Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Nella società odierna i fattori che procurano affanno e inquietudine sono molteplici e sovente le strategie per combatterle sono più difficili da trovare.
Questo tempo caratterizza il “barcollare” di valori fondamentali, di norme, di aspirazioni, che spingevano l’uomo verso la sua realizzazione, verso una sana relazione con gli altri.
Le attuali guerre nel mondo, il ricordo di esse per i meno giovani, le minacce atomiche, si aggiungono alla lista.
In un clima così ostile l’isolamento dell’uomo si accentua.
Ogni persona ha il proprio modo di reagire: quello più usuale è un senso di disagio, di ansietà, di sentirsi in pericolo senza sapere quale esso sia; di rovina, o altro.
Sovente ci sfugge la causa di tutto questo. La persona si sente disarmata, e se questa inquietudine è forte, può essere scaricata sul corpo.
Si noterà una rigidità muscolare, o possono essere presenti tremori, un sentirsi deboli, stanchi; anche la voce può tremare.
A livello cardio-circolatorio possono manifestarsi palpitazioni, svenimenti, aumento del battito cardiaco, aumento della pressione.
Anche a livello dell’intestino possono manifestarsi nausee, vomiti, mal di pancia - che non hanno origine organica.
Vi possono essere anche altre manifestazioni tipiche della storia di ogni persona, e non c’è organo su cui non può essere scaricata la tensione interna.
Ricordo che nella mia attività professionale ho incontrato soggetti con problematiche psicologiche “scaricate” in diverse parti del corpo; a volte, le più impensabili.
Mi sono ritrovato di fronte alopecie (perdita di capelli), arti bloccati, disturbi della vista, svenimenti, e negli ultimi tempi adolescenti che si tagliavano…
Se la persona si sente sopraffare da un’onda anomala di malessere interiore, può reagire in maniera inadeguata o addirittura pericolosa (alcol, droghe, corse in auto, gioco d’azzardo, ecc.).
La comprensione di queste agitazioni, preoccupazioni, ansie, è importante per stabilire quando esse sono nella norma o meno.
Gli stati di ansia non comuni si distinguono da una apprensione più o meno persistente, con crisi acute.
Questi stati sono da distinguersi dallo stato di preoccupazione diffusa che troviamo come usuale nella nostra vita quotidiana.
Ricordiamoci che per definire la nostra ansia, agitazione, dobbiamo convincerci che essa è qualcosa di normale quando l’individuo si sente minacciato.
L’agitazione va distinta dalla paura, dove il pericolo è reale: l’individuo può valutare la situazione e scegliere se affrontarla, o fuggire.
Quando parliamo di agitazione nella norma, vogliamo dire che è nella natura umana provarla di fronte ad un pericolo, a una malattia, etc.
Rappresenta il modo di vivere più profondo della nostra esistenza umana,
Ci fa trovare dinanzi ai nostri limiti, alle nostre debolezze, che non sono manifestazioni del malessere interiore o di malattia, ma espressioni della natura umana.
Più siamo coscienti dei nostri limiti, più riusciamo a vivere con le nostre ansie.
Per i nostri simili che si sentono onnipotenti l’agitazione, l’ansia, risultano insopportabili, poiché vengono alla coscienza i limiti che sono una ferita al proprio “sentirsi una creatura superiore”.
Sperimentiamo una normale inquietudine anche quando lasciamo una “strada vecchia per una nuova”.
Sotto questo punto di vista essa ci accompagna nei nostri cambiamenti, nella nostra evoluzione, e nel trovare un significato nella nostra vita.
Dott Francesco Giovannozzi psicologo-psicoterapeuta
Domenica di Pentecoste (anno C) [8 giugno 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Nella festa della Pentecoste come Maria e gli apostoli disponiamo il cuore ad accogliere il dono dello Spirito Santo che ci trasformi in fuoco e luce di amore. Oggi la prima lettura e il salmo responsoriale sono comuni agli anni A, B, C, mentre la seconda lettura e il vangelo sono diversi ogni anno.
*Prima lettura dal Libro degli Atti degli Apostoli (2, 1-11)
Gerusalemme non è solo la città dove Gesù ha istituito l’eucaristia, è morto ed è risorto, ma è anche la città dove lo Spirito è stato effuso sull’umanità. Era l’anno della morte di Gesù, ma le persone presenti in città probabilmente non avevano mai sentito parlare della sua morte e ancor meno della sua risurrezione per cui la festa di Pentecoste per loro era come tutte le altre. La Pentecoste ebraica era molto importante perché festa del dono della Legge, una delle tre feste dell’anno per le quali si saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme e l’elenco di tutte le nazionalità presenti in quell’occasione ne prova il grande interesse. Per i discepoli di Gesù, che lo avevano visto, udito e toccato dopo la sua risurrezione, nulla era più come prima, anche se non si aspettavano ciò che stava per accadere. Luca ci aiuta a comprendere ciò che succede, scegliendo le parole con cura, ed evocando almeno questi tre testi dell’Antico Testamento: Il dono della Legge al Sinai, una profezia di Gioele, l’episodio della torre di Babele. Anzitutto Il Sinai. Le lingue di fuoco, il fragore simile a un vento impetuoso richiamano quanto avvenne al Sinai, quando Dio diede le tavole della Legge a Mosè, Esodo19,16-19. Inserendosi in questa linea, Luca aiuta a capire che quella Pentecoste non fu il semplice pellegrinaggio tradizionale, ma un nuovo Sinai, sul quale Dio donò la sua Legge per insegnare al popolo a vivere nell’Alleanza. In questa Pentecoste Egli donò il suo stesso Spirito e d’allora in poi, la sua Legge, l’unico vero cammino verso la libertà e la felicità, non si trova più scritta su tavole di pietra, ma nel cuore dell’uomo, come aveva profetizzato Ezechiele (Ez.11,19-20; 36,26-27). Il profeta Gioele: Luca ha certamente voluto evocare anche una parola di Gioele: “Effonderò il mio spirito su ogni essere umano, dice Dio” (Gl 3,1), cioè su tutta l’umanità. Per Luca, quei Giudei devoti provenienti da tutte le nazioni sotto il cielo, come li chiama, sono simbolo dell’intera umanità, per la quale si compie finalmente la profezia di Gioele e questo significa che è giunto il “Giorno del Signore” tanto atteso. La torre di Babele, evento che possiamo riassumere in due atti: Atto 1: Gli uomini, che parlano la stessa lingua e le stesse parole, decidono di costruire una torre immensa tra la terra e il cielo. Atto 2: Dio li blocca e li disperde sulla terra confondendo le loro lingue e da quel momento non si comprendono più. Qual è in significato di questo racconto? Dio certamente non vuole mortificare le potenzialità dell’uomo e se quindi interviene, lo fa per risparmiare all’umanità la falsa strada del pensiero unico e di un progetto umano che esclude Dio. È come se dicesse: state cercando l’unità, che è cosa buona, con una strada sbagliata perché l’unità nell’amore non avviene con l’omologazione, ma nella diversità. E questo è il messaggio della Pentecoste: a Babele, l’umanità impara la diversità, a Pentecoste, apprende l’unità nella diversità “convivialità” (come scrive don Tonino Bello) perché tutte le nazioni ascoltano proclamare, ciascuna nella propria lingua, l’unico messaggio: “Magnalia Dei, le grandi opere di Dio” (At 2,11).
*Salmo responsoriale (103 (104), 1.24, 29-30, 31.34)
Questo salmo conta 36 versetti di lode e meraviglia davanti alle opere di Dio, un poema stupendo. Viene proposto per la festa di Pentecoste perché Luca, nel libro degli Atti degli Apostoli, racconta che la mattina di Pentecoste, gli apostoli, ripieni di Spirito Santo, si sono messi a proclamare in tutte le lingue le “grandi opere di Dio” della creazione. In tutte le civiltà ci sono poemi sulla bellezza della natura. In particolare, è stato ritrovato in Egitto, sulla tomba di un faraone, un poema scritto dal celebre faraone Akhenaton (Amenofi IV), un inno al Dio-Sole. Amenofi IV visse intorno al 1350 a.C., in un’epoca in cui gli Ebrei probabilmente si trovavano in Egitto e forse hanno conosciuto questo poema. Tra il poema del faraone e il salmo 103/104 ci sono somiglianze di stile e di vocabolario, ma ciò che interessa è cogliere le differenze segnate dalla rivelazione di Dio al popolo dell’Alleanza. Prima differenza: Dio solo è Dio, differenza essenziale per la fede di Israele: Dio è l’unico Dio, non ce ne sono altri e il sole non è un dio. Il racconto della creazione nel libro della Genesi rimette sole e luna al loro posto: non sono dèi, ma luminari anch’essi semplici creature. Diversi versetti mostrano Dio come unico Signore della creazione usando un linguaggio regale: Dio si presenta come un re magnifico, maestoso e vittorioso. Seconda particolarità: La creazione è tutta buona e qui c’è un’eco della Genesi che ripete instancabilmente: “E Dio vide che era cosa buona”. Questo salmo evoca tutti gli elementi della creazione con lo stesso stupore: “Io gioisco nel Signore” e il salmista aggiunge (in un versetto non letto questa domenica): “Voglio cantare al Signore finché vivo, suonare per il mio Dio finché esisto” Tuttavia, il male non è ignorato: la fine del salmo lo menziona e ne invoca la scomparsa dato che già nell’Antico Testamento si era compreso che il male non viene da Dio, perché tutta la creazione è buona e un giorno Dio farà sparire ogni male dalla terra: il Re vittorioso eliminerà tutto ciò che ostacola la felicità dell’uomo. Terza particolarità: La creazione è continua non essendo un atto del passato, come se Dio avesse lanciato la terra e l’uomo nello spazio una volta per tutte, ma una relazione perenne tra il Creatore e le sue creature. Quando diciamo nel Credo: “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra”non affermiamo solo la fede in un atto iniziale, ma riconosciamo di essere in una relazione necessaria con lui lui e questo salmo lo ribadisce parlando della costante azione di Dio:”Tutti da te aspettano…Nascondi il tuo volto: sono smarriti…Ritiri il loro respiro: muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito: sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Altra particolarità: L’uomo è culmine della creazione. Per la fede ebraica al vertice della creazione c’è l’uomo, il re del creato e per questo riempito del soffio di Dio. Ed è proprio ciò che celebriamo a Pentecoste: lo Spirito di Dio che è in noi vibra e entra in risonanza con l’uomo e con tutto il creato e il salmista canta: “Dio gioisca delle sue opere! Io gioisco nel Signore”. In conclusione la creazione ha senso nella luce dell’Alleanza: In Israele ogni riflessione sulla creazione si colloca nella prospettiva dell’Alleanza avendo Israele sperimentato dapprima la liberazione da parte di Dio, e solo dopo ha meditato sulla creazione alla luce di questa fondamentale esperienza. Nel salmo ci sono tracce visibili di ciò: Anzitutto, il nome di Dio usato è sempre il celebre tetragramma YHWH, che traduciamo con Signore, il nome del Dio dell’Alleanza, rivelato a Mosè. Inoltre nell’espressione: “Signore, mio Dio, quanto sei grande” il possessivo è un richiamo all’Alleanza, poiché il progetto di Dio nell’Alleanza era proprio detto così: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio”. Questa promessa si compie nel dono dello Spirito a ogni carne, come proclama il profeta Gioele e ogni uomo è invitato a ricevere il dono dello Spirito per diventare vero figlio di Dio.
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8, 8 –17)
La difficoltà principale di questo testo è nella parola “carne” che nel vocabolario di san Paolo non ha lo stesso significato rispetto al nostro vocabolario in cui spesso si contrappongono i due componenti dell’essere umano corpo e anima rischiando di male interpretare quel che Paolo intende dire quando parla di carne e di Spirito. Quel che lui chiama “carne” non è ciò che noi chiamiamo corpo e quel che chiama “Spirito” non corrisponde a ciò che chiamiamo anima; anzi egli precisa più volte che si tratta dello Spirito di Dio,“lo Spirito di Cristo”. Non contrappone due parole, “carne” e “Spirito”, ma due espressioni: “vivere secondo la carne” e “vivere secondo lo Spirito” cioè scegliere tra due modi di vivere, o meglio decidere chi seguire e quale linea di condotta adottare. Torna il tema delle due vie che ogni giudeo come san Paolo ben conosce: scegliere tra due strade, tra due atteggiamenti possibili davanti alle difficoltà o alle prove: la fiducia in Dio, oppure la diffidenza; la sicurezza di non sentirsi mai abbandonati da Dio oppure il dubbio e il sospetto che Dio non cerchi veramente il nostro bene; la fedeltà ai suoi comandamenti perché ci fidiamo di lui, oppure la disobbedienza perché ci riteniamo capaci di autonome decisioni. La storia d’Israele nella Bibbia (si pensi a Massa e Meriba nel libro dell’esodo) presenta numerosi esempi di sfiducia davanti alle prove della vita e nel deserto specialmente di fronte alle tante prove tra cui la fame e la sete. Quando il popolo sospettò che Dio lo abbandonasse fece un vero processo d’intenzione a Dio e a Mosè. Anche Adamo, difronte al limite posto ai suoi desideri, sospettò e disobbedì al Signore. La tentazione di Adamo ed Eva nell’Eden si ripropone nella nostra vita ogni giorno: è il costante problema della fiducia e della sfiducia, il cosiddetto peccato “originale” nel senso che è alla base di tutti i disastri umani. Opposto al sospetto e alla ribellione contro Dio sta l’atteggiamento di Cristo pieno di fiducia e sottomissione perché sa che la volontà di Dio è solo bene. Soprattutto di fronte alle sfide del dolore in tutte le sue forme e alla morte sono due agli tteggiamenti opposti che Paolo chiama “vivere secondo la carne” o “vivere secondo lo Spirito”. Vivere secondo la carne significa per lui comportarsi come schiavi che non si fidano e obbediscono per obbligo o per paura delle punizioni. “Vivere secondo lo Spirito” è invece “comportarsi da figli”, tessere cioè relazioni di fiducia e di tenerezza che, seguendo l’esempio di Cristo, portano alla vita. Vivere sotto l’influsso della carne (cioè nell’atteggiamento di sfiducia e disobbedienza verso Dio) conduce alla morte, mentre vivere mediante lo Spirito è far morire le opere del peccato. In altre parole: l’atteggiamento da schiavo, è distruttivo mentre l’atteggiamento da figlio è via di pace e felicità. Lo Spirito di Dio, che con il battesimo abita in noi, ci fa chiamare Dio “Abbà-Padre”, e il giorno in cui tutta l’umanità riconoscerà Dio come Padre, il progetto divino sarà compiuto, e tutti insieme entreremo nella sua gloria. Pochi versetti più avanti, Paolo annoterà che la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Il testo odierno ci ricorda infine che poiché siamo figli di Dio, siamo anche eredi di Dio, coeredi con Cristo, a condizione di soffrire con lui per essere con lui anche nella gloria. Un testo che può essere letto in due modi: lo schiavo immagina un Dio che mette delle condizioni all’eredità; invece il figlio considera Dio come Padre anche e soprattutto nella sofferenza. Il soffrire è inevitabile come lo fu anche per Cristo, ma vissuto con lui e come lui, diventa via di risurrezione ed allora “a condizione di soffrire con lui” vuol dire: a condizione di essere con lui, di rimanere uniti a lui in ogni momento, anche nella sofferenza inevitabile.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 15-16. 23b-26)
Questo passo evangelico molto noto assume oggi una nuova luce grazie agli altri testi biblici proposti per la festa di Pentecoste. Ad esempio, si è tentati di pensare allo Spirito Santo in termini di ispirazione, di idee, di discernimento, di intelligenza, ma per la festa del dono dello Spirito, il vangelo oggi parla soltanto di amore. Gesù dice qui che lo Spirito di Dio è tutt’altra cosa: è Amore, l’Amore personificato. Questo significa che, la mattina di Pentecoste, a Gerusalemme, quando i discepoli furono ricolmi di Spirito Santo, fu l’amore stesso che è Dio a riempirli. E allo stesso modo, anche noi, battezzati e cresimati, sappiamo che la nostra capacità di amare è abitata dall’amore stesso di Dio. Lo ricorda il salmo responsoriale 103/104 quando proclama: Tu mandi il tuo Spirito, e noi, creati a immagine di Dio, siamo chiamati a somigliargli sempre di più, costantemente modellati da Lui a sua immagine. Lo Spirito è il vasaio che lavora la sua creta e ogni vaso diventa sempre più raffinato nelle mani dell’artigiano. Noi siamo la creta nelle mani di Dio per cui la nostra somiglianza con Lui si affina sempre più nella misura in cui ci lasciamo trasformare dallo Spirito d’Amore. Nella seconda lettura san Paolo parla del nostro rapporto con Dio riassunto in una frase: non siamo più schiavi, ma siamo figli di Dio, mentre nel vangelo Gesù collega il nostro rapporto con Dio al nostro rapporto con i fratelli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv14, 15) e sappiamo bene qual è il suo comandamento: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv 13,34). Se Gesù si riferisce al gesto della lavanda dei piedi, cioè a un atteggiamento deciso di servizio, possiamo tradurre “se mi amate, osserverete i miei comandamenti” con “se mi amate, vi metterete a servizio gli uni degli altri”. L’amore di Dio e l’amore dei fratelli sono inseparabili, così inseparabili che è dalla qualità del nostro servizio verso il prossimo che va giudicata la qualità del nostro amore per Dio e quindi “se non vi mettete al servizio dei vostri fratelli, non pretendete di dire che mi amate!” Poco più avanti, Gesù riprende un’espressione simile e la sviluppa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv14,23). Non significa che il Padre del cielo non ci ama se non ci mettiamo al servizio dei fratelli perché in lui non ci sono condizioni e ricatti. Al contrario, la caratteristica della misericordia è proprio chinarsi ancora più verso i miseri come miseri siamo tutti, almeno in quanto a amore e servizio degli altri. L’amore si impara esercitandolo, ma ciò che qui il Signore ci dice è qualcosa che ben conosciamo: la capacità di amare è un’arte, e ogni arte si impara esercitandola. L’amore del Padre è smisurato, infinito ma la nostra capacità di accoglierlo è limitata e cresce man mano che lo esercitiamo. Possiamo allora tradurre così: “Se qualcuno mi ama, si metterà al servizio degli altri e a poco a poco, il suo cuore si allargherà; l’amore di Dio lo invaderà sempre di più, e potrà servire ancora meglio gli altri…e così via fino all’infinito” cioè in un progresso senza limiti. Concludiamo tornando al termine “Paraclito” che può tradursi in consolatore e difensore. Sì, abbiamo bisogno di un difensore, ma non davanti a Dio e san Paolo lo chiarisce bene nella seconda lettura: Lo Spirito che avete ricevuto non vi rende schiavi, gente che ha ancora paura, è invece Spirito che vi rende figli (cf Rm 8,15). Non abbiamo quindi più paura di Dio e non abbiamo bisogno di un avvocato davanti a Lui. Ma allora perché Gesù dice che pregherà il Padre, ed egli ci darà un altro difensore, perché rimanga con noi per sempre? Sì, abbiamo bisogno di un difensore, che ci difenda da noi stessi, dalle nostre remore a servire gli altri, dalla scarsa fiducia nella potenza di Dio, difenda in noi costantemente la causa degli altri contro il nostro egoismo perché, così agendo, in realtà difende noi stessi dato che la vera felicità consiste nel lasciarci modellare ogni giorno da Dio a sua immagine vincendo ogni resistenza egoistica.
+Giovanni D’Ercole
Maria nella Chiesa, che genera i figli
(Gv 19,25-34)
Il breve passo di Vangelo ai vv.25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che ai piedi della Croce, la Madre è figura del resto d’Israele autenticamente sensibile e fedele.
Il popolo-sposa del Primo Testamento è come in attesa della reale Rivelazione: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto e spento la gioia della festa nuziale tra il Padre e i suoi figli.
L’Israele autenticamente adorante ha suscitato il passaggio dalla religiosità alla Fede che opera, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
Ai piedi della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, che proclamano la Lieta Notizia di Dio - stavolta in favore esclusivo di ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi.
Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua Madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo.
Tra esse: Giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; Lassisti, che consideravano ormai Gesù anatema, intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia.
A inizio secondo secolo Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.
A coloro che ormai volevano prescindere dall’insegnamento dei ‘padri’, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato, icona dell’autentico figlio di Dio [Parola-evento diffusa del Nuovo Testamento] deve ricevere la Madre, la cultura del popolo del Patto, a casa sua - ossia nella Chiesa nascente.
Eppure, anche se è nella comunità cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e la Parola di Cristo stesso non si comprendono né porteranno frutto concreto coi tanti sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.
Non bastano le sole proiezioni, che pur scuotono le prigioni mentali, spesso edifici di false certezze: il Seme non è nemico da combattere, ma virtù che viene dal profondo.
L’Alleanza è preziosa, dà l’autentica scossa alla vita. Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
E la Chiesa suscitata dal suo Signore rivelerà qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.
In Maria e nelle icone fedeli generate dal petto di Cristo - inscindibili nella Missione - l’intima cooperazione s’intensifica dei momenti di un’esistenza comunitaria umile e silenziosa.
Nel perfetto adorare l’identità-carattere del Crocifisso e nel movimento del dono di sé, incede la libertà del calarsi.
Se qualcuno si deposita, il nuovo avanzerà.
E anche il vecchio potrà riemergere, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.
Un fiume di sintonie impensate riallaccerà lo spirito umano dei credenti all’opera materna dello Spirito senza barriere.
In tal guisa, nel silenzio non ci opporremo ai disagi. Il corpo offeso parlerà, manifestando l’anima e colmando la vita, in un crescendo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In che modo entri nel ritmo di questo passo di Vangelo? In quale personaggio ti riconosci, o perché ti rivedi in tutti? Qual è in ciascuno di loro la tua misura, che doni al mondo?
[B.V. Maria Madre della Chiesa (lunedì dopo Pentecoste)]
Maria nella Chiesa, che genera i figli
(Gv 19,25-34)
Il breve passo di Vangelo ai vv.25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che ai piedi della Croce, la Madre è figura del resto d’Israele autenticamente sensibile e fedele.
Il popolo-sposa del Primo Testamento è come in attesa della reale Rivelazione: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto e spento la gioia della festa nuziale tra il Padre e i suoi figli.
L’Israele autenticamente adorante ha suscitato il passaggio dalla religiosità alla Fede che opera, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
Ai piedi della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, che proclamano la Lieta Notizia di Dio - stavolta in favore esclusivo di ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi.
Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua Madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo.
Tra esse: Giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; Lassisti, che consideravano ormai Gesù anatema, intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia.
A inizio secondo secolo Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.
A coloro che ormai volevano prescindere dall’insegnamento dei ‘padri’, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato, icona dell’autentico figlio di Dio [Parola-evento diffusa del Nuovo Testamento] deve ricevere la Madre, la cultura del popolo del Patto, a casa sua - ossia nella Chiesa nascente.
Eppure, anche se è nella comunità cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e la Parola di Cristo stesso non si comprendono né porteranno frutto concreto coi tanti sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.
Non bastano le sole proiezioni, che pur scuotono le prigioni mentali, spesso edifici di false certezze: il Seme non è nemico da combattere, ma virtù che viene dal profondo.
L’Alleanza è preziosa, dà l’autentica scossa alla vita. Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
E la Chiesa suscitata dal suo Signore rivelerà qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.
In Maria e nelle icone fedeli generate dal petto di Cristo - inscindibili nella Missione - l’intima cooperazione s’intensifica dei momenti di un’esistenza comunitaria umile e silenziosa.
Nel perfetto adorare l’identità-carattere del Crocifisso e nel movimento del dono di sé, incede la libertà del calarsi.
Se qualcuno si deposita, il nuovo avanzerà.
E anche il vecchio potrà riemergere, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.
Un fiume di sintonie impensate riallaccerà lo spirito umano dei credenti all’opera materna dello Spirito senza barriere.
Dice il Tao Tê Ching (xxii): «Se ti pieghi, ti conservi; Se ti curvi, ti raddrizzi; Se t’incavi, ti riempi; Se ti logori, ti rinnovi; Se miri al poco, ottieni; Se miri al molto, resti deluso. Per questo il santo preserva l’Uno [il massimo del poco], e diviene modello [porge la misura] al mondo. Non da sé vede, perciò è illuminato; non da sé s’approva, perciò splende; non da sé si gloria, perciò ha merito; non da sé s’esalta, perciò a lungo dura. Proprio perché non contende, nessuno al mondo può muovergli contesa. Quel che dicevano gli antichi: se ti pieghi ti conservi, erano forse parole vuote? In verità, integri tornavano».
In tal guisa, nel silenzio non ci opporremo ai disagi. Il corpo offeso parlerà, manifestando l’anima e colmando la vita, in un crescendo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In che modo entri nel ritmo di questo passo di Vangelo? In quale personaggio ti riconosci, o perché ti rivedi in tutti? Qual è in ciascuno di loro la tua misura, che doni al mondo?
Sangue Acqua: Corpo ancora squarciato
Sangue e Acqua: vita donata e vita trasmessa
(Gv 19,31-37)
La crudele dipartita del Signore non è una fine: inaugura la vita nuova, sebbene fra segni raccapriccianti e di morte vera.
Il Crocifisso salva: comunica una vita da salvati. Ci fa passare da un mondo all’altro: solo in tal senso la Pasqua antica coincide con la nuova.
La sua è una Liberazione e Redenzione che procede ben oltre le promesse rituali dei sacrifici propiziatori, e la religione delle purificazioni.
Il Sangue del Cristo è qui figura del Dono estremo d’Amore. L’Acqua dal medesimo costato trafitto è quella che viene assimilata e fa crescere.
Tale Amicizia sovreminente, donata e accolta, vince ogni forma di morte, perché offre un doppio principio di vita indistruttibile: accoglienza di una proposta sempre inedita, e crescita di onda in onda.
Così la festa di liberazione ebraica viene sostituita dalla Pasqua cristiana - e dai segni dei Sacramenti essenziali.
Nel corpo di Gesù e in quello degli uomini crocifissi al suo fianco, Gv vede la fraternità del Figlio col genere umano, anch’esso reso Santuario divino.
Morto Gesù, anche noi possiamo seguirlo [malfattori cui sono spezzate le gambe] perché nessuno può togliere la vita al Risorto, anche se poi cerca di farlo agli sventurati con Lui.
Infatti la ‘trafittura’ al Corpo di Cristo continua anche dopo la morte in Croce (v.34): l’ostilità nei suoi confronti non si placherà, anzi vuol annientarlo per sempre.
Ma dal suo Corpo squarciato [la Chiesa autentica] continuerà a sgorgare amore da vertigini e finalmente la gioia d’un banchetto festoso, come promesso sin dalle nozze di Cana.
La testimonianza dell’evangelista diventa solenne fondamento della Fede dei discepoli futuri. E la Fede soppianterà il giogo della religione già tutta redatta.
Così l’autore invita ciascuno di noi a scrivere un proprio Vangelo (Gv 20,30-31) nell’esperienza dei paradossi e della salvezza di Dio, che ci ha raggiunto a partire proprio dai nostri peccati o situazioni incerte.
I discepoli futuri sono proclamati Beati (Gv 20,29) proprio perché «non hanno visto» quello spettacolo con gli occhi.
Lo hanno però riconosciuto in se stessi e nel proprio andare - ripetutamente sperimentando nelle proprie debolezze il luogo della Misericordia.
Senso Materno, non Chiesa di zitelli
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2018]
La Croce di Cristo è strumento della nostra salvezza, che ci rivela in pienezza la misericordia del nostro Dio. La Croce è, in effetti, il luogo in cui si manifesta in modo perfetto la compassione di Dio per il nostro mondo. Oggi, celebrando la memoria della Beata Vergine Addolorata, contempliamo Maria che condivide la compassione del Figlio per i peccatori. Come affermava san Bernardo, la Madre di Cristo è entrata nella Passione del Figlio mediante la sua compassione (cfr Omelia per la Domenica nell’Ottava dell’Assunzione). Ai piedi della Croce si realizza la profezia di Simeone: il suo cuore di Madre è trafitto (cfr Lc 2,35) dal supplizio inflitto all’Innocente, nato dalla sua carne. Come Gesù ha pianto (cfr Gv 11,35), così anche Maria ha certamente pianto davanti al corpo torturato del Figlio. La sua riservatezza, tuttavia, ci impedisce di misurare l’abisso del suo dolore; la profondità di questa afflizione è soltanto suggerita dal simbolo tradizionale delle sette spade. Come per il suo Figlio Gesù, è possibile affermare che questa sofferenza ha portato anche lei alla perfezione (cfr Eb 2, 10), così da renderla capace di accogliere la nuova missione spirituale che il Figlio le affida immediatamente prima di “emettere lo spirito” (cfr Gv 19,30): divenire la Madre di Cristo nelle sue membra. In quest’ora, attraverso la figura del discepolo amato, Gesù presenta ciascuno dei suoi discepoli alla Madre dicendole: “Ecco tuo figlio” (cfr Gv 19, 26-27).
Maria è oggi nella gioia e nella gloria della Risurrezione. Le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà, pur rimanendo intatta la sua compassione materna verso di noi. L’intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia lo attesta e non cessa di suscitare verso di lei, nel Popolo di Dio, una confidenza incrollabile: la preghiera del Memorare (“Ricordati”) esprime molto bene questo sentimento. Maria ama ciascuno dei suoi figli, concentrando in particolare la sua attenzione su coloro che, come il Figlio suo nell’ora della Passione, sono in preda alla sofferenza; li ama semplicemente perché sono suoi figli, secondo la volontà di Cristo sulla Croce.
Il Salmista, intravedendo da lontano questo legame materno che unisce la Madre di Cristo e il popolo credente, profetizza a riguardo della Vergine Maria: “i più ricchi del popolo cercheranno il tuo sorriso” (Sal 44,13). Così, sollecitati dalla Parola ispirata della Scrittura, i cristiani da sempre hanno cercato il sorriso di Nostra Signora, quel sorriso che gli artisti, nel Medioevo, hanno saputo così prodigiosamente rappresentare e valorizzare. Questo sorriso di Maria è per tutti: esso tuttavia si indirizza in modo speciale verso coloro che soffrono, affinché in esso possano trovare conforto e sollievo. Cercare il sorriso di Maria non è questione di sentimentalismo devoto o antiquato; è piuttosto la giusta espressione della relazione viva e profondamente umana che ci lega a Colei che Cristo ci ha donato come Madre.
Desiderare di contemplare questo sorriso della Vergine non è affatto un lasciarsi dominare da una immaginazione incontrollata. La Scrittura stessa ci svela tale sorriso sulle labbra di Maria quando ella canta il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,46-47). Quando la Vergine Maria rende grazie al Signore, ci prende a suoi testimoni. Maria condivide, come per anticipazione, con i futuri figli che siamo noi la gioia che abita nel suo cuore, affinché tale gioia diventi anche nostra. Ogni proclamazione del Magnificat fa di noi dei testimoni del suo sorriso. Qui a Lourdes, nel corso dell’apparizione del 3 marzo 1858, Bernadette contemplò in maniera del tutto speciale questo sorriso di Maria. Fu questa la prima risposta che la Bella Signora diede alla giovane veggente che voleva conoscere la sua identità. Prima di presentarsi a lei, qualche giorno dopo, come “l’Immacolata Concezione”, Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questa la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero.
Nel sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta, si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole: cerchiamo allora la vicinanza non soltanto di coloro che condividono il nostro stesso sangue o che ci sono legati con i vincoli dell’amicizia, ma la vicinanza anche di coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza. La Lettera agli Ebrei afferma, a proposito di Cristo, che egli non è incapace di “compatire le nostre debolezze, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa” (Eb 4,15). Vorrei dire, umilmente, a coloro che soffrono e a coloro che lottano e sono tentati di voltare le spalle alla vita: volgetevi a Maria! Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio.
Quanto era giusta l’intuizione di quella bella figura spirituale francese che fu Dom Jean-Baptiste Chautard, il quale ne L’anima di ogni apostolato proponeva al cristiano fervoroso frequenti “incontri di sguardo con la Vergine Maria” ! Sì, cercare il sorriso della Vergine Maria non è un pio infantilismo; è l’ispirazione, dice il Salmo 44, di coloro che sono “i più ricchi del popolo”(v. 13). “I più ricchi”, s’intende, nell’ordine della fede, coloro che hanno la maturità spirituale più elevata e sanno per questo riconoscere la loro debolezza e la loro povertà davanti a Dio. In quella manifestazione molto semplice di tenerezza che è il sorriso, percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre. Cercare questo sorriso significa innanzitutto cogliere la gratuità dell’amore; significa pure saper suscitare questo sorriso col nostro impegno di vivere secondo la parola del suo Figlio diletto, così come il bambino cerca di suscitare il sorriso della madre facendo ciò che a lei piace. E noi sappiamo ciò che piace a Maria grazie alle parole che lei stessa rivolse ai servi di Cana: “Fate quello che vi dirà” (cfr Gv 2,5)
Il sorriso di Maria è una sorgente di acqua viva. “Chi crede in me, ha detto Gesù, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Maria è colei che ha creduto e, dal suo seno, sono sgorgati fiumi d’acqua viva che vengono ad irrigare la storia degli uomini. La sorgente indicata, qui a Lourdes, da Maria a Bernadette è l’umile segno di questa realtà spirituale. Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore! Nella sequenza liturgica di questa festa della Beata Vergine Addolorata, Maria è onorata sotto il titolo di “Fons amoris”, “Sorgente d’amore”. Dal cuore di Maria scaturisce, in effetti, un amore gratuito che suscita una risposta filiale, chiamata ad affinarsi senza posa. Come ogni madre, e meglio di ogni madre, Maria è l’educatrice dell’amore. E’ per questo che tanti malati vengono qui, a Lourdes, per dissetarsi a questa “Sorgente d’amore” e per lasciarsi condurre all’unica sorgente della salvezza, il Figlio suo, Gesù Salvatore.
Cristo dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi. Per ciascuno la sofferenza è sempre una straniera. La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora – come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo – accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di “tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù” Per poter dire ciò è necessario aver già percorso un lungo cammino in unione con Gesù. In compenso, è possibile già subito rimettersi alla misericordia di Dio così come essa si manifesta mediante la grazia del Sacramento dei malati. Bernadette stessa, nel corso di un’esistenza spesso segnata dalla malattia, ricevette questo Sacramento quattro volte. La grazia propria del Sacramento consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione.
Senza l’aiuto del Signore, il giogo della malattia e della sofferenza è crudelmente pesante. Nel ricevere il Sacramento dei malati, noi non desideriamo portare altro giogo che quello di Cristo, forti della promessa che Egli ci ha fatto, che cioè il suo giogo sarà facile da portare e il suo peso leggero (cfr Mt 11,30). Invito le persone che riceveranno l’Unzione dei malati nel corso di questa Messa a entrare in una simile speranza.
Il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa (cfr LG, 63-65). La sua vicenda personale ripropone il profilo della Chiesa, che è invitata ad essere attenta quanto lei alle persone che soffrono. Rivolgo un saluto affettuoso ai componenti del Servizio sanitario e infermieristico, come pure a tutte le persone che, a titoli diversi, negli ospedali e in altre istituzioni, contribuiscono alla cura dei malati con competenza e generosità. Ugualmente al personale di accoglienza, ai barellieri e agli accompagnatori che, provenendo da tutte le diocesi di Francia ed anche da più lontano, si prodigano lungo tutto l’anno intorno ai malati che vengono in pellegrinaggio a Lourdes, vorrei dire quanto il loro servizio è prezioso. Essi sono le braccia della Chiesa, umile serva. Desidero infine incoraggiare coloro che, in nome della loro fede, accolgono e visitano i malati, in particolare nelle cappellanie degli ospedali, nelle parrocchie o, come qui, nei santuari. Possiate sentire sempre in questa importante e delicata missione il sostegno efficace e fraterno delle vostre comunità! A questo riguardo, saluto e ringrazio particolarmente i miei fratelli nell’episcopato, i vescovi francesi, i vescovi stranieri e tutti i preti che accompagnano i malati e gli uomini toccati dalla sofferenza nel mondo. Grazie per il vostro servizio al Signore sofferente.
Il servizio di carità che voi rendete è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!
Concludendo, desidero unirmi alla preghiera dei pellegrini e dei malati e riprendere insieme con voi uno stralcio della preghiera a Maria per la celebrazione di questo Giubileo:
“Poiché tu sei il sorriso di Dio, il riflesso della luce di Cristo, la dimora dello Spirito Santo,
poiché tu hai scelto Bernadette nella sua miseria, tu che sei la stella del mattino, la porta del cielo e la prima creatura risorta,
Nostra Signora di Lourdes”, con i nostri fratelli e le nostre sorelle i cui cuori e i cui corpi sono dolenti, noi ti preghiamo!
[Papa Benedetto, Lourdes 15 settembre 2008]
Presso la Croce, Maria è partecipe del dramma della Redenzione (Gv 19, 17-28.25).
1. Regina caeli laetare, alleluia!
Così canta la Chiesa in questo tempo di Pasqua, invitando i fedeli ed unirsi al gaudio spirituale di Maria, Madre del Risorto. La gioia della Vergine per la risurrezione di Cristo è ancor più grande se si considera l'intima sua partecipazione all'intera vita di Gesù.
Maria, accettando con piena disponibilità la parola dell'angelo Gabriele, che le annunciava che sarebbe diventata la Madre del Messia, iniziava la sua partecipazione al dramma della redenzione. Il suo coinvolgimento nel sacrificio del Figlio, svelato da Simeone nel corso della presentazione al Tempio, continua non solo nell'episodio dello smarrimento e del ritrovamento di Gesù dodicenne, ma anche durante tutta la sua vita pubblica.
Tuttavia, l'associazione della Vergine alla missione di Cristo raggiunge il culmine in Gerusalemme, al momento della passione e morte del Redentore. Come attesta il quarto Vangelo, Ella in quei giorni si trova nella Città Santa, probabilmente per la celebrazione della Pasqua ebraica.
2. Il Concilio sottolinea la dimensione profonda della presenza della Vergine sul Calvario, ricordando che Ella "serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce" (Lumen gentium, 58), e fa presente che tale unione "nell'opera della redenzione si manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di Lui" (Ivi, 57).
Con lo sguardo illuminato dal fulgore della risurrezione, ci soffermiamo a considerare l'adesione della Madre alla passione redentrice del Figlio, che si compie nella partecipazione al suo dolore. Torniamo nuovamente, ma nella prospettiva ormai della risurrezione, ai piedi della croce, dove la Madre "soffrì profondamente col suo Unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di Lui, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da Lei generata" (Ivi, 58).
Con queste parole il Concilio ci ricorda la "compassione di Maria", nel cui cuore si ripercuote tutto ciò che Gesù patisce nell'anima e nel corpo, sottolineandone la volontà di partecipare al sacrificio redentore e di unire la propria sofferenza materna all'offerta sacerdotale del Figlio.
Nel testo conciliare si pone, altresì, in evidenza che il consenso da Lei dato all'immolazione di Gesù non costituisce una passiva accettazione, ma un autentico atto di amore, col quale Ella offre suo Figlio come "vittima" di espiazione per i peccati dell'intera umanità.
La Lumen gentium pone, infine, la Vergine in relazione a Cristo, protagonista dell'evento redentore, specificando che nell'associarsi "al sacrificio di Lui", Ella rimane subordinata al suo divin Figlio.
3. Nel quarto Vangelo san Giovanni riferisce che "stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala" (Gv 19, 25). Con il verbo "stare", che letteralmente significa "stare in piedi", "stare ritta", l'Evangelista intende forse presentare la dignità e la fortezza manifestate nel dolore da Maria e dalle altre donne.
In particolare, lo "stare ritta" della Vergine presso la croce ne ricorda l'incrollabile fermezza e lo straordinario coraggio nell'affrontare i patimenti. Nel dramma del Calvario Maria è sostenta dalla fede, rafforzatasi nel corso degli eventi della sua esistenza e, soprattutto, durante la vita pubblica di Gesù. Il Concilio ricorda che "la Beata Vergine avanzò nel cammino della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce" (Lumen gentium, 58).
Ai tracotanti insulti diretti al Messia crocifisso, Ella, condividendo le intime disposizioni di Lui, oppone l'indulgenza ed il perdono, associandosi alla supplica al Padre: "Perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23, 34). Partecipe del sentimento di abbandono alla volontà del Padre, espresso dalle ultime parole di Gesù in croce: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (ivi, 23,46), Ella offre in tal modo, come osserva il Concilio, un consenso d'amore "all'immolazione della vittima da Lei generata" (Lumen gentium, 58).
4. In questo supremo "sì" di Maria risplende la fiduciosa speranza nel misterioso futuro, iniziato con la morte del Figlio crocifisso. Le espressioni con le quali Gesù, nel cammino verso Gerusalemme, insegnava ai discepoli "che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare" (Mc 8, 31), le risuonano in cuore nell'ora drammatica del Calvario, suscitando l'attesa e l'anelito della risurrezione,
La speranza di Maria ai piedi della croce racchiude una luce più forte dell'oscurità che regna in molti cuori: di fronte al Sacrificio redentore, nasce in Maria la speranza della Chiesa e dell'umanità.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 aprile 1997]
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2018]
Veglia di Pentecoste alternativa
(Gv 7,37-39)
Durante la Festa delle Capanne - in occasione della raccolta dei frutti - i sacerdoti compivano il rito dell’acqua, portandola in una brocca d’oro dalla piscina di Siloè [«Inviato»] al Tempio (dove veniva versata per chiedere la pioggia d’autunno).
Il rito è personalizzato da Gesù, che invita le folle ad abbeverarsi alla Sapienza: chi lo accoglie avrà in sé una sorgente di vita, espressione dell’oro divino che viene elargito a tutti i suoi intimi - abilitati a rinnovare ogni cosa.
Invito a venire a Cristo e dissetarsi di Lui, e Promessa dello stesso Spirito divino per chi si abbevera alla sua Persona. Qui il Signore sostituisce la Torah.
A dire: non possiamo esistere completamente senza che l'umanità si disseti alla Bevanda che procura pienezza di essere.
Il Signore corrisponde a quanto cerchiamo, e lo supera, facendo di ciascuno un santuario che irriga.
Fonte personale, abbondantissima e portatrice di correnti vitali - persino nei deserti, per trasformarli in giardino.
Pentecoste è in Cristo un momento ultimo e sorgivo. Fuoco e Onda.
A differenza di At 2, per narrare la manifestazione viva di Dio nei credenti il Maestro non usa l’immaginario impressionante dei fenomeni naturali del Primo Testamento [tuoni, terremoti, uragani, fulmini, fuoco].
Onde raffigurare l’effusione dello Spirito, la caduta delle barriere e il progetto di una nuova Sapienza, Gesù adopera l’immagine quieta di un’Acqua che dev’essere assorbita, che fa crescere e - nel tempo - produce vita.
Il cammino di Rivelazione e Alleanza nello Spirito si rivela progressivo - sino a Lui, in cui trova il suo apice.
Coronamento che si trasfonde nel popolo rigenerato: esso da pavido diviene annunciatore e pioniere.
La nuova Creazione, i nuovi padri e madri espressione della sua vittoria sulla morte, non nascono dalla polvere, bensì dallo stesso «sangue misto ad acqua» del Cristo «innalzato».
Flusso che ora trascorre nei suoi - per farvi germogliare vita, in modo da provvedere e rallegrare il percorso altrui.
Nel rapporto di apertura fra Dio e l’uomo (che per grazia dà il suo contributo al progetto esuberante del Cielo) anche l’intera creazione si fa partecipe del Patto di Comunione.
Dopo una prima Alleanza cosmica e di pace con Noè, ecco quella personale con Abramo - in vista delle «moltitudini».
Il progetto di interiorizzazione e appello personale era già spostato verso l’umanità, ma con Mosè diventa energia, disegno di Liberazione.
In Cristo il popolo eletto e santo depone ogni privilegio: si rende autentico nel recupero dei lati opposti, e universale.
“Israele” passa dal comune sentimento religioso e dal miglioramento delle consapevolezze sulla storia vissuta a fianco dell’Eterno, alla profondità del suo Cuore - sino al nostro: ossia alla reinterpretazione e avventura inedita; propriamente, di Fede.
Dai Profeti a Cristo, l’Alleanza si fa globale.
Sotto Azione improvvisa o cadenzata dello Spirito, ‘Acqua’ che travalica e deborda, ma se assimilata fa crescere - tutto e anche la difformità diventa moto verso l'Unità: persino il caos attiva le nuove coesioni.
Il Patto antico dilata ben oltre i confini.
I suoi cerchi diventano sempre più ampi - senza per questo far temere che gli accadimenti possano fuggire di mano a Dio - nei momenti della quiete e delle pause, o perfino nei rivolgimenti senza posa.
L’acqua che i condottieri o i profeti del Primo Testamento avevano visto sgorgare da rocce o rupi spaccate, diventa Vivente - senza più corruzioni.
[Solennità di Pentecoste: Veglia, 7/8 giugno 2025]
Gv 7,37-39 (37-53)
La Brocca d’oro e il Fiume della Vita
(Gv 7,37-39)
Durante la Festa delle Capanne - in occasione della raccolta dei frutti - i sacerdoti compivano il rito dell’acqua, portandola in una brocca d’oro dalla piscina di Siloè [«Inviato»] al Tempio (dove veniva versata per chiedere la pioggia d’autunno).
Il rito è personalizzato da Gesù, che invita le folle ad abbeverarsi alla Sapienza: chi lo accoglie avrà in sé una sorgente di vita, espressione dell’oro divino che viene elargito a tutti i suoi intimi - abilitati a rinnovare ogni cosa.
Invito a venire a Cristo e dissetarsi di Lui, e Promessa dello stesso Spirito divino per chi si abbevera alla sua Persona. Qui il Signore sostituisce la Torah.
A dire: non possiamo esistere completamente senza che l'umanità si disseti alla Bevanda che procura pienezza di essere.
Il Signore corrisponde a quanto cerchiamo, e lo supera, facendo di ciascuno un santuario che irriga.
Fonte personale, abbondantissima e portatrice di correnti vitali - persino nei deserti, per trasformarli in giardino.
Pentecoste è in Cristo un momento ultimo e sorgivo. Fuoco e Onda.
A differenza di At 2, per narrare la manifestazione viva di Dio nei credenti il Maestro non usa l’immaginario impressionante dei fenomeni naturali del Primo Testamento [tuoni, terremoti, uragani, fulmini, fuoco].
Onde raffigurare l’effusione dello Spirito, la caduta delle barriere e il progetto di una nuova Sapienza, Gesù adopera l’immagine quieta di un’Acqua che dev’essere assorbita, che fa crescere e - nel tempo - produce vita.
Il cammino di Rivelazione e Alleanza nello Spirito si rivela progressivo - sino a Lui, in cui trova il suo apice.
Coronamento che si trasfonde nel popolo rigenerato: esso da pavido diviene annunciatore e pioniere.
La nuova Creazione, i nuovi padri e madri espressione della sua vittoria sulla morte, non nascono dalla polvere, bensì dallo stesso «sangue misto ad acqua» del Cristo «innalzato».
Flusso che ora trascorre nei suoi - per farvi germogliare vita, in modo da provvedere e rallegrare il percorso altrui.
Nel rapporto di apertura fra Dio e l’uomo (che per grazia dà il suo contributo al progetto esuberante del Cielo) anche l’intera creazione si fa partecipe del Patto di Comunione.
Dopo una prima Alleanza cosmica e di pace con Noè, ecco quella personale con Abramo - in vista delle «moltitudini».
Il progetto di interiorizzazione e appello personale era già spostato verso l’umanità, ma con Mosè diventa energia, disegno di Liberazione.
In Cristo il popolo eletto e santo depone ogni privilegio: si rende autentico nel recupero dei lati opposti, e universale.
“Israele” passa dal comune sentimento religioso e dal miglioramento delle consapevolezze sulla storia vissuta a fianco dell’Eterno, alla profondità del suo Cuore - sino al nostro: ossia alla reinterpretazione e avventura inedita; propriamente, di Fede.
Dai Profeti a Cristo, l’Alleanza si fa globale.
Sotto Azione improvvisa o cadenzata dello Spirito, ‘Acqua’ che travalica e deborda, ma se assimilata fa crescere - tutto e anche la difformità diventa moto verso l'Unità: persino il caos attiva le nuove coesioni.
Il Patto antico dilata ben oltre i confini.
I suoi cerchi diventano sempre più ampi - senza per questo far temere che gli accadimenti possano fuggire di mano a Dio - nei momenti della quiete e delle pause, o perfino nei rivolgimenti senza posa.
L’acqua che i condottieri o i profeti del Primo Testamento avevano visto sgorgare da rocce o rupi spaccate, diventa Vivente - senza più corruzioni.
Come parla quest’uomo: il primato della coscienza della plebe
(Gv 7,40-53)
Nel passo di Vangelo le autorità religiose giudicano tutti con disprezzo.
Chi si è sempre immaginato maestro non sarà disposto a farsi discepolo di una Rivelazione sovversiva.
Novità impensabile, e non datata, che osa sgretolare piedistalli e legalismi.
Mentre l’élite scarica Cristo, persino la gendarmeria comandata a perpetuare e sorvegliare la sicurezza del mondo antico viene sbalordita dalla forza della nuova Parola-Persona.
Il Signore sostituisce la Torah:
«Ora nell’ultimo giorno, il grande della festa, Gesù stava ritto e gridò dicendo: Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, colui che crede in me. Come ha detto la Scrittura: dal suo ventre scaturiranno fiumi di Acqua vivente» (vv.37-38).
Chi viene in contatto con il nuovo Tempio è guidato dall’intima radice che ha in grembo, e vuole riconoscerla in sé.
Nonché dare vita, promuoverla; amare, rallegrare la vita stessa.
Diventa egli stesso un Santuario gorgogliante, che inizia a pensare e agire in coscienza - a partire dal proprio nocciolo (forse soffocato, ma indistruttibile).
Una lezione di pensiero dal basso, data ai “superiori”.
Esempio che rivaluta il giudizio teologico dell’empia plebe (v.49).
Ed è curioso che la disubbidienza che salva dal sequestro il Cristo presente nei suoi fedeli abbia origine dalla mancanza di conoscenza minuta della Legge.
C’è gran confusione di opinioni riguardo a Gesù, in mezzo alla gente.
Per le sette che hanno instaurato la tirannia delle norme fa difficoltà la sua origine imprevista, non misterica né travolgente - inaccettabile per il pensiero tarato.
Qualcuno lo ritiene figlio di Davide, altri un Profeta; un ingannatore o un uomo buono (v.12) ovvero qualcuno che non ha gli studi (v.15).
Il punto è che Egli non viene a imporre di nuovo la disciplina vetusta, né a rabberciarne i costumi.
Neppure a purificare il Tempio, rinnovandone la pratica propiziatoria.
Cristo lo soppianta con l’adesso della realtà che rivela un inconcepibile Volto di Dio, che si coglie e dilata anche dal di dentro di ciascuno di noi.
Non è affatto la tranquilla riconferma delle solite cose.
La Tradizione (scritta e orale) vanta argomenti radicati, ma la sua fama provoca confusione e confronto duro tra tifoserie opposte, [anche oggi] alla moda o meno.
In tutto ciò non si trova mai nulla di eccezionale.
Fondamentale è capire che non abbiamo più bisogno di mandanti.
Il discrimine è la Persona, nell’unicità della sua Vocazione; non il punto di vista corrispondente a una grandezza o una mania.
È nel Figlio inatteso che giunge il presente e il futuro - non in un codice d’idee che possa riassumere gli spunti del “successo” e imbelletti il già trascorso.
Dice il Tao Tê Ching (ii): «Il santo attua l’insegnamento non detto». Commenta il maestro Wang Pi: «La spontaneità gli basta. Se governa corrompe».
Nell’intimo di ciascuno dimora una naturalezza che insegna, anche ai maestri della legge.
La spontaneità non ci porterà alla debole difesa di Gesù fatta da Nicodemo (vv.51-53) che per salvare la situazione si appoggia su un’altra legge, ovvia del resto.
Quando si smette di voler essere solo dipendenti - come chi è “chiamato” ad arrestare il nuovo che si affaccia - arriva lo stupore, la vertigine di Dio; differenti interessi.
Il Cristo-icona di Gv 7 vuole sviluppare in noi l’immagine e il talento innato del maestro di spirito che semplicemente attinge dall’esperienza personale del Padre, di sé e della realtà.
Non dobbiamo aspettarci che le risposte arrivino sempre da qualcuno fuori, valutato più esperto - cui invece siamo noi a dover insegnare il nuovo che viene per salvarci.
La Vocazione per Nome è affidata al Rabbi sconosciuto che ci abita già - e vuole affiorare, esprimendo il divino inconscio già presente.
L’Oro indispensabile, senza pesi mentali indotti: solo in coscienza e carattere.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Mi sento in grado di ricevere il messaggio della Vita, o sono ancora inceppato nel meccanismo degli omologati che si turano occhi e orecchi?
Rimango sensibile al richiamo del Signore persino nei dettagli di una vita senza gloria o sotto inchiesta?
First, in Nazareth, he makes him grow, raises him, educates him, but then follows him: "Your mother is there" (Pope Francis)
Prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì” (Papa Francesco)
“It is part of the mystery of God that he acts so gently, that he only gradually builds up his history within the great history of mankind; that he becomes man and so can be overlooked by his contemporaries and by the decisive forces within history; that he suffers and dies and that, having risen again, he chooses to come to mankind only through the faith of the disciples to whom he reveals himself; that he continues to knock gently at the doors of our hearts and slowly opens our eyes if we open our doors to him” [Jesus of Nazareth II, 2011, p. 276) (Pope Benedict, Regina Coeli 22 maggio 2011]
«È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”» (Gesù di Nazareth II, 2011, 306) [Papa Benedetto, Regina Coeli 22 maggio 2011]
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athenagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
This is to say that Jesus has put himself on the level of Peter, rather than Peter on Jesus' level! It is exactly this divine conformity that gives hope to the Disciple, who experienced the pain of infidelity. From here is born the trust that makes him able to follow [Christ] to the end: «This he said to show by what death he was to glorify God. And after this he said to him, "Follow me"» (Pope Benedict)
Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Papa Benedetto)
Unity is not made with glue [...] The great prayer of Jesus is to «resemble» the Father (Pope Francis)
L’Unità non si fa con la colla […] La grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre (Papa Francesco)
Divisions among Christians, while they wound the Church, wound Christ; and divided, we cause a wound to Christ: the Church is indeed the body of which Christ is the Head (Pope Francis)
Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo (Papa Francesco)
The glorification that Jesus asks for himself as High Priest, is the entry into full obedience to the Father, an obedience that leads to his fullest filial condition [Pope Benedict]
La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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