Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XXX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [26 Ottobre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ancora un insegnamento sulla preghiera da Gesù nel vangelo e che insegnamento!
Prima Lettura dal libro del Siracide (35, 15b-17.20-22a)
“Dio non giudica dall’apparenza” (Sir 35) Il libro del Siracide, scritto da Ben Sira verso il 180 a.C. a Gerusalemme, nasce in un tempo di pace e di apertura culturale sotto il dominio greco. Tuttavia, questa apparente serenità nasconde un rischio: il contatto tra cultura ebraica e greca minaccia la purezza della fede, e Ben Sira intende trasmettere l’eredità religiosa d’Israele nella sua integrità. La fede ebraica, infatti, non è una teoria, ma un’esperienza di alleanza con il Dio vivente, scoperto progressivamente attraverso le sue opere. Dio non è un’idea umana, ma una rivelazione sorprendente, perché “Dio è Dio e non un uomo” (Os 11,9). Il testo centrale afferma che Dio non giudica secondo le apparenze: mentre gli uomini guardano l’esterno, Dio guarda il cuore. Egli ascolta la preghiera del povero, dell’oppresso, dell’orfano e della vedova, e – in un’immagine meravigliosa – “le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio”, segno della sua misericordia che vibra di compassione. Ben Sira insegna che la vera preghiera nasce dalla precarietà: quando l’uomo si scopre povero e senza appoggi, il suo cuore si apre davvero a Dio. La precarietà e la preghiera sono della stessa famiglia: solo chi riconosce la propria debolezza prega con sincerità. Infine, il saggio ammonisce che non sono i sacrifici esteriori a piacere a Dio, ma un cuore puro e disposto al bene: Ciò che piace al Signore è anzitutto che ci si tenga lontano dal male. Il Signore è un giudice giusto, che non fa preferenza di persone, ma guarda alla verità del cuore. In sintesi, Ben Sira ci ricorda che Dio non giudica dall’apparenza ma dal cuore, che la preghiera autentica nasce dalla povertà, e che la misericordia divina si manifesta nella sua vicinanza compassionevole ai piccoli e agli umili.
Salmo Responsoriale (33/34, 2-3, 16.18, 19.23)
Ecco un altro salmo alfabetico, cioè ogni versetto segue l’ordine delle lettere dell’alfabeto ebraico. Questo indica che la vera sapienza consiste nel confidare in Dio in tutto, dalla A alla Z. Il testo fa eco alla prima lettura del Siracide, che incoraggiava gli ebrei del II secolo a mantenere la purezza della fede di fronte alle seduzioni della cultura greca.Il tema centrale è la scoperta di un Dio vicino all’uomo, soprattutto a chi soffre: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato.” È una delle rivelazioni più grandi della Bibbia: Dio non è un essere distante o geloso, ma un Padre che ama e partecipa al dolore dell’uomo. Ben Sira diceva poeticamente che “le nostre lacrime scorrono sulle guance di Dio”: immagine della sua misericordia tenera e compassionevole. Questa rivelazione si radica nel cammino di Israele. Al tempo di Mosè, i popoli pagani immaginavano dèi rivali e invidiosi. La Genesi corregge questa visione, mostrando che il sospetto verso Dio è un veleno, simbolizzato dal serpente. Israele, attraverso i profeti, ha compreso progressivamente che Dio è un Padre che accompagna, libera e consola, il “Dio-con-noi” (Emmanuele). Il roveto ardente (Es 3) è il fondamento di questa fede: “Ho visto la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze” Qui Dio si rivela come Colui che vede, ascolta e agisce. Egli non resta spettatore, ma suscita in Mosè e nei suoi figli la forza di liberare, trasformando la sofferenza in speranza e impegno. Il salmo riflette questa esperienza: il popolo, dopo aver conosciuto la prova, proclama la lode: “Benedirò il Signore in ogni tempo” perché ha fatto esperienza di un Dio che ascolta, libera, guarda, salva e redime. Il nome “YHWH” il “Signore” indica proprio la presenza costante di Dio accanto al suo popolo. Infine, il testo insegna che nella prova non solo è lecito, ma necessario gridare a Dio: Egli è attento al nostro grido e risponde, non sempre eliminando la sofferenza, ma rendendosi presente, risvegliando la fiducia, e donando la forza per affrontare il male. In sintesi, il salmo e la riflessione che lo accompagna ci consegnano tre certezze: Dio è vicino a chi soffre e ascolta il grido dei poveri.La sua presenza non toglie il dolore, ma lo illumina e lo trasforma in speranza. La vera fede nasce dalla fiducia in questo Dio che vede, ascolta, libera e accompagna l’uomo in ogni tempo.
Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (4, 6-8.16-18)
“Il buon combattimento” (2Tm 4,6-18). Il testo presenta l’ultimo testamento spirituale di san Paolo, scritto mentre si trova in prigione a Roma, consapevole che presto sarà giustiziato. Le lettere a Timoteo, anche se forse composte o completate da un discepolo, contengono qui le sue parole autentiche di addio, intrise di fede e di serenità. Paolo descrive la sua imminente morte con il verbo greco analuein, che significa “sciogliere le funi”, “levare l’ancora”, “smontare la tenda”: immagini che evocano la partenza per un nuovo viaggio, quello verso l’eternità. Guardandosi indietro, l’apostolo fa il bilancio della sua vita usando la metafora sportiva della corsa e del combattimento: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.” Come un atleta che non si arrende, Paolo è arrivato al traguardo e sa che riceverà la “corona di giustizia”, la ricompensa promessa a tutti i fedeli. Non si vanta di sé, perché questa corona non è un privilegio personale, ma un dono offerto a tutti coloro che hanno desiderato con amore la manifestazione di Cristo. Il “giudice giusto”, Dio, non guarda le apparenze ma il cuore — come insegnava il Siracide — e donerà la gloria non solo a Paolo, ma a tutti coloro che vivono nella speranza dell’avvento del Signore. La vita dell’apostolo è stata una corsa costante verso la manifestazione gloriosa di Cristo, orizzonte della sua fede e del suo servizio. Egli riconosce che la forza per perseverare non viene da lui, ma da Dio stesso: “Il Signore mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del vangelo e tutte le genti l’ascoltassero”. Questa forza divina ha sostenuto la sua missione, rendendolo capace di annunciare Cristo fino alla fine. Paolo spiega che la vita cristiana non è una competizione, ma una corsa condivisa, in cui ciascuno è chiamato a correre al proprio ritmo, con lo stesso desiderio ardente della venuta di Cristo. Nella lettera a Tito aveva definito i cristiani come coloro che “attendono la beata speranza e la manifestazione del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” — parole che la liturgia ripete ogni giorno nella Messa. Nel momento della prova, Paolo confessa anche la solitudine dell’apostolo: La prima volta che ho presentato la mia difesa, nessuno mi ha sostenuto; tutti mi hanno abbandonato. Che ciò non sia loro imputato(v.16). Come Gesù sulla croce e Stefano al momento della lapidazione, egli perdona e trasforma l’abbandono in un’esperienza di intima comunione con il Signore, che diventa la sua unica forza e consolazione. Paolo è il povero di cui parla Ben Sira, quello che Dio ascolta e consola, colui le cui lacrime scorrono sulle guance di Dio. Le sue parole finali rivelano la speranza che supera la morte: “Così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, salverà nel suo regno” (v 17-18). Non parla della liberazione fisica – sa che la morte è imminente – ma della liberazione spirituale, dal pericolo più grande: perdere la fede, smettere di combattere. Il Signore lo ha custodito nella fedeltà e gli ha donato la perseveranza fino alla fine. Per Paolo, la morte non è una sconfitta, ma una traversata verso la gloria. È la nascita alla vera vita, l’ingresso nel Regno dove canterà per sempre: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”
In sintesi: Il testo ci presenta Paolo come modello del credente fedele fino alla fine. Vive la morte come partenza verso Dio, non come fine. Guarda alla vita come a una corsa sostenuta dalla grazia. Riconosce che la forza e la perseveranza vengono dal Signore. Comprende che la ricompensa è promessa a tutti coloro che desiderano l’avvento di Cristo. Perdona chi lo abbandona e trova la presenza di Dio nella solitudine e nella debolezza. Vede la morte come passaggio nella gloria del Regno. La “buona battaglia” di Paolo diventa così la lotta di ogni cristiano: rimanere fedele, nella prova, fino a correre l’ultimo tratto con lo sguardo fisso su Cristo, fonte di forza, di pace e di speranza.
*Dal Vangelo secondo Luca (18, 9-14)
Una piccola osservazione preliminare prima di entrare nel testo: Luca ci dice chiaramente che si tratta di una parabola… dunque non dobbiamo immaginare che tutti i farisei o tutti i pubblicani del tempo di Gesù fossero come quelli qui descritti. Nessun fariseo, nessun pubblicano corrispondeva perfettamente a questo ritratto: Gesù in realtà ci presenta due atteggiamenti interiori, molto tipici e semplificati, per far risaltare la morale della storia. Egli vuole farci riflettere sulla nostra stessa attitudine, perché probabilmente ci riconosceremo ora nell’uno, ora nell’altro, secondo i giorni. Passiamo alla parabola: la scorsa domenica Luca ci aveva già proposto un insegnamento sulla preghiera; la parabola della vedova e del giudice ingiusto ci insegnava a pregare senza scoraggiarci mai. Oggi, invece, è un pubblicano a essere proposto come esempio. Quale rapporto – si dirà – può esserci tra una vedova povera e un pubblicano ricco? Non è certo il conto in banca il punto in questione, ma le disposizioni del cuore. La vedova è povera e costretta ad umiliarsi davanti a un giudice che la ignora; il pubblicano, forse benestante, porta però sulle spalle il peso della cattiva reputazione, che è un’altra forma di povertà. I pubblicani erano malvisti, e spesso non senza motivo: vivevano infatti in un periodo di occupazione romana, e lavoravano al servizio dell’occupante. Erano considerati dei “collaboratori”. Inoltre, si occupavano di un tema sensibile in ogni epoca: le tasse. Roma fissava la somma dovuta, e i pubblicani la anticipavano, ricevendo poi pieni poteri per recuperarla dai concittadini… spesso con largo margine di guadagno. Quando Zaccheo prometterà a Gesù di restituire quattro volte tanto a chi aveva frodato, il sospetto è confermato. Perciò, quando il pubblicano nella parabola non osa alzare gli occhi al cielo e si batte il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, forse dice soltanto la pura verità. Essere veri davanti a Dio, riconoscere la propria fragilità: ecco la vera preghiera. È questa sincerità che lo rende “giusto” al ritorno a casa, dice Gesù. I farisei, al contrario, godevano di ottima reputazione: la loro fedeltà scrupolosa alla Legge, il digiuno due volte a settimana (più di quanto la Legge richiedesse!), le elemosine regolari, tutto esprimeva il loro desiderio di piacere a Dio. E tutto ciò che il fariseo dice nella sua preghiera è vero: non inventa nulla. Ma, in realtà, non prega. Si contempla. Si guarda con compiacenza: non ha bisogno di nulla, non chiede nulla. Fa il bilancio dei suoi meriti — e ne ha molti! — ma Dio non ragiona in termini di merito: il suo amore è gratuito, e tutto ciò che chiede è che ci fidiamo di Lui. Immaginiamo un giornalista all’uscita del Tempio che intervista i due uomini: Signor pubblicano, cosa si aspettava da Dio entrando nel Tempio? Sì, mi aspettavo qualcosa. E l’ha ricevuto? Sì, e anche di più. E lei, signor fariseo? No, non ho ricevuto nulla… Un attimo di silenzio, poi aggiunge: Ma non mi aspettavo nulla, del resto. La frase conclusiva della parabola riassume tutto: “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato.” Gesù non vuole presentare Dio come un contabile morale, che distribuisce premi e castighi. Egli constata una verità profonda: chi si esalta, cioè chi si crede più grande di ciò che è, come il fariseo, chiude il cuore e guarda gli altri dall’alto in basso. Ma chi si crede superiore perde la ricchezza degli altri e si isola da Dio, che non forza mai la porta del cuore. Si resta così com’eravamo, con la nostra “giustizia” umana, così diversa da quella divina. Al contrario, chi si umilia, chi si riconosce piccolo e povero, vede negli altri una superiorità, e può attingere alla loro ricchezza. Come dice san Paolo: “Considerate gli altri superiori a voi stessi.” E ciò è vero: ogni persona che incontriamo ha qualcosa che noi non abbiamo. Questo sguardo apre il cuore e permette a Dio di riempirci del suo dono. Non si tratta di complesso d’inferiorità, ma di verità del cuore. È proprio quando riconosciamo di non essere “brillanti” che può cominciare la grande avventura con Dio. In fondo, questa parabola è una magnifica illustrazione della prima beatitudine: “Beati i poveri di cuore, perché di essi è il Regno dei cieli.”
+ Giovanni D’Ercole
I teatranti e la neutralità
(Lc 13,10-17)
L’opinione o le idee comuni vecchie e nuove si frappongono alla vita che chiama, che fa scoprire altro, che accende passioni, che vuole totalità, e attiva la trasformazione.
Come sempre, Gesù si fa Presente in “sinagoga” non per fare orazioni codificate: è tra la sua gente ad «istruire» (v.10). Il Signore sta educando i suoi intimi, in modo assai deciso.
Nel luogo di culto il Maestro trova un’umanità subalterna, un panorama di minimi ancora vessati dall’ossessione religiosa antica - quindi ripiegati su di sé, fiaccati, incapaci di sollevare la testa.
Lo spirito di debolezza che quello stesso ambiente iniettava proprio ai malfermi, rendeva i fedeli dell’assemblea [o gli abitudiari in essa] totalmente passivi.
Un’esistenza ricurva, trascinata alla meno peggio; senza orizzonti.
L’azione di Cristo estrae dalla folla assuefatta, libera dal conformismo e dalla massificazione; rimette in piedi la ‘donna’ vacillante, che prende a lodare Dio sul serio, con gioia, immediatamente (vv.12-13).
Figura pur “partecipe” del rito, e sempre in mezzo al popolo riunito, ma prima d’incontrare personalmente il Signore non glorificava il Padre in modo reale - né onorava la sua stessa esistenza.
Nessuna espressione lieta per la guarigione, da parte dei leaders - abituati a inoculare nelle anime un clima soporifero - anzi, solo condanna. Illustri e distanti.
Individualisti negoziatori del potere di turno, incapaci di vicinanza. Ciò anche per vari interessi di cerchia, dottrina, di supremazia, e prestigio istituzionale.
Poi - nell’idea comune - sembrava che in termini legalistici o di rubrica la santificazione del giorno dedicato al Signore escludesse qualsiasi coinvolgimento, e le opere di bene!
In aggiunta a tale credenza malsana, anche toccare una “carne” ferita s’immaginava potesse rendere impuri!
Insomma, lo spirito del comandamento che imponeva il riposo del sabato [nato storicamente per la tutela di vaste esigenze sociali, cultuali, identitarie] era stato completamente manipolato e rovesciato.
La logica del giovane Rabbi è opposta ai protocolli: solo la trascuratezza dei marginali e asserviti disonora Dio.
Unico principio non negoziabile è il bene della donna e dell’uomo reali: questa l’unica chiave di lettura dei Vangeli.
E il rito deve celebrare proprio una vita fraterna d’accoglienza e condivisione, di felicità, personalizzazione, cura, amore.
Il resto è per Gesù una commedia insopportabile, dalla quale i suoi responsabili di chiesa devono tenersi alla larga: «Teatranti» (v.15) li definirebbe anche oggi - altrimenti - nostro Signore.
Valiamo ben più di buoi e asini (vv.15-16).
Il rapporto con Dio è festa, guarigione, salvezza: tutto concreto - frutto di scelta, perfino sociale.
Spiritualità non vuota, e qualsiasi - dove i piccoli sono costretti a delegare ad altri i loro sogni.
[Lunedì 30.a sett. T.O. 27 ottobre 2025]
I teatranti e la neutralità
(Lc 13,10-17)
La passione per l’esistenza piena vorrebbe guidarci chissà dove, ma c’è talora una forza esterna che trattiene. Potenza tenebrosa, la quale impedisce persino di scoprire la nostra vera natura.
L’opinione altrui, le dottrine, i costumi o le idee comuni vecchie e nuove si frappongono alla vita che chiama, che fa scoprire altro, che accende passioni, che vuole totalità, e attiva la trasformazione.
Nel frattempo, la percezione che forse stiamo mancando di percorrere la strada “giusta”, crea contrapposizioni esterne; intimidisce, fa soffrire, colpevolizza, e talora blocca proprio le anime più sensibili.
Chi poi ci accusa… fa leva sul timore di dover pagare il prezzo della libertà (caratteriale e vocazionale), per gli eventuali “errori” cui si rischia di andare incontro stando fuori dei binari prescritti.
Medesime dinamiche investono da un lato l’ossequio alle consuetudini, dall’altro l’adesione alle mode, anche le più sofisticate e “aggiornate”.
In specie nelle culture o religioni senza il balzo della Fede, tutto questo si radica e mette disagio; fa credere che siamo molto meno di ciò che ci corrisponde.
Viceversa - anche dovesse sembrare che percorriamo sentieri temerari (ma che ci appartengono) i rischi potrebbero recarci gioie, maggiore completezza, e realizzazione.
Come sempre, Gesù si fa Presente in “sinagoga” non per fare orazioni codificate: è tra la sua gente ad «istruire» (v.10).
In particolare, Egli insegna che il Padre non è in conflitto con dei sudditi. Anzi, sostiene tutti i suoi figli, e dona una postura diversa da quella del mondo “animale” - cui le credenze normali potrebbero forse ridurci.
A quel tempo nessuna donna poteva partecipare direttamente a una liturgia, ma nei Vangeli le figure femminili sono parabola del popolo stesso [in ebraico il termine Israel è di genere femminile].
Lc mette in scena una ‘donna’ per alludere anche a tutte le figure oppresse, cui talora la comunità in preghiera non porge conforto alcuno, né concede un’azione concreta di emancipazione.
Persone sottomesse al paradigma “culturale” dell’ambiente particolare e al potere condizionante della tradizione famigliare.
A quei tempi tale cappa trasmetteva a forza una spiritualità paradigmatica, pur rassicurante, ma assolutamente conforme.
La gente minuta era sottoposta in tutto al capofamiglia; in più, suddita del potere politico, e asservita perfino al fondamentalismo delle autorità religiose.
Un panorama umiliante, perfino atroce, “bestiale” appunto.
Il Signore sta educando i suoi intimi, in modo assai deciso.
Nel luogo di culto il Maestro trova un’umanità subalterna, un panorama di minimi ancora vessati dall’ossessione religiosa antica - quindi ripiegati su di sé, fiaccati, incapaci di sollevare la testa.
Lo spirito di debolezza che quello stesso ambiente iniettava proprio ai malfermi, rendeva i fedeli dell’assemblea (o gli abitudiari in essa) totalmente passivi.
Un’esistenza ricurva, trascinata alla meno peggio; senza orizzonti.
L’azione di Cristo estrae dalla folla assuefatta, libera dal conformismo e dalla massificazione; rimette in piedi la “donna” vacillante, che prende a lodare Dio sul serio, con gioia, immediatamente (vv.12-13).
Ella era figura pur “partecipe” del rito, e sempre in mezzo al popolo riunito, ma prima d’incontrare personalmente il Signore non glorificava il Padre in modo reale - né onorava la sua stessa esistenza.
Nessuna espressione lieta per la guarigione, da parte dei leaders religiosi - abituati a inoculare nelle anime un clima soporifero - anzi, solo condanna. Illustri e distanti.
Individualisti negoziatori del potere di turno, incapaci di vicinanza. Ciò anche per vari interessi di cerchia, dottrina, di supremazia, e prestigio istituzionale.
Poi - nell’idea comune - sembrava che in termini legalistici o di rubrica la santificazione del giorno dedicato al Signore escludesse qualsiasi coinvolgimento, e le opere di bene!
In aggiunta a tale credenza malsana, anche toccare una “carne” ferita s’immaginava potesse rendere impuri!
Insomma, lo spirito del comandamento che imponeva il riposo del sabato [nato storicamente per la tutela di vaste esigenze sociali, cultuali, identitarie] era stato completamente manipolato e rovesciato.
La logica del giovane Rabbi è opposta ai protocolli: solo la trascuratezza dei marginali e asserviti disonora Dio.
Unico principio non negoziabile è il bene della donna e dell’uomo reali: questa l’unica chiave di lettura dei Vangeli.
E il rito deve celebrare proprio una vita fraterna d’accoglienza e condivisione, di felicità, personalizzazione, cura, amore.
Il resto è per Gesù una commedia insopportabile, dalla quale i suoi responsabili di chiesa devono tenersi alla larga: «Teatranti» (v.15) li definirebbe anche oggi - altrimenti - nostro Signore.
Valiamo ben più di buoi e asini (vv.15-16).
Il rapporto con Dio è festa, guarigione, salvezza: tutto concreto - frutto di scelta, perfino sociale.
E finalmente anche il nuovo Magistero si distacca dalla mentalità precedente, spesso diplomatica e neutrale:
«La conclusione di Gesù è una richiesta: Va’ e anche tu fa’ così (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri» [Fratelli Tutti, n.81].
«Ora costei essendo figlia di Abramo […] non doveva essere sciolta da questo legame il giorno di sabato?» (Lc 13,16).
Spiritualità non vuota, e qualsiasi - dove i piccoli sono costretti a delegare ad altri i loro sogni.
39. Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? È l'altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così grande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell'umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio – la Verità e l'Amore in persona – ha voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire. L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze – di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare – giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità. Questa capacità di soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell'essere-uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza.
40. Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione non del tutto irrilevante per le vicende di ogni giorno. Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter « offrire » le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c'erano senz'altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire « offrire »? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all'economia del bene, dell'amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi.
[Papa Benedetto, Spe Salvi]
1. Quando si parla della dignità e della missione della donna secondo la dottrina e lo spirito della Chiesa, occorre avere gli occhi al Vangelo, alla cui luce il cristiano tutto vede, esamina, giudica.
Nella precedente catechesi abbiamo proiettato la luce della Rivelazione sull’identità e il destino della donna, presentando come segnacolo la Vergine Maria, secondo le indicazioni del Vangelo. Ma in quella stessa fonte divina troviamo altri segni della volontà di Cristo riguardo alla donna. Egli ne parla con rispetto e bontà, mostrando nel suo atteggiamento la volontà di accogliere la donna e di richiedere il suo impegno nell’instaurazione del Regno di Dio nel mondo.
2. Possiamo ricordare anzitutto i numerosi casi di guarigione di donne (cf. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 13). E quegli altri in cui Gesù rivela il suo cuore di Salvatore, pieno di tenerezza negli incontri con coloro che soffrono, siano uomini o donne. “Non piangere!” dice alla vedova di Nain (Lc 7, 13). E poi le restituisce il figlio risuscitato da morte. Questo episodio lascia intravedere quale doveva essere il sentimento intimo di Gesù verso la sua madre, Maria, nella prospettiva drammatica della partecipazione alla propria Passione e Morte. Anche alla figlia morta di Giairo Gesù parla con tenerezza: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. E, risuscitatala, ordina “di darle da mangiare” (Mc 5, 41.43). Ancora, manifesta la sua simpatia per la donna curva, che egli guarisce: e in questo caso, con l’allusione a Satana, fa pensare anche alla salvezza spirituale che arreca a quella donna (cf. Lc 13, 10-17).
3. In altre pagine del Vangelo troviamo espressa l’ammirazione di Gesù per la fede di alcune donne. Ad esempio, nel caso dell’emorroissa: “La tua fede ti ha salvata” (Mc 5, 34), le dice. È un elogio che ha tanto più valore in quanto la donna era stata oggetto della segregazione imposta dalla legge antica. Gesù libera la donna anche da questa oppressione sociale. A sua volta, la cananea riceve da Gesù il riconoscimento: “Donna, davvero grande è la tua fede” (Mt 15, 28). È un elogio che ha un significato tutto particolare, se si pensa che era rivolto ad una straniera per il mondo di Israele. Possiamo ancora ricordare l’ammirazione di Gesù per la vedova che offre il suo obolo nel tesoro del tempio (cf. Lc 21, 1-4); e il suo apprezzamento per il servizio che riceve da Maria di Betania (cf. Mt 26, 6-13; Mc 14, 3-9; Gv 12, 1-8), il cui gesto - egli annuncia - sarà portato a conoscenza di tutto il mondo.
4. Anche nelle sue parabole Gesù non esita a portare similitudini ed esempi tratti dal mondo femminile, a differenza del midrash dei rabbini, dove compaiono solo figure maschili. Gesù si riferisce sia a donne che a uomini. Volendo fare un raffronto, si potrebbe forse dire che il vantaggio è dalla parte delle donne. Ciò significa, quanto meno, che Gesù evita persino l’apparenza di una attribuzione di inferiorità alla donna.
E ancora: Gesù apre l’accesso del suo Regno alle donne come agli uomini. Aprendolo alle donne, egli vuole aprirlo ai bambini. Quando dice: “Lasciate che i bambini vengano a me” (Mc 10, 14), egli reagisce alla sorveglianza dei discepoli che volevano impedire alle donne di presentare i loro figli al Maestro. Si direbbe che egli dia ragione alle donne e al loro amore per i bambini!
Nel suo ministero, Gesù è accompagnato da numerose donne, che lo seguono e rendono servizio a lui e alla comunità dei discepoli (cf. Lc 8, 1-3). È un fatto nuovo, rispetto alla tradizione giudaica. Gesù, che ha attirato quelle donne alla sua sequela, anche in questo modo manifesta il superamento dei pregiudizi diffusi nel suo ambiente, come in buona parte del mondo antico, sull’inferiorità della donna. Nella sua lotta contro le ingiustizie e le prepotenze rientra anche questa sua esclusione delle discriminazioni tra le donne e gli uomini nella sua Chiesa (cf. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 13).
5. Non possiamo non aggiungere che dal Vangelo risulta la benevolenza di Gesù anche verso alcune peccatrici, alle quali chiede il pentimento, ma senza infierire contro di esse per i loro sbagli, tanto più che questi comportano una corresponsabilità dell’uomo. Alcuni episodi sono molto significativi: la donna che si reca nella casa del fariseo Simone (cf. Lc 7, 36-50) non è solo perdonata dei peccati, ma anche elogiata per il suo amore; la samaritana è trasformata in messaggera della nuova fede (cf. Gv 4, 7-37); la donna adultera riceve, col perdono, la semplice esortazione a non peccare più (cf. Gv 8, 3-11); (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 14). Senza dubbio non vi è in Gesù acquiescenza dinanzi al male, al peccato, da chiunque sia commesso: ma quanta comprensione della fragilità umana e quale bontà verso chi già soffre per la propria miseria spirituale, e più o meno coscientemente cerca in lui il Salvatore!
6. Il Vangelo infine attesta che Gesù chiama espressamente le donne a cooperare alla sua opera salvifica. Non solo le ammette a seguirlo per rendere servizio a lui e alla comunità dei discepoli, ma chiede loro altre forme di impegno personale. Così, chiede a Marta l’impegno nella fede (cf. Gv 11, 26-27): ed essa, rispondendo all’invito del Maestro, fa la sua professione di fede prima della risurrezione di Lazzaro. Dopo la Risurrezione, affida alle pie donne che erano andate al sepolcro e a Maria di Magdala l’incarico di trasmettere il suo messaggio agli Apostoli (cf. Mt 28, 8-10; Gv 20,17-18): “Le donne furono così le prime messaggere della Risurrezione di Cristo per gli stessi Apostoli” (Cathechismus Catholicae Ecclesiae, 641). Sono segni abbastanza eloquenti della sua volontà di impegnare anche le donne nel servizio al Regno.
7. Questo comportamento di Gesù ha la sua spiegazione teologica nell’intento di unificare l’umanità. Egli, come dice San Paolo, ha voluto riconciliare tutti gli uomini, mediante il suo sacrificio, “in un solo corpo” e fare di tutti “un solo uomo nuovo” (Ef 2, 15.16), cosicché ora “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). Ed ecco la conclusione della nostra catechesi: se Gesù Cristo ha riunito l’uomo e la donna nell’uguaglianza della condizione di figli di Dio, Egli impegna ambedue nella sua missione, non sopprimendo affatto la diversità, ma eliminando ogni ingiusta ineguaglianza, e tutti riconciliando nell’unità della Chiesa.
8. La storia delle prime comunità cristiane attesta il grande contributo che le donne hanno portato alla evangelizzazione: a cominciare da “Febe, nostra sorella, - come la qualifica San Paolo - diaconessa della Chiesa di Cencre: . . . anch’essa - egli dice - ha protetto molti, e anche me stesso” (Rm 16, 1-2). Mi è caro rendere qui omaggio alla memoria di lei e delle tante altre collaboratrici degli Apostoli a Cencre, a Roma e in tutte le comunità cristiane. Con esse ricordiamo ed esaltiamo anche tutte le altre donne - religiose e laiche - che nei secoli hanno testimoniato il Vangelo e trasmesso la fede, esercitando un grande influsso sulla fioritura di un clima cristiano nella famiglia e nella società.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 luglio 1994]
Ci sono cinque verbi «di vicinanza» che Gesù vive in prima persona e indicano i criteri del «protocollo finale»: vedere, chiamare, parlare, toccare e guarire. Su questo saranno giudicati non solo i pastori, i primi a correre il rischio di essere «ipocriti», ma tutti gli uomini. Con l’avvertenza che non bastano belle parole e buone maniere, perché Gesù ci chiede di toccare con mano la carne dell’altro, soprattutto se sofferente. È questa «la strada del buon pastore» che il Papa ha indicato nella messa celebrata lunedì 30 ottobre a Santa Marta.
«In questo passo del Vangelo — ha subito fatto notare Francesco riferendosi al passo di Luca (13, 10–17) — troviamo Gesù non sulla strada com’era sua abitudine ma in sinagoga: il sabato la comunità va in sinagoga a pregare, ad ascoltare la parola di Dio e anche la predica; e Gesù era lì, ascoltando la parola di Dio». Ma «insegnava anche, perché siccome aveva un’autorità, autorità morale tanto grande, lo invitavano a dire una parola», proprio per «insegnare alla gente». E «in sinagoga c’era una donna che era curva, completamente curva, poveretta, e non riusciva a esser dritta: una malattia della colonna che da anni la tratteneva così».
E «cosa fa Gesù? A me colpiscono — ha confidato il Papa — i verbi che usa l’evangelista per dire cosa ha fatto Gesù: “vide”, la vide; “chiamò”, la chiamò; “le disse”; “Impose le mani su di lei e la guarì”». Sono «cinque verbi di vicinanza».
Anzitutto, ha spiegato il Pontefice, «Gesù si avvicinò a lei: l’atteggiamento del buon pastore, la vicinanza». Perché «un buon pastore è vicino, sempre: pensiamo alla parabola del buon pastore che Gesù ha predicato», così «vicino» alla pecora «smarrita che lascia le altre e va a cercarla».
Del resto, ha affermato Francesco, «il buon pastore non può essere lontano dal suo popolo e questo è il segnale di un buon pastore: la vicinanza. Invece gli altri, in questo caso il capo della sinagoga, quel gruppetto di chierici, dottori della legge, alcuni farisei, sadducei, gli illustri, vivevano separati dal popolo, rimproverandolo continuamente». Ma, ha rilanciato il Papa, «questi non erano buoni pastori, erano chiusi nel proprio gruppo e non importava loro del popolo: forse importava loro, quando finiva il servizio religioso, andare a vedere quanti soldi c’erano nelle offerte, questo importava loro, ma non erano vicini al popolo, non erano vicini alla gente».
Ecco che «Gesù sempre si presenta così, vicino», ha fatto presente il Pontefice. E «tante volte appare nel Vangelo che la vicinanza viene da quello che Gesù sente nel cuore: “Gesù si commosse”, dice per esempio un passo del Vangelo, sente misericordia, si avvicina». Per questa ragione «Gesù sempre era lì con la gente scartata da quel gruppetto clericale: c’erano lì i poveri, gli ammalati, i peccatori, i lebbrosi: erano tutti lì perché Gesù aveva questa capacità di commuoversi davanti alla malattia, era un buon pastore». E «un buon pastore si avvicina e ha capacità di commuoversi».
«E io dirò — ha affermato Francesco — che il terzo tratto di un buon pastore è non vergognarsi della carne, toccare la carne ferita, come ha fatto Gesù con questa donna: “toccò”, “impose le mani”, toccò i lebbrosi, toccò i peccatori». È «una vicinanza proprio vicina, vicina». Toccare «la carne», dunque. Perché «un buon pastore non dice: “Ma, sì, sta bene, sì sì, io sono vicino a te nello spirito”». In realtà «questa è una distanza» e non vicinanza.
Invece, ha insistito il Papa, «il buon pastore fa quello che ha fatto Dio Padre, avvicinarsi, per compassione, per misericordia, nella carne del suo Figlio, questo è un buon pastore». E «il grande pastore, il Padre, ci ha insegnato come si fa il buon pastore: si abbassò, si svuotò, svuotò se stesso, si annientò, prese condizione di servo».
Proprio «questa è la strada del buon pastore» ha spiegato il Pontefice. E qui ci si può chiedere: «“Ma, e questi altri, quelli che seguono la strada del clericalismo, a chi si avvicinano?». Costoro, ha risposto Francesco, «si avvicinano sempre o al potere di turno o ai soldi e sono i cattivi pastori: loro pensano soltanto come arrampicarsi nel potere, essere amici del potere e negoziano tutto o pensano alle tasche e questi sono gli ipocriti, capaci di tutto». Di sicuro «non importa del popolo a questa gente. E quando Gesù dice loro quel bell’aggettivo che utilizza tante volte con questi — “ipocriti” — loro si sono offesi: “Ma noi, no, noi seguiamo la legge”». Invece «la gente era contenta: è un peccato del popolo di Dio vedere quando i cattivi pastori sono bastonati; è un peccato, sì, ma hanno sofferto tanto che “godono” di questo un pochettino».
«Pensiamo — è il suggerimento del Pontefice — al buon pastore, pensiamo a Gesù che vede, chiama, parla, tocca e guarisce; pensiamo al Padre che si fa nel suo Figlio carne, per compassione». E «questa è la strada del buon pastore, il pastore che oggi vediamo qui, in questo passo del Vangelo: è una grazia per il popolo di Dio avere dei buoni pastori, pastori come Gesù, che non si vergognano di toccare la carne ferita, che sanno che su questo — non solo loro, anche tutti noi — saremo giudicati: ero affamato, ero in carcere, ero ammalato...».
«I criteri del protocollo finale — ha concluso il Papa — sono i criteri della vicinanza, i criteri di questa vicinanza totale» per «toccare, condividere la situazione del popolo di Dio». E «non dimentichiamo questo: il buon pastore si fa vicino sempre alla gente, sempre, come Dio nostro Padre si è fatto vicino a noi, in Gesù Cristo fatto carne».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 31/10/2017]
(Lc 18,9-14)
Il meccanismo della retribuzione nega l’esperienza essenziale della vita di Fede: ‘lasciarsi salvare, vivendo di Mistero’ - invece del cerchio concluso d’anguste “giustizie” che non sanno dove andare.
Per introdursi nella novità di Cristo basta aver incontrato se stessi ed essere sinceri: strana santità, accessibile a tutti.
Essa giunge alla realtà, anche più intima: non siamo onnipotenti nel bene; non riusciamo a fare granché di buono a partire dalle sofisticazioni, dalle idee, dai muscoli.
Lasciando spazio all’intervento del Padre, impariamo a confidare in ciò che si riceve, assai più che poggiare sulle aspettative anche altrui, o su quel che ci si propone e impone.
La nostra storia concreta può riflettersi in forma di Preghiera. Ma se il dialogo con Dio non affiora da una percezione penetrante e s’accontenta dei traguardi esterni, l’Ascolto diventa vuoto.
Lo spirito di grandezza anche morale e spirituale, sprofonda inesorabile - e nella miseria vera: quella epidermica.
Non vede l’eccezionalità del Padre: Colui che trasmette vita.
Chi vive di paragoni e ha una sprezzante valutazione dei considerati inferiori, non gode di aperture.
Resta senza spazio né tempo per l’azione dell’essere poliedrico, nella varietà di situazioni.
Sbaglia posto davanti a Dio e al prossimo - negandosi la gioia del Gratis e della Novità.
In tal guisa, mai confida in ciò che è più affidabile di una visione del mondo, o delle proprie iniziative dirigiste.
Non coglie nulla che già non sa, perché non legge dentro.
È in costante monologo: con se stesso [mai giungendo sino in fondo di sé] e quelli della propria cerchia.
Così non contagia felicità - che deriva dallo stupore.
Ultimamente, trova solo teatro, un rimbombo d’eco di voci altrui e a contorno.
Non l'intimità di persona eccezionale e amata così com’è.
Il soggetto della vita religiosa arcaica è infatti il “nostro” - l’io.
Se Gesù avesse chiesto chi dei due potesse tornare a casa giustificato, tutti avrebbero immaginato il fariseo, il ritagliato a parte.
Nella vita di Fede il Soggetto è invece il Mistero, l’Eterno, il Vivente.
È Lui che opera, creando: e anche qui agisce solo Lui.
Giustifica, ossia pone giustizia dov’essa non c’è. L’autosufficiente non ha bisogno.
Questo il reale e regale Principio, motore della nostra realizzazione e della preghiera-ascolto autentica, spoglia di meriti e vanto ma capace di recuperare i ‘lati opposti’.
Dio teme le liturgie e le orazioni individuali inappuntabili, in cui non avviene nulla e da cui si esce senza aver sperimentato la sua «Azione Creatrice» e il suo perdono.
Opera non nostra. Energia e pungolo che anche nell’intimo ci porta Alleanza di ‘volti’, convivialità delle differenze.
Nella vita spirituale e sociale del “poliedro” e del sommario, siamo abilitati a tradurre l’esigenza del ‘con-sentimento’, che il Padre comunica in modo largo e dandoci tempo.
Ben più che una lotta fra opposte visioni del mondo: la Giustizia divina è inedita e crescente - non la si compera con le opere di maniera.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando mi colgo fariseo e quando pubblicano?
Come posso incontrare me stesso contemplando Dio? E incontrando gli altri?
[30.a Domenica (anno C), 26 Ottobre 2025]
Fariseo-pubblicano: le due anime, e il Mistero essenziale
(Lc 18,9-14)
Dice il Tao Tê Ching (x): «Preserva l’Uno dimorando nelle due anime: sei capace di non farle separare?».
Le tante raffigurazioni e interpretazioni convenzionali dell’episodio ci portano fuori strada.
L’unica parabola ambientata nel Tempio è un vulcano di portata paradossale, straordinaria, che non t’aspetti.
Gli Ebrei pregano in piedi, segno della disponibilità a porre immediatamente in atto ciò che il Signore chiede.
Per noi stare in piedi vuol dire che celebriamo come figli risorti.
Ma qui il fenomeno della religiosità e della morale «stando in piedi, pregava così verso se stesso» (v.11): non dialoga con Dio, né si accorge di nulla!
Forse è convinto di pregare, ma sta facendo tutt’altro: non ascolta, non presta attenzione, non percepisce il messaggio e il senso delle presenze, solo ne prende distanza.
Ricordo nel grande salone della Penitenzieria Apostolica l’epigrafe «Pax omnium rerum tranquillitas ordinis».
Mentalità che se mediata da moralismi approssimativi, non sta con noi; non ci porta, né infonde profondità e relazioni.
Su tale base, se in confessione si fossero presentati i due protagonisti del brano, avrei sentenziato: al fariseo manca l’umiltà, l’altro ripaghi i danni.
Persino la testata de L’Osservatore Romano ribadisce il motto-epigrafe «Unicuique Suum» - principio fondamentale del diritto di proprietà nel mondo latino.
Non basta la Giustizia? [Servirebbe Gesù?].
Il punto è: Conoscere l’Amore, realtà ricca: non scambio di favori con Dio. E assumere la posizione che non inquini né corrompa la vita. Questa tutta la partita.
«Io rinuncio, io lascio tutto, io parto, io penso, io dico, io progetto, io sarò impeccabile e fedele facendomi vedere dagli altri sempre “a modo” [ossia come non sono]»: è la filastrocca ideale che ribalta l’avventura di Fede.
Il soggetto dell’uomo religioso è se stesso e ciò che lui fa per Dio - nonché come si atteggia (in modo artificioso); così via.
Ridicolo - non solo profondamente riduttivo. Ma da quest’idea scaturisce la considerazione dell’altro e del diverso come un irrecuperabile.
Invece la vita di ciascuno è zeppa d’interiori antinomie e controfigure.
Proviamo a ribaltare la parabola da un livello moralistico a quello teologico, perché Lc - attenzione - mette in scena il meglio della spiritualità e il peggio della morale del tempo.
Ecco il suo boomerang: vuole avviare una riflessione su noi stessi.
«Ladri»: Gesù definisce tali proprio i leaders religiosi e i “farisei” [di ritorno], dentro pieni di rapina, sebbene al di fuori sembrino chissà cosa.
«Ingiusti»: [tanto per capirci in breve] s. Teresina diceva che Dio è giusto perché tiene conto delle nostre difficoltà.
«Adulteri»: ma l’adulterio teologico è proprio accodarsi a un idolo (qui l’io-padreterno che contempla il sé esterno).
Nel concetto biblico «adulterio» indica propriamente un rapporto devoto scorretto, come con un nume inautentico.
In tal guisa, anche una relazione formale impeccabile - e viceversa lo schierarsi dalla parte del feticcio.
Insomma, il “santo” non si rivolge al Padre, ma al Dio-forma che ha in mente lui - sebbene voglia persino stupirlo di esagerazioni (v.12).
Però non è d’accordo col pensiero dell’Eterno.
Non percepisce il progetto dell’Altissimo: edificare Famiglia umana. Soccorrerci, e arricchire insieme, l’un l’altro.
Quindi non si lascerà mai cambiare - addirittura convinto di riprodurre esattamente il suo genio tutelare.
Per i professionisti del sacro maniaci di falsa perfezione, la Salvezza è premio finale d’una scalata individuale.
Non l’Opera ri-creatrice e gratuita d’un Genitore che traghetta le nostre vicende complesse, lasciando spazio e modo affinché evolvano in vita da salvati.
Così l'esperienza sia personale che comunitaria incattivisce, perché la “religione” standard inculca e trattiene un’immagine deforme del proprio carattere, e dell’Ideale.
L’Onnipotente nell’Amore assume nell’inconscio le sembianze del Padrone del Cielo, della terra, e del sottoterra - distributore di premi e castighi.
Qui, devozione prima o poi farà rima con “separazione”.
Invece, Giustificazione allude a un più acuto, rispettoso, sapiente assetto.
Posizione verso Dio [che non è un notaio] e verso l’umanità ch’è tutta nostra; sarebbe puerile averne disprezzo.
Genuinità e Spirito vanno in sinergia.
A nessuno Cristo raccomanda di “farsi santo” ossia “separato”, come raccomandato dalla Legge antica (Lv 19,2) e da tutta una spiritualità inappuntabile arcaica.
Il nuovo criterio è comprensivo: la convivialità delle differenze e il recupero fecondo degli opposti. Appunto, l’Amore che fiorisce nella naturalezza.
Se proprio vogliamo, il senso del cammino nello Spirito potrebbe essere identificato nel passaggio critico dal Primo al Nuovo Testamento.
Ma sarebbe ancora troppo banale immaginare che nell’Antico Dio è Giudice forense e nel Nuovo “giudice del cuore”.
La Giustificazione che il Padre opera concerne la forma intima di ciò che “muove”, e il senso di quale motivazione e pungolo ci cambia.
Gl’inopportuni scienziati della vita pia hanno sempre tratteggiato la Salvezza quale premio finale di un’arrampicata estenuante.
Mi diceva una povera anima ben motivata, eppur plagiata, vessata e mal guidata: ‘chi più si pista di più s’acquista’.
Invece, quando Dio opera, crea, collocandoci nella giusta attitudine e traghettandoci verso una feconda direzione - non è detto in salita.
Tutto al fine di realizzarci e completarci, non per sfiancare e annientare le linee portanti della nostra personalità, irripetibile, impareggiabile.
Configurazione di equilibri che sappiamo bene essere non ordinaria, non meccanica, non prevedibile.
Il Padre non è un allenatore che si compiace solo del più forte dei suoi attaccanti.
Non è attratto dalle virtù di pochi, ma dalle molte necessità di tutti.
Nell’attesa di soluzioni irrisolte, non guarda i meriti delle persone, ma il loro bisogno di essere completate.
Pertanto chi fa il bene non merita assolutamente nulla: deve solo ringraziare la Provvidenza, che lo ha condotto anzitempo sulla strada di un’esperienza di pienezza di essere, sulla Via della Gioia.
Rimanendo appiccicato al suo tronetto, l'arrogante veterano del sacro e della disciplina (e dei modi perbene o da reduce) rimane lì.
Impantanato nell’io che si compiace del “suo” - ripiegato sull’ombelico delle opere di legge con cui voleva comprarsi il beneplacito di Dio - mostrandosi artificiosamente suo amico.
E torna a Casa, ossia in comunità (v.14), uguale a prima: unilaterale, come una sfinge.
Sono i sepolcri imbiancati davanti ai quali dobbiamo inchinarci per baciare le sacre pantofole, altrimenti non si passa.
Sono i separati dal resto della folla, perché per loro la gente può solo essere: utile, o seccante.
Non c’è nulla da fare. Certe persone compiaciute e autosufficienti, che non hanno mai fatto l’esperienza dell’humus e del gratis, Dio non riesce a farle giuste.
Non sono abituate a guardare la realtà, neppure la propria - ma a sottolineare ogni separazione che disdegna. E unicamente ciò ch’è prescritto; da cui non si esce.
Sembrano uomini tutti d’un pezzo e che posseggono un elevato senso della esclusività divina.
Tuttavia in loro non esistono energie spirituali profonde - quelle che sanno vedere oltre, sino a cogliere le fragranze più variegate.
Primi a non sapersi affidare al Mistero, continuano ad appestare l’aria, certissimi del loro rango spirituale e dei riconoscimenti - pretendendo (ovviamente) dazi ovunque si concedano.
Neppure il Padre riesce a giustificarli, ossia a collocarli nel punto giusto di fronte a Lui e ai fratelli.
Il senso di santità da cui si sentono ammantati li porta al disdegno altrui, e non c’è verso.
Come discernere anche in noi le tracce della presunzione religiosa? È il tema rilevante della parabola (v.9).
Dalla stessa Preghiera si capisce che il nostro stesso volto possiede un’immagine martellante e diabolica dell’Eterno.
Come fosse uno che fa il contabile, ossia che paga secondo i meriti e castiga secondo colpe.
Mentre il Dio biblico dona in pura perdita. Perché?
Nello Spirito cogliamo in noi un’energia che deve realizzare la sua opera nell’attimo [così frequentemente senza eguali], o nel ritmo anche sconnesso degli accadimenti molteplici e delle relazioni.
Qui intuiamo la deità parziale e paradossale dei ‘compagni di viaggio’ - come l’irreprensibile e il peccatore, che ci ricordano la Missione.
Personaggi compresenti nell’anima: deviazioni uniche, che integrano e perfezionano, diventando la nostra irripetibile Originalità.
La vita di Fede e la Preghiera portano sì a guarigione, ma talora paiono scomparire, come se ci avvicinassimo al trasgressore del Vangelo.
Danno risposte, ma a volte esse sembrano anche fortuite.
Hanno il medesimo passo disorganico e interrotto (il reale cambiamento arriva inaspettato) ma stessa composizione simbiotica, struttura, figura complessa, di un arbusto e dell’amore.
Una pianta bella rigogliosa ha le sue stagioni; neppure si sogna di possedere una connotazione senza sfumature e lati opposti.
Può sconcertare, ma le realtà di natura non fanno a meno delle radici per il fatto che queste parti basse si mescolano con il letame, la melma, il buio e i vermi - parassiti striscianti; come il pubblicano, immerso nel peccato fino al collo.
Se una rosa volesse tagliare le basi nascoste e infestate da cui sorge, tutta la pianta collasserebbe, perdendo anche la sua spettacolare individualità.
È la confusione - anche fetida e nauseante - che crea una terra feconda accogliente tutti i ruoli, e lo spazio di maturazione non monocromatico aperto a ogni filone di vita.
Ci sono fasi e presenze in apparenza oscuranti, di cui prendere atto, sulle quali siamo come seduti.
Quasi in un ribaltamento di piani, è l’incontro con le nostre ombre che ci fa svettare e affermare.
Merito del fariseo, e bisogno del pubblicano, sono aspetti in simbiosi.
Per antica educazione al credere ai codici, siamo quasi frastornati dalle novità.
Ma possiamo piantare il seme della crescita solo abbracciando la vita senza presuntuose aspettative.
Da certezze discriminanti, propositi maniacali indotti, ovvietà di luoghi comuni, non deriva sviluppo, realizzazione, fioritura con risultato esponenziale - in tutti i nostri lati.
Anche nell’amore ad es. non vogliamo fissarci su un’idea finta, fatta di pregiudizi, schemi ideologici, e divise.
Allora - ma proprio per salvarci - affiorano le fragilità.
Esse ci possono sì portare a dipendere, ma anche a cercare nuova comunicazione, per una migliore completezza.
Se il passato resta un totem primordiale, artificioso al pari delle ideologie sofisticate, disincarnate - tutto diventa fantasia, rimpianto, confusione, disastro.
Nel cammino spirituale, guai a rivolgersi ai grandi amori artefatti, col loro fascino avvolgente e straripante, ma asettico.
Frenesia che invade e occupa la vita, blocca e ripudia ogni progetto; non libera l’anima dai distinguo.
Non consente di notare nuovi destini. Fa abdicare. Ci assesta in superficie e non rovescia le sorti (cf. v.14).
Così il nostro organismo naturale, emotivo e sovrannaturale: convinto solo di qualcosa e incapace di rompere quei compartimenti.
Esso morirebbe - se perdesse la completezza delle polarità, la spontaneità più ovvia, e fosse sterilizzato. Trasmettendo la sua stessa morte, attorno.
Come nelle realtà create, anche nella vicenda spirituale sono i versanti contraddittori a comporre la ricchezza di facoltà, inclinazioni, destini, volti, e capacità.
A volte saranno proprio le crisi particolari da affrontare appunto con qualità speciali e risorse specifiche non in linea con le inclinazioni consuete o imperative - a riportarci sul nostro vero percorso.
È nell’incessante Incontro con la folla di personaggi a noi intima, e nel voltarsi attorno per accorgersi e percepire, che si decanta il caduco limitante, e si unifica l’uomo.
Tutto ciò affinché diventi solido e aperto, affidabile e creativo, capace di stare sia dentro che fuori casa.
E il Padre ci concede tempo per una formazione variegata, per attendere che nelle ambivalenze del processo incontriamo ogni sfaccettatura.
I troppi filtri, le censure, i molti freni, non preparerebbero la metamorfosi evolutiva che ci appartiene: quella in grado di superare i momenti difficili non con un faticoso pertugio o un sudato varco, bensì col sogno, e con la carezza d’un vero colpo di scena.
Nell’orazione-monologo, il narcisista che talora siamo noi, non fa che informare il Principio immobile delle sue conquiste, perché non vede altro che se stesso.
Ma non regge né regola quanto è umano o divino.
Neppure si chiede a quale Dio si stia rivolgendo, e in che posa si collochi.
Non ha pregato, non ha sintonizzato i propri pensieri su quelli del Padre. Ha solo stancato le anime, spento e rovinato i rapporti.
È in una posizione di cinismo e incapacità a cogliere la distanza fra l’uomo vero e il Creatore.
Ciò gl’impedisce di abbandonarsi a Lui, e il non cedere fa impallidire la capacità di recepire una nuova Vocazione all’interno della Vocazione [che non è mai “a posto” e soddisfacente].
Crede la perfezione come un porto sicuro; immagina di riflettere Dio sulla terra, di avere la medesima mentalità e le Sue stesse relazioni…
Del resto, gli amici poco benevoli, risoluti e a circolo chiuso che frequenta sarebbero gli stessi del suo Totem, ben foggiato ma senza valore.
Come lui, anch’essi restano nella sfera statica, priva di desiderio - però con una montagna di scrupoli. O senza un principio di realtà.
Un ambiente di gretti e ridicoli: uomini a misura, infantili come il loro oggetto (soggetto) di culto, ossia il sé - che non vede oltre lo stagno di acque morte a portata di mano.
Il “fariseo” da salotto o devoto è nemmeno sfiorato dal dubbio.
Posizione pericolosa, che mai consentirà di riflettere sui paradossi più intimi che avviano e riavviano l’Esodo, attivando nuove passioni.
Temendo ciò che finisce, mai proverà la Gioia ineffabile del Dono adesso, che accende la storia e cambia la vita.
Nulla in termini di stupore s’inaugura, sulla base di un'identità di caratteristiche o di vedute.
Ciò soprattutto se le linee distintive restano imprigionate nel passato (o futuro). Se permangono, nel modo di vivere e capire “di prima” (o “di poi”) che torna a dirigerci.
E non si fida dell’Amore che prepara il frutto dello Spirito: sta per arrivare; così com’è.
Chi non ha certezze lapidarie, non si fa guidare in modo artificioso.
Piuttosto, si lascia prendere come da una corrente d’insicurezza, che tuttavia lo porterà a conoscere la Felicità profonda, le grandi fioriture.
La rottura delle acque d’un parto ulteriore: la vita a tutto tondo.
Insomma, una volta messe sullo sfondo le abitudini, le idee astratte, le identificazioni, le opinioni comuni, le mode anche glamour, l’Eros fondante della nostra Chiamata personale potrà ancora scendere in campo.
Ottenendo migrazioni, manifestando tutto il suo Fuoco.
Nella vita siamo stati vittime, talora anche carnefici.
Dio lo sa e permette che la nostra libertà possa emergere: viceversa, in ogni recinto, in qualsivoglia scelta cadenzata, le possibilità del mondo interiore restano chiuse.
Allora - per rimetterci in discussione - dona i momenti no, le presenze e le preferenze contrapposte, nonché le voci dell’interno più inattese.
Altri profili, che pure ci appartengono; tutt’altro, rispetto ai modi di essere che già conosciamo [non si sono ancora espressi, ma prima o poi vorranno trovare spazio].
Semplicemente, è bene assumerne i tratti - e in noi ospitarli in modo assolutamente onesto.
Affinché non diventino disturbi laceranti, o da integrare con perversioni, affarismo, esercizio del potere, atteggiamenti settari: pessime abitudini, appena coperte da stilemi affabili.
I lati sepolti e forse ancora sconosciuti non vogliono disturbare l’opzione fondamentale al bene, ma l’esistenza inutile, tutta pronosticabile.
Essi sono altrettante Chiamate, sorprendenti, ma che per forza innata sanno dove condurci.
Esistono percorsi che ci appartengono e che non sono ancora emersi, o di cui abbiamo perso memoria.
Così, proprio in forza di tanta congerie interiore - fase dopo fase - il personaggio che è pertinente alla persona… traccia spontaneamente e provvidenzialmente la sua rotta.
Solo se saremo impregnati di ciò che è infinito e al contempo di quant’è sdraiato alla base dell’anima, il nostro io fariseo non si distaccherà dall’io pubblicano.
Energie plasmabili, volti che ci corrispondono profondamente e di fatto; maestri di pratica e di concetto; non di maniere.
Sono in varia miscela e secondo le età della vita, le reali sfaccettature della nostra variegata essenza spirituale.
Binari che corrono sottotraccia o paralleli, ma che talora s’intersecano e surclassano a vicenda, creando un magma che attende istante per istante di venire performato.
Per realizzare la Destinazione che è tutta nostra ci sono già state molte porte da aprire.
E abbiamo di frequente verificato che il Fiore cercato si nascondeva proprio fra i nostri disturbi.
Altro che già ritenersi vicini al Paradiso!
Bene: Dio c’introduce in un altro genere di coesistenza, dentro e fuori: equilibrio, serenità, Comunione.
Perché in ciò che davvero spinge all’eterno, tutto si recupera. Nella Pienezza, nulla si separa da nulla.
È l’autentica svolta, che dona dignità a ciò che accade. E apre la porta al Completamento.
Ribadisce il Tao (xxvii):
«Per questo il santo sempre ben soccorre gli uomini e perciò non vi son uomini respinti, sempre ben soccorre le creature e perciò non vi son creature respinte; ciò si chiama trasfondere l’illuminazione. Così l’uomo che è buono è maestro dell’uomo non buono, l’uomo che non è buono è profitto all’uomo buono. Chi non apprezza un tal maestro, chi non ha caro un tal profitto, anche se è sapiente cade in grave inganno: questo si chiama il mistero essenziale».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando mi colgo fariseo e quando pubblicano?
Come posso incontrare me stesso contemplando Dio? E incontrando gli altri?
Quando Dio ti viene vicino, ti abbandoni o temi ciò che finisce?
Quali sono state le esperienze di amore immeritato che ti hanno cambiato la vita?
Hai trovato maggiore comprensione dentro o fuori la Chiesa? Da parte di amici e conoscenti o di supertitolati del sacro? Come mai?
«Due uomini salirono al tempio a pregare»; di là, uno «tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18, 10.14). Quest’ultimo aveva esposto tutti i suoi meriti davanti a Dio, quasi facendo di Lui un suo debitore. In fondo, egli non sentiva il bisogno di Dio, anche se Lo ringraziava per avergli concesso di essere così perfetto e «non come questo pubblicano». Eppure sarà proprio il pubblicano a scendere a casa sua giustificato. Consapevole dei suoi peccati, che lo fanno rimanere a testa bassa – in realtà però egli è tutto proteso verso il Cielo –, egli aspetta ogni cosa dal Signore: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18, 13). Egli bussa alla porta della Misericordia, la quale si apre e lo giustifica, «perché – conclude Gesù – chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 14).
Di questo Dio, ricco di Misericordia, ci parla per esperienza personale san Paolo, patrono della città di Luanda e di questa stupenda chiesa, edificata quasi cinquant’anni fa. Ho voluto sottolineare il bimillenario della nascita di san Paolo con il Giubileo paolino in corso, allo scopo di imparare da lui a conoscere meglio Gesù Cristo. Ecco la testimonianza che egli ci ha lasciato: «Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo io ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, affinché «fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in Lui per avere la vita eterna» (1 Tm 1, 15-16). E, con il passare dei secoli, il numero dei raggiunti dalla grazia non ha cessato di aumentare. Tu ed io siamo di loro. Rendiamo grazie a Dio perché ci ha chiamati ad entrare in questa processione dei tempi per farci avanzare verso il futuro. Seguendo coloro che hanno seguito Gesù, con loro seguiamo lo stesso Cristo e così entriamo nella Luce.
[Papa Benedetto, omelia Luanda 21 marzo 2009]
E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità, ed è questo amore che chiamiamo «cielo»: Dio è così grande da avere posto anche per noi. E l’uomo Gesù, che è al tempo stesso Dio, è per noi la garanzia che essere-uomo ed essere-Dio possono esistere e vivere eternamente l’uno nell’altro. Questo vuol dire che di ciascuno di noi non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene, per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina; vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo, ciò che noi siamo. E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora, nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore, di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene. Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio ed in Lui purificata riceve l’eternità. Cari Amici! Io penso che questa sia una verità che ci deve riempire di gioia profonda. Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza dell’anima in un impreciso al di là, nel quale tutto ciò che in questo mondo ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato, ma promette la vita eterna, «la vita del mondo che verrà»: niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina, ma troverà pienezza in Dio. Tutti i capelli del nostro capo sono contati, disse un giorno Gesù (cfr Mt 10,30). Il mondo definitivo sarà il compimento anche di questa terra, come afferma san Paolo: «la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Allora si comprende come il cristianesimo doni una speranza forte in un futuro luminoso ed apra la strada verso la realizzazione di questo futuro. Noi siamo chiamati, proprio come cristiani, ad edificare questo mondo nuovo, a lavorare affinché diventi un giorno il «mondo di Dio», un mondo che sorpasserà tutto ciò che noi stessi potremmo costruire. In Maria Assunta in cielo, pienamente partecipe della Risurrezione del Figlio, noi contempliamo la realizzazione della creatura umana secondo il «mondo di Dio».
Preghiamo il Signore affinché ci faccia comprendere quanto è preziosa ai Suo occhi tutta la nostra vita; rafforzi la nostra fede nella vita eterna; ci renda uomini della speranza, che operano per costruire un mondo aperto a Dio, uomini pieni di gioia, che sanno scorgere la bellezza del mondo futuro in mezzo agli affanni della vita quotidiana e in tale certezza vivono, credono e sperano.
Amen!
[Papa Benedetto, omelia 15 agosto 2010]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)
Pride compromises every good deed, empties prayer, creates distance from God and from others. If God prefers humility it is not to dishearten us: rather, humility is the necessary condition to be raised (Pope Francis)
La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati (Papa Francesco)
A “year” of grace: the period of Christ’s ministry, the time of the Church before his glorious return, an interval of our life (Pope Francis)
Un “anno” di grazia: il tempo del ministero di Cristo, il tempo della Chiesa prima del suo ritorno glorioso, il tempo della nostra vita (Papa Francesco)
The Church, having before her eyes the picture of the generation to which we belong, shares the uneasiness of so many of the people of our time (Dives in Misericordia n.12)
Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei (Dives in Misericordia n.12)
Addressing this state of mind, the Church testifies to her hope, based on the conviction that evil, the mysterium iniquitatis, does not have the final word in human affairs (Pope John Paul II)
Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane (Papa Giovanni Paolo II)
Jesus reminds us today that the expectation of the eternal beatitude does not relieve us of the duty to render the world more just and more liveable (Pope Francis)
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo (Papa Francesco)
Those who open to Him will be blessed, because they will have a great reward: indeed, the Lord will make himself a servant to his servants — it is a beautiful reward — in the great banquet of his Kingdom He himself will serve them [Pope Francis]
E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli [Papa Francesco]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
There is work for all in God's field (Pope Benedict)
C'è lavoro per tutti nel campo di Dio (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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