore ha annientato il senso d’insufficienza della condizione carnale e l’umiliazione delle distanze incolmabili.

Il progetto “iniziale” del Creatore è di partecipare la sua stessa Vita a tutta l'umanità. In tal guisa, il Signore s’introduce nel mondo con fiducia, senza timore di contaminarsi, né tagli e separazioni - pregiudizio tipico della mentalità arcaica.

Il Disegno di Salvezza si concretizza e ha la sua vetta nella difesa, promozione, espansione della nostra qualità di vita relazionale.

Dunque: «Luce degli uomini» (v.4) non sarà più - secondo i convincimenti del tempo - l’arida normativa della Legge, bensì la «Vita» nella sua completa pienezza. Spontanea, reale e poco rifinita: cruda, perciò colma di potenze.

 

Scrive il Tao Tê Ching (xix), che reputa esteriori le più celebrate virtù: «Insegna che v’è altro cui attenersi: mostrati semplice e mantieniti grezzo».

Commenta il maestro Wang Pi: «Le qualità formali sono del tutto insufficienti».

E il maestro Ho-shang Kung aggiunge: «Tralascia il regolare e il creare dei santi; torna a quel che era al Principio».

 

Così nei percorsi di Fede non sarà più l’esteriorità o la convenzione a dettare il cammino e il senno, nel discernimento degli spiriti.

Ciascuno ha il suo desiderio innato di realizzazione e totalità di espressione: questo l’unico criterio del nostro sentiero.

Tale resterà la Luce intima che guida i nostri passi; questa la Parola dell’Amico invisibile che ci conduce e fa da canone.

 

«E la Luce splende nella tenebra» (v.5)!

Proprio come una pianta, che non attecchisce né espande in ambiente distillato.

Dunque ciò che non ha o limita la vita non procede da Dio, il Vivente, promotore di tutto quanto esprime e dispiega esuberanza.

Nostra Vocazione è porsi al fianco della vita integrale, coi suoi lati opposti che fanno Alleanza.

 

Le religioni non accolgono tutti gli ospiti [essi si riveleranno assai più fertili di come immaginiamo] che bussano all’albergo interiore.

Ma non è coi parametri del pensiero consolidato che si può capire o scoprire cosa è Vita completa, perché la vita è sempre espansiva, rigogliosa e nuova, colma di sfaccettature.

Ecco la necessità di un cambio continuo, dall’antico.

Insomma, Principio unico non negoziabile è il bene reale dell’uomo concreto; il resto sfugge alle nostre previsioni.

Rischio classico è che: nel nome di un Dio del passato [dottrina, vezzi, discipline, consuetudini, modi di pensare e fare] non ci si accorga e non si riconosca l’invito, l’energia empatica; la virtù divina che sporge Presente.

 

Per accogliere il sempre nuovo e spumeggiante, bisogna consentire l’accesso a tutti i nostri “ospiti” dell’anima - che ci faranno incontrare noi stessi; persino le nevrosi.

Colui che Vive propone un Esodo profondo, per diventare sempre rinati. L’andare dell’uomo non è sottomesso a un Padrone, neppure celeste.

Non esistiamo “per” Dio, come si crede e predica nelle vetuste devozioni. Esse c’intasano di forme esterne o intimiste; bloccano lo sviluppo della personalità.

Non lasciano attingere alle “nostre” stesse forze.

 

Il Padre chiede di essere accolto, non obbedito. Così vivremo di Lui, e con Lui e come Lui andremo a incontrare i fratelli, riuscendo a farci anche Alimento in favore del prossimo - senza forzature irrequiete che spersonalizzano.

Ecco all’opera i nuovi Santuari di carne e sangue che hanno sostituito, soppiantato, quello di pietra.

Presenze, Luoghi d’incontro fra storia, gioia e vertigine; tra natura umana e divina. Centri d’irradiazione dell’Amore senza condizioni - né riduzioni.

Non più alture precisamente denominate, luoghi inaccessibili e lontani dove andare - pena l’esclusione - bensì immagini e somiglianza di un Dio che giunge a trovarci in Casa, lì dove siamo.

Saranno le stesse marginalità incontrate dentro - ormai senza isterismi - a indicarci infallibilmente le periferie esistenziali altrui, che siamo chiamati a frequentare, rigenerare, sublimare, spostare, far risorgere.

La nuova relazione con Dio non è più fondata sulla purità discrepante e sull’obbedienza, profusa verso precetti rigidi e conformismi indiscutibili.

Piuttosto, nelle vicende personali e nella convivialità delle differenze subentrerà la Somiglianza al Verbo.

 

Confessava il patriarca Atenagora:

«Noi abbiamo bisogno del Cristo, senza di lui non siamo niente. Ma lui ha bisogno di noi per agire nella storia. L’intera storia dell’umanità dalla risurrezione in poi, e persino dalle origini in poi, costituisce una sorta di pan-cristianesimo. L’antica alleanza comporta tutta una serie di alleanze che ancor oggi sussistono l’una a fianco dell’altra. E così l’alleanza di Adamo, o meglio di Noè, sussiste nelle religioni arcaiche, quelle dell’India in special modo, con il loro simbolismo cosmico [...]

Noi sappiamo che la luce irradia da un volto. Ci voleva l’alleanza di Abramo, ed era necessario che si rinnovasse nell’Islam. Quella di Mosè sussiste nel giudaismo [...]

Ma il Cristo ha ricapitolato tutto. Il Logos che si è fatto carne è colui che crea l’universo e vi si manifesta, ed è pure la Parola che guida la storia attraverso i profeti [...]

Per questo io considero il cristianesimo la religione delle religioni, e mi capita di dire che appartengo a tutte le religioni».

 

È il Sogno di ciascuno e tutti, in Cristo già introdotti nel Seno dell’Eterno convincente e amabile, perché Comprensivo [non nel senso del paternalismo alla fine bonariamente elargito, ma dell’Essere].

Come ha sottolineato Papa Francesco:

«Nella vita porta frutto non chi ha tante ricchezze, ma chi crea e mantiene vivi tanti legami, tante relazioni, tante amicizie attraverso le diverse “ricchezze”, cioè i diversi Doni di cui Dio l’ha dotato».

Solo così diverremo - noi tutti nel Figlio - speciali Eventi del Verbo-carne: pesci piccoli, ma con pieno diritto alla sopreminenza del Logos... corifei di recuperi impossibili.

 

Abbiamo in comune lo spostamento. «Parola» Fine sull’univocità.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come inizi le giornate? Accogli i tuoi ospiti (perfino il vuoto)? O li affronti con eccesso di giudizio?

 

 

Luce e Tesoro

 

Scintilla di bellezza e umanesimo, o senza futuro

(Gv 8,12-20)

 

In tutte le religioni il termine Luce viene usato come metafora delle forze del bene.

Sulla bocca di Gesù [presente nei suoi intimi] il medesimo vocabolo sta a indicare un compimento dell'umanità (persino dell’istituzione religiosa) secondo il progetto divino, riconoscibile nella sua stessa Persona.

La distinzione fra Luce e tenebra in Cristo non è in qualche modo paragonabile al binomio dualista più convenzionale - circa il bene e il male. L'attività del Creatore è poliedrica.

Il termine evangelico dunque non designa alcuna staticità di giudizio fisso su quanto viene usualmente valutato come “fiaccola” oppure “ombra”, “corretto” o “sbagliato” e così via.

C’è spazio per nuove percezioni e rielaborazioni. Né siamo chiamati sempre a lottare contro tutto il resto, e le passioni.

Le classiche valutazioni morali, devote o religiose generali vanno superate, perché restano in superficie e non colgono il nocciolo dell’essere e del divenire umanizzante.

Non di rado le cose più preziose sorgono proprio da ciò che disturba il pensiero omologato.

La stessa mente che crede di stare solo nella luce è una mente unilaterale, parziale, malata; legata a un’idea, quindi scadente.

Dio sa che sono le incompletezze a lanciare l’Esodo, possono essere le insicurezze a non farci sbattere contro i modelli… i quali ci fanno perdere ciò che siamo.

Le energie che investono la realtà creata hanno infatti una radice potenziale del tutto positiva.

I tramonti preparano altri percorsi, le ambivalenze danno il “la” a recuperi e crescite impossibili.

 

«Luce» era nel giudaismo il termine che designava il cammino retto dell'umanità secondo Legge, senza eccentricità né declino.

Ma con Gesù non è più la Torah che fa da guida, bensì la vita stessa [Gv 1,4: «La Vita era la Luce degli uomini»] che si caratterizza per la sua difforme complessità.

Così, anche il «mondo» - ossia (in Gv) anzitutto il complesso dell’istituzione (tanto pia e devota) ormai installata e corrotta: essa deve tornare a una Guida più sapiente, che rischiari l’esistenza reale.

 

L’appello che la Scrittura ci rivolge è molto pratico e concreto.

Ma nei contesti dotati di una forte struttura di mediazione fra Dio e l’uomo, la spiritualità spesso inclina al legalismo degli adempimenti consueti.

Gesù non è per le grandi parate, né per soluzioni che ammantino la vita della gente di misticismo, fughe, riti o astinenze.

Tutto questo è stato forse anche il tessuto di buona parte della spiritualità medievale - e quella assidua, rituale e beghina dei tempi andati.

Ma nella Bibbia i servitori di Dio non hanno l’aureola. Sono donne e uomini inseriti normalmente nella società, persone che conoscono i problemi del quotidiano: il lavoro, la famiglia, l’educazione dei figli...

I professionisti del sacro invece cercano di mettere un bel vestitino a cose assai poco nobili - talora a menti astute e cuori perversi. Coltivati dietro il magnificente perbenismo dei paraventi e degli incensi.

Per fare ciò, Gesù capisce di dover cacciare fuori sia mercanti che clienti (Gv 2,13-25) e soppiantare i bagliori fatui del grande Santuario.

 

Durante la festa delle Capanne, nei cortili del Tempio di Gerusalemme si accendevano enormi lampioni.

Uno dei riti principali consisteva nell’allestire una mirabile processione notturna con le faci accese - e nel far rifulgere le grandi lampade (esse sopravanzavano le mura e illuminavano tutta Gerusalemme).

Era il contesto adeguato per proclamare la Persona stessa del Cristo quale autentica Parola sacra e umanizzante, luogo dell’incontro con Dio e fiaccola della vita. Nulla di esterno e retorico-tutto-apparenza.

Ma in quel “mondo santo” segnato dall’intreccio fra epopea, religione, potere e interesse, il Maestro si staglia - con evidenza contraria - proprio nel luogo del Tesoro (baricentro reale del Tempio, v.20) come vero e unico Punto estremo che squarcia le tenebre.

Il Signore invita a fare nostro il suo stesso cammino acutamente missionario: dal sacrario di pietra al cuore di carne, gratuito come quello del Padre.

Appello limpido e Domanda intima che mai si spegne: la sentiamo ardere viva senza consumarsi.

Non c’è da temere: l’Inviato non è solo. Non testimonia se stesso, né le proprie manie o squilibri utopici: la sua Chiamata per Nome si fa Presenza divina - Origine, Cammino, “Ritorno” autentico.

 

Sembriamo dei pellegrini ed esiliati che non sanno stare al “mondo”? Ma ciascuno di noi è (nella Fede) come Lui-e-il-Padre: Maggioranza schiacciante.

Per Fede, nella Luce autentica: Aurora, Sostegno, Amicizia e balzo inequivocabile, invincibile, che squarcia le caligini.

Sprizza dal nucleo, assumendo le stesse ombre e rinascendo; portando i nostri lati oscuri accanto alle radici.

Luogo intimo e tempo (fuori di ogni età) da cui scatta la Chiesa in uscita: eccola dai monili e dalle sagrestie, alle periferie... Scintilla di bellezzza e umanesimo, o senza futuro

E dalla società sacrale dell’esterno, alla Perla nascosta che genuinamente connette il presente col “senza tempo” del Gratis - anche se qua e là mette in crisi tanta teologia dal significato precettistico, avido e furbetto, non plurale né trasparente.

In fondo, tutto semplice: il benessere pieno e l’integrità dell’uomo sono più importanti del “bene” unilaterale della dottrina e dell’istituzione - che la propugna senza neanche crederci.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In quali situazioni mi considero “Testimone”?

Cosa è fiaccola ai miei passi? Chi è la mia Luce Presente?

 

 

Mistica della Coversione-Luce: gli spazi inediti della crescita

 

Attendere e accogliere (il gusto di Dio, nella Rinascita)

(Gv 12,44-50)

 

«Chi disprezza me e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica: la Parola che ho detto, quella lo giudicherà nell’ultimo giorno» (v.48).

«E conosco che il suo Comandamento è Vita dell’Eterno. Le cose dunque che io annuncio, come mi ha dette il Padre, così annuncio» (v.50).

Siamo al termine del Libro dei Segni (Gv 2-12) cui segue il tempo cosiddetto de l’Ora.

Il passo di Vangelo particolare di Gv 12 fa come da inclusione al Prologo, e introduce al dramma finale di Cristo - con tutto il peso dell’incredulità già percepita.

Ma è un’impronta primordiale, anche per noi, generati alla vita dall’animazione nello Spirito del Figlio, per essere inviati all’Annuncio (della somiglianza, non dell’obbedienza).

Come Lui siamo in Dio, e insieme... per le donne e gli uomini di ogni tempo e cultura.

Dunque il «grido» di Gesù (v.44) è un «clamore» privilegiato, di autopresentazione decisiva, nonché d’inaudita rivelazione della stessa Vita dell’Eterno già qui presente (v.50) dentro noi stessi.

Colui che agisce in nome dell’Amore sorgivo, fa trapelare la Novella lieta di risurrezione e liberazione, e l’approvazione definitiva del Padre.

Non siamo più al mondo in funzione di Dio (come nelle religioni) bensì viviamo con Lui e di Lui - per il Messaggio e la Missione: completa umanizzazione, emancipazione, redenzione degli uomini.

Padre e Figlio sono Uno. Gesù riflette Dio, lo avvicina a noi; ce lo svela e comunica, senza divario.

Così per noi «Vedere» Cristo significa credergli, ossia cogliere l’esito glorioso di una vita che sembrava destinata all’insignificanza.

La Luce imprescindibile del Signore non solo dirada le tenebre, ma le scopre, le incontra e trasforma dal di dentro. E l’incredulità diventa Fede - come un Grembo di gestazioni, doni di nuova Creazione.

La nostra sorte e qualità di vita credente si decide in modo serrato nel confronto tra due moti: vita pia, o Visione-Fede. Quest’ultima in grado di sprigionare dilatazioni e imperativi ministeriali.

Tale dilemma fa da discrimine: tra vita da salvati fin d’ora, e dubbio sul destino futuro. Interrogativo tipico della spiritualità vuota - o di visioni romantiche che dopo i primi entusiasmi portano a brancolare nel buio, nell’insoddisfazione.

L’adesione originale a Cristo è in stato di Compito, germinato in seno - non progettato a tavolino né preparato in disparte senza i volti, le vie, e con la sola storia nazionale o locale - ovvero i manierismi.

In Cristo non ci teniamo avidamente aggrappati a noi stessi, all’ambiente conforme, ai saperi antichi o alla moda più rassicuranti. Siamo disposti a un itinerario di continui inizi, come sulla scia d’immagini-guida (cangianti, ma che sanno dove andare).

Incontreremo l’Azione di Dio che salva... proprio nei territori inattesi, i quali trasbordano fuori del santuario delle abitudini. E nei modi che sorvolano i nostri vecchi propositi - pur in se stessi confessanti, plausibili, o addirittura nobili.

La Legge zeppa di verdetti cesellati nei minimi dettagli è superata (v.47). Cristo non è venuto per accusare d’inadeguatezza e mettere in castigo: al contrario, per farci diventare inventori di strade - e inaudite Fiaccole.

Criterio di “giudizio” è la Parola e la sua Persona, trasparenza del Padre - coincidenza assoluta, genuina e libera. Egli come l’Eterno viene per la Vita eccedente; e nuova Luce.

Non considerarlo come sigillo d’eccezione, passo e ritmo da reinterpretare, e non dargli spazio come tratto intrinseco, motivo e motore, significa disperdere invano le migliori energie - che ci fanno sì vagare, ma per guidare a pienezza.

 

Il mondo non è tutto qui: c’è un Chiarore (v.46) che fa sentire a casa e può diradare ogni disturbo, chiusura e tenebra.

Questa la grande “conversione”, la mentalità da rinnovare, godendo appieno della Chiamata.

La vita in Cristo non è - come in varie forme religiose arcaiche - ristretta contro se stessi e il mondo.

Essa è far valere l’Azione del Padre (vv.43-44.49-50) il quale ha disposto che persino le eccentricità, le fatiche, i disagi possano veicolarci l’idea, il gusto, d’una diversa realizzazione; aprire spazi di crescita inespressa.

L’Amico interiore conduce misteriosamente a sgretolare l’io orgoglioso che si precipita ad aggiustare secondo opinione convenzionale e altrui - affinché ci lasciamo irraggiare.

È tale Sé eminente e intenso d’unicità che farà cogliere la strabiliante (impossibile) fecondità della vittoria nella sconfitta, del trionfo attraverso la perdita, della vita fra segni di morte.

Smagrendo l’Appello del buio rischiamo di allontanarne la nuova Luce, un’ulteriore genesi di noi stessi, una evoluzione differente dalle solite attese - che davvero ci conforterebbe e realizzerebbe con efficacia.

Smarrendo la percezione delle ferite rischiamo di annientare il processo di guarigione e rinascita dell’anima.

Questa la nuova decisiva Conversione: il vero svuotarsi dei propri piani, idee e gusti, per ispirarsi all’impensabile Opera divina in noi - che non vuole indebolire l’io ma rafforzarlo con altre capacità.

La pienezza di Luce straordinaria è in Cristo un’abnegazione semplice (ma a rovescio): concedere spazio e tempo a quella Totalità che non prende il sopravvento sulla Persona.

Come in Gesù, poi consentirà di donare autenticità e assai più di minime luci vacillanti, prodotti d’un piccolo cervello (che non evolve).

Spicciarsi a lottare coi sintomi finisce per cronicizzarli - con la droga dei rimedi antichi o immediatamente a portata di mano.

Ci farebbe diventare esterni e spegnere la Genesi interiore, che tintinna con l’Opera che Viene.

In Cristo conosciamo il segreto della conversione accogliente: il regno che non vediamo può prendersi cura di noi e del mondo (vv.47-48).

È questo rimando al Mistero (che chiama) quel Seme congenito che realizza l’evoluzione del cosmo e di ciascuno, perché possiede il Senso dell’autenticità sorgiva - ed essa farà il suo Frutto.

 

Nella Fede «favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla» (Dante, Paradiso c.XXIV).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale luce prevedevi ti curasse e viceversa ha cronicizzato la tua situazione? Quale stampella esterna ti ha assuefatto e reso zoppo?

Iniziano proprio oggi i giorni dell’Avvento che ci preparano immediatamente al Natale del Signore: siamo nella Novena di Natale che in tante comunità cristiane viene celebrata con liturgie ricche di testi biblici, tutti orientati ad alimentare l’attesa per la nascita del Salvatore. La Chiesa intera in effetti concentra il suo sguardo di fede verso questa festa ormai vicina predisponendosi, come ogni anno, ad unirsi al cantico gioioso degli angeli, che nel cuore della notte annunzieranno ai pastori l’evento straordinario della nascita del Redentore, invitandoli a recarsi nella grotta di Betlemme. Là giace l’Emmanuele, il Creatore fattosi creatura, avvolto in fasce e adagiato in una povera mangiatoia (cfr Lc 2,13-14).

Per il clima che lo contraddistingue, il Natale è una festa universale. Anche chi non si professa credente, infatti, può percepire in questa annuale ricorrenza cristiana qualcosa di straordinario e di trascendente, qualcosa di intimo che parla al cuore. E’ la festa che canta il dono della vita. La nascita di un bambino dovrebbe essere sempre un evento che reca gioia; l’abbraccio di un neonato suscita normalmente sentimenti di attenzione e di premura, di commozione e di tenerezza. Il Natale è l’incontro con un neonato che vagisce in una misera grotta. Contemplandolo nel presepe come non pensare ai tanti bambini che ancora oggi vengono alla luce in una grande povertà, in molte regioni del mondo? Come non pensare ai neonati non accolti e rifiutati, a quelli che non riescono a sopravvivere per carenza di cure e di attenzioni? Come non pensare anche alle famiglie che vorrebbero la gioia di un figlio e non vedono colmata questa loro attesa? Sotto la spinta di un consumismo edonista, purtroppo, il Natale rischia di perdere il suo significato spirituale per ridursi a mera occasione commerciale di acquisti e scambi di doni! In verità, però, le difficoltà, le incertezze e la stessa crisi economica che in questi mesi stanno vivendo tantissime famiglie, e che tocca l’intera l’umanità, possono essere uno stimolo a riscoprire il calore della semplicità, dell’amicizia e della solidarietà, valori tipici del Natale. Spogliato delle incrostazioni consumistiche e materialistiche, il Natale può diventare così un’occasione per accogliere, come regalo personale, il messaggio di speranza che promana dal mistero della nascita di Cristo.

Tutto questo però non basta per cogliere nella sua pienezza il valore della festa alla quale ci stiamo preparando. Noi sappiamo che essa celebra l’avvenimento centrale della storia: l’Incarnazione del Verbo divino per la redenzione dell’umanità. San Leone Magno, in una delle sue numerose omelie natalizie, così esclama: «Esultiamo nel Signore, o miei cari, ed apriamo il nostro cuore alla gioia più pura. Perché è spuntato il giorno che per noi significa la nuova redenzione, l’antica preparazione, la felicità eterna. Si rinnova infatti per noi nel ricorrente ciclo annuale l’alto mistero della nostra salvezza, che, promesso, all’inizio e accordato alla fine dei tempi, è destinato a durare senza fine» (Homilia XXII). Su questa verità fondamentale ritorna più volte san Paolo nelle sue lettere. Ai Galati, ad esempio, scrive: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge…perché ricevessimo l’adozione a figli» (4,4). Nella Lettera ai Romani evidenzia le logiche ed esigenti conseguenze di questo evento salvifico: «Se siamo figli (di Dio), siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (8,17). Ma è soprattutto san Giovanni, nel Prologo del quarto Vangelo, a meditare profondamente sul mistero dell’Incarnazione. Ed è per questo che il Prologo fa parte della liturgia del Natale fin dai tempi più antichi: in esso si trova infatti l’espressione più autentica e la sintesi più profonda di questa festa e del fondamento della sua gioia. San Giovanni scrive: «Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis / E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

A Natale dunque non ci limitiamo a commemorare la nascita di un grande personaggio; non celebriamo semplicemente ed in astratto il mistero della nascita dell’uomo o in generale il mistero della vita; tanto meno festeggiamo solo l’inizio della nuova stagione. A Natale ricordiamo qualcosa di assai concreto ed importante per gli uomini, qualcosa di essenziale per la fede cristiana, una verità che san Giovanni riassume in queste poche parole: “il Verbo si è fatto carne”. Si tratta di un evento storico che l’evangelista Luca si preoccupa di situare in un contesto ben determinato: nei giorni in cui fu emanato il decreto per il primo censimento di Cesare Augusto, quando Quirino era già governatore della Siria (cfr Lc 2,1-7). E’ dunque in una notte storicamente datata che si verificò l’evento di salvezza che Israele attendeva da secoli. Nel buio della notte di Betlemme si accese realmente una grande luce: il Creatore dell’universo si è incarnato unendosi indissolubilmente alla natura umana, sì da essere realmente “Dio da Dio, luce da luce” e al tempo stesso uomo, vero uomo. Quel che Giovanni, chiama in greco “ho logos” – tradotto in latino “Verbum” e in italiano “il Verbo” - significa anche “il Senso”. Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il “Senso eterno” del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo (cfr 1Gv 1,1). Il “Senso” che si è fatto carne non è semplicemente un’idea generale insita nel mondo; è una “Parola” rivolta a noi. Il Logos ci conosce, ci chiama, ci guida. Non è una legge universale, in seno alla quale noi svolgiamo poi qualche ruolo, ma è una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme.

A molti uomini, ed in qualche modo a noi tutti, questo sembra troppo bello per essere vero. In effetti, qui ci viene ribadito: sì, esiste un senso, ed il senso non è una protesta impotente contro l’assurdo. Il Senso ha potere: è Dio. Un Dio buono, che non va confuso con un qualche essere eccelso e lontano, a cui non sarebbe mai dato di arrivare, ma un Dio che si è fatto nostro prossimo e ci è molto vicino, che ha tempo per ciascuno di noi e che è venuto per rimanere con noi. E’ allora spontaneo domandarsi: “E’ mai possibile una cosa del genere? E’ cosa degna di Dio farsi bambino?”. Per cercare di aprire il cuore a questa verità che illumina l’intera esistenza umana, occorre piegare la mente e riconoscere la limitatezza della nostra intelligenza. Nella grotta di Betlemme, Dio si mostra a noi umile “infante” per vincere la nostra superbia. Forse ci saremmo arresi più facilmente di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza; ma Lui non vuole la nostra resa; fa piuttosto appello al nostro cuore e alla nostra libera decisione di accettare il suo amore. Si è fatto piccolo per liberarci da quell’umana pretesa di grandezza che scaturisce dalla superbia; si è liberamente incarnato per rendere noi veramente liberi, liberi di amarlo.

Cari fratelli e sorelle, il Natale è un’opportunità privilegiata per meditare sul senso e sul valore della nostra esistenza. L’approssimarsi di questa solennità ci aiuta a riflettere, da una parte, sulla drammaticità della storia nella quale gli uomini, feriti dal peccato, sono perennemente alla ricerca della felicità e di un senso appagante del vivere e del morire; dall’altra, ci esorta a meditare sulla bontà misericordiosa di Dio, che è venuto incontro all’uomo per comunicargli direttamente la Verità che salva, e per renderlo partecipe della sua amicizia e della sua vita. Prepariamoci, pertanto, al Natale con umiltà e semplicità, disponendoci a ricevere in dono la luce, la gioia e la pace, che da questo mistero si irradiano. Accogliamo il Natale di Cristo come un evento capace di rinnovare oggi la nostra esistenza. L’incontro con il Bambino Gesù ci renda persone che non pensano soltanto a se stesse, ma si aprono alle attese e alle necessità dei fratelli. In questa maniera diventeremo anche noi testimoni della luce che il Natale irradia sull’umanità del terzo millennio. Chiediamo a Maria Santissima, tabernacolo del Verbo incarnato, e a san Giuseppe, silenzioso testimone degli eventi della salvezza, di comunicarci i sentimenti che essi nutrivano mentre attendevano la nascita di Gesù, in modo che possiamo prepararci a celebrare santamente il prossimo Natale, nel gaudio della fede e animati dall’impegno di una sincera conversione.

Buon Natale a tutti!

[Papa Benedetto, Udienza Generale 17 dicembre 2008]

5. La sintesi più piena di questa verità è contenuta nel Prologo del quarto Vangelo. Si può dire che in tale testo la verità sulla preesistenza divina del Figlio dell’uomo acquista un’ulteriore esplicitazione, quella in certo senso definitiva: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui . . . In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1, 1-5).

In queste frasi l’evangelista conferma ciò che Gesù diceva di se stesso, quando dichiarava: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16, 28), oppure quando pregava perché il Padre lo glorificasse con quella gloria che egli aveva preso di lui prima che il mondo fosse (cf. Gv 17, 5). Nello stesso tempo la preesistenza del Figlio nel Padre si collega strettamente con la rivelazione del mistero trinitario di Dio: il Figlio è l’eterno Verbo, è “Dio da Dio”, della stessa sostanza del Padre (come si esprimerà il Concilio di Nicea nel Simbolo della fede). La formula conciliare riflette precisamente il Prologo di Giovanni: “Il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Affermare la preesistenza di Cristo nel Padre equivale a riconoscerne la Divinità. Alla sua sostanza, così come alla sostanza del Padre, appartiene l’eternità. È ciò che viene indicato col riferimento alla preesistenza eterna nel Padre.

6. Il Prologo di Giovanni, mediante la rivelazione della verità sul Verbo, ivi contenuta, costituisce come il definitivo completamento di ciò che già l’Antico Testamento aveva detto della Sapienza. Si vedano, ad esempio, le seguenti affermazioni: “Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò; per tutta l’eternità non verrò meno” (Sir 24, 9), “Il mio creatore mi fece piantare la tenda e mi disse: fissa la tenda in Giacobbe” (Sir 24, 8). La Sapienza, di cui parla l’Antico Testamento, è una creatura e nello stesso tempo ha attributi che la mettono al di sopra dell’intero creato: “Sebbene unica, essa può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova” (Sap 7, 27).

La verità sul Verbo, contenuta nel Prologo di Giovanni, riconferma in un certo senso la rivelazione circa la sapienza presente nell’Antico Testamento, e in pari tempo la trascende in modo definitivo. Il Verbo non soltanto “è presso Dio”, ma “è Dio”. Venendo in questo mondo nella persona di Gesù Cristo, il Verbo “venne fra la sua gente”, poiché “il mondo fu fatto per mezzo di lui” (cf. Gv 1, 10-11). Venne tra “i suoi” perché è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (cf. Gv 1, 9). L’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo consiste in questa “venuta” nel mondo del Verbo, che è l’eterno Figlio.

7. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14). Diciamolo ancora una volta: il Prologo di Giovanni è l’eco eterna delle parole con cui Gesù dice: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16, 28), e di quelle con cui prega che il Padre lo glorifichi con quella gloria che Egli aveva presso di lui prima che il mondo fosse (cf. Gv 17, 5). L’Evangelista ha davanti agli occhi la rivelazione veterotestamentaria circa la Sapienza, e nello stesso tempo l’intero avvenimento pasquale: la dipartita mediante la croce e la risurrezione, in cui la verità su Cristo, Figlio dell’uomo e vero Dio, si è resa completamente chiara a quanti sono stati i suoi testimoni oculari.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 settembre 1987]

La Parola di Dio non ci offre un episodio della vita di Gesù, ma ci parla di Lui prima che nascesse. Ci porta indietro, per svelarci qualcosa su Gesù prima che venisse tra noi. Lo fa soprattutto nel prologo del Vangelo di Giovanni, che inizia così: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1). In principio: sono le prime parole della Bibbia, le stesse con cui comincia il racconto della creazione: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Oggi il Vangelo dice che Colui che abbiamo contemplato nel suo Natale, come bambino, Gesù, esisteva prima: prima dell’inizio delle cose, prima dell’universo, prima di tutto. Egli è prima dello spazio e del tempo. «In Lui era la vita» (Gv 1,4) prima che la vita apparisse.

San Giovanni lo chiama Verbo, cioè Parola. Che cosa vuole dirci con ciò? La parola serve per comunicare: non si parla da soli, si parla a qualcuno. Sempre si parla a qualcuno. Quando noi per la strada vediamo gente che parla da sola, diciamo: “Questa persona, qualcosa le succede…”. No, noi parliamo sempre a qualcuno. Ora, il fatto che Gesù sia fin dal principio la Parola significa che dall’inizio Dio vuole comunicare con noi, vuole parlarci. Il Figlio unigenito del Padre (cfr v. 14) vuole dirci la bellezza di essere figli di Dio; è «la luce vera» (v. 9) e vuole allontanarci dalle tenebre del male; è «la vita» (v. 4), che conosce le nostre vite e vuole dirci che da sempre le ama. Ci ama tutti. Ecco lo stupendo messaggio di oggi: Gesù è la Parola, la Parola eterna di Dio, che da sempre pensa a noi e desidera comunicare con noi.

E per farlo, è andato oltre le parole. Infatti, al cuore del Vangelo di oggi ci viene detto che la Parola «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (v. 14). Si fece carne: perché san Giovanni usa questa espressione, “carne”? Non poteva dire, in modo più elegante, che si fece uomo? No, utilizza la parola carne perché essa indica la nostra condizione umana in tutta la sua debolezza, in tutta la sua fragilità. Ci dice che Dio si è fatto fragilità per toccare da vicino le nostre fragilità. Dunque, dal momento che il Signore si è fatto carne, niente della nostra vita gli è estraneo. Non c’è nulla che Egli disdegni, tutto possiamo condividere con Lui, tutto. Caro fratello, cara sorella, Dio si è fatto carne per dirci, per dirti che ti ama proprio lì, che ci ama proprio lì, nelle nostre fragilità, nelle tue fragilità; proprio lì, dove noi ci vergogniamo di più, dove tu ti vergogni di più. È audace questo, è audace la decisione di Dio: si fece carne proprio lì dove noi tante volte ci vergogniamo; entra nella nostra vergogna, per farsi fratello nostro, per condividere la strada della vita.

Si fece carne e non è tornato indietro. Non ha preso la nostra umanità come un vestito, che si mette e si toglie. No, non si è più staccato dalla nostra carne. E non se ne separerà mai: ora e per sempre Egli è in cielo con il suo corpo di carne umana. Si è unito per sempre alla nostra umanità, potremmo dire che l’ha “sposata”. A me piace pensare che quando il Signore prega il Padre per noi, non soltanto parla: gli fa vedere le ferite della carne, gli fa vedere le piaghe che ha sofferto per noi. Questo è Gesù: con la sua carne è l’intercessore, ha voluto portare anche i segni della sofferenza. Gesù, con la sua carne è davanti al Padre. Il Vangelo dice infatti che venne ad abitare in mezzo a noi. Non è venuto a farci una visita e poi se n’è andato, è venuto ad abitare con noi, a stare con noi. Che cosa desidera allora da noi? Desidera una grande intimità. Vuole che noi condividiamo con Lui gioie e dolori, desideri e paure, speranze e tristezze, persone e situazioni. Facciamolo, con fiducia: apriamogli il cuore, raccontiamogli tutto. Fermiamoci in silenzio davanti al presepe a gustare la tenerezza di Dio fattosi vicino, fattosi carne. E senza timore invitiamolo da noi, a casa nostra, nella nostra famiglia. E anche – ognuno lo sa bene – invitiamolo nelle nostre fragilità. Invitiamolo, che Lui veda le nostre piaghe. Verrà e la vita cambierà.

La Santa Madre di Dio, nella quale il Verbo si fece carne, ci aiuti ad accogliere Gesù, che bussa alla porta del cuore per abitare con noi.

[Papa Francesco, Angelus 3 gennaio 2021]

Chiesa dei piccoli: Sfida e corso riconosciuto

Lc 2,36-40 (22-40)

 

Il passo del Vangelo di Lc narra la risposta sorprendente del Padre alle previsioni d’adempimento circa le profezie messianiche.

Ci si attendeva una manifestazione eloquente e perentoria della potenza del Dio d’Israele e la sottomissione di coloro che non adempivano la Legge.

Tutti immaginavano di assistere all’ingresso trionfale d’un condottiero - circondato da capi militari o schiere angeliche (Mal 3,1) che avrebbe assoggettato i pagani portando nella città santa i loro beni, garantito al popolo eletto molti schiavi, imposto l’osservanza.

Gesù? Eccolo sì nel Tempio, ma indifeso e accompagnato da gente insignificante.

Nessuno si accorge di Lui, sebbene a tutte le ore il luogo sacro brulicasse di visitatori.

Allora sorgono qui Simeone e Anna (vv.25.36-38), uomini e donne corifei del Popolo autentico più sensibile.

Essi colgono un Chiarore che produce conflitto con l’ufficialità abitudinaria, uno Splendore profondo destinato a ogni tempo.

E la «spada» (v.35) che nella Madre Israele realizzerà lacerazioni: fra qualcuno che si apre alla nuova fiaccola, e altri che viceversa si arroccano.

 

Lc ha presente situazioni di comunità, ove i credenti in Cristo vengono scartati da amici e famiglie di estrazione culturale difforme (cf. Lc 12,51-53).

Ma l’atteso e vero Messia dev’essere consegnato al mondo - sebbene i meglio disposti a riconoscerlo siano i componenti della tribù d’Israele più piccola [Asher, nella figura di Anna: vv.36-38].

Sono gli stessi profeti che nella vita hanno vibrato per un solo grande Amore (vv.36-37), poi hanno vissuto l’assenza dell’Amato - fino ad averlo riconosciuto in Cristo. Trasalendo di sorpresa - cogliendo corrispondenze personalissime dentro sé, in Spirito; gioendo, lodando il Dono di Dio (v.38).

 

Il brano si conclude col ritorno a Nazaret (vv.39-40) e l’annotazione riguardante la crescita di Gesù stesso «in sapienza, statura e grazia» [testo greco].

 

Anche noi non siamo al mondo per rimanere avvinghiati a ombre e blocchi, stati d’animo di sempre, soliti pensieri preponderanti, medesimo modo di fare (anche le piccole cose).

Meccanismi e paragoni che chiudono le nostre giornate, la vita intera e lo spazio emotivo delle passioni - tarpando le ali a testimonianze che vogliono sovrastare il ‘corso riconosciuto’.

Spazziamo via gli strati di polvere che ancora ci coprono di conformismi e maniere comprovate, che seguono aspettative di altri, del contorno, di condizioni intrusive esterne!

Proprio questa è la grande Sfida che attiva la rinascita giovane del Sogno di Dio.

Essa può lanciare l’anima nel passaggio dal senso religioso comune a una nuova Fiaccola: la Fede personale, pro-attiva, liberante.

Relazione d’amore che non ci spegne.

 

 

[30 dicembre, sesto giorno fra l’Ottava di Natale]

Pagina 1 di 38
Raw life is full of powers: «Be grateful for everything that comes, because everything was sent as a guide to the afterlife» [Gialal al-Din Rumi]
La vita grezza è colma di potenze: «Sii grato per tutto quel che arriva, perché ogni cosa è stata mandata come guida dell’aldilà» [Gialal al-Din Rumi]
It is not enough to be a pious and devoted person to become aware of the presence of Christ - to see God himself, brothers and things with the eyes of the Spirit. An uncomfortable vision, which produces conflict with those who do not want to know
Non basta essere persone pie e devote per rendersi conto della presenza di Cristo - per vedere Dio stesso, i fratelli e le cose con gli occhi dello Spirito. Visione scomoda, che produce conflitto con chi non ne vuol sapere
An eloquent and peremptory manifestation of the power of the God of Israel and the submission of those who did not fulfill the Law was expected. Everyone imagined witnessing the triumphal entry of a great ruler, surrounded by military leaders or angelic ranks...
Ci si attendeva una manifestazione eloquente e perentoria della potenza del Dio d’Israele e la sottomissione di coloro che non adempivano la Legge. Tutti immaginavano di assistere all’ingresso trionfale d’un condottiero, circondato da capi militari o schiere angeliche…
May the Holy Family be a model for our families, so that parents and children may support each other mutually in adherence to the Gospel, the basis of the holiness of the family (Pope Francis)
La Santa Famiglia possa essere modello delle nostre famiglie, affinché genitori e figli si sostengano a vicenda nell’adesione al Vangelo, fondamento della santità della famiglia (Papa Francesco)
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athinagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict)
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.