don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Dio ti benedica! Da qualche settimana ho scelto di offrire non  un’omelia ma un servizio a coloro che desiderano: presento le letture bibliche della domenica per aiutare la comprensione del testo biblico con breve commento a partire sempre dalla parola di Dio. Spero possa esserti utile: se lo desideri fammelo sapere e ti ringrazio per l’attenzione. « La Parola di Dio è un sentiero in salita, più ci si impegna, più si avanza verso la luce » (parafrasi da san Giovanni della Croce) « Ogni versetto della Bibbia è come un gradino: leggerlo è facile, viverlo è la vera sfida della fede (parafrasi da «la Scala del Paradiso » di san Giovanni Climaco). Ogni settimana manderò il testo il mercoledìì sera o il giovedì mattina per aver il tempo di leggere e meditare.

Ecco quello di domenica prossima.

 

XXXIII Domenica Tempo Ordinario (anno B) 

Commento delle letture [17 Novembre 2024]

 

*Prima Lettura dal Libro del Profeta Daniele 12, 1-3

 *Nella tormenta della persecuzione nasce la fede nella risurrezione 

Il libro di Daniele prende il nome non dall’autore ma dal protagonista, il profeta Daniele vissuto in Babilonia durante gli anni degli ultimi re dell’impero neobabilonese ed è stato scritto durante la rivoluzione dei Maccabei (II secolo a.C.). Nel testo odierno ci sono almeno due importanti affermazioni. Prima di tutto, Daniele conforta i suoi contemporanei che attraversavano un periodo difficile. Quando dice: “Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai”, parla al futuro, ma è solo in apparenza perché si era sotto occupazione e persecuzione. Non potevano circolare libri di opposizione e quindi finge di parlare del passato o del futuro, ma in verità del presente e i lettori capiscono e traggono il conforto di cui hanno bisogno. A regnare, dopo le conquiste di Alessandro Magno e i primi successori piuttosto tolleranti, è Antioco Epifane, tristemente celebre per la terribile persecuzione contro gli ebrei. Si pose al centro del Tempio come un dio e gli ebrei dovevano scegliere: sottomettersi o restare fedeli alla propria fede, affrontando la tortura e la morte. Alcuni si piegarono, ma molti rimasero fedeli e furono uccisi. Daniele dice loro che Michele, il capo degli Angeli, veglia su di loro e se ora stanno vivendo la sconfitta e l’orrore del terrore, sono però vincitori in una battaglia che si svolge sia sulla terra che in cielo: l’esercito celeste ha già vinto. La storia umana è una gigantesca lotta di cui già si conosce il vincitore, e questo concerne in particolare il popolo dell’Alleanza. 

Al messaggio di conforto per i vivi Daniele unisce un riferimento a chi si è sacrificato per non tradire il Dio vivente. Siccome Dio non abbandona chi muore per lui, chi muore così risorgerà. La parola “resurrezione”, che oggi fa parte del nostro vocabolario, allora era praticamente sconosciuta. Per secoli, la questione della resurrezione individuale non si poneva essendo l’interesse rivolto al popolo e non all’individuo, al presente e al futuro del popolo e non al destino dell’individuo. Nella storia d’Israele l’interesse per il destino della persona è emerso come conquista e progresso durante l’esilio collegato all’idea di responsabilità individuale. Occorre sempre ricordare che la fede nel Dio fedele matura con gli eventi della storia e Israele comprende sempre più che Dio desidera il bene dell’uomo e mai lo abbandona. L’esperienza dell’Alleanza ha dunque alimentato la fede d’Israele e si è compreso che, se Dio vuole l’uomo libero da ogni schiavitù, non può lasciarlo nelle catene della morte. Verità esplosa quando alcuni credenti hanno sacrificato la vita per Dio e la loro morte è diventata fonte di fede nella vita eterna. Si comprese così che i martiri risorgeranno per la vita eterna: “Molti di coloro che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni per la vita eterna e gi altri alla vergogna e per l’infamia eterna”. Il libro di Daniele considera la resurrezione solo per i giusti, ma in seguito si giungerà a capire che la resurrezione è promessa a tutta l’umanità composta di essere umani buoni e cattivi e anzi nessuno è totalmente buono o cattivo. Infine solo quando ci si lascia illuminare dalla certezza che Dio ci ama, possiamo capire che vivremo per sempre.

 

Salmo responsoriale 15 (16), 5.8, 9-10, 11

*Il grande impegno a immagine del levita 

Nel salmo 15(16), di cui oggi meditiamo solo alcuni versetti, appare tutto semplice quando ci si rifugia in Dio perché solo in lui è il nostro bene. Al versetto 5 leggiamo: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” e continua “la mia eredità è stupenda” (v.6) per poi affermare che “per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa sicuro perché non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele vedrà la fossa” (v.8,9,10). In realtà, sotto apparenze assai semplici, il salmo 15/16 traduce la lotta terribile della fedeltà alla vera fede: esattamente lo stesso invito di Daniele a non rinnegare la fede nonostante la persecuzione del re Antioco Epifane. La lotta per la fedeltà segna Israele fin dall’inizio, da quando Mosè durante l’esodo percepì il rischio dell’idolatria: si pensi all’episodio del vitello d’oro quando il popolo convinse Aronne a costruirlo (Es. 32). Entrati poi nella terra di Canaan (tra il XV e il XIII secolo a.C.), restò il pericolo dell’idolatria nel vedere che tutto andava male. La guerra, la carestia, l’epidemia suscitarono la voglia di contare su due sicurezze: Il Signore e Baal perché, nelle difficoltà si è tentati di ricorrere a ogni dio possibile e immaginabile. Lo fece il re Acaz, nell’VIII secolo sacrificando suo figlio agli idoli, e suo nipote Manasse cinquant’anni dopo. Per questo i profeti hanno lottano contro l’idolatria che è la peggiore delle schiavitù. Questo salmo traduce dunque sotto forma di preghiera la predicazione dei profeti: vi risuona l’invito ai credenti a seguire la predicazione, e nel contempo è supplica a Dio affinché aiuti tutti a resistere nel tempo della prova. Utile sarebbe leggere anche i versetti non presenti in questa domenica (vv.1-4) dove tra l’altro si dice che “agli idoli del paese, agli dei potenti andava tutto il mio favore. Moltiplicarono le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero” per poi affermare “Io non spanderò le loro libagioni di sangue, né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. Insomma, occorre rivolgersi solo al Dio dell’Alleanza essendo l’unico in grado di guidare il suo popolo nel difficile cammino della libertà. Con i secoli si è compreso che il Dio d’Israele è l’unico Dio per l’intera umanità. Se c’è un’esclusività per Israele è perché egli l’ha scelto gratuitamente e gli si è rivelato come l’unico vero Signore. Tocca a Israele rispondere a questa vocazione legandosi esclusivamente a lui e, così facendo, adempirà la sua missione di testimone dell’unico Dio di fronte alle altre nazioni. Per esprimere tale missione, Israele in questo salmo si paragona a un levita: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita” (v.5). Si allude alla singolare condizione dei leviti che, al tempo della spartizione della Terra Promessa tra le tribù dei discendenti di Giacobbe, i membri della tribù di Levi non avevano ricevuto parte del territorio e quindi la loro parte era la Casa di Dio (il Tempio), il servizio di Dio. Tutta la loro vita era consacrata al servizio del culto; il loro sostentamento era garantito dalle decime e da una parte dei raccolti e delle carni offerte in sacrificio. Israele è nel cuore dell’umanità come i leviti sono il cuore d’Israele, entrambi chiamati al diretto servizio del Signore, fonte di gioia. Tenendo presente la prima lettura che parla della risurrezione dei corpi (Dn 12), si comprende che l’eternità di cui si parla in questo salmo non riguarda la risurrezione individuale perché il vero soggetto di tutti i salmi non è mai un individuo ma l’intero Israele  sicuro di sopravvivere essendo l’eletto del Dio vivente. E il versetto 10: “Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele veda la fossa” non esprime la fede nella risurrezione individuale, ma è un appello alla sopravvivenza del popolo. Certamente quando il profeta Daniele (prima lettura) annunciava la fede nella risurrezione dei morti, questo versetto aveva tale senso; in seguito Gesù ed ora tutti noi possiamo dire fiduciosi che il nostro cuore esulta e l’anima è in festa perché il Signore non ci abbandona alla morte, ma anzi alla sua destra, ci attende un’eternità di gioia.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei 10, 11-14. 18

 Gesù libera l’umanità dalla fatalità del peccato 

La lettera agli Ebrei, come e più degli altri testi del Nuovo Testamento, mira a far capire che Gesù è l’atteso Messia-sacerdote per cui di conseguenza il sacerdozio ebraico è superato. Terminato il ruolo dei sacerdoti dell’Antica Alleanza, nella Nuova Alleanza l’unico sacerdote è Cristo. Ma quali sono le caratteristiche dei sacerdoti dell’A.T. confrontandole con Cristo? L’autore focalizza due punti: la liturgia dei sacerdoti dell’Antico Testamento era quotidiana e offrivano sempre gli stessi sacrifici; Gesù, invece, ha offerto un sacrificio unico. Il culto dei sacerdoti ebrei era inefficace, poiché i sacrifici non avevano il potere di eliminare i peccati, mentre, con l’unico suo sacrificio, Gesù ha eliminato una volta per tutte il peccato del mondo. Ci sono qui affermazioni che per l’ambiente giudaico-cristiano dell’epoca erano importanti come ad esempio l’espressione “eliminare i peccati” perché la parola “peccato” torna più volte in questo testo. L’esperienza dice che dopo la morte/risurrezione di Cristo continuano a esistere i peccati nel mondo per cui affermare che Gesù ha tolto il peccato del mondo significa far rimarcare che il peccato non costituisce più una fatalità perché, grazie al dono dello Spirito Santo, possiamo vincerlo. Inoltre leggendo che “con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” occorre capire che il termine “perfetto” non riveste un significato morale, ma esprime compimento, completamento. Siamo stati cioè condotti da Cristo al nostro compimento; grazie a lui siamo diventati uomini e donne liberi: liberi di non ricadere nell’odio, nella violenza, nella gelosia; liberi di vivere come figli e figlie di Dio e come fratelli e sorelle. Nella celebrazione eucaristica continuiamo a dire “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Questo fa pensare al profeta Geremia (31, 31-33) che profetizza: “Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore – nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova… porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”, oppure a Ezechiele (36, 26-27): “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi”. I primi cristiani sapevano che bisogna lasciarsi condurre dallo Spirito Santo, ma condizione essenziale è restare uniti a Cristo come i tralci alla vite.  Leggiamo ancora nel testo: “Cristo…si è assiso per sempre alla destra di Dio e attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi” (vv12-14). L’espressione “assiso alla destra di Dio” in Israele era da secoli un titolo regale. Il giorno dell’incoronazione, quando prendeva possesso del suo trono, il nuovo re si sedeva alla destra di Dio e in questo contesto dire che “Gesù Cristo si è assiso per sempre alla destra di Dio” vuol dire che Gesù è il vero Re-Messia atteso. Tale concetto è rafforzato da ciò che segue: “Egli attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi”. La tradizione era che sui gradini dei troni dei re s’incidevano o scolpivano figure di uomini incatenati che rappresentavano i nemici del regno e il re salendo i gradini del trono li calpestava, schiacciando simbolicamente i suoi nemici e questo non era gratuita crudeltà bensì garanzia di sicurezza per i sudditi. Si trovano segni di queste figure nei troni di Tutankhamon (scoperti nel 1922 dall’archeologo Howard Carter nella Valle dei Re in Egitto) mentre in Israele, resta, come sola traccia citata nel Salmo 109/110, ciò che il profeta pronunciava da parte di Dio per il re nel rito dell’incoronazione: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi”. Se Cristo è davvero il Messia, l’atteso re eterno discendente di Davide, il vecchio mondo è ormai finito. Un’ultima precisazione: perché si dice: “il sacrificio della messa”?  Nella Lettera agli Ebrei leggiamo: “Ora, dove c’è il perdono non c’è più offerta (il sacrificio) per il peccato”. Il termine sacrificio resta anche se, con Cristo, il suo significato è cambiato: per lui, “sacrificare” (sacrum facere, compiere un atto sacro) non significa uccidere uno o mille animali, ma vivere nell’amore e dare la vita per i fratelli, come già nell’VIII secolo a.C. affermava il profeta Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.» (6, 6).

 

*Vangelo secondo san Marco (13, 24-32)

Gesù usa qui lo stile apocalittico 

Nel vangelo di Marco Gesù ora cambia stile e si avvicina nei suoi discorsi alla letteratura della divinazione che allora era molto in voga. Tutte le religioni si ponevano gli stessi interrogativi: L’umanità andrà irrimediabilmente in rovina oppure trionferà il Bene? Come sarà la fine del mondo e chi sarà il vincitore? Si utilizzavano le stesse immagini di sconvolgimenti cosmici, eclissi di sole o di luna, personaggi celesti, angeli o demoni. Gli ebrei prima e poi i cristiani presero in prestito questo stile inserendovi però il messaggio evangelico, cioè la rivelazione divina. Per questo, nella Bibbia, questo stile letterario viene chiamato “apocalittico” perché porta una “rivelazione” da parte di Dio: letteralmente il verbo greco apocaliptõ significa rivelare, nel senso di “sollevare il velo che copre la storia dell’umanità”. All’epoca era come un linguaggio cifrato, in codice: si parla di sole, stelle, luna e di come tutto ciò sarà sconvolto anche se poi si vuol dire tutt’altro. E’ la vittoria di Dio e dei suoi figli nel grande combattimento contro il male che portano avanti fin dall’origine del mondo. Ecco la specificità della fede giudeo-cristiana per cui è un errore usare il termine apocalisse per parlare di eventi spaventosi perché nel linguaggio della fede ebraica e cristiana è esattamente il contrario. Rivelare il mistero di Dio non tende a spaventare l’umanità, bensì a incoraggiare gli uomini ad affrontare ogni crisi della storia sollevando l’angolo del velo che copre la storia per tenere salda la speranza. Già i profeti nell’A.T., per annunciare il giorno della vittoria definitiva di Dio contro ogni forza del male, utilizzavano le medesime immagini. Troviamo in Gioele (2, 10-11): “La terra trema, il cielo si scuote, il sole e la luna si oscurano e le stelle cessano di brillare. Il Signore fa udire la sua voce dinanzi alla sua schiera. Molto grande è il suo esercito, potente nell’eseguire i suoi ordini. Grande è il giorno del Signore, davvero terribile: chi potrà sostenerlo?”. Consiglio di leggere anche questi altri del profeta Gioele (3, 1-5 e 4, 15-16) e di Isaia (12, 1-2). Non sono racconti per incutere terrore, ma per annunciare la vittoria del Dio che ci ama. Il messaggio è sempre questo: Dio avrà l’ultima parola perché, come scrive Isaia, il male sarà distrutto e il Signore punirà i malvagi per i loro crimini (cf.13, 10); è lo stesso Isaia che, qualche versetto prima (cap.12,2), annunciava la salvezza dei figli di Dio: “Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, non avrò timore, perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza.” Queste parole, nelle quali risuona lode e fede in Dio come Salvatore insieme a un profondo senso di sicurezza e fiducia nella protezione divina, fanno parte di un canto di ringraziamento che celebra la liberazione e il sostegno che Dio offre al suo popolo. Nello stile apocalittico, annunciare la fede è assicurare che Dio è il padrone della storia e un giorno il male scomparirà. Per questo, più che “fine del mondo”, sarebbe meglio “trasformazione del mondo” o meglio “rinnovamento del mondo”. Tutto questo emerge nel vangelo di Marco di questa domenica con una precisazione: la vittoria definitiva di Dio contro il male, avviene solo in Gesù Cristo. Nel vangelo si è a pochi giorni dalla Pasqua e Gesù ricorre a questo linguaggio perché il combattimento tra lui e le forze del male è ormai al suo culmine. Per capire il messaggio di Gesù, possiamo ricorrere al vangelo di Giovanni, quando alla conclusione del suo lungo discorso agli apostoli afferma: ”Vi ho detto queste parole perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33). E la parabola del fico che mette le foglie, ben s’inserisce in questo messaggio, tenendo presente che la chiave per capire è l’aggettivo “vicino”, “vicina”: i segni preannunciano solo la vicinanza della fine, quindi attenti ai falsi profeti che vedono ora la fine del mondo. Occorre invece vigilare e pregare perché la vicinanza della fine è per ogni generazione - e quest’invito è presente in tutto il Vangelo.

Buona Domenica a tutti!

+Giovanni D’Ercole

Breve Commento Letture [10.11.24]

 

*Prima lettura 1 Re 17,10-16

Il profeta Elia si trova lontano dalla sua terra, a Sarepta, città della costa fenicia, che all’epoca faceva parte del regno di Sidone e non del regno d’Israele. Siamo nel IX.mo secolo a. c., il re Acab aveva sposato la regina Gezabele (verso l’870), non dunque una figlia d’Israele, ma figlia del re di Sidone per attuare una politica di alleanza, esponendosi però al grave rischio dell’apostasia, perché Gezabele reca con sé usanze, preghiere, statue e i sacerdoti del culto di Baal, dio della fertilità, della pioggia, del fulmine e del vento. Il re Acab, persona molto debole, finisce così per tradire la sua religione e costruisce persino un tempio di Baal. Elia e gli ebrei fedeli provano vergogna per il tradimento della loro fede conoscendo bene il primo comandamento: “Non avrai altri dei all’infuori di me!”, che è l’a. b. c. della fede ebraica: Dio solo è Dio, tutti gli altri idoli non servono a nulla. Elia si oppone a Gezabele e, per provare la falsità degli idoli, subentrando proprio allora una forte siccità in Israele, lancia la sfida: voi ritenete Baal il dio della pioggia, ma io proverò che solo il Dio d’Israele è l’unico vero Dio, padrone di tutto, della pioggia e della siccità. Lo svolgimento di questa sfida avrà luogo, ma l’odierno testo si ferma a questo punto. Avvertito da Dio, Elia profetizza che ci saranno anni di dura siccità e, seguendo un comando divino, si rifugia presso il torrente Kerith, a est del Giordano (1 Re 17, 3-4). La siccità perdura, il torrente si prosciuga e Dio gli ordina di recarsi nella lontana Sarepta dove incontra una povera vedova alla quale, come povero mendicante, domanda “un pezzo di pane”. La donna gli confessa che non ha più pane, perché le resta solo una manciata di farina in una giara con un po’ d’olio in un orcio; raccoglierà due pezzi di legna per preparare una focaccia per lei e il figlio, la mangeranno e poi si prepareranno a morire. Il profeta le ricorda che Dio tutto può e l’invita a preparare per lui un “piccolo pane” e poi condividerà quanto resta con il figlio. Assicura che il Dio d’Israele interverrà: la giara di farina non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà fino al giorno in cui il Signore farà piovere. E così avvenne:”la giara di farina non si esaurì e l’orcio dell’olio non si svuotò”. La storia della vedova di Sarepta è analoga a quella della vedova che, come leggiamo oggi nel vangelo, nel Tempio di Gerusalemme dona a Dio tutti i suoi spiccioli, chiaro esempio di una fede semplice che si priva di tutto a si fida della parola del Dio d’Israele. Chiaro il messaggio: mentre Israele ricade nell’idolatria, una donna vedova straniera e pagana viene gratificata dal Signore per la sua grande fede. C’è inoltre un dettaglio da evidenziare: la vedova ha sentito Dio ordinarle personalmente di provvedere al profeta e questo mostra che la parola di Dio risuona dove e come vuole, anche fra i pagani. A quest’episodio si riferirà Gesù parlando ai suoi compaesani a Nazaret (Lc 4, 25-26). In verità nei testi tardivi dell’Antico Testamento (e il primo libro dei Re ne fa parte), i pagani vengono citati spesso come esempio per indicare che la salvezza è promessa all’intera umanità non essendo riservata solo a Israele. Insomma, Dio è sollecito verso chi si affida a lui e la grande lezione di questo episodio biblico è che la sollecitudine del Signore non tradisce mai chi si fida di lui.  

 

*Salmo 145 (146), 5-6a, 6c-7ab, 8bc-9a, 9b-10 

Israele con questo salmo canta la propria storia rendendo grazie a Dio per la sua protezione costante. “Oppressi, afflitti, affamati”, il popolo ha conosciuto l’oppressione in Egitto dalla quale fu liberato “con mano forte e braccio teso” come più tardi avverrà dalla deportazione a Babilonia e questo salmo fu scritto proprio al ritorno dall’esilio da Babilonia, forse per la dedicazione del Tempio restaurato dopo la sua distruzione del 587 a.C. dalle truppe del re di Babilonia, Nabucodonosor. in effetti, cinquant’anni dopo (nel 538 a.C.), Ciro, re di Persia, sconfisse Babilonia, autorizzò gli ebrei a rientrare in patria e a ricostruire il Tempio la cui dedicazione venne celebrata con gioia e fervore come leggiamo nel libro di Esdra: “I figli di Israele, i sacerdoti, i leviti e il resto dei deportati fecero con gioia la dedicazione di questa Casa di Dio” (Esd 6, 16). Un salmo dunque intriso della gioia del ritorno in patria perché, ancora una volta, Dio ha mostrato fedeltà all’Alleanza con il suo popolo del quale è il padre, il vendicatore, il suo “redentore”. Rileggendo la propria storia, Israele può testimoniare che Dio l’ha sempre accompagnato nella sua lotta per la libertà: “Il SIGNORE fa giustizia agli oppressi, rialza gli afflitti”. Israele ha conosciuto la fame, nel deserto, durante l’Esodo e Dio ha mandato la manna e le quaglie per il suo cibo: “Agli affamati dà il pane” e solo dopo ha compreso che Dio sempre riscatta gli afflitti, guarisce i malati, solleva i piccoli e gli emarginati, apre gli occhi ai ciechi e si rivela progressivamente, tramite i suoi profeti, al suo popolo che lo cerca: “Dio ama i giusti”. In questo canto si noti l’insistenza sul nome “Signore” che qui traduce il famoso NOME di Dio rivelato a Mosè sul Sinai, nel roveto ardente: sono le quattro consonanti YHVH (due inspirate e due ispirate) che indicano la presenza permanente, attiva, liberante di Dio nella vita del suo popolo (Es.3, 13-15). Inoltre nella Bibbia l’espressione “il tuo Dio” è un richiamo all’Alleanza con il popolo eletto: Alleanza alla quale il Signore non è mai venuto meno e la preghiera di Israele è rivolta al futuro per cui quando evoca il passato è per rafforzare la sua attesa e la speranza.  Dio comunicò il suo nome a Mosè sul Sinai in due modi. Anzitutto con le impronunciabili quattro consonanti, YHVH, che ritroviamo spesso nella Bibbia, in particolare in questo salmo e che si traduce con “il Signore”. Esiste però una formula più elaborata, “Ehiè asher ehiè” che in italiano si rende sia con “Io sono chi sono”, oppure “Io sarò chi sarò”, un modo di esprimere l’eterna presenza di Dio accanto al suo popolo. L’insistenza sul futuro, “per sempre” rafforza l’impegno del popolo che, con questo salmo, non solo riconosce l’opera di Dio a favore d’Israele, ma vuole darsi una linea di condotta: se Dio ha agito così verso noi, dobbiamo a nostra volta fare altrettanto, diventando i primi testimoni dell’amore che il Signore nutre per i poveri e gli esclusi, amore che, attraverso Israele, intende diffondere al mondo intero. La Legge di Mosè e dei Profeti fu scritta per educare il popolo a conformarsi progressivamente alla misericordia di Dio e, per tale ragione, prevedeva numerose regole di protezione per le vedove, gli orfani, gli stranieri volendo fare di Israele un popolo libero e rispettoso della libertà altrui. Infine, i richiami dei profeti si concentrano su due punti (che forse ci sorprendono): una lotta accanita contro l’idolatria, (come fece Elia) e gli appelli alla giustizia e alla cura per gli altri, fino ad arrivare a far dire a Dio: “È la misericordia che voglio, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti” (Os 6, 6); o ancora: “Ti è stato detto, o uomo, ciò che è bene, ciò che il Signore esige da te: nient’altro che rispettare il diritto, amare la fedeltà e camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6, 8). Leggiamo infine nel libro di Ben Sira: “Le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio” (Si 35, 18). Per Israele le lacrime di tutti coloro che soffrono scorrono sulle guance di Dio…e se siamo vicini a Dio, dovrebbero scorrere anche sulle nostre guance! 

 

*Seconda Lettura Ebr. 9, 24-28

L’autore della lettera agli Ebrei, che ci accompagna da qualche domenica, si rivolge a cristiani di origine ebraica che forse provano nostalgia per l’antico culto mentre nella pratica cristiana non ci sono più templi né sacrifici cruenti. L’autore, volendo provare che tutto ormai è superato, riprende una per una le realtà e le pratiche della religione ebraica. Parla soprattutto del Tempio, definito il “santuario” e precisa che una cosa è il vero santuario, nel quale Dio risiede, cioè il cielo stesso, altro è il tempio costruito dagli uomini che del vero santuario è solo pallida copia. Gli ebrei erano particolarmente fieri, a ragione, del magnifico Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana resta umana e quindi, debole, imperfetta, peritura. Inoltre, nessuno in Israele pretendeva di racchiudere la presenza di Dio in un tempio, per quanto immenso, come già il primo costruttore del Tempio di Gerusalemme, il re Salomone affermava: “Davvero Dio potrebbe abitare sulla terra? I cieli stessi e i cieli dei cieli non possono contenerti! Quanto meno questa Casa che ho costruito.” (1 Re 8,27). Per i cristiani, il vero Tempio, il luogo dove si incontra Dio, non è un edificio perché l’Incarnazione di Cristo ha cambiato tutto: ora il luogo di incontro tra Dio e l’uomo è Gesù Cristo, il Dio fatto uomo. L’evangelista Giovanni narra che Gesù si è permesso di cacciare dall’area del Tempio i cambiavalute e i mercanti di bestiame per i sacrifici spiegando poi: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo risusciterò” e i discepoli capirono, dopo la Risurrezione, che il Il Tempio di cui parlava era il suo corpo. (Cf. Gv 2,13-21). Nel brano odierno della Lettera agli Ebrei si dice la stessa cosa: rimaniamo innestati in Gesù Cristo, nutriamoci del suo corpo, così siamo messi alla presenza di Dio in nostro favore.  Con la sua morte Cristo evidenzia il ruolo centrale della croce nel mistero cristiano e poco più avanti (Eb 10), l’autore preciserà che la morte di Cristo è solo il culmine di una vita interamente offerta e che quando si parla del suo sacrificio, bisogna intendere “l’atto sacro che fu tutta la sua vita” e non solo le ore della sua Passione. Per il momento, il testo che abbiamo davanti agli occhi parla della Passione di Cristo e del suo sacrificio, senza ulteriori dettagli. Oppone il sacrificio di Cristo a quello offerto dal sommo sacerdote di Israele, nel giorno di Yom Kippur (“Giorno del Perdono”) quando il sommo sacerdote, entrato da solo nel Santo dei Santi, pronunciava il Nome sacro (YHVH) e spargeva il sangue di un toro (per i propri peccati) e quello di un capro (per i peccati del popolo), rinnovando solennemente l’Alleanza con Dio. All’uscita del sommo sacerdote dal Santo dei Santi, il popolo, raccolto fuori, sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Ma questo rinnovamento dell’Alleanza era precario, e si doveva ripetere ogni anno, invece l’Alleanza che Gesù Cristo ha concluso con il Padre in nostro nome è perfetta e definitiva: sul Volto di Cristo in croce, i credenti scoprono il vero Volto di Dio che ama i suoi fino alla fine. Ormai non possiamo più ingannarci; Dio è Padre nostro perché Padre di Gesù e nel Cristo possiamo vivere nell’Alleanza che Dio ci propone: la Nuova Alleanza in Cristo e non c’è più spazio per la paura  del giudizio di Dio perché professando “Gesù ritornerà per giudicare i vivi e i morti” (nel nostro Credo), proclamiamo che  il termine “giudizio” è sinonimo di salvezza: “il Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, non più per il peccato, ma per la salvezza di coloro che lo attendono” ed è giusto affermare che Gesù Cristo  è “il sommo sacerdote della felicità che viene”, come l’autore afferma nel cap.  9,11, testo che si proclama nella festa del Corpo e del Sangue di Cristo, nell’anno B.

 

*Vangelo Marco 12, 38-44

“Guardatevi dagli scribi…” Siamo alla conclusione del 12mo capitolo e ci avviamo verso la fine del vangelo di Marco, con il racconto della Passione e Resurrezione di Cristo. Gesù dispensa gli ultimi consigli agli apostoli: ha già detto loro di aver fede in Dio e “tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (11, 22-24). Aggiungerà poi: “Badate che nessuno vi inganni” (13,5), mentre ora esorta a stare attenti agli scribi (12,38) utilizzando il linguaggio dei profeti per stigmatizzare alcune loro attitudini senza che questo significhi una totale condanna del loro operato.  All’epoca gli scribi erano molto considerati perché commentavano e interpretavano la Scrittura e predicavano, sedevano nel Sinedrio, il tribunale permanente di Gerusalemme che si riuniva nei locali del Tempio due volte a settimana; si tratta dunque di laici che avevano frequentato lo studio della Legge di Mosè in scuole specializzate, diventando esperti e alcuni tra loro venivano chiamati “dottori della legge” per cui rispettando loro si rispettava la Legge stessa. Tanto rispetto faceva montare la testa ad alcuni che esigevano i primi posti nelle sinagoghe, dando le spalle alle Tavole della Legge e rivolti verso pubblico. Nell’odierno vangelo Gesù rende omaggio allo scriba che aveva risposto saggiamente: “Non sei lontano dal Regno di Dio.” (12,34), ma aggiunge una critica più generale reagendo all’ostilità che alcuni scribi, fin dall’inizio della sua vita pubblica, gli hanno mostrato invidia e gelosia. Appare chiara nel vangelo di Marco una crescente sfiducia di Cristo nei loro confronti dato che la loro gelosia diventa odio fino a progettare di uccidere Gesù dopo la cacciata dei mercanti dal Tempio. I capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani lo assediano mentre cammina nel Tempio chiedendogli con quale autorità insegni e compia i miracoli (11,27-28) e vedremo durante la passione lo stesso Pilato rendersene conto, come annota san Marco: “Pilato sapeva che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia” (15,10). Gesù però non si lascia impressionare dal loro odio e rimprovera loro qualcosa di molto più grave e cioè che sfruttano la loro posizione esigendo di essere pagati dalle povere vedove quando queste domandano consigli giuridici: “divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (12,40). E’ a questo punto che appare una povera vedova (12, 42-43) in totale indigenza (12,44) perché, non avendo diritto all’eredità del marito, dipendeva dalla carità pubblica. Essa si avvicina per deporre due spiccioli e Gesù la indica come esempio ai discepoli: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno offerto del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quanto aveva per vivere” (12, 43-44). L’evangelista non fa commenti, ma si capisce che la fiducia della vedova sarà ricompensata. Naturale il parallelo con la vedova di Sarepta: come lei offrì ad Elia le sue ultime provviste, questa vedova depone tutti i suoi risparmi nel Tempio spogliandosi di tutto. Gesù invita a rifiutare il modello dell’ostentazione di alcuni scribi con la sete di onori e privilegi, ed esorta a imitare la generosità, umile e discreta, della “vedova povera” che lascia tutto ciò che ha nel Tempio. Diversi Padri della Chiesa l’hanno interpretato come un potente simbolo di fede umile e generosa e di carità autentica, non perché dona molto ma perché offre tutto ciò che ha per vivere, fidandosi di Dio. Questo racconto, oltre ad essere una lezione di carità e fiducia, è pure un richiamo all’autentica giustizia sociale, dove l’amore per Dio deve tradursi sempre in attenzione, aiuto e amore ai bisognosi.

Fra cadaveri e avvoltoi: diversi nella Profondità

(Lc 17,26-37)

 

C’è un discernimento essenziale assai semplice: dove la vita si spegne, non è favorita, non rallegrata né promossa, la terra diventa un camposanto anticipato, e il “cielo” si popola di stormi interi d’avvoltoi.

È l’amaro risultato di una cultura dalla quale purtroppo non trapela la netta ‘presenza’ di Colui che ha rivestito il mondo di Bellezza. 

Mentalità che appare totalmente inerte: non in grado di farci riconoscere - noi senza voce - quali Motivo reale e Termine dell’iniziativa di Dio. Addirittura gli unici autentici Santuari.

Dovremmo essere Relazioni viventi e parlanti, che riempiono il cuore di sogni. E centri d’irradiazione, icone d’appagamento pieno; luoghi di passioni non statiche, bensì rispettose dell’intima natura delle cose.

Ma convinzioni e proposta pastorale sembra non reggano. E non incidono forse perché hanno perduto magia dentro: che fa amicizia con ciò che c’è nel viaggio di ciascuno.

Qui vige un discernimento più sottile - cifra del brano di Vangelo di oggi: il Giudizio si presenta in forma di sorpresa.

I minimi problemi dell’esistenza quotidiana possono diventare così assorbenti da farci smarrire il senso stesso delle imperfezioni - e in genere, la dimensione di profondità.

Le frontiere del Regno sono nel mondo, nelle persone, nei loro lamenti e gioie, negli accadimenti. Il luogo del ‘giudizio’ è ovunque.

L’invito di Gesù è a non lasciarsi distrarre, neanche dalle minuzie della religiosità.

La manifestazione dei tempi ultimi - ossia la possibilità di avviare un mondo nuovo - continuamente Viene: dev’essere ricevuta e farsi consapevole.

Mantenuta viva personalmente.

L’Incontro decisivo non accade in spazi e tempi preposti: si ripropone in mille fogge, momenti e luoghi, ma - ecco l’altro dato saliente - c’è qualcuno che si accorge, altri no.

La “divisione” tra chi viene associato alla vita divina e chi non può esserlo, non concerne gli eticismi sui vizi capitali, bensì il discernimento vivente.

Si tratta della realtà anche minuta (vv.31.34-35) e il suo messaggio.

La Fede nelle svolte e l’unione a Cristo che pulsa nell’anima, e sogna - intimo Fratello di ognuno e sfolgorante misura di ben altre cose - vuol spalancarci la Visione.

Lo leggiamo anche nel nostro cuore in rivolta, che vuole ridestarci dai loculi e dalla dittatura dei pensieri già confezionati.

Il Sé nascosto ha sete di comprendere l’appello del quotidiano e sommario, del precario, dei “difetti”; il richiamo della bifrontalità delle situazioni.

Le “simmetrie” che tanto sembravano rassicuranti non fanno crescere virtù, dentro le debolezze.

Ecco allora raggiungerci il pungolo dei fastidi, persino epocali: l’idea di perfezione non ci farebbe altrettanto spostare lo sguardo, per fare esodo, crescere, fiorire.

Il ‘Giudizio’ attivo in Cristo trasmette invece la capacità di cogliere uno scenario che non sapevamo.

 

L’avvento del «Figlio dell'uomo» (vv.26.30) mette in discussione, e il suo Giudizio sovrasta i distratti, i contratti dall’abitudine.

Coglie viceversa il nucleo dell’esistenza: saremo riconosciuti diversi… non nella morale, ma nella Profondità.

 

 

[Venerdì 32.a sett. T.O.  15 novembre 2024]

Fra cadaveri e avvoltoi: diversi nella profondità

(Lc 17,26-37)

 

C’è un discernimento essenziale assai semplice: dove la vita si spegne, non è favorita, non rallegrata né promossa, la terra diventa un camposanto anticipato, e il “cielo” si popola di stormi interi d’avvoltoi.

Fotografia dell’invecchiamento, dello stagno, del problema d’Occidente a monopolio spirituale (abituato) che non fa fiorire più nulla.

È l’amaro risultato di una struttura religiosa forse devotissima, di sicuro abile a soddisfare i sensi, però indolente; certo capillare, esperta, e che si pronuncia su tutto, ma disarticolata in campanilismi d’ogni tipo.

Un’istituzione spettacolare, tuttavia ripiegata, in sé estranea e a volte ostile [che spegne la spinta creativa e non si mescola con le speranze della donna e dell’uomo di oggi]; dalla quale purtroppo non trapela la netta presenza di Colui che ha rivestito il mondo di Bellezza. 

La piramide gerarchica sul territorio rimane esagerata, forse allo scopo stesso di autolegittimarsi, serrando le fila per fare meglio corpo.

La mentalità che ne deriva appare totalmente inerte: non in grado di farci riconoscere - noi senza voce - quali Motivo reale e Termine dell’iniziativa di Dio. Addirittura gli unici autentici Santuari.

Dovremmo essere Relazioni viventi e parlanti, che riempiono il cuore di sogni. E centri d’irradiazione, icone d’appagamento pieno; luoghi di passioni non statiche, bensì rispettose dell’intima natura delle cose.

Viceversa, cogliamo attorno sprazzi di vita sì giovane ed esuberante che tenta di fiorire, ma oscuramente soffocata da troppi lacci, idee passate o disincarnate, interessi di gruppo consolidati, e padroncini.

Ecco la crisi di senso, il tempo davvero umano che viene meno; come in un anticipo di perdizione - fuori prospettiva del Padre, amante della vita.

 

Convinzioni e proposta pastorale paiono incapaci di costituire: non reggono, impallidiscono, non incidono, non ricercano l’unicità.

Tutto ciò, malgrado l’esercito (distratto) di realtà istituzionali e capillari, che succhia vocazioni persino da terre in piena Missione.

Motivo in più per iniziare a edificare una ecclesialità profondamente differente, che non si attende di essere solo imboccata da programmi di professionisti del sacro.

Regno di Dio a partire dalla vita reale nuda e cruda; eppure, con la magia dentro: che fa amicizia con ciò che c’è nel viaggio di ciascuno.

 

Qui vige un discernimento più sottile - cifra del brano di Vangelo di oggi: il Giudizio si presenta in forma di sorpresa.

I minimi problemi dell’esistenza quotidiana (le nostalgie dei tradizionalisti, come le stesse idee disincarnate dei sofisticati) possono diventare così assorbenti da farci smarrire il senso stesso delle imperfezioni - e in genere, la dimensione di profondità.

Le frontiere del Regno sono nel mondo, nelle persone, nei loro lamenti e gioie, negli accadimenti - se letti come appuntamenti di svolta.

Non nelle convocazioni dove le cerchie d’iniziati si autorappresentano con una pletora di segni non confortati dalla vita.

Il luogo del “Giudizio” è ovunque.

In specie fuori dalle sagrestie: «vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità [...] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione» [da un’omelia del settembre 2015 a Santiago di Cuba, cit. in: Fratelli Tutti n.276].

L’invito di Gesù è a non lasciarsi distrarre, neanche dalle minuzie della religiosità.

La manifestazione dei tempi ultimi - ossia la possibilità di avviare un mondo nuovo - continuamente Viene: dev’essere ricevuta e farsi consapevole.

Mantenuta viva personalmente.

 

L’Incontro decisivo non accade in spazi e tempi preposti: si ripropone in mille fogge, momenti e luoghi, ma - ecco l’altro dato saliente - c’è qualcuno che si accorge, altri no.

La “divisione” tra chi viene associato alla vita divina e chi non può esserlo, non concerne gli eticismi sui vizi capitali, bensì il discernimento vivente

Si tratta della realtà anche minuta (vv.31.34-35) e il suo messaggio - ciò che la persona di Fede sente consistenza indistruttibile, ed è rivelazione totale di sé.

 

Senza la Fede delle svolte, il senso cultuale alienante riempie l'umanità di apparenze, di vesti divenute maschere e scorie - incapaci ormai d’interrogarci. Atteggiamento devastante.

La devozione poi che cura solo i dettagli o le grandi visioni del mondo e tira diritto, combatte i rovesci dell’esistere e non ne coglie gli appelli, la ricchezza per noi.

Anche nel tempo dell’emergenza, le fughe in avanti, il malessere dell’assuefazione o dell’errore piccino, stanno arrestando anche i festival spirituali più esuberanti nel punto in cui erano.

Ossia nelle tombe in cui ci siamo volentieri lasciati seppellire, e lo si nota in modo drammatico.

L’unione a Cristo che pulsa nell’anima, e sogna - intimo Fratello di ognuno e sfolgorante misura di ben altre cose - vuol spalancarci la Visione.

Una Visione di cieli e terra alternativi. Un’ottica oggi spesso rapita da vane attese di ripristino al “come eravamo”.

Lo leggiamo anche nel nostro cuore in rivolta, che vuole ridestarci dai loculi e dalla dittatura dei pensieri già confezionati.

Il Sé nascosto ha sete di comprendere l’appello del sommario, dei “difetti”, il richiamo della bifrontalità delle situazioni.

Duplicità purtroppo poco coltivate nelle realtà ingessate o unilaterali, quelle senza prodigio, e che ormai non vogliamo.

 

Le “simmetrie” che tanto sembravano rassicuranti non fanno crescere virtù, dentro le debolezze.

Ecco allora raggiungerci il pungolo dei fastidi, persino epocali: l’idea di perfezione non ci farebbe altrettanto spostare lo sguardo, per fare esodo, crescere, fiorire.

Il “Giudizio” attivo in Cristo trasmette invece la capacità di cogliere uno scenario che non sapevamo, e di capovolgere tutta una impostazione d’esistenza vintage avvezza.

Anche reagendo d’improvviso (v.31).

Insomma, Gesù sta richiamando i suoi a non camminare per aria:

Molte conquiste devote saranno in conto perdita. Tanti rischi d’amore, sia negli eventi ordinari che straordinari, saranno calcolati a “guadagno”.

In tal guisa saremo pronti a ricevere il Dio-Insieme.

Ciò sia nei rapporti con gli uomini, che nei segni del tempo e negli eventi personali.

Non ci faremo prendere alla sprovvista dal pensiero solo retrospettivo - o frutto di attaccamenti opposti - che si accontenta di praticucce esterne, ma non vigila.

L’avvento del «Figlio dell'uomo» (vv.26.30) mette in discussione. E il suo Giudizio sovrasta i distratti, i contratti dall’abitudine; senza più capacità di lettura profonda e intuizione.

Il Signore viceversa coglie il nucleo dell’esistenza.

La sua teologia d’Incarnazione vuole creare alleanza tra le nostre variegate potenze primordiali [tutte in sé genuine].

Saremo dunque riconosciuti diversi [viventi o meno]… non nei manierismi o luoghi spiccioli della “morale” (vv.31.34).

Neppure nella faticosa elaborazione (epidermica) delle virtù ammesse: «Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33).

Tutto ciò, bensì, nella profondità della percezione.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Ti fai imbeccare da altri o stai edificando te stesso e il tuo modo di comprendere?

Ti senti sicuro per aver assunto sogni, virtù, speranze, successi comuni e altrui? Ovvero per averli vissuti e riconosciuti - come una vera storia d’amore - in prima persona?

Quale differenza profonda rechi con te nel tempo degli attaccamenti e degli sconvolgimenti?

L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è « estasi », ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: « Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in genere.

[Papa Benedetto, Deus Caritas est, n.6]

Salmo 10 - Nel Signore è la fiducia del giusto
Vespri del lunedì della 1a settimana (Lettura: Sal 10, 1.3-5.7).

1. Continua la nostra riflessione sui testi salmici, che costituiscono l’elemento sostanziale della Liturgia dei Vespri. Quello che ora abbiamo fatto risuonare nei nostri cuori è il Salmo 10, una breve preghiera di fiducia che, nell’originale ebraico, è scandita dal nome sacro divino, ’Adonaj, il Signore. Questo nome echeggia in apertura (cfr v. 1), si trova tre volte al centro del Salmo (cfr vv. 4-5) e ritorna alla fine (cfr v. 7).

La tonalità spirituale dell’intero canto è ben espressa dal versetto conclusivo: «Giusto è il Signore, ama le cose giuste». È questa la radice di ogni fiducia e la sorgente di ogni speranza nel giorno dell’oscurità e della prova. Dio non è indifferente nei confronti del bene e del male, è un Dio buono e non un fato oscuro, indecifrabile e misterioso.

2. Il Salmo si svolge sostanzialmente in due scene. Nella prima (cfr vv. 1-3) si descrive l’empio nel suo apparente trionfo. Egli è tratteggiato con immagini di taglio bellico e venatorio: è il perverso, che tende il suo arco da guerra o da caccia per colpire violentemente la sua vittima, ossia il fedele (cfr v. 2). Quest’ultimo è, perciò, tentato dall’idea di evadere e di liberarsi da una morsa così implacabile. Vorrebbe fuggire «come un passero verso il monte» (v. 1), lontano dal gorgo del male, dall’assedio dei malvagi, dalle frecce delle calunnie lanciate a tradimento dai peccatori.

C’è una sorta di scoraggiamento nel fedele che si sente solo e impotente di fronte all’irruzione del male. Gli sembrano scosse le fondamenta del giusto ordine sociale e minate le basi stesse della convivenza umana (cfr v. 3).

3. Ecco, allora, la svolta, delineata nella seconda scena (cfr vv. 4-7). Il Signore, assiso sul trono celeste, abbraccia col suo sguardo penetrante tutto l’orizzonte umano. Da quella postazione trascendente, segno dell’onniscienza e onnipotenza divina, Dio può scrutare e vagliare ogni persona, distinguendo il bene dal male e condannando con vigore l’ingiustizia (cfr vv. 4-5).

È molto suggestiva e consolante l’immagine dell’occhio divino la cui pupilla è fissa e attenta alle nostre azioni. Il Signore non è un remoto sovrano, chiuso nel suo mondo dorato, ma una vigilante Presenza schierata dalla parte del bene e della giustizia. Egli vede e provvede, intervenendo con la sua parola e la sua azione.

Il giusto prevede che, come era accaduto a Sodoma (cfr Gn 19,24), il Signore «farà piovere sugli empi brace, fuoco e zolfo» (Sal 10,6), simboli del giudizio di Dio che purifica la storia, condannando il male. L’empio, colpito da questa pioggia ardente, che prefigura la sua sorte ultima, sperimenta finalmente che «c’è Dio che fa giustizia sulla terra!» (Sal 57,12).

4. Il Salmo, però, non si conclude con questo quadro tragico di punizione e di condanna. L’ultimo versetto apre l’orizzonte alla luce e alla pace destinate al giusto che contemplerà il suo Signore, giudice giusto, ma soprattutto liberatore misericordioso: «Gli uomini retti vedranno il suo volto» (Sal 10,7). Un’esperienza, questa, di comunione gioiosa e di serena fiducia nel Dio che libera dal male.

Una simile esperienza hanno fatto innumerevoli giusti nel corso della storia. Molte narrazioni descrivono la fiducia dei martiri cristiani di fronte ai tormenti e la loro fermezza che non rifuggiva dalla prova.

Negli Atti di Euplo, diacono catanese, morto verso il 304 sotto Diocleziano, il martire esce spontaneamente in questa sequenza di preghiere: «Grazie, o Cristo: proteggimi perché soffro per te… Adoro il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Adoro la Santa Trinità… Grazie, o Cristo. Vieni in mio soccorso, o Cristo! Per te soffro, Cristo… Grande è la tua gloria, o Signore, nei servi che ti sei degnato di chiamare a te!… Ti rendo grazie, Signore Gesù Cristo, perché la tua forza mi ha consolato; tu non hai permesso che la mia anima perisse con gli empi e mi hai concesso la grazia del tuo nome. Ora conferma quello che hai fatto in me, affinché sia confusa l’impudenza dell’Avversario» (A. Hamman, Preghiere dei primi cristiani, Milano 1955, pp. 72-73).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 gennaio 2004]

«Pensare alla nostra morte non è una brutta fantasia»; anzi, vivere bene ogni giorno come se fosse «l’ultimo», e non come se questa vita fosse «una normalità» che dura per sempre, potrà aiutare a trovarsi davvero pronti quando il Signore chiamerà. È un invito a riconoscere serenamente la verità essenziale della nostra esistenza quello che Papa Francesco ha riproposto nella messa celebrata venerdì mattina, 17 novembre, a Santa Marta.

«In queste due ultime settimane dell’anno liturgico — ha subito fatto presente — la Chiesa nelle letture, nella messa, ci fa riflettere sulla fine». Da una parte, certo, «la fine del mondo, perché il mondo crollerà, sarà trasformato» e ci sarà «la venuta di Gesù, alla fine». Ma, dall’altra parte, la Chiesa parla anche della «fine di ognuno di noi, perché ognuno di noi, morirà: la Chiesa, come madre, maestra, vuole che ognuno di noi pensi alla propria morte».

«A me attira l’attenzione — ha confidato il Pontefice, facendo riferimento al brano evangelico di Luca (17, 26-37) — quello che dice Gesù in questo passo che abbiamo letto». In particolare la sua risposta «quando domandano come sarà la fine del mondo». Ma intanto, ha rilanciato il Papa seguendo le parole del Signore, «pensiamo a come sarà la mia fine». Nel Vangelo Gesù usa le espressioni «come avvenne anche nei giorni di Noè» e «come avvenne anche nei giorni di Lot». Per dire, ha spiegato, che gli uomini «in quel tempo mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno che Noè entrò nell’arca». E, ancora, «come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano».

Ecco però, ha proseguito il Papa, che arriva «il giorno che il Signore fa piovere fuoco e zolfo dal cielo». Insomma, «c’è la normalità, la vita è normale — ha fatto notare Francesco — e noi siamo abituati a questa normalità: mi alzo alle sei, mi alzo alle sette, faccio questo, faccio questo lavoro, vado a trovare questo domani, domenica è festa, faccio questo». E «così siamo abituati a vivere una normalità di vita e pensiamo che questo sarà sempre così». Ma lo sarà, ha aggiunto il Pontefice, «fino al giorno che Noè salì sull’arca, fino al giorno che il Signore ha fatto cadere fuoco e zolfo dal cielo».

Perché sicuramente «verrà un giorno in cui il Signore dirà a ognuno di noi: “vieni”», ha ricordato il Pontefice. E «la chiamata per alcuni sarà repentina, per altri sarà dopo una malattia, in un incidente: non sappiamo». Ma «la chiamata ci sarà e sarà una sorpresa: non l’ultima sorpresa di Dio, dopo di questa ce ne sarà un’altra — la sorpresa dell’eternità — ma sarà la sorpresa di Dio per ognuno di noi».

A proposito della fine, ha proseguito, «Gesù ha una frase, l’abbiamo letta ieri nella messa: sarà “come la folgore che guizzando brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”, il giorno che busserà alla nostra vita».

«Noi siamo abituati a questa normalità della vita — ha proseguito Francesco — e pensiamo che sarà sempre così». Però «il Signore, e la Chiesa, ci dice in questi giorni: fermati un po’, fermati, non sempre sarà così, un giorno non sarà così, un giorno tu sarai tolto e quello che è accanto a te sarà lasciato».

«Signore, quando sarà il giorno in cui sarò tolto?»: proprio «questa — ha suggerito il Papa — è la domanda che la Chiesa invita a farci oggi e ci dice: fermati un po’ e pensa alla tua morte». Ecco il significato della frase citata da Francesco, posta all’ingresso «in un cimitero, al nord di Italia: “Pellegrino, tu che passi, pensa dai tuoi passi, l’ultimo passo”». Perché «ci sarà un ultimo» passo.

«Questo vivere la normalità della vita come fosse una cosa eterna, un’eternità — ha spiegato il Papa — si vede anche nelle veglie funebri, nelle cerimonie, nelle onorificenze funebri: tante volte le persone che davvero sono coinvolte con quella persona morta, per la quale preghiamo, sono poche».

E così «una veglia funebre si è trasformata normalmente in un fatto sociale: “Dove vai oggi?” — “Oggi devo andare a fare questo, questo, questo, poi al cimitero perché c’è la cerimonia”». Diventa così «un fatto in più e lì incontriamo gli amici, parliamo: il morto è lì ma noi parliamo: normale». Così «anche quel momento trascendente, per il modo di camminare della vita abituale, diventa un fatto sociale». E «questo — ha confidato ancora Francesco — io l’ho visto nella mia patria: in alcune veglie funebri c’è un servizio di ricevimento, si mangia, si beve, il morto è lì: ma noi qui facciamo un po’, non dico “festa”, ma parliamo, mondanamente; è una riunione in più, per non pensare».

«Oggi — ha affermato il Pontefice — la Chiesa, il Signore, con quella bontà che ha, dice a ognuno di noi: fermati, fermati, non tutti i giorni saranno così; non abituarti come questa fosse l’eternità; ci sarà un giorno che tu sarai tolto, l’altro rimarrà, tu sarai tolto». Insomma, così «è andare col Signore, pensare che la nostra vita avrà fine, e questo fa bene perché lo possiamo pensare all’inizio del lavoro: oggi forse sarà l’ultimo giorno, non so, ma farò bene il lavoro». E «farò» bene anche «nei rapporti a casa, con i miei, con la famiglia: andare bene, forse sarà l’ultimo giorno, non so». Lo stesso dobbiamo pensarlo, ha proseguito Francesco, «anche quando andiamo a fare una visita medica: questa sarà una in più o sarà l’inizio delle ultime visite?».

«Pensare alla morte non è una fantasia brutta, è una realtà», ha insistito il Pontefice, spiegando: «Se è brutta o non brutta dipende da me, come io la penso, ma ci sarà e lì sarà l’incontro col Signore: questo sarà il bello della morte, sarà l’incontro col Signore, sarà lui a venire incontro, sarà lui a dire “vieni, vieni, benedetto da mio Padre, vieni con me”». A nulla serve dire: «Ma, Signore, aspetta che devo sistemare questo, questo». Perché tanto «non si può sistemare niente: quel giorno chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa non scenda: dove stai ti prenderanno, ti prenderanno, tu lascerai tutto».

Però «avremo il Signore, questa è la bellezza dell’incontro», ha rassicurato il Papa. «L’altro giorno — ha aggiunto — ho trovato un sacerdote, più o meno sessantacinquenne: non si sentiva bene, è andato dal dottore», il quale «dopo la visita» gli «ha detto: “Guardi, lei ha questo, questa è una cosa brutta, ma forse stiamo in tempo di fermarla, faremo questo; se non si ferma faremo quest’altro e se non si ferma incominceremo a camminare e io la accompagnerò fino alla fine”». Perciò, ha commentato Francesco, «bravo quel medico! Con quanta dolcezza ha detto la verità: anche noi accompagniamoci in questa strada, andiamo insieme, lavoriamo, facciamo del bene e tutto, ma sempre guardando là».

«Oggi facciamo questo» ha concluso il Papa, perché «ci farà bene a tutti fermarsi un po’ e pensare il giorno nel quale il Signore verrà a trovarmi, verrà a prendermi per andare da lui».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/11/2017]

La Venuta del Regno non sopra né davanti

(Lc 17,20-25)

 

Il tema della venuta del Figlio dell’uomo è precristiano, e tutti i dati del testo compaiono già nell’apocalittica giudaica. Ma in essa l’Eterno «verrà» e “si farà vedere” alla fine del tempo.

Tuttavia il Padre non governa i figli emanando disposizioni come farebbe un sovrano, bensì trasmettendo la sua stessa Vita, di qualità indistruttibile.

Perciò non chiede obbedienza - come un re. Desidera ‘somiglianza’.

È il Dono, e il saper leggere dentro le cose, poi la nostra qualità e impegno relazionale, che realizzano o decelerano l’instaurarsi di un mondo nuovo, continuamente ritemprato.

Nulla a che fare coi pronostici (v.20): è in campo la sapienza inattesa del Dono, e il “potere” all’incontrario di Dio. Non di forza, non aggressivo.

Egli stesso si colloca non davanti o sopra, ma «in mezzo». Nulla di perentorio, straripante, gigantesco. Stile Famiglia.

«In mezzo»: per illuminare tutte le circostanze. Per coabitare, preparare, attecchire nei cuori in modo amabile, intimo, convincente.

L’avvento del suo Regno non potremo ammirarlo come fosse uno show. 

La Presenza delle Fraternità nel mondo è tessuta di vita reale, non di ruoli o vaghe narrazioni, rappresentazioni sofisticate, o illusioni.

Così la Chiesa non sarà un’anonima e ostile società che trae con astuzia il maggior “rendimento”.

La Comunità che Viene non dovrebbe appartenere alla fattispecie mondana, bensì sfuggire ogni prevedibilità e limitazione. 

Il Regno alternativo è di condizione umana, eppure… ‘forma’ che non accetta la finitudine come unica sorte, né si adatta alla nostra piccina misura di determinatezze e rassicurazioni.

Il Regno in Persona Christi traluce una Energia lucida e sognante, vicina e proiettiva, la quale non impone se stessa: anima l’intero afflato di creature che si mettono in gioco.

Fuori dai suoi circuiti ordinari, il Signore non chiede nessuna manifestazione gloriosa.

«Il Regno di Dio non viene in modo che si possa osservare, né si dirà: Ecco qui o là» [vv.20b-21a].

Non si tratta di fine del mondo, ma di fine di un certo tipo di modello di umanità riuscita - ora intima al «Figlio dell’uomo» (vv.22.24).

E l’opportunità per rovesciare le concatenazioni [antiche o alla moda] si presenta da un momento all’altro; guizza immediata (v.24).

Tutto ciò mette i fedeli a contatto con la natura interna del Regno. E in tal guisa ne conoscono la saggezza, l’azione nascosta che estrae fecondità dai lati caotici.

Altre vene, fluenti di Spirito.

Altrimenti può anche sembrare che Dio perda il controllo della storia.

E noi, scoraggiati, metterci su un lato della strada, ad osservare intimiditi, forse arresi; sperando l’arrivo di altre cose, esterne.

Invece, tappa dopo tappa il suo progetto di umanizzazione si realizza - qui - in tutti coloro che accolgono la proposta di accentuare la propria vita, donando se stessi.

 

Nessun Dominio.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come incarni la profezia del Messia che ‘viene’ senza posa? Corrispondi personalmente o corri dietro eventi eclatanti?

 

 

[Giovedì 32.a sett. T.O.  14 novembre 2024]

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«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manila]
The more we do for others, the more we understand and can appropriate the words of Christ: “We are useless servants” (Lk 17:10). We recognize that we are not acting on the basis of any superiority or greater personal efficiency, but because the Lord has graciously enabled us to do so [Pope Benedict, Deus Caritas est n.35]
Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono [Papa Benedetto, Deus Caritas est n.35]
A mustard seed is tiny, yet Jesus says that faith this size, small but true and sincere, suffices to achieve what is humanly impossible, unthinkable (Pope Francis)
Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili (Papa Francesco)
Hypocrisy: indeed, while they display great piety they are exploiting the poor, imposing obligations that they themselves do not observe (Pope Benedict)
Ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano (Papa Benedetto)
Each time we celebrate the dedication of a church, an essential truth is recalled: the physical temple made of brick and mortar is a sign of the living Church serving in history (Pope Francis)
Ogni volta che celebriamo la dedicazione di una chiesa, ci viene richiamata una verità essenziale: il tempio materiale fatto di mattoni è segno della Chiesa viva e operante nella storia (Papa Francesco)
As St. Ambrose put it: You are not making a gift of what is yours to the poor man, but you are giving him back what is his (Pope Paul VI, Populorum Progressio n.23)
Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene (Papa Paolo VI, Populorum Progressio n.23)
Here is the entire Gospel! Here! The whole Gospel, all of Christianity, is here! But make sure that it is not sentiment, it is not being a “do-gooder”! (Pope Francis))
Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! (Papa Francesco)
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]

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