don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

5a Domenica di Quaresima (anno C)  [6 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Domani, mercoledì 2 aprile sarà il XX anniversario della morte di san Giovanni Paolo II. Lo ricordiamo nella preghiera invocando la sua protezione e intercessione.

 

*Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia (43,16-21)

A prima vista, questo testo consta di due parti tra loro contraddittorie: la prima è un richiamo al passato, all’uscita dall’Egitto, mentre nella seconda il profeta esorta a lasciarsi alle spalle il passato. Ma di quale passato si tratta? Proviamo a meglio capire esaminando una dopo l’altra queste due parti. L’incipit è come sempre solenne: “Così dice il Signore” per introdurre parole di grande importanza cui immediatamente segue il riferimento al celebre passaggio nel mare, il miracolo del mare dei Giunchi durante la fuga degli Ebrei dall’Egitto: “Il Signore aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”. Torna sempre il richiamo alla notte memorabile della liberazione dall’Egitto narrata nel capitolo 14 del libro dell’Esodo. Nella prima lettura Isaia offre ulteriori dettagli: “il Signore fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo e tutti giacciono morti e mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo”. Dio salvò il suo popolo distruggendo gli egiziani ed è interessante notare che Isaia utilizza il nome “Signore” (il Tetragramma YHVH), nome che qualifica il Dio del Sinai come il liberatore del suo popolo. Ecco l’opera di Dio nel passato che costituisce la fonte della speranza per il futuro di Israele e Isaia  precisa:”Ecco, io faccio una cosa nuova”. Per capire di che si tratta e a chi il profeta preannuncia un mondo nuovo, occorre rifarsi al contesto storico. Il deuteroIsaia, che qui stiamo leggendo, visse nel VI secolo a.C., durante l’esilio a Babilonia (dal 587 al 538 a.C.), periodo segnato da una prova terribile: deportanti a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia, che aveva sconfitto il piccolo regno di Giuda di cui Gerusalemme era la capitale, gli ebrei speravano un giorno di fuggire dalla Babilonia, ma esistevano serie difficoltà  perché bisognava attraversare il deserto della Siria, lungo centinaia di chilometri e in condizioni terribili per dei fuggiaschi. Il profeta ha quindi il compito difficile di ridare coraggio ai suoi contemporanei: lo fa in questo libro chiamato il libro della Consolazione di Israele, perché il capitolo 40 inizia così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. E quando dice: “il vostro Dio” richiama l’Alleanza mai spezzata perché  Dio non li ha abbandonati. In effetti, una delle formule dell’Alleanza era: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e ogni volta che echeggia l’espressione mio Dio o vostro Dio, il possessivo è un incoraggiante richiamo all’Alleanza e, al tempo stesso, una professione di fede. Isaia intende mantenere accesa la speranza degli esiliati ricordando che Dio non solo non li ha abbandonati, anzi al contrario prepara già il loro ritorno in patria. Non si vede ancora nulla, ma avverrà e perché si è certi? Perché Dio è fedele alla sua Alleanza e da quando ha scelto questo popolo non ha mai smesso di liberarlo e di mantenerlo in vita, attraverso tutte le vicissitudini della sua storia. L’ha liberato dal faraone; l’ha protetto lungo tutto il cammino, lo ha fatto passare attraverso il mare all’asciutto al momento dell’uscita dall’Egitto.La speranza di Israele poggia dunque sul suo passato: questo è il significato della parola “Memoriale”, costante memoria dell’opera di Dio che continua ancora oggi e da questo si trae la certezza che continuerà anche nel futuro. Passato, presente, futuro: Dio è sempre presente accanto al suo popolo. Questo è uno dei significati del nome di Dio: “Io sono”, cioè sono con voi in ogni circostanza. E proprio durante il difficile periodo dell’esilio, quando c’era il rischio di cedere alla disperazione, Isaia sviluppa una nuova metafora, quella del germoglio: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” Partendo dall’esperienza straordinaria di un minuscolo seme capace di diventare un grande albero, è facile capire come la parola “germoglio” sia diventata in Israele e oggi per noi simbolo di speranza ed è importante imparare a riconoscere i germogli del mondo nuovo, il Regno che Dio sta costruendo.

 

*Salmo responsoriale [125 (126)]

 Questo salmo fa eco alla prima lettura, dove il profeta Isaia annuncia il ritorno del popolo esiliato a Babilonia e canta questo miracolo così come gli ebrei avevano cantato il prodigio dell’uscita dall’Egitto. Questi gli eventi: nel 587 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva conquistato Gerusalemme e deportato la popolazione, ma, a sua volta, fu sconfitto da Ciro, re di Persia ben noto per i suoi successi. Le truppe di Nabucodonosor saccheggiavano, depredavano, stupravano, massacravano e devastavano deportando sistematicamente le popolazioni. Ciro, invece, adottò una politica completamente diversa: preferì governare su popoli prosperi e permise a tutte le popolazioni deportate di tornare nelle loro terre d’origine fornendo pure i mezzi per farlo. E così, conquistata Babilonia nel 539 a.C., già nel 538 permise agli ebrei di rientrare a Gerusalemme, concedendo loro anche aiuti economici e restituendo persino gli oggetti saccheggiati dal Tempio dai soldati di Nabucodonosor.

Nel salmo non si dice “Quando il re di Persia Ciro ristabilì la sorte di Sion” ma “quando il Signore ristabilì la sorte di Sion”, un modo per affermare che Dio rimane il Signore della storia che ne muove tutti i fili e pertanto non c’è nessun altro dio – ancora un cenno alla lotta contro l’idolatria. Questo salmo, scritto probabilmente molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, evoca la gioia e l’emozione della liberazione e del ritorno. Quante volte durante l’esilio, si sognava questo momento! Quando si è realizzato, quasi non si osava crederci: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion ci sembrava di sognare…la bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia”.  Ci si immagina persino che anche gli altri popoli siano stupiti da questo miracolo: “Allora si diceva tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. In questa frase emergono due elementi: un’infinita gratitudine per la gratuità della scelta di Dio e la consapevolezza del popolo eletto di essere stato scelto per il mondo: la sua vocazione è essere testimone dell’opera di Dio, consapevolezza maturata proprio durante l’esilio. Nel salmo, lo stupore per la scelta di Dio è espresso con i termini: “grandi cose” cioè l’opera di liberazione di Dio, in particolare la liberazione dall’Egitto. Parole come impresa, opera, grandi cose, meraviglie, che si trovano spesso nei salmi, sono sempre un richiamo all’Esodo. Qui, si aggiunge una nuova opera di liberazione di Dio: la fine dell’esilio vissuta dal popolo come una vera e propria risurrezione. Per esprimerlo, il salmista usa due immagini: I torrenti nel deserto: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti nel Negheb”, deserto a sud di Gerusalemme, dove in primavera fioriscono miriadi di fiori. L’altra immagine è il seme: “chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”. il grano seminato sembra marcire e morire… ma quando spuntano le spighe, è come una rinascita, immagine eloquente perché il ritorno degli esiliati significava una vera rinascita anche per la terra. Un’ultima osservazione: quando in questo salmo si canta il ritorno dall’esilio babilonese, esso era  già avvenuto da molto tempo, ma Israele non parla del passato solo per raccontarlo, bensì per comunicare un messaggio e un insegnamento per il futuro: questo ritorno alla vita, collocato storicamente,  diventa ragione per sperare in altre future risurrezioni e liberazioni. Ogni anno, durante la festa delle Capanne, in autunno, questo canto veniva intonato durante il pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre i pellegrini salgono, cantano la liberazione già avvenuta e pregano Dio di affrettare il giorno della liberazione definitiva, quando apparirà il Messia promesso. Esistono anche oggi molti luoghi di schiavitù, molti «Egitto» e «Babilonia». È a questo che si pensa quando si canta: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte come i torrenti nel Negheb” chiedendo la grazia di collaborare con tutte le nostre forze all’opera di liberazione inaugurata dal Messia per affrettare il giorno in cui l’intera umanità possa cantare: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)

 San Paolo usa l’immagine della corsa e sappiamo quanto sia importante per ogni persona il traguardo e la voglia di raggiungerlo. Qui l’apostolo parla di sé stesso: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”. Per correre verso questa stessa meta e ottenere il premio promesso, occorre voltare le spalle a molte cose, come ha fatto san Paolo da quando si è sentito conquistato da Cristo. Il verbo greco che utilizza (katalambano) significa afferrare, catturare, prendere con forza ed esprime il modo con cui è stato trasformato completamente da persecutore dei cristiani in apostolo del vangelo (At.9) quando Cristo si è letteralmente impossessato di lui sulla via di Damasco. San Paolo presenta la sua fede cristiana come naturale continuazione della sua fede ebraica perché Cristo realizza pienamente le attese dell’Antico Testamento assicurandone la continuità con il Nuovo Testamento. Qui però insiste sulla novità che Gesù Cristo apporta: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. La conoscenza di Cristo reca una novità radicale perché si diventa realmente una “nuova creatura”, come scrive nella seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto domenica scorsa (2 Cor 5,17-21). Ora lo dice in un altro modo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”. In altre parole:  quel che prima ai mei occhi appariva importante, cioè un vantaggio e un privilegio , adesso li rifiuto del tutto. I vantaggi di cui parla erano l’orgoglio di appartenere al popolo d’Israele, la fede e l’incrollabile speranza di quel popolo, la pratica assidua e scrupolosa di tutti i comandamenti che egli chiama l’obbedienza alla legge di Mosè. Ma ormai Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita ed egli  possiede il bene più grande, l’unica vera ricchezza al mondo, il vero tesoro dell’umana esistenza: conoscere Cristo. Conoscere nel linguaggio biblico non significa conoscenza intellettuale ma vivere nell’ intimità con qualcuno, amarlo e condividerne la vita. Paolo insiste su questo legame con Cristo perché nella comunità di Filippi alcuni cristiani di origine ebraica volevano imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo e questo creava grande divisione come abbiamo letto nella seconda lettura della seconda domenica di Quaresima. Tale questione fu risolta dagli Apostoli durante il primo Concilio a Gerusalemme affermando che nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè è stata superata e il battesimo nel nome di Gesù ci rende figli di Dio per cui la circoncisione non è più indispensabile per far parte del popolo della Nuova Alleanza. Paolo inoltre parla qui di “comunione” alle sofferenze di Cristo, di conformazione alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, innestati in lui per seguire il suo stesso cammino: “comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte”. 

Nota: San Paolo c’invita a vivere come Cristo e ad accettare tutti i rischi dell’annuncio del Vangelo, ma riusciamo a dire, come lui, che l’unico bene per noi è la conoscenza di Cristo e tutto il resto non è che spazzatura? La parola spazzatura che qui è usata traduce il termine greco skubala che ha un significato molto forte traducibile in più modi: come rifiuto, scarto, escrementi secchi e sporcizia, residuo di cibo marcio e avariato. Insomma un rifiuto totale di tutto, quando si conosce Cristo e da lui si è posseduti.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)

Siamo già nel contesto della Passione e la prima riga menziona il Monte degli Ulivi. Dato che gli evangelisti ne parlano solo negli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù e i farisei vogliono qui tendergli un tranello, questo fa capire che ormai si è deciso di processarlo e condannarlo. Per questo ogni dettaglio di questo testo va esaminato attentamente perché non si tratta di un semplice episodio della vita di Gesù, ma del cuore stesso della sua missione.  All’inizio Gesù è seduto come un maestro: “tutto il popolo andava da lui ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Tuttavia la domanda degli scribi e dei farisei lo mette subito nella posizione di giudice e Gesù è l’unico personaggio seduto. Questo dettaglio ci aiuta a capire che il tema del giudizio, in san Giovanni, è centrale: l’episodio della donna adultera attua ciò che scrive all’inizio del suo vangelo: “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Siamo davanti a un finto processo perché la questione è chiara: la donna adultera è stata colta in flagrante e ci sono testimoni; la Legge di Mosè condanna l’adulterio, come uno dei comandamenti dati da Dio sul Sinai (Non commetterai adulterio, Es 20,14; Dt 5,18); il Levitico prescrive la pena di morte: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Gli scribi e i farisei, che interrogano Gesù, sono come sempre molto attaccati alla Legge di Mosè, ma dimenticano di aggiungere che la Legge prevede la condanna per entrambi i colpevoli, l’uomo e la donna adultera. Il fatto che pur sapendolo nessuno lo ricorda, ciò dimostra che la vera questione non è l’osservanza della Legge, ma ben altro, e il testo lo dice chiaramente: “Dicevano questo per metterlo alla prova e per aver motivo di accusarlo”. E’ dunque una domanda-trappola e di che cosa vogliono accusare Gesù? Gesù non può approvare la lapidazione perché smentirebbe tutta la predicazione sulla misericordia; se però pubblicamente difende la donna, potrà essere accusato di incitare il popolo a disobbedire alla Legge. Nel Vangelo di Giovanni (capitolo 5), lo abbiamo già visto dire al paralitico guarito di prendere il suo lettuccio, un atto proibito di sabato. Quel giorno non riuscirono a condannarlo, ma questa volta la disobbedienza sarebbe stata pubblica. In fondo, nonostante l’apparente rispetto con cui lo chiamano “Maestro”, Gesù è in pericolo tanto quanto la donna adultera: entrambi rischiano la morte. Gesù non risponde subito: “Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Con il suo silenzio, silenzio costruttivo, invita ciascuno a riflettere senza umiliare nessuno e lui, incarnazione della misericordia, non mette in difficoltà né gli scribi e i farisei, né la donna adultera: Desidera che ciascuno faccia un passo avanti cercando di rivelare ai farisei e agli scribi il vero volto del Dio della misericordia. Quando risponde lo fa quasi ponendo  una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. A questo punto tutti se ne vanno, “uno per uno, cominciando dai più anziani». Niente di sorprendente: i più anziani appaiono quelli più pronti ad ascoltare l’appello alla misericordia. Chi sa quante volte hanno sperimentato su di loro la misericordia di Dio… Quante volte hanno letto, cantato, meditato il versetto: «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6. Quante volte hanno recitato il Salmo 50(51): «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Ora possono capire che la loro mancanza di misericordia è una colpa, una mancanza di fedeltà al Dio dell’Alleanza. La frase di Gesù potrebbe averli portati a questa riflessione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. Essere il primo a scagliare la pietra era un’espressione nota a tutti nel contesto della lotta contro l’idolatria. La Legge non diceva che doveva essere il testimone dell’adulterio a lanciare la prima pietra; ma lo diceva espressamente per il caso dell’idolatria (Dt 13,9-10; Dt 17,7). Così la risposta di Gesù può essere interpretata come: «Questa donna è colpevole di adulterio, nel senso letterale del termine, è vero; ma voi non state forse commettendo un adulterio ancora più grave, un’infedeltà al Dio dell’Alleanza? I profeti spesso parlano dell’idolatria in termini di adulterio.  Alla fine, restano solo Gesù e la donna: è il faccia a faccia, come dice sant’Agostino, tra la miseria e la misericordia. Per lei, il Verbo compie ancora una volta la sua missione, dicendo la parola di riconciliazione. Isaia, parlando del servo di Dio, l’aveva annunciato: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino fumigante…» (Is 42,3). Ma questo non è buonismo perché Gesù dice chiaramente alla donna di non peccare più, il peccato rimane condannato, ma solamente il perdono può permettere al peccatore di rinascere alla speranza.

Nota: Cosa scrive Gesù per terra? L’evangelista non lo specifica, e questo ha dato origine a diverse interpretazioni: Alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, ipotizzano che Gesù stesse scrivendo i peccati nascosti di coloro che accusavano la donna. Per questo, uno dopo l’altro, essi se ne vanno via; Rimanda alla Legge mosaica: secondo un’interpretazione rabbinica, potrebbe riferirsi a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva.” Se fosse così, Gesù starebbe indicando che gli accusatori stessi sono colpevoli di infedeltà a Dio. Potrebbe essere un atto simbolico di distacco; scrivere nella polvere potrebbe simboleggiare che le accuse contro la donna sono effimere, destinate a svanire; potrebbe indicare un richiamo alla pazienza e alla riflessione; infine potrebbe essere un modo per non rispondere subito, spingendo gli accusatori a riflettere sulla loro ipocrisia.

Il gesto di Gesù invita a spostare l’attenzione non sulla colpa degli altri, ma sulla propria coscienza. Nessuno può condannare un altro senza prima esaminare se stesso. Questo episodio ci insegna che la misericordia di Dio supera la condanna umana, e che il perdono è sempre possibile quando c’è un cuore disposto a cambiare. 

La prima lettura e il Vangelo di questa domenica hanno lo stesso messaggio: dimentica il passato, non rimanere attaccato a esso… nulla, nemmeno i ricordi, deve impedirti di andare avanti. Nella prima lettura, Isaia parla al popolo in esilio… nel Vangelo, Gesù parla a una donna colta in flagrante adulterio: apparentemente, due casi molto diversi, ma il messaggio è lo stesso: volgi lo sguardo con decisione verso il futuro, non pensare più al passato.

+Giovanni D’Ercole

(Gv 5,31-47)

 

«Ma io ho una testimonianza più grande di Giovanni» (Gv 5,36). «Gesù ha amato gli uomini nel Padre, a partire dal Padre – e così li ha amati nel loro vero essere, nella loro realtà» [Papa Benedetto].

Gesù non ama le passerelle. Il Figlio resta immerso nel Padre: non riceve appoggio e gloria da uomini o da “perimetri”, perché non è impregnato di aspettative ‘normali’.

Le attese prevedibili ritardano il germogliare del Regno, della sua caratura alternativa - nell’esperienza viva di ulteriori scambi; nella completezza di essere che ci appartiene.

La patologia della reputazione, dei convincimenti accreditati e della prassi concorde a contorno, esclude il colpo d’ali. Ma ogni speranza corta e rigida respinge Dio in nome di Dio.

Solo ciò che non è pietrificato testimonia Cristo Signore, somiglianza del Padre il quale non rigetta le nostre eccentricità, perché vuole farle crescere - recuperandone gli opposti fiorenti.

Gli stessi “momenti no” che sgretolano il prestigio sono anche una molla per attivarci e non stagnare nelle medesime situazioni di sempre; rigenerando, procedendo altrove.

Insomma, il nostro Cielo è intrecciato alla carne che trasmuta, alla terra e alla nostra polvere: sta dentro e in basso, non dietro le nuvole o nelle maniere.

 

In Gv compare spesso l’aspetto processuale-religioso cui la vicenda di Gesù è stata sottoposta.

Le aspirazioni degli uomini sono stranamente incardinate sul bisogno di riconoscersi gli uni gli altri, purchessia. Quindi sempre “quelli di prima”.

Il loro mondo, centrato sull’onore che si riceve: il tema è la Gloria - che però diventa un dialogo fra sordi.

«Doxa» nel mondo greco sta a significare manifestazione di prestigio, onore, stima.

In ebraico, il termine Gloria [Kabôd] indica ‘peso’ specifico, qualitativo (e manifestazione) del trascendente.

Quindi la ‘gloria’ che l’uomo dà a Dio - si fa per dire - è il contrario del criterio ellenista: un umile e grato riconoscimento, di ‘peso’ famigliare e umanizzante.

Nessuno è chiamato a prestigio e forza artificiose. La Gloria di Gesù stesso è stata unicamente la presa di coscienza e confessione di essere Inviato del Padre.

A noi non spetta altro.

I fallimenti che mettono in bilico la fama servono a farci accorgere di ciò che non avevamo notato, quindi a deviare da un destino conformista.

 

La Via nello Spirito è ispirata da una dimensione di Mistero e Libertà tutta da scoprire: Esodo.

Le gabbie [anche “spirituali”] colpevolizzano ogni diverso, inculcano il rimuginare, frenano le bizzarrie più feconde.

Tali intelaiature non risvegliano la creatività, anzi l’anestetizzano secondo cliché interno: dove appunto si prende «gloria gli uni dagli altri» (v.44).

Le gattabuie non insegnano a lanciarsi in modo personale e al momento giusto; e anche il ritmo non si cala sulle inclinazioni difformi, sulla loro originalità - ricchezza unica, che prepara il Nuovo irripetibile e stravagante.

Infatti l’impronta unilaterale non rispetta la natura, quindi rinforza ciò che dice di voler scacciare. Un disastro per una vita di senso e testimonianza in Cristo.

Il Signore ha avuto come unico culto quotidiano - appunto - il vuoto di sostegno sociale (non accettava le sue deviazioni) e la pienezza degli albori nel Padre.

 

 

[Giovedì 4.a sett. Quaresima, 3 aprile 2025]

La Testimonianza più grande

(Gv 5,31-47)

 

«I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui».

«Gesù ha amato gli uomini nel Padre, a partire dal Padre – e così li ha amati nel loro vero essere, nella loro realtà».

[Papa Benedetto]

 

Gesù non ama le passerelle. Il Figlio resta immerso nel Padre: non riceve appoggio e gloria da uomini a modo o da perimetri antichi, perché non è impregnato di aspettative umane culturali religiose normali.

Esse impediscono la percezione di ciò che non sappiamo, quindi occultano l’eccezionalità del nome particolare; inzuppano la testa e lo sguardo di normalità correnti e pedestri, le quali condizionano, dissociano, plagiano, rendono esterni.

Le attese prevedibili ritardano il germogliare del Regno di Dio e della sua caratura alternativa - nell’esperienza viva di ulteriori scambi; di altre qualità interpersonali, nella completezza di essere che ci appartiene.

Il peso specifico di questo inaudito presente e futuro che corrisponde perché fa parte della nostra intima essenza, resta altrimenti in mano a opinioni ovvie e al solito trascinarsi dozzinale, che non espone.

La patologia della reputazione, dei convincimenti accreditati e della prassi concorde a contorno, esclude il colpo d’ali. Ma ogni speranza corta e rigida respinge Dio in nome di Dio.

Solo ciò che non è pietrificato e convenzionale testimonia Cristo Signore, somiglianza del Padre il quale non rigetta le nostre eccentricità: vuole farle crescere - recuperandone gli opposti fiorenti.

Gli stessi “momenti no” che sgretolano il prestigio sono anche una molla per attivarci e non stagnare nelle medesime situazioni di sempre; rigenerando, procedendo altrove.

I fallimenti che mettono in bilico la fama servono a farci accorgere di ciò che non avevamo notato, quindi a deviare da un destino conformista.

Insomma, il nostro Cielo è intrecciato alla carne che trasmuta, alla terra e alla nostra polvere: sta dentro e in basso, non dietro le nuvole o nelle maniere.

Nella paradossale divinizzazione del Dio che viene, la mentalità tutta mondana di ogni cerchia di puristi o conformisti vive un ribaltamento. Cifra della grande Sapienza di natura.

Così il maestro Lü Hui-ch’ing commenta un celebre passo del Tao Tê Ching (LXXVI): «Il Cielo sta in alto per il ch’ì, la Terra sta in basso per la forma: il ch’ì è molle e debole, la forma è dura e forte».

 

In Gv compare spesso l’aspetto processuale-religioso cui la vicenda di Gesù [anche nei suoi intimi] è stata sottoposta.

Le aspirazioni degli uomini pii antichi sono stranamente incardinate sul bisogno di fare corpo e riconoscersi gli uni gli altri, purchessia. Quindi sempre “quelli di prima”.

Il loro mondo, centrato sull’onore che si riceve: il tema è la Gloria - che però diventa un dialogo fra sordi. «Doxa» nel mondo greco sta a significare manifestazione di prestigio, onore, stima.

In ebraico, il termine Gloria [Kabôd] indica peso specifico, qualitativo (e manifestazione) del trascendente.

Quindi la gloria che l’uomo dà a Dio - si fa per dire - è il contrario del criterio ellenista: principio e valutazione tipici dell’eroe tutto impettito, “libero”, indipendente e sicuro di sé [a motivo del prestigio attorno].

Viceversa, ecco la ‘gloria’ come umile e grato riconoscimento, ma di peso nel senso cristiano: famigliare e umanizzante.

La donna e l’uomo chiamati a una missione particolare scoprono in sé e nella realtà le condizioni di perfezione e imperfezione.

Esse ci guidano alla realizzazione innata - non volatile - e al bene comune, secondo contributo specifico, personale.

Nessuno è chiamato a prestigio e forza artificiose, aggiungendo qualcosa all’onore di ciò che già è nella propria essenza vocazionale - talora nella paradossale completezza, per una convivialità delle differenze.

La Gloria di Gesù stesso è stata unicamente la presa di coscienza e confessione di essere Inviato del Padre.

A noi non spetta altro - anche nel senso della crescita, dell’importanza in sé, più di “chi si accorge”.

 

I gruppi devotissimi si muovevano purtroppo non di rado a un livello di aspirazioni mondane - proprio con una strana mescolanza di criteri.

Quindi finivano per apprezzarsi a circolo, scambiandosi pacche sulle spalle gli uni gli altri.

Così - accontentandosi di essere confermati - essi ancora tendono ad accentuare le caratteristiche di ciò che normalmente viene identificato come dimensione spirituale, e che facilmente si contamina col compromesso del look artificiale esterno.

L’equilibrio interiore del Chiamato per Nome si ristabilisce invece attraversando sogni e il carattere congenito - più che con il soppesare e gli influssi crudi della vita conscia, i quali distraggono e livellano l’anima.

Su tale china ciascuno tende infatti ad assumere atteggiamenti che non si adattano alla vocazione originalissima; anzi, espongono la coscienza a dissociazioni e condizionamenti che la snaturano.

La Via nello Spirito di Libertà, Amore, Novità, è ispirata da una dimensione di Mistero e spontaneità tutta da scoprire: Esodo.

Tale caratura procede oltre i compartimenti, le denominazioni ricolme di soluzioni assodate, di pensiero conforme agganciato a un modo univoco di leggere le Scritture e le testimonianze.

Le gabbie anche “spirituali” colpevolizzano ogni diverso, inculcano il rimuginare, frenano le bizzarrie più feconde.

Per garantire la compattezza “ecclesiale”, le diverse stie fanno ovunque leva sull’inadeguatezza all’interpretazione maggioritaria - e sensi di colpa tipici del “contenitore” particolare.

Tali intelaiature non risvegliano la creatività, anzi l’anestetizzano secondo cliché interno: dove appunto si prende «gloria gli uni dagli altri» (v.44).

 

Le gattabuie non insegnano a lanciarsi in modo personale e al momento giusto.

Anche il ritmo non si cala sulle inclinazioni difformi, sulla loro atipicità - ricchezza unica, che prepara il Nuovo irripetibile e stravagante che non sappiamo già.

I libretti d’istruzione ci vessano di progressioni e mete altrui da raggiungere, le quali si rivelano tutte ancora da superare - e al di fuori del proprio gusto e senso intimo; proiettate nel futuro, impersonali.

La via “spirituale” del branco riflette la vita, il giudizio o l’idea del leader e il suo cerchio “magico”; la forma mentis d’una generazione o di un ceto.

In tal guisa, le traiettorie assodate non annunciano cambiamenti e incontri autentici, i quali si svolgono nella semplicità propulsiva, trasversale, dell’imprevedibile concreto. 

I modelli ostinati non ci fanno accorgere di un Dio Persona: Egli chiama alla vita, mediante impulsi che sarebbero nuova linfa per la trasmutazione.

L’Eterno si comunica in ciò che parla dentro.

Proprio nei bisogni - non ossessionando le energie conosciute solo all’anima, di conflitti per doveri inutili, i quali non risolvono nulla, né trasmettono felicità.

L’ideologia religiosa “egocentrica” e ogni pensiero indirizzato bollano le crisi come inadeguatezze alle azioni collettive finalizzate - quindi condannano gl’istinti.

Ma le pulsioni si manifestano quali fughe del cuore individuale che cerca nuovo ascolto, desidera affiorare e realizzare; vuole integrarsi a modo suo, o tracciare strade che preparano futuro.

 

Non di rado l’evocazione dei soliti rituali delimitati - ad es. di “carisma” - nonché la concatenazione delle costituzioni normative, mortificano il carattere in un’atmosfera livellata, che si bea di sintonie raccogliticce.

Non sono la nostra terra.

L’aia del ‘sistema’ opera secondo direttive e ruoli.

Ma i compartimenti limitano il raggio d’azione, sebbene apparentemente lo dilatino.

Le inclusioni banali ci “insegnano” ad accontentarsi dei mezzi passi già tutti cesellati nel poco e non oltre le righe.

Ciò per non consentire d’introdursi nelle rigenerazioni che contano.

 

Il clan autoreferenziale spesso toglie spazio a qualsiasi possibilità che sposti da lì.

Ciò fa diventare dipendenti dal plauso. Frena, quando viceversa potremmo osare... 

Per non continuare a percepire sane inquietudini. Difformità che riscatterebbero dalla subordinazione.

Infatti l’impronta unilaterale non rispetta la natura, quindi rinforza ciò che dice di voler scacciare.

Un disastro per una vita di senso e testimonianza in Cristo.

 

Il Signore ha avuto come unico culto quotidiano - appunto - il vuoto di sostegno sociale (che non accettava le sue deviazioni) e la pienezza degli albori nel Padre.

 

«Ma io ho una testimonianza più grande di Giovanni, perché le opere che il Padre mi ha dato perché le compia, le opere stesse che faccio, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato» (Gv 5,36).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come tuteli in Cristo il vissuto comunitario e le tue trasposizioni di Fede?

Qual è il punto di omologazione nelle soddisfazioni, e dove collochi la tua Preziosità?

 

 

Dito che indica: provvisorio ma sicuro e forte

 

L’impegno di tutti i cristiani è quello di «essere testimoni di Gesù», di riempire la vita di «quel gesto» che fu tipico di Giovanni il Battista: «indicare Gesù». Una «vocazione» comune sulla quale si è soffermato Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta venerdì mattina, 16 dicembre.

Seguendo il percorso liturgico che negli ultimi tre giorni ha fatto riflettere «su Giovanni, l’ultimo dei profeti, l’uomo più grande nato da donna» il Pontefice ha approfondito il brano del Vangelo (Giovanni 5, 33-36) nel quale il precursore «è presentato, è mostrato come il testimone». È Gesù stesso che parla chiaramente: «Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza». Proprio questa, ha sottolineato Francesco, «è la vocazione di Giovanni: essere testimone».

Una vocazione resa ancora più comprensibile da alcuni esempi concreti. Gesù infatti, ha ricordato il Papa, ha detto che Giovanni «era la lampada». Però, ha spiegato, «lui era la lampada ma non la luce, la fiaccola che indicava dov’era la luce, lampada che indica dov’è la luce, dà testimonianza della luce». Allo stesso modo, Giovanni «era la voce», tant’è che egli stesso «dice di sé: “Io sono la voce che grida nel deserto”». Però non era la Parola, infatti «lui era la voce ma che dà testimonianza della Parola, indica la Parola, il Verbo di Dio. Lui soltanto voce». E così il Battista che «era il predicatore della penitenza» dice chiaramente: «Dopo di me viene un altro che è più forte di me, è più grande di me, al quale non sono degno di allacciare i calzari. E questo vi battezzerà in fuoco e Spirito Santo». Riassumendo: «Lampada che indica la luce, voce che indica la Parola, predicatore di penitenza e battezzatore che indica il vero battezzatore in Spirito Santo». Giovanni, ha concluso il Papa, «è il provvisorio e Gesù è il definitivo. Giovanni è il provvisorio che indica il definitivo».

Ma proprio questa provvisorietà, questo suo “essere per”, è «la grandezza di Giovanni». Un uomo «sempre col dito lì», a indicare un altro. Infatti nel Vangelo si legge che «la gente si domandava in cuor suo se Giovanni non fosse il Messia. E lui, chiaro: “Io non sono”». E anche quando i dottori, i capi del popolo gli fecero chiedere: «Ma sei tu o dobbiamo aspettare un altro?» lui sempre ha ripetuto: «Io non sono. Viene un altro», ricordando nuovamente che sarebbe arrivato uno al quale lui non era degno di allacciare i calzari: «Io non sono. Un altro, che vi battezzerà».

È proprio questa, secondo il Pontefice, l’immagine più eloquente che ci dice chi fu Giovanni il Battista, la sua «testimonianza provvisoria ma sicura, forte», il suo essere «fiaccola che non si è lasciata spegnere dal vento della vanità» e «voce che non si è lasciata diminuire dalla forza dell’orgoglio». Giovanni, ha chiarito il Papa, è «sempre uno che indica l’altro e apre la porta all’altra testimonianza, quella del Padre, quella che Gesù dice oggi: “Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni, quella del Padre». E, ha aggiunto il Pontefice, quando nel Vangelo si legge che si sentì «la voce del Padre: “Questo è il mio Figlio”», dobbiamo comprendere che «è stato Giovanni ad aprire questa porta».

Perciò Giovanni «è grande», perché «sempre si lascia da parte». Lui, ha spiegato Francesco, è grande perché «è umile e prende la strada di abbassarsi, di annientarsi, la stessa che prenderà Gesù dopo». E anche in questo «offre una grande testimonianza: apre quella strada dell’annientamento, dello svuotarsi di sé stesso» che fu poi anche di Gesù.

Un ruolo che il Battista incarnò, si potrebbe dire, anche fisicamente: «ai discepoli, ai propri discepoli, una volta che passava Gesù» indicava con il dito: «Quello è l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Quello, non io, quello». E, di fronte «all’insistenza dei capi, del popolo, dei dottori» Giovanni ribadiva sempre: «È necessario che Lui cresca, a Lui tocca crescere, a me diminuire». Nell’umiltà, ha detto il Pontefice, «è la grandezza di Giovanni». Tant’è che egli «diminuisce, si annienta, fino alla fine: nell’oscuro di una cella, in carcere, decapitato, per il capriccio di una ballerina, l’invidia di un’adultera e la debolezza di un ubriaco».

Più volte il Papa, per rimarcare il concetto, ha ripetuto l’espressione «Grande Giovanni!». Un grande che, ha aggiunto, se dovessimo raffigurarlo in un dipinto, dovremmo semplicemente disegnare un dito che indica.

A conclusione dell’omelia, il Papa ha portato, come di consueto, la sua meditazione alla realtà concreta degli uomini di oggi. Vedendo che nella cappella di Santa Marta erano presenti alcuni vescovi, sacerdoti, religiosi, e coppie che celebravano il cinquantesimo, ha detto loro: «È una bella giornata per domandarsi» se «la propria vita cristiana ha sempre aperto la strada a Gesù, se la propria vita è stata piena di quel gesto: indicare Gesù». Occorre, ha proseguito, «ringraziare» per tutte le volte che ciò è stato fatto, ma anche «ricominciare». Sempre ricominciare, con quella che il Pontefice ha definito «vecchiaia giovane o gioventù invecchiata, come il buon vino!» e fare sempre un «passo in avanti per continuare a essere testimoni di Gesù». Con l’aiuto di Giovanni «il grande testimone».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 17/12/2016]

I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui. Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto. È una domanda che, insieme, ci dà gioia e ci inquieta: siamo veramente il santuario di Dio nel mondo e per il mondo? Apriamo agli uomini l’accesso a Dio o piuttosto lo nascondiamo? Non siamo forse noi – popolo di Dio – diventati in gran parte un popolo dell’incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo? Abbiamo motivo di gridare in quest’ora a Dio: “Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa’ che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa’ che la forza del tuo Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinché con gioia testimoniamo il tuo messaggio!

[Papa Benedetto, omelia Crisma 21 aprile 2011]

1. L’ammonimento, carissimi fratelli e sorelle, è contenuto nella parte della Lettera di San Paolo ai Romani che quest’anno viene proposta alla comune riflessione nella ricorrenza della “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”.

La prospettiva in cui si pone la “Settimana” è quella di un’umanità concorde nel levare la sua lode al Signore, creatore dell’uomo e suo redentore: “Lodate il Signore, popoli tutti” (Sal 117, 1; cf. Rm 15, 5-13), recita il salmo citato nel brano di San Paolo. Un contributo fondamentale all’attuazione di una simile lode universale sarà certo offerto dalla ricomposizione dell’unità dei discepoli di Cristo.

Il movimento, “sorto per grazia dello Spirito Santo” e “ogni giorno più ampio” (Unitatis redintegratio, 1), che si propone il ristabilimento della piena unità dei cristiani, è per sua natura molto complesso. Implica una profonda motivazione spirituale, un atteggiamento di religiosa obbedienza alle esigenze del Vangelo, la preghiera perseverante, il contatto fraterno con gli altri cristiani per superare, mediante il dialogo della verità e nel rispetto dell’integrità della fede, le divergenze esistenti, ed infine la cooperazione nei vari campi possibili per una testimonianza comune.

Questa ricerca di unità nella fede e nella testimonianza cristiana trova in San Paolo un’indicazione realistica e mirabilmente feconda, oltre che sempre attuale: l’accoglienza reciproca fra cristiani. L’Apostolo raccomanda: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi per la gloria di Dio” (Rm 15, 7).

Lo spirito di accoglienza è una dimensione essenziale e unificante dell’intero movimento ecumenico; è una espressione vitale dell’esigenza della comunione. San Paolo indica alcuni elementi importanti di questa accoglienza: essa deve essere un’accoglienza nella fede in Gesù Cristo, deve essere reciproca, deve realizzarsi per la gloria di Dio.

2. Come Cristo accolse voi, esorta San Paolo, così voi accoglietevi gli uni gli altri, nel perdono sincero e nell’amore fraterno. È nella fede in Cristo che si raccoglie la comunità cristiana. È nell’ambito del comune battesimo che l’accoglienza reciproca può contare sulla forza agglutinante della grazia, la cui efficacia perdura nonostante le gravi divergenze in atto. Lo sottolinea il Concilio Vaticano II quando afferma che quanti “credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica” (Unitatis redintegratio, 3). Essi pertanto “giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono insigniti del nome di cristiani e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore” (Unitatis redintegratio, 3).

3. L’accoglienza tra cristiani, per generare comunione vera, deve inoltre essere reciproca: “Accoglietevi gli uni gli altri” (Rm 15, 7). Ciò suppone la reciproca conoscenza e la disponibilità ad apprezzare e accettare i valori autenticamente cristiani vissuti e sviluppati dagli altri. È quanto ancora ricorda il Concilio Vaticano II: “È necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori veramente cristiani, provenienti dal comune patrimonio, che si trovano tra i fratelli da noi separati. Riconoscere le ricchezze di Cristo e le opere virtuose nella vita degli altri, i quali rendono testimonianza a Cristo talora fino all’effusione del sangue, è cosa giusta e salutare: perché Dio è sempre mirabile e sublime nelle sue opere” (Unitatis redintegratio, 4). Il Concilio si spinge ancor oltre aggiungendo che “quanto dalla grazia dello Spirito Santo viene fatto nei fratelli separati può contribuire alla nostra edificazione” (Unitatis redintegratio, 4). È perciò doveroso saper apprezzare quanto di autenticamente evangelico si realizza tra gli altri cristiani. Infatti “tutto ciò che è veramente cristiano, mai è contrario ai benefici della fede, anzi può far sì che lo stesso mistero di Cristo e della Chiesa sia raggiunto più perfettamente” (Unitatis redintegratio, 4).

Scaturisce di qui la “regola aurea” dell’ecumenismo, il principio cioè del rispetto della legittima varietà, purché non lesiva dell’integrità della fede (cf. Unitatis redintegratio, 16-17). Alcuni aspetti del mistero rivelato infatti, come rileva il Concilio a proposito delle Chiese Orientali, possono talvolta essere percepiti in modo più adeguato dagli uni che non dagli altri (cf. Unitatis redintegratio, 17). L’apertura all’accoglienza degli altri con il loro patrimonio cristiano si rivela così la via per meglio attingere alla sovrabbondante ricchezza della grazia di Dio.

4. Conseguenza di ciò è che, come dice San Paolo, tutto si compia “per la gloria di Dio” (Rm 15, 7). Nella comunità cristiana, unita nel nome di Cristo e guidata dalla parola evangelica, si riflette l’azione di Dio in favore dell’umanità e risplende in qualche modo la sua gloria. Lo rivela Gesù stesso quando, nella preghiera sacerdotale, rivolta al Padre, per l’unità dei suoi discepoli, afferma: “La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro perché siano come noi una cosa sola” (Gv 17, 22).

La reciproca accoglienza per la gloria di Dio si mostra particolarmente in due momenti: nella preghiera che i cristiani elevano insieme rendendo lode al comune Signore, e nella concorde testimonianza di carità, da cui traspare l’amorevole sollecitudine di Cristo per gli uomini del nostro tempo.

5. Considerando oggi la situazione ecumenica alla luce delle esigenze della reciproca accoglienza, dobbiamo rendere gloria a Dio per le nuove condizioni di fraternità cristiana che sono venute consolidandosi. I contatti, lentamente ripresi e talvolta faticosamente portati avanti, il dialogo teologico sempre arduo ed esigente, gli avvenimenti di collaborazione pastorale e di cooperazione pratica, hanno creato una situazione veramente nuova tra i cristiani. Si è chiaramente percepito che la divisione è antievangelica e si cerca insieme di ristabilire l’unità nella fedeltà.

Il dialogo teologico tra i cristiani sta raggiungendo mete importanti per il chiarimento delle reciproche posizioni e per il raggiungimento di alcune convergenze su temi che nel passato erano aspramente controversi. Ma il dialogo deve proseguire per raggiungere la meta: il pieno accordo sulla comune professione di fede. Al riguardo, vorrei esprimere apprezzamento e gratitudine ai teologi cattolici e delle altre Chiese e comunità ecclesiali che, nell’ambito delle varie commissioni miste, dedicano la loro attenzione e i loro sforzi alla ricerca della via per superare le divergenze ereditate dalla storia, facilitando così al Magistero della Chiesa l’assolvimento del dovere che gli compete nel servizio alla verità rivelata. Un lavoro prezioso, dunque, quello dei teologi, che va accolto con riconoscenza e sostenuto con la preghiera.

6. Il tema della presente “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” si pone nella prospettiva della dossologia universale, che deve levarsi da tutti i popoli a lode dell’unico Signore.

Ciascuno si senta impegnato a contribuirvi nei modi a lui possibili. La preghiera insistente non mancherà di affrettare il ristabilimento della piena unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa di Cristo. Diciamo perciò anche noi col Salmista: “Lodate il Signore, popoli tutti. / Voi tutte, nazioni, dategli gloria; / perché forte è il suo amore per noi / e la fedeltà del Signore dura in eterno” (Sal 117, 1-2). Amen.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 gennaio 1991]

Papa Francesco […] è tornato su una delle sue idee madri: l'importanza per il cristiano, e non solo, di leggere ogni giorno qualche riga del vangelo. Per un credente il vangelo non è un libro come gli altri ma, essendo Gesù la Parola Incarnata del Padre, la raccolta delle sue parole rende possibile una particolare efficacia dell'azione dello Spirito Santo dentro ciascuno di noi.

Alla prova dei fatti però noi ce ne dimentichiamo spesso e questo accade perché non sappiamo coniugare le parole dette duemila anni fa con la nostra vita quotidiana. Il segreto per riuscire a rendere il vangelo una presenza quotidiana è scoprire che esso è già in se stesso "una presenza quotidiana".

La domenica in cui il Papa chiedeva di tornare a dare importanza al vangelo era, per esempio, quella dove si concludeva il girone d'andata del campionato di calcio: ovvero il girone d'andata di un campionato che è il primo (e speriamo l'ultimo) senza pubblico.

Ci sono stati moltissimi gol e risultati sorprendenti e, secondo gli esperti, tutto ciò sarebbe dovuto in gran parte all'assenza di pubblico: ci sono giocatori, soprattutto i più giovani - ha dichiarato per esempio Fabio Capello - che senza pubblico segnano più gol, rendono di più, perché hanno più coraggio.

È, in maniera macroscopica, il problema che abbiamo tutti: dare un'enorme importanza al giudizio degli altri su di noi. Tutti sentiamo la spinta a stare nel gruppo perché stare nel gruppo, nell'organizzazione sociale, ci fa sentire protetti, "dalla parte giusta", non siamo soli ad affrontare la vita. Ma proprio questa atmosfera di sicurezza è spesso la catena che ci tiene in prigione, che ci impedisce di essere noi stessi e che ci spinge a tradire le nostre aspirazioni.

Ciascuno di noi, ecco l’insegnamento che ci arriva da un campionato come questo, ha "un pubblico" al quale rendere conto in misura più o meno conscia: e il vangelo potrebbe aiutarci proprio a liberarci in buona misura di tutto ciò. Gesù Cristo, che si creda o meno che fosse Dio, è stato certamente una persona che è andata contro le attese del suo “ pubblico”: sia che fossero i parenti, gli amici o i potenti del suo tempo.

In una discussione, Cristo dice ai farisei che per loro è impossibile seguirlo non perché non sappiano, nel loro intimo, che lui abbia ragione ma perché, seguendolo, avrebbero perso il consenso del loro gruppo. "Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?" (Gv 5,44).

Comprendiamo da soli che leggere una frase come questa la mattina prima di andare in ufficio o di entrare in una dinamica relazionale importante, sarebbe infinitamente liberante: e ciò a prescindere che si sia credenti e praticanti. Ecco perché le parole di Bergoglio sul vangelo hanno un loro valore universale.

[https://www.agi.it/blog-italia/idee/post/2021-01-28/campionato-senza-pubblico-papa-francesco-vangelo-11184640/

Oggi 25 marzo, siamo nel cuore del Giubileo contemplando il mistero dell’Annunciazione e Incarnazione del Verbo. Era prima una festa prevalentemente mariana, come appare tuttora in tante tradizioni religiose popolari. Con la riforma liturgica è stata evidenziata come solennità cristologica importante che c’immerge nel cuore dell’Incarnazione del Verbo eterno: il Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. Resta sempre forte la presenza di Maria – L’Annunziata - come colei che con il suo “sì” ha reso possibile il mistero della nostra salvezza, il prodigio appunto dell’Incarnazione; e invita ognuno di noi a unire il nostro “sì” al suo, consapevoli che, soltanto nell’umiltà, il cuore umano è capace di rispondere alla chiamata di Dio.

 

IV Domenica di Quaresima anno C (30 Marzo 2025) 

 

*Prima Lettura Dal libro di Giosuè (5, 9a 10- 12)

Mosè non è entrato nella terra promessa perché è morto sul monte Nebo, in corrispondenza del Mar Morto, sul lato che oggi corrisponde alla riva giordana. Non è quindi lui che ha introdotto il popolo d’Israele in Palestina, ma il suo servitore e successore Giosuè. Tutto il libro di Giosuè racconta l’ingresso del popolo nella terra promessa, a partire dalla traversata del Giordano dato che le tribù d’Israele sono entrate in Palestina da est. L’obiettivo di chi ha scritto questo libro è abbastanza chiaro: se l’autore ricorda l’opera di Dio a favore d’Israele è per esortare il popolo alla fedeltà. Nelle poche righe del testo odierno si nasconde un vero e proprio sermone che si articola in due insegnamenti: in primo luogo, non bisogna mai dimenticare che Dio ha liberato il popolo dall’Egitto; e in secondo luogo, se l’ha liberato è per dargli questa terra come aveva promesso ai nostri padri. Tutto riceviamo da Dio, ma quando lo dimentichiamo, ci mettiamo da soli in situazioni senza uscita. Per tale ragione il testo fa continui paralleli tra l’uscita dall’Egitto, la vita nel deserto e l’ingresso in Canaan. Ad esempio, nel capitolo 3 del libro di Giosuè, la traversata del Giordano è raccontata in modo solenne come la ripetizione del miracolo del Mar Rosso. Nel testo di questa domenica, l’autore insiste sulla Pasqua: “celebrarono la Pasqua, al quattordici del mese, alla sera”. Come la celebrazione della Pasqua aveva segnato l’uscita dall’Egitto e il miracolo del Mar Rosso, anche ora la Pasqua segue l’ingresso nella terra promessa e il miracolo del Giordano. Si tratta di paralleli intenzionali con i quali l’autore vuol dire che, dall’inizio alla fine di questa incredibile avventura, è lo stesso Dio che agisce per liberare il suo popolo, in vista della terra promessa. Il libro di Giosuè viene immediatamente dopo il Deuteronomio. “Giosuè” non è il suo nome, ma il soprannome datogli da Mosè: all’inizio, si chiamava semplicemente “Hoshéa”, “Osea” che significa “Egli salva” e Il nuovo nome, “Giosuè” (“Yeoshoua”) contiene il nome di Dio a indicare più esplicitamente che solo Dio salva. Giosuè del resto ha ben compreso che lui da solo non può liberare il suo popolo. La seconda parte dell’odierno testo è sorprendente perché all’apparenza si parla solo di cibo, ma c’è ben altro: “Il giorno dopo la Pasqua, mangiarono i prodotti di quella terra: azzimi e frumento abbrustolito. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna: quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.” Questo cambiamento di cibo fa pensare a uno svezzamento: si volta pagina, inizia una nuova vita e finisce il periodo del deserto con le sue difficoltà, recriminazioni e anche soluzioni miracolose. Ora Israele, arrivato nella terra donata da Dio, non sarà più nomade, ma popolo sedentario di agricoltori nutrendosi dei prodotti del suolo; un popolo adulto e responsabile della propria sussistenza. Avendo i mezzi per provvedere da solo ai propri bisogni, Dio non si sostituisce a lui perché nutre grande rispetto per la sua libertà. Questo popolo però non dimenticherà la manna e ne conserverà la lezione: come il Signore ha provveduto nel deserto, così Israele deve diventare sollecito verso chi per varie ragioni è in difficoltà. E’ detto chiaramente nel Libro del Deuteronomio: Dio ci ha insegnato a nutrire i poveri per aver fatto scendere il pane dal cielo per i figli d’Israele e adesso a noi tocca fare altrettanto (cf Dt.34, 6). Infine, la traversata del Giordano e l’ingresso nella terra promessa, terra della libertà, aiuta a meglio comprendere il battesimo di Gesù nel Giordano che diventerà l segno della nuova entrata nella vera terra della libertà. 

 

*Salmo responsoriale (33 (34) 2-3, 4-5, 6-7)

In questo salmo, come in altri, ogni versetto è costruito in due righe in dialogo e l’ideale sarebbe cantarlo a due cori alternati, riga per riga. E’ composto da 22 versetti corrispondenti alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, in poesia chiamato acrostico: ogni lettera dell’alfabeto è posta verticalmente davanti a ogni versetto, che inizia con la lettera corrispondente nel margine. Questo procedimento, abbastanza frequente nei salmi, indica che ci troviamo di fronte a un salmo di ringraziamento per l’Alleanza. Potremmo dire che è la risposta alla prima lettura tratta dal libro di Giosuè, dove pur raccontando una storia, in realtà c’è un invito a rendere grazie per tutto ciò che Dio ha compiuto per Israele.  Il linguaggio del ringraziamento è onnipresente, come si nota già nei primi versetti: “Benedirò il Signore in ogni tempo… sulla mia bocca sempre la sua lode…magnificate con me il Signore… esaltiamo insieme il suo nome”. A parlare è Israele, testimone dell’opera di Dio: un Dio che risponde, libera, ascolta, salva: “Ho cercato il Signore: mi ha risposto; da ogni paura mi ha liberato… questo povero grida e il Signore lo ascolta: lo salva da tutte le sue angosce.”  Quest’attenzione di Dio emerge nel passo del capitolo 3 dell’Esodo, che era la prima lettura della scorsa domenica, terza di Quaresima cioè l’episodio del roveto ardente: “Ho visto la miseria del mio popolo… il suo grido è giunto fino a me… conosco le sue sofferenze”. Israele è il povero liberato della misericordia di Dio, come leggiamo in questo salmo e che ha scoperto la sua duplice missione: anzitutto insegnare a tutti gli umili la fede, intesa come dialogo tra Dio e l’uomo che grida la sua angoscia e Dio lo ascolta, lo libera e viene in suo aiuto; in secondo luogo essere disposti a collaborare con l’opera di Dio. Come Mosè e Giosuè sono stati strumenti di Dio per liberare il suo popolo e introdurlo nella terra promessa, così Israele sarà l’orecchio attento ai poveri e lo strumento della sollecitudine di Dio per loro: “i poveri ascoltino e si rallegrino”. Israele deve far risuonare lungo i secoli questo grido, che è una polifonia intrecciata di sofferenza, lode e speranza per alleviare ogni forma di povertà. Occorre però essere poveri nel cuore con il realismo di riconoscersi piccoli e invocare Dio in aiuto nella certezza che ci accompagna in ogni circostanz per aiutarci ad affrontare gli ostacoli della vita. 

 

*Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5, 17-21)

Si può comprendere questo testo in due modi e tutto ruota attorno alla frase centrale: “non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” (v.19) che può avere due significati. Il primo: fin dall’inizio del mondo, Dio ha tenuto il conto dei peccati degli uomini, ma, nella sua grande misericordia, ha accettato di cancellarli grazie al sacrificio di Gesù Cristo e questa è la cosiddetta “sostituzione”, cioè Gesù si è fatto carico al nostro posto di un debito troppo grande per noi. Secondo: Dio non ha mai contato i peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per mostrarci che Dio è da sempre amore e perdono, come leggiamo nel salmo 102 (103): “Dio allontana da noi i nostri peccati”. L’intero cammino della rivelazione biblica ci fa passare dalla prima ipotesi alla seconda e, per capire meglio, occorre rispondere a queste tre domande: Dio tiene il conto dei nostri peccati? Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non fa calcoli con noi e se non possiamo parlare di «sostituzione», come interpretare questo testo di Paolo?

Primo: Dio tiene il conto dei nostri peccati? All’inizio della storia dell’Alleanza, sicuramente Israele  ne era convinto e si capisce perché. L’uomo non può scoprire Dio se Dio stesso non gli si rivela. Ad Abramo Dio non parla di peccato, ma di alleanza, di promessa, di benedizione, di discendenza, e mai appare la parola “merito”. “Abramo ebbe fede nel Signore e ciò gli fu accreditato come giustizia” (Gen 15,6), dunque la fede è l’unica cosa che conta. Dio non tiene i conti delle nostre azioni, il che però non significa che possiamo fare qualsiasi cosa, perché siamo responsabili della costruzione del Regno. A Mosè il Signore si rivela come misericordioso e clemente, lento all’ira e ricco di amore (cf. Es 34,6). Davide, proprio in occasione del suo peccato, capisce che il perdono di Dio precede persino il nostro pentimento ed Isaia osserva  che Dio ci sorprende perché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri: Egli è solo perdono per i peccatori (cf Is 55,6-8). Nell’Antico Testamento il popolo eletto sapeva già che Dio è tenerezza e perdono e l’ha chiamato Padre molto prima di noi. La parabola di Giona, ad esempio, è stata scritta proprio per mostrare che Dio si prende cura persino dei Niniviti, nemici storici di Israele.

Secondo: Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non tiene il conto dei peccati e quindi non abbiamo un debito da pagare, non c’è bisogno che Gesù si sostituisca a noi. Inoltre, i testi del Nuovo Testamento parlano di solidarietà, mai di sostituzione e Gesù non agisce al nostro posto e non è nemmeno il nostro rappresentante. Egli è il «primogenito» come dice Paolo, che ci apre la strada e cammina davanti a noi. Mescolato con i peccatori ha chiesto il Battesimo da Giovanni e sulla croce ha accettato di dare la vita sulla croce per noi. Si è avvicinato a noi affinché noi potessimo avvicinarci a Lui.

Terzo: Come va quindi interpretato questo testo di Paolo? Anzitutto, Dio non ha mai tenuto il conto dei peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per farcelo comprendere. Quando a Pilato dice: “Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37), afferma che la sua missione è rivelare il volto di Dio che è da sempre amore e perdono. E quando Paolo scrive: “… non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” intende chiarire che Dio cancella le nostre false idee su di Lui, quelle che lo dipingono come un contabile.  Gesù è venuto per mostrare il volto di Dio Amore, ma è stato rifiutato e per questo ha accettato di morire. Era diventato troppo scomodo per le autorità religiose del tempo, che pensavano di sapere meglio di lui chi fosse Dio ed è dunque morto in croce a causa dell’orgoglio umano che si è trasformato in odio implacabile. A Filippo nel cenacolo disse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9) e pur in mezzo all’umiliazione e all’odio ha proferito solamente parole di perdono. Si comprende a questo punto la frase con cui si chiude questo brano: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (v. 21). Sul volto di Cristo crocifisso contempliamo fino a che punto arriva l’orrore del nostro peccato, ma anche fino a che punto giunge il perdono di Dio e da questa contemplazione può nascere la nostra conversione: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, testo del profeta  Zaccaria (12,10), che troviamo nel IV vangelo (Gv 19,37). Da qui nasce per noi la vocazione di ambasciatori dell’amore di Dio: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v.20).

 

*Dal Vangelo secondo Luca (15, 1-3. 11-32)

La chiave interpretativa di questo testo si trova proprio nelle prime parole. Scrive san Luca che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo” mentre “i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. I primi sono pubblici peccatori da evitare, mentre gli altri sono persone oneste, che cercano di fare ciò che piace a Dio. In verità i farisei erano in genere persone rette, pie e fedeli alla Legge di Mosè, scioccate però dal comportamento di Gesù che sembra non capire con chi ha a che fare se persino mangia e si mescola con i peccatori. Dio è il Santo e per loro c’era un’incompatibilità totale tra Dio e i peccatori e pertanto Gesù, se era veramente da Dio, doveva evitare di frequentarli. Questa parabola intende aiutare a scoprire il vero volto di Dio che è Padre. In effetti, il personaggio principale di questa storia è Dio stesso, il padre che ha due tipi di figli, entrambi con almeno un punto in comune, cioè il modo di concepire  la relazione con il padre in termini di meriti e contabilità anche se si comportano in maniera differente: il minore l’offende gravemente, a differenza del maggiore, e alla fine però riconosce il suo peccato: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; il maggiore  invece si vanta di aver sempre obbedito si lamenta però di non aver mai ricevuto nemmeno un capretto come meriterebbe. Il Padre è fuori da questi calcoli e non vuole sentir parlare di meriti perché ama i suoi figli e in questa relazione non c’è spazio per il calcolo della contabilità. Al minore, che aveva preteso “la mia parte di patrimonio che mi spetta”, si era spinto ben oltre la richiesta, come alla fine dirà a entrambi: tutto ciò che è mio è vostro. Al figlio prodigo che torna non lascia nemmeno il tempo di esprimere un qualche pentimento, non esige spiegazioni; al contrario vuole subito fare festa, perché “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. Chiara la lezione: con Dio non è questione di calcoli, meriti, anche se facciamo fatica a debellare questa mentalità e tutta la Bibbia, fin dall’Antico Testamento, mostra la lenta e paziente pedagogia con cui Dio cerca di farsi conoscere come Padre, pronto a far festa ogni volta che ritorniamo da lui.

Due piccoli commenti per concludere:

1. Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, Israele viene nutrito dalla manna durante la traversata del deserto, mentre qui non c’è manna per il figlio che rifiuta di vivere con suo padre e si ritrova in un deserto esistenziale, perché si è tagliato fuori da solo. 

2. Circa invece il legame con la parabola della pecora smarrita, che si trova sempre in questo capitolo di Luca, si osserva che il pastore va a cercare la pecora smarrita e la riporta indietro mettendola sulle spalle, il padre invece non impedisce al figlio di partire e non lo costringe a tornare perché rispetta fino in fondo la sua libertà.

+Giovanni D’Ercole

(Gv 5,17-30)

 

Il centro della speranza giudaica era il ritorno ai tempi antichi, che però si trasferiva in un futuro indeterminato [“ultimo giorno”].

Secondo il Maestro, la vita da salvati inizia ora, e dall’ascolto della sua specifica Parola-Persona (v.24) che soppianta ogni codice.

Egli si attribuisce una caratura (anche giuridica) totale. Essa sostituisce l’ambito un tempo creduto appannaggio del solo Dio: «Ha dato ogni giudizio al Figlio» (v.22).

Di fronte al risuonare del Logos presente e al Sogno incisivo e vivificante del Padre che si fa attuale, la morte perde qualsiasi efficacia distruttrice.

L’aspetto di realtà umana e operante prevale su ciò che alle religioni sembrava fosse riservato al solo Dio del Cielo, e proiettato in un futuro perfetto.

Il Memoriale è adesso. Per rifare il trionfo - attraverso il Golgotha, qui.

Impossibile confondere la portata della vita incessante con le osservanze.

Difficile chiamare Dio col termine Padre [Abba, papà] se Egli ci trasmettesse voglia di essere e fare, solo con distacco.

La guarigione del paralitico (vv.1-16) ha infatti tratti esistenziali che trascorrono in carattere divino; essa non è paragonabile ai risultati dell’attività di un medico, bensì all’opera dello Spirito in noi.

 

È finito il tempo della diminuzione dell’uomo davanti all’Altissimo: il suo disegno non è per l’angustia, bensì per la crescita - che autenticamente manifesta il Giudizio dell’Eterno.

Giudizio non di custodia dell’ordine, ma d’amore e rigenerazione: impronta umana nel trasmetterci la condizione divina (v.18) in pienezza di essere e libertà, nell’intima esperienza del suo Cuore.

Gesù esprime l’immanenza col Padre dilatandone l’opera creatrice, che non è affatto terminata: continua a vivificarci.

Dio sostiene l’universo e il nostro essere, quindi è sempre attivo. Qui e ora; non all’altra riva del tempo - quindi non c’inclina al quieto sopore della coscienza.

Il Padre opera sempre, il Figlio - sua impronta prima e incessante - ne imita la qualità d’azione in continuità.

È Patto concreto per il popolo: il suo Consiglio tutto da recepire viene realmente a noi.

A tale scopo non teme di trasgredire un precetto approssimativo e angusto, idolo della sacrale, pur devotissima, tradizione antica.

Del resto, anche nel riposo del sabato il Creatore benedice e consacra (Gn 2,3).

 

Tutta la storia molteplice è in una sorta di principio d’unità: tempo d’intervento per la salvezza e relazione col Mistero.

Ovunque procediamo, chi riflette Dio non stordisce di pregiudizi sulla realtà umana: è invece già lì e rimane a oltranza.

Figli nel «Figlio dell’uomo» (v.27) - per dialogare, aprire, sorreggere, dare ristoro, rendere intensa e delicata ogni situazione.

Onorare l’Altissimo è onorare l'umanità bisognosa di tutto, in qualsiasi momento.

Solo questo lo ‘manifesta’, anche nelle ‘infrazioni - terra ricca di nuove sorgenti che accorciano le distanze.

Questa l’Opera reciproca e singolare di Dio (Gv 6,29): amare, non «opere» (v.28) grevi di legge e da nomenclatura.

 

 

[Mercoledì 4.a sett. Quaresima, 2 aprile 2025]

(Gv 5,17-30)

 

Il centro della speranza giudaica era il ritorno ai tempi antichi, che però si trasferiva in un futuro indeterminato [“ultimo giorno”].

Secondo il Maestro, la vita da salvati inizia ora, e dall’ascolto della sua specifica Parola-Persona (v.24) che soppianta ogni codice.

Egli si attribuisce una caratura (anche giuridica) totale. Essa sostituisce l’ambito un tempo creduto appannaggio del solo Dio: «Ha dato ogni giudizio al Figlio» (v.22).

Di fronte al risuonare del Logos presente e al Sogno efficace e vivificante del Padre che si fa attuale, la morte perde qualsiasi efficacia distruttrice.

L’aspetto di realtà umana e operante prevale su ciò che alle religioni sembrava fosse riservato al solo Dio del Cielo, e proiettato in un futuro perfetto.

Il Memoriale è adesso. Per rifare il trionfo - attraverso il Golgotha, qui.

 

Dice il Tao Tê Ching (xxi): «Dai tempi antichi sino a oggi, il suo Nome non passa, e così acconsente a tutti gli inizi. Da che conosco il modo di tutti gli inizi? Da questo».

Gesù esprime l’intima immanenza col Padre dilatandone l’opera creatrice, che non è affatto terminata: continua a vivificarci. Egli sostiene l’universo e il nostro essere, quindi è sempre attivo.

Impossibile confondere la portata della vita incessante con le osservanze.

Difficile chiamare Dio col termine Padre [Abba, papà] se Egli ci trasmettesse voglia di essere e fare, solo con distacco.

La guarigione del paralitico (vv.1-16) ha infatti tratti esistenziali che trascorrono in carattere divino; essa non è paragonabile ai risultati dell’attività di un medico, bensì all’opera dello Spirito in noi.

È finito il tempo della diminuzione dell’uomo davanti all’Altissimo: il suo disegno non è per l’angustia, bensì per la crescita - che autenticamente manifesta il Giudizio dell’Eterno.

Giudizio non di custodia dell’ordine, ma d’amore e rigenerazione: impronta umana nel trasmetterci la condizione divina [(v.18); cf. commento a Gv 10,31-42: Ti fai Dio, voi siete Dèi] in pienezza di essere e libertà, nell’intima esperienza del suo Cuore.

 

Qui e ora; non all’altra riva del tempo - quindi non c’inclina al quieto sopore della coscienza.

Indulgente sì, ma a motivo delle cadute nel rischio - di testimoniare almeno una sua briciola d’immagine dentro, senza minimo denominatore.

Nell’incontro con la Persona di Gesù ci accorgiamo della sua potenza di risuscitazione: priva di parzialità, consistente e oggettiva sia sul terreno della vita che della morte, della remissione, e del giudizio.

Incessantemente assimiliamo i suoi pensieri, impulsi, parole, azioni, vicende cariche: tutto diviene giovane esperienza di Dio che si rivela.

Il Padre opera sempre, il Figlio - sua impronta prima e incessante - ne imita la qualità d’azione in continuità.

È Patto concreto per il popolo: il suo Consiglio tutto da recepire viene realmente a noi.

A tale scopo non teme di trasgredire un precetto approssimativo e angusto, idolo della sacrale, pur devota, tradizione antica.

Del resto, anche nel riposo del sabato il Creatore benedice e consacra (Gn 2,3).

Padre e Figlio non sono custodi della tranquillitas ordinis, né inducono al sopore della coscienza.

 

Tutta la storia molteplice è in una sorta di principio d’unità: tempo d’intervento per la salvezza, e relazione col Mistero.

Ovunque procediamo, chi riflette Dio non stordisce di pregiudizi sulla realtà umana: è invece già lì e rimane a oltranza.

Figli nel «Figlio dell’uomo» (v.27) - per dialogare, aprire, sorreggere, dare ristoro, rendere intensa e delicata ogni situazione.

Onorare l’Altissimo è onorare l'umanità bisognosa di tutto, in qualsiasi momento.

Solo questo lo manifesta, anche nelle infrazioni - terra ricca di nuove sorgenti che accorciano le distanze.

Questa l’Opera reciproca e singolare di Dio (Gv 6,29): amare, non «opere» (v.28) grevi di legge e da nomenclatura.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come essere volto del Padre, creatore di vita, amico e fratello, che fa risorgere?

Come riconoscerlo Alleanza nuova e corrispondere? Cosa significa per te credere nella vittoria della vita sulla morte?

 

 

Ti fai Dio

(Gv 10,31-42)

 

In Gv il termine Giudei indica non il popolo, bensì le guide spirituali. Un Gesù blasfemo rivendica la mutua immanenza col Padre, e osa dilatare a noi i confini del Mistero che lo avvolge e riempie.

Ma la condizione divina che si manifesta nella sua pienezza umana viene rifiutata dai capi religiosi proprio in nome dell’adesione all’Eterno.

Le autorità rigettano il Figlio in nome dell’Altissimo e della fedeltà all’idea tradizionale, all’immagine irriducibile del Dio vincitore (da cui scaturisce un certo tipo di società competitiva, spietata anche nella vita spirituale).

Secondo Gesù il Padre non è rivelato da ragionamenti e argomentazioni cerebrali, bensì dalla qualità indistruttibile delle opere «belle» (vv.32-33).

Il termine greco sta a indicare il senso di pienezza e meraviglia - verità, bontà, fascino, stupore - che emana dall’unica azione richiesta in qualsiasi opera (di rilievo o minuta): l'amore che risuscita il bisognoso.

E la Scrittura riconosce in ciascuno di noi questa sacra scintilla, che dà a tutti gli accadimenti e alle emozioni il passo della Vertigine che supera le cose circostanti, o come “dovrebbero” essere fatte.

Certo, a nostro sostegno abbiamo bisogno d’un Volto, di una relazione e di una vicenda di stretta parentela per identificare ciò che ci muove, per scrutare dentro quel che appare o viene suscitato.

L’Unità di nature - Lui in noi e noi col Padre - ci corrisponde nel Volto del Cristo, e si rende manifesta nell’ascoltare, accogliere, non precipitarsi a condannare, ma rendere forte il debole.

La simbiosi con Dio nelle nostre attività, col nostro modo di proporre o reagire, durante tutta la nostra vita, dispiega in ciascun Figlio la sua Somiglianza, anche nelle circostanze difficili.

Ogni cosa che accade, anche le persecuzioni e i tentativi di omicidio per incomprensione o invidia spirituale, può essere guardata in un’altra ottica.

Sono eventi, accadimenti esterni che attivano energie complessive: si fanno cosmiche fuori e acutamente divine in noi.

Più che pericoli e fastidi, tracciano un destino di Esodo - come un fiume che trasporta, ma che in Cristo ci scampa dalle mani d’una stasi mortifera (v.39), e risintonizza mirabilmente sulle forze che guidano alle periferie - dove dobbiamo andare.

 

 

Da Figlio di Davide a Figlio dell’uomo

 

La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, allocuzione al Concistoro 24 novembre 2012]

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Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him. When we speak of this task in which we share by virtue of our baptism, it is no reason to boast (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui. Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto (Papa Benedetto)
Because of this unique understanding, Jesus can present himself as the One who reveals the Father with a knowledge that is the fruit of an intimate and mysterious reciprocity (John Paul II)
In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità (Giovanni Paolo II)
Yes, all the "miracles, wonders and signs" of Christ are in function of the revelation of him as Messiah, of him as the Son of God: of him who alone has the power to free man from sin and death. Of him who is truly the Savior of the world (John Paul II)
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo (Giovanni Paolo II)
It is known that faith is man's response to the word of divine revelation. The miracle takes place in organic connection with this revealing word of God. It is a "sign" of his presence and of his work, a particularly intense sign (John Paul II)
È noto che la fede è una risposta dell’uomo alla parola della rivelazione divina. Il miracolo avviene in legame organico con questa parola di Dio rivelante. È un “segno” della sua presenza e del suo operare, un segno, si può dire, particolarmente intenso (Giovanni Paolo II)
That was not the only time the father ran. His joy would not be complete without the presence of his other son. He then sets out to find him and invites him to join in the festivities (cf. v. 28). But the older son appeared upset by the homecoming celebration. He found his father’s joy hard to take; he did not acknowledge the return of his brother: “that son of yours”, he calls him (v. 30). For him, his brother was still lost, because he had already lost him in his heart (Pope Francis)
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore (Papa Francesco)
Doing a good deed almost instinctively gives rise to the desire to be esteemed and admired for the good action, in other words to gain a reward. And on the one hand this closes us in on ourselves and on the other, it brings us out of ourselves because we live oriented to what others think of us or admire in us (Pope Benedict)
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi (Papa Benedetto)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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