don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XXIII Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [7 settembre 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questa domenica Gesù nel vangelo sviluppa il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questo prova che la Parola di Dio è sapienza divina che, come cogliamo nella prima lettura e nel salmo responsoriale, illumina ogni umana scelta e decisione.  Saggezza che è sempre segreto di vera felicità.

 

*Prima Lettura dal libro della Sapienza (9, 13-18)

La Sapienza, nel senso biblico, è in qualche modo l’arte di vivere. Israele, come tutti i popoli vicini, sviluppò un’ampia riflessione su questo tema a partire dal regno di Salomone e il suo contributo in questo campo è del tutto originale. Si riassume in due punti: anzitutto per la Bibbia solo Dio conosce i segreti della felicità e se l’uomo pretende di scoprirli da solo percorre false piste, come è chiara la lezione del giardino dell’Eden. In secondo luogo Dio solo rivela al suo popolo e a tutta l’umanità il segreto della felicità: ecco il messaggio di questo testo che è anzitutto una lezione di umiltà. Già Isaia aveva affermato che i pensieri e le vie di Dio sono diversi dai nostri (cf. Is 55,8) e il libro della Sapienza, scritto molto tempo dopo con uno stile ben diverso, ripete: “Quale uomo può scoprire il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il  Signore?” (v.13). Non riusciamo ad avere la minima idea di ciò che Dio pensa e conosciamo solo quanto Egli ha comunicato attraverso i suoi profeti. Giobbe aveva chiesto dove cercare la sapienza perché non esiste sulla terra dei viventi e Dio solo sa dove si trova (cf. Gb 28,12-13.23); poco dopo Dio ricorda a Giobbe i suoi limiti (cc. 38–41) e, alla fine della dimostrazione, Giobbe si inchina e ammette di aver parlato senza capire  le meraviglie che “sono al di sopra di me e che non conoscevo” (Gb 42,3). Nel libro della Sapienza la discussione sulle conoscenze umane si sviluppa tra i più intellettuali che esistevano ad Alessandria, quando erano assai sviluppate le discipline scientifiche e filosofiche ed era celebre la Biblioteca di Alessandria. A tali sapienti l’autore ricorda i limiti del sapere umano: “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni” (v.14). E ancora: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? (v.16). L’autore non vuol dire che se riusciamo a scoprire la terra, potremo capire le cose celesti, ma afferma che non esiste soltanto una questione di livello di conoscenze, come se l’uomo potesse scoprire i misteri di Dio con il ragionamento e le ricerche, ma è questione di natura: noi siamo solo uomini, e tra Dio e noi vi è un abisso essendo Dio il Totalmente Altro e i suoi pensieri sono al di là della nostra portata. Sta qui la seconda lezione del testo: se riconosciamo la nostra impotenza Dio stesso ci rivela ciò che da soli non possiamo scoprire facendoci dono del suo Spirito (cf.1,9). Le altre letture di questa domenica indicano i comportamenti nuovi ispirati dallo Spirito che abita in noi. Ancora una osservazione: Al v. 14 “un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni” appare una concezione dell’uomo non abituale nella Bibbia, che solitamente insiste sull’unità dell’essere umano, mentre qui è descritto come un essere composto da uno spirito immateriale e un involucro materiale che lo contiene. Il libro della Sapienza, scritto in ambiente greco, utilizza questo vocabolario per non scandalizzare i suoi lettori greci, ma di certo non vuole descrivere un dualismo dell’essere umano: presenta piuttosto il combattimento interiore che si svolge in ciascuno di noi e che san Paolo descrive così: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). In definitiva, questo testo porta un contributo originale a una grande duplice scoperta biblica: Dio è insieme il Totalmente Altro e il Totalmente Vicino. Dio è il Totalmente Altro: “Qual uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”(v. 13). Allo stesso tempo, Egli si fa il Totalmente Vicino  dando all’uomo la sapienza e il suo santo spirito (v.17). E così gli uomini furono istruiti in ciò che è a Dio gradito e furono salvati per mezzo della sapienza (cf.v.18).

 

*Salmo responsoriale (89/90,3-4,5-6,12-13,14.17)

La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, trova un’eco in questo salmo che offre una magnifica definizione della sapienza: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (v.12). Questi versetti danno un’idea dell’atmosfera generale e suona del tutto insolita un’espressione: “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13). E’ come se si dicesse: ‘in questo momento siamo infelici, siamo puniti per le nostre colpe; perdonaci e togli la punizione”, quindi una formula tipica di una liturgia penitenziale nel contesto di una cerimonia penitenziale nel tempio di Gerusalemme. Perché Israele chiede perdono? I primi versetti suggeriscono la risposta: “Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: Ritornate, figli dell’uomo”( v.3).  Il problema è che la nostra condizione di peccatori è legata ad Adamo e l’intero salmo medita sul racconto della colpa di Adamo nel libro della Genesi. All’inizio Dio e l’uomo si trovavano faccia a faccia: Dio, creatore e l’uomo sua creatura uscita dalla polvere. Il secondo versetto (qui assente) del salmo dice appunto: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”. Di fronte a Lui, noi siamo soltanto un pugno di polvere nelle sue mani. Eppure l’uomo ha osato sfidare Dio e non gli resta che meditare sulla sua vera condizione: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti  e il loro agitarsi  è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via” (v.10).  E noi siamo veramente piccoli: “Mille anni ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4) come san Pietro commenterà: “Una cosa non sfugga mai a voi, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pt 3,8). Dopo la presa di coscienza viene la supplica: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi. Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (vv. 12-14). Vera sapienza è stare piccoli davanti a Dio e il salmo paragona la vita umana all’erba che “al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca” (v.6). Quante volte davanti a una morte improvvisa capita di dire che siamo proprio nulla! Non si tratta di umiliarsi, ma di essere realisti e restare sereni nelle mani di Dio. “Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni” (v.14): questa è l’esperienza del credente, consapevole della propria piccolezza e fiducioso tra le mani di Dio al quale possiamo chiedere che “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli. Sia su di noi la bontà del Signore nostro Dio” (vv. 16-17a). Ancora più audace l’ultimo versetto del salmo che ripete due volte “Rendi salda per noi l’opera delle nostre mani” (v.17). Forse il salmista si riferiva alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, in mezzo a ogni genere di opposizione. Più in generale, esprime però l’opera comune di Dio e dell’uomo nel compimento della creazione: l’uomo lavora nella creazione, ma è Do a dare all’opera umana stabilità ed efficacia. 

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo a Filemone ( 9b-10.12-17)

Nelle domeniche passate abbiamo letto brani della lettera di Paolo ai Colossesi; oggi invece Paolo, mentre si trova in prigione, scrive a Filemone, un cristiano di Colossi (in Turchia) ed è una lettera personale, piena di diplomazia, su un argomento molto delicato. Filemone aveva probabilmente diversi schiavi, anche se la storia non lo specifica, e uno si chiama Onesimo. Un bel giorno, Onesimo fuggì, cosa totalmente proibita e severamente punita dal diritto romano perché lo schiavo apparteneva al padrone come un oggetto e non era libero di disporre di sé. Durante la sua fuga Onesimo incontra Paolo, si converte e si mette al servizio dell’apostolo. Situazione complicata: se Paolo tratteneva Onesimo si rendeva complice dell’abbandono di posto e ciò non piaceva a Filemone. Se invece Paolo lo rimandava, lo schiavo avrebbe corso seri rischi dato che Paolo riconosce più avanti nella lettera che Onesimo era debitore verso il suo padrone. Decide comunque di rimandare Onesimo con una richiesta di perdono in cui dispiega tutte le sue risorse persuasive per convincere Filemone: “Io, Paolo, così come sono, vecchio e, ora anche prigioniero a causa di Cristo Gesù ti prego per Onesimo, figlio mio” (vv.9-10). Precisa che lo vorrebbe trattenere ma sa che la decisione finale spetta a Filemone (vv12-14) e allora non intende forzare la mano a Filemone, sa però bene cosa vuole ottenere e lo rivela gradualmente. Chiede anzitutto di perdonare Onesimo per la fuga e, più che il semplice perdono, Paolo suggerisce una vera conversione: Onesimo è battezzato e quindi è ora un fratello per Filemone cristiano, suo ex padrone: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre, non più però come schiavo, ma, molto più che schiavo, come fratello carissimo”(vv.15-16). Paolo si spinge oltre: “Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”(v.17).

 

*Dal Vangelo secondo Luca (14,25-33)

La fine illumina tutto il discorso: sottolineando la totalità (la rinuncia a tuti i suoi averi v.33) Luca ripropone la sua teologia della povertà come radicale sequela di Cristo. Cominciamo dalla frase che riguarda i legami familiari (v.26):  Gesù non dice di considerarli come nulla perché sarebbe contrario a tutto il suo insegnamento sull’amore e al comandamento “Onora tuo padre e tua madre”. Vuol dire, piuttosto, che questi legami sono buoni, però non devono diventare ostacoli che impediscono di seguire Cristo perché il legame che ci unisce a Cristo mediante il Battesimo è più forte di qualsiasi altro legame terreno. La difficoltà di questo Vangelo è altrove: a prima vista non si vede bene il nesso tra le diverse parti. Gesù dice: “Se uno viene a me e non mi ama (nel linguaggio semitico orientale “odiare” vale anche per amare meno)  più di  suo padre, sua madre… non può essere mio discepolo” (v.26), frase che ritroviamo in eco (in inclusione) nell’ultima: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Tra queste due affermazioni ci sono due brevi parabole: quella dell’uomo che vuole costruire una torre e quella del re che parte in guerra. La loro lezione è simile: chi vuole costruire una torre deve prima calcolare la spesa per non imbarcarsi in un’impresa insensata; allo stesso modo, il re che pensa di affrontare una guerra occorre che valuti in anticipo le proprie forze. La saggezza consiste nell’adeguare le proprie ambizioni alle proprie possibilità: verità valida in ogni ambito. Quanti progetti falliscono perché iniziati troppo in fretta senza riflettere, prevedere e calcolare i rischi: questa è la saggezza elementare, il segreto del successo. Governare infatti è prevedere e forse si diventa adulti proprio il giorno in cui si impara finalmente a calcolare le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo non sembra in contraddizione con il messaggio delle frasi che aprono e chiudono il discorso di Gesù? Queste sembrano parlare un linguaggio tutt’altro che prudente e misurato: anzitutto per essere discepolo di Cristo bisogna preferirlo a chiunque altro e seguirlo con tutto se stesso, eppure, la saggezza e persino la giustizia chiedono di rispettare i legami naturali con la famiglia e l’ambiente. La seconda esigenza è portare con decisione la propria croce, accettando il rischio della persecuzione e terza condizione: rinunciare a tutti i propri beni. In sintesi, lasciare per Cristo ogni sicurezza affettiva e materiale. Ma tutto questo è prudente? Non sembra lontano dai calcoli aritmetici delle due brevi parabole? Eppure è chiaro che Gesù non si diverte a coltivare il paradosso e non si contraddice. Sta quindi a noi comprendere il suo messaggio e come le due brevi parabole illuminino le scelte che dobbiamo fare per seguirlo. A ben vedere Gesù dice sempre la stessa cosa: Prima di lanciarsi in un’impresa: si tratti di seguirlo, o di costruire una torre, oppure di partire in guerra, invita a fare bene i conti e a non sbagliare. Chi costruisce una torre calcola il costo; chi parte in guerra valuta il numero di uomini e di armi e chi segue Cristo deve fare anch’egli i suoi conti, che però sono di altro genere: deve rinunciare a ciò che può ostacolarlo e così mettere al servizio del Regno tutte le sue ricchezze, anche affettive e materiali. E soprattutto, deve contare sulla potenza dello Spirito che “continua la sua opera nel mondo e porta a compimento ogni santificazione”, come dice la quarta preghiera eucaristica. Anche qui si tratta di un rischio calcolato: per seguire Gesù, egli ci indica i rischi — saper lasciare tutto, accettare l’incomprensione e talvolta la persecuzione, rinunciare alla resa immediata. Per essere cristiani, il vero calcolo, la vera saggezza, è non contare su nessuna delle nostre sicurezze terrene; è come se ci dicesse: Accetta di non avere sicurezze: ti basta la mia grazia!. Già la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, lo affermava chiaramente: la sapienza di Dio non è quella degli uomini; ciò che agli occhi degli uomini appare follia è la sola vera sapienza davanti a Dio. Con lui, si è sempre nella logica del chicco di grano: accetta di morire sotto terra ma solo così può germogliare e dare frutto. Beati coloro che sanno  liberarsi dalle false precauzioni per prepararsi a passare per la porta stretta di cui parlava il vangelo alla ventunesima domenica (Lc 13,24). 

NOTA Gesù sviluppa qui il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Nelle due parabole è evidente: bisogna sedersi per calcolare rischi e spese, adottando misure preventive - anche in assenza di prove scientifiche complete. Nel caso del discepolo i dati del calcolo sono completamente diversi: Gesù vuole che valutiamo bene che l’unica nostra ricchezza è in lui e l’unica nostra forza è la sua grazia. E persino la valutazione di rischi e obiettivi ci sfugge: come dice il libro della Sapienza, nella prima lettura: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni».

+ Giovanni D’Ercole

Uno sguardo nel «buio».

Come ho già detto in precedenza molti poeti e scrittori hanno descritto il fluire dell’animo umano.

Eugenio Montale lo esprime in una sua poesia del 1925, sul male di vivere, fornendoci l’immagine di un ruscello che non riesce a far scorrere le sue acque, di una foglia accartocciata dal troppo calore, di un cavallo sfinito a terra.

Immagini che nella nostra mente non passano senza lasciare una riflessione e qualche interrogativo.

Momenti di “buio” nella nostra vita ce ne sono stati e forse ci saranno ancora.

Sensazioni di scoraggiamento e di non  sapere quale strada prendere - ognuno di noi lo ha sperimentato sulla propria pelle.

L’intensità e la durata del “buio” variano a seconda  delle circostanze e dalle capacità di reagire personali.

Di fronte a sconfitte o delusioni reagiamo in modo differente; ciò che disturba un soggetto, può lasciare un altro individuo del tutto indifferente.

Un incontro col “ buio” può essere usuale di fronte a gravi difficoltà come un lutto, la perdita del lavoro, l’insorgere di una malattia, la  fine di relazioni affettive, e altro.

Tale  stato d’animo è provvisorio e finisce spontaneamente, senza portare cambiamenti nella vita di una persona.

In casi diversi è bene non sottovalutare lo stato d’animo, perché potrebbe essere un segno di una sofferenza psicosomatica o psichica.

In questi casi spesso si provano delle sensazioni inspiegabili di preoccupazione, di apatia; e ci sentiamo più affaticati.

Ricordiamoci che la reazione al “buio” segue sovente un’esperienza traumatica, la quale in circostanze ordinarie della vita non avrebbe causato nessuna sensazione temporanea di cattivo umore.

Una reazione maggiore e più protratta nel tempo, una reazione che l’individuo non riesce a superare da solo, è una condizione non usuale.

Nelle persone anziane le scosse emotive possono far insorgere momenti di “buio” più facilmente che nei giovani.

Talora gli anziani vengono messi da parte, hanno meno relazioni sociali, e spesso ne viene a soffrire il loro prestigio; principalmente quando viene meno la speranza.

Ma anche gli adolescenti [con la loro precarietà] non sono immuni a questi momenti di inquietudine.

Non è vero che l’adolescenza è un periodo felice della vita; anzi, forse è uno dei più travagliati.

In questi momenti di “buio” che la clinica chiama «depressione», notiamo: le persone che attraversano questa fase riducono di molto le loro attività, hanno meno fiducia in se stessi, si intesseranno a poche cose.

Sono capaci di conservare il lavoro anche se devono intensificare gli sforzi. Di solito la memoria e il rapporto con la realtà non sono alterati - a meno che non è insorto uno stato grave («psicosi»).

Arieti parla della depressione che qui abbiamo chiamato “buio” come una combinazione di tristezza e pessimismo.

Quest’ultimo costituisce l’elemento essenziale della combinazione; l’idea non sana sta nel credere che ciò che è accaduto a una persona gli succederà sempre, o che lo stato d’animo in cui si trova non muterà mai.

Il disfattismo, l’illusione di saper cosa ci succederà in futuro, consolida la tristezza in “buio”.

Spesso il “buio” dell’anima viene scaricato sul corpo.

Possiamo subire perdita di peso, sensazioni di oppressione a livello cardiaco; diminuzione delle secrezioni corporee; insonnia; e sovente mal di testa.

Nel comportamento con gli altri il “buio” ci fa tendere a sfruttare e condizionare il prossimo; ci fa  essere poco inclini a essere persuasi. Difficilmente diamo soddisfazione al prossimo, e spesso l’ostilità ci invade.

Faber Andrew ha scritto una poesia intitolata ‘A chi sta attraversando il suo buio’…

Il poeta invita il lettore a «credere nella poesia. Negli occhi di chi quella strada l’ha già ritrovata».

Poi ancora: «C’è un cielo di qua che vi aspetta, con un panorama di sogni da togliere il fiato».

Per un poeta la poesia è la strada maestra, ma noi che non siamo poeti abbiamo qualcosa in cui Credere, e che costituisce il pilastro della nostra  realtà.

Ricordiamoci sempre che quando la notte raggiunge il suo punto più oscuro, lì inizia l’alba di un nuovo giorno.

 

Francesco Giovannozzi psicologo psicoterapeuta.

Ago 27, 2025

Digiuno: Apertura

Pubblicato in Commento breve

Otri nuovi e Libertà vocazionale

(Lc 5,33-39)

 

Il digiuno è un principio di rigenerazione che ha un potere curativo unico, sia disintossicante che essenziale. Esso attiva le energie della propria umanità e nel contempo della propria diversità.

Tale pratica silenziosa si rivolge agli strati profondi, alla dimensione interna, che diventa la guida e rischiamo d’ignorare.

 

Il digiuno era segno di religiosità profonda, perciò i discepoli di Gesù - che non digiunavano, anzi la loro vita aveva un carattere festivo - erano assimilati più o meno a dei peccatori.

Sebbene non esistessero prescrizioni formali, presso i circoli osservanti si trattava di pie pratiche diventate consuetudini [legate a giorni precisamente scanditi].

Nelle credenze semitiche il digiuno era in specie espressivo dell’imbarazzo e dell’afflizione dell’uomo devoto nell’aspettativa dei tempi messianici, che tardavano.

Per questo Gesù associa il digiuno al lutto - che non ha più senso nella vita come festa di Nozze senza remore che Egli inaugura.

Il digiuno rimane come segno di attesa del compimento, ma ora la mestizia non ha più significato.

Nel tempo della Chiesa che rende presente il Risorto, la rinuncia a ingozzare non è forma di penitenza ma di speranza (v.35).

E serve a tener sgombro il cuore degli amici dello Sposo dalle vanità, con una forma d’identificazione coi poveri.

In altre comunità, i giudaizzanti tentavano di ridurre la Fede pura - fondamento e partecipazione entusiasta - a credenze e praticucce qualsiasi [che non facevano sentire tutti liberi e adeguati].

Gran parte dei giudei convertiti a Cristo propendeva infatti per nostalgie che risultavano di freno e impedimento.

Lc incoraggia i convertiti delle sue fraternità, provenienti da credenze miste e non regolari - fronteggiando l’opinione delle tradizioni religiose più severe.

 

Ancora oggi la proposta del Signore si distingue - perché non pretende di preparare il Regno, bensì lo accoglie e lo ascolta.

Sarà unicamente il Cristo-in-noi ad alimentarci in modo ininterrotto e crescente, nell’impegno per ripartire nel compito di ritrovarci ed emancipare il mondo - ma in un clima di austerità tranquilla.

Il Richiamo dei Vangeli permane al contempo equilibrato, concreto e fortemente profetico, perché suscita attenzione alle persone, alla realtà, e alla nostra gioia - assai più che a norme di perfezionamento non richieste, o altri rattoppi (v.36).

Non soverchiando né imponendo carichi artificiosi ai credenti, la vita di Fede mette in gioco la libertà [e così ce la fa conoscere] affinché ne prendiamo coscienza e la assumiamo per poterla investire come Grazia, carica e risorsa di novità.

I meccanismi rinunciatari e mortificanti di affinamento individualista sono estranei in partenza - a meno che non siano pensati per la condivisione dei beni.

Gesù non viene per farsi un gruppetto di seguaci seduti sulla cattedra dell’austerità, ma per comunicare che il rapporto con Dio è una festa.

Il digiuno gradito al Padre sta nell’esperienza lucida della propria irripetibile eccentricità e Chiamata, nel liberarsi dall’egoismo dell’arraffare per sé, e nel recare sollievo al prossimo.

Per questo motivo la Chiesa ha abolito quasi del tutto il precetto del digiuno esteriore, mentre intende impegnarsi maggiormente per forme di limitazione in favore dei malfermi, umili e bisognosi.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Tieni al digiuno? Da cosa? E per quale scopo?

 

 

[Venerdì 22.a sett. T.O.  5 settembre 2025]

(Lc 5,33-39)

 

Non sempre le vecchie usanze possono essere combinate con la Novità recata dal Signore; anzi, non di rado è necessario saper separare le cose.

Lc fronteggia l’opinione dei pochi messianici delle sue comunità, che volevano riportare la proposta del Maestro alle comuni radici giudaiche da cui essi stessi provenivano.

Pur apprezzando l’antica consuetudine, ricca di forme attraenti e pure incantevoli, conforta piuttosto i suoi membri di chiesa provenienti dal paganesimo.

Con la sua catechesi l'evangelista vuol impedire che nelle piccole fraternità allora agli albori, il ritorno della seduzione emanata dalle vecchie sicurezze religiose potesse prevalere sulla manifestazione piena della potenza di vita inaugurata - nell’Appello autentico di Dio.

 

Il digiuno ha percorso tutte le tradizioni religiose e mistiche, perché inteso ad avvicinare la donna e l’uomo alla propria essenza profonda - a un ascolto di sé, dei codici del sacro, del cosmo interiore, della propria vocazione, delle sacre Pagine - nell’attesa di trasformazioni.

Ci si affida a una diversa saggezza - meno rumorosa - che può attivare processi di metamorfosi, proprio facendo un vuoto dalle intrusioni del pensiero omologato, dalle abitudini o conformismi esterni che tendono a sopraffare la personalità.

Staccandosi, svaniranno i tormenti, sostituiti da altri interessi e sogni lucidi; suscitati dalla nuova breccia verso il nostro lato eterno, e da quell’affidarsi al nocciolo dell’essere che ancora ci sta creando.

L'unità psico-fisica e sovrannaturale sono un organismo prodigioso, che può diradare le nebbie ed esaltare le sue capacità con diverse forme di sospensione e pulizia anche mentale - la quale ci porterà dove dobbiamo andare.

Ma nello specifico dei figli di Dio, tutto ciò mira ad affinare lo sguardo nel senso della conoscenza, scoperta, sorpresa di capacità e qualità singolari e missionarie insospettabili. Quelle che sgorgano dal rinvenimento del Sé eminente, dalla propria Relazione fondante - per divenire unicità di rapporto eccezionale con gli altri, nell’Esodo che ci corrisponde.

Il digiuno è un principio di rigenerazione che ha un potere curativo unico, sia disintossicante che essenziale. Esso attiva le energie della propria umanità e nel contempo della propria diversità.

Tale pratica silenziosa si rivolge agli strati profondi, alla dimensione interna, che diventano la guida (e rischiamo di ignorare).

Ma qui capire le dissomiglianze resta indispensabile. Per noi è un gesto di apertura!

Altro genere di diete o atletismi sono non di rado devianti: il loro stesso nonsenso recherà tristezza e persino depressione.

Il digiuno rimane segno di attesa del compimento, ma ora la mestizia non ha più significato.

Nel tempo della Chiesa che rende presente il Risorto, la rinuncia a ingozzare non è forma di penitenza ma di speranza (v.35).

E serve a tener sgombro il cuore degli amici dello Sposo dalle vanità, con una forma d’identificazione coi poveri.

Ma Gesù non viene per farsi un gruppetto di seguaci seduti sulla cattedra dell’austerità, bensì per comunicare che il rapporto con Dio è una festa!

Insomma, il digiuno gradito al Padre sta nell’esperienza lucida della propria irripetibile eccentricità e Chiamata, nel liberarsi dall’egoismo dell’arraffare per sé, e recare sollievo al prossimo.

Clima che crea vita, non la decurta.

 

Il digiuno era segno di religiosità profonda, perciò i discepoli di Gesù - che non digiunavano, anzi la loro vita aveva un carattere festivo - erano assimilati più o meno a dei peccatori.

Sebbene non esistessero prescrizioni formali, si trattava di pie pratiche diventate consuetudini, presso i circoli osservanti (qui la seriosità era tutto) legate a giorni precisamente scanditi.

Nelle credenze semitiche il digiuno era in specie espressivo dell’imbarazzo e dell’afflizione dell’uomo devoto nell’aspettativa fremente dei tempi messianici, che tardavano.

Per questo Gesù associa il digiuno al lutto - che non ha più senso nella vita come festa di Nozze senza remore che Egli inaugura.

Dove appunto non c’è bisogno di aggiunte, né controlli o impronte, marchi e caratteri distintivi.

La Nuova Alleanza non è neppure ammodernamento di pratiche morali o prescrizioni pie che forniscano un lasciapassare religioso esterno.

Tutto è in rapporto alla presenza reale dello Sposo, che non punisce la vita.

Certo, colui che procede nel cammino dell’emancipazione e non si accontenta di un Gesù-Sposo parziale, già conosce in sé cosa lo attende…

Poi (v.35) nel confronto stridente con i capi religiosi - aggrappati al prestigio - ecco mestizie e umiliazioni a non finire. Altro che digiuno dai cibi.

Tuttavia, chi ha deciso di continuare il suo cammino di Libertà vocazionale sa che deve rivivere le medesime vicende di palese conflitto che ha contrapposto il Maestro alla mentalità e alle autorità del suo tempo; infine, in tale Incontro reale con Lui, sperimentare il dono totale della vita (v.35).

Sarà unicamente il Cristo-in-noi (anche centellinato e non definitivo) ad alimentare anima e corpo in modo ininterrotto e crescente.

Ciò con l’impegno per ripartire nella missione di trovarci e dare respiro al mondo.

In un clima di austerità tranquilla; senza freni artificiosi.

 

Nelle comunità di estrazione pagana cui Lc si rivolge, c’era un forte desiderio di liberare il Risorto da pastoie (fissazioni disciplinari, orari, calendario).

I credenti Lo percepivano vivo - complice del nuovo carattere umanizzante che sperimentavano giorno per giorno.

L’evangelista vuole orientare le sue assemblee della zona di Efeso [forse di metà anni 80] a non attaccarsi a finte sicurezze.

Bisognava prendere una posizione del tutto alternativa e non finire come i gruppi attorno, di estrazione settaria.

Ma anche i giudaizzanti tentavano di ridurre la Fede pura - fondamento e partecipazione entusiasta - a rigide credenze e praticucce qualsiasi.

Circoli viziosi che finivano per ritrasmettere vecchi sensi di colpa, invece che insoliti spunti relazionali.

 

Gran parte dei giudei convertiti propendeva infatti per nostalgie che risultavano di freno e impedimento.

Proprio tali veterani faticavano a fare proprio in modo entusiasta il nuovo habitus di libertà, e lo spumeggiare completo del Vangelo.

Ancora oggi la Proposta del Signore si distingue da tutte le dottrine esclusiviste, colme di prescrizioni e adempimenti.

La sua Presenza traspare in spirito. E i suoi intimi non pretendono preparare il Regno, bensì lo accolgono e ascoltano (con fiducia nella vita).

Così avviene nel tempo della pandemia, che sta disponendo a un digiuno meno esteriore, più globale - considerevole ma sapiente.

Travaglio che può condurre l'umanità alla percezione sensibile, al senso di comunione, al silenzio e all’abbraccio; a un minore impeto egocentrico e dirigista. Ad un approfondimento - e completezza.

 

Scrive il Tao Tê Ching (v): «Lo spazio tra Cielo e Terra, come somiglia a un mantice!».

Commenta il maestro Wang Pi: «Se il mantice avesse una sua volontà nell’emettere il soffio, non potrebbe attuare l’intento di chi lo fa soffiare».

E il maestro Ho-shang Kung aggiunge: «Le molte imprese nuocciono allo spirito».

 

Insomma, Cristo fa tesoro della sapienza naturale e non ci riduce a misura di religione qualsiasi: non confina i credenti in “trattative”, mediante piccole procedure di atletismo e perfezione individuale.

Non insiste su mortificazioni eroiche, rinunce straordinarie, osservanza puntigliosa di leggi sterili - unilaterali - a meno che non siano pensate in ordine al ritrovarsi, all’umanizzazione, alla condivisione dei beni.

Il Richiamo dei Vangeli permane al contempo equilibrato, concreto e fortemente profetico.

Appello che suscita attenzione alle persone, alla realtà, alla nostra gioia - assai più che a norme di levigatura asettica (stoica) non richieste, o altri rattoppi (v.36).

 

Non soverchiando né imponendo carichi artificiosi ai credenti, la vita di Fede mette in gioco l’autodeterminazione.

Così ce la fa conoscere - affinché ne prendiamo coscienza e la assumiamo per poterla investire come Grazia, carica (non diminuzione): risorsa di novità.

I meccanismi ascetici di affinamento individualista sono estranei in partenza: l’obbiettivo è creare Famiglia, non ritagliarsi una cerchia di duri e puri (tutti esterni e fieri di sé) che si distacchino da fratelli più deboli.

Poi, autocompiaciuti, divenire sleali, usurpatori, intriganti: una storia di pecche, trame equivoche e ritardi pastorali, dietro una facciata impeccabile di dottrine cerebrali, discipline (a modo) e commemorazioni eclatanti sul corpo del “povero defunto”.

Per questo motivo la Chiesa ha abolito quasi del tutto il precetto del digiuno esteriore, mentre intende impegnarsi maggiormente per forme di limitazione in favore dei malfermi, emarginati, umili e bisognosi.

 

La scelta vuol continuare a essere nitida: la libertà non ha prezzo.

E non c’è amore se qualcuno (fosse anche Dio) tagliasse o sovrastasse l’altro, imponendo gioghi artificiosi, troppo uguali a sempre; insopportabili, strampalati, infecondi.

Così i vecchi contenitori non vanno più accoppiati al nuovo fermento. La pratica dei rappezzi danneggia sia le usanze che la Novità di Dio.

Certo, il vino vecchio e le talari hanno un’attrattiva fascinosa per i sensi e l’immaginario epidermico vintage

Per questo continuano a piacere [v.39: «Il vecchio è eccellente!»]. Non pochi vogliono combinarlo con il Signore (Mc 2,22; Mt 9,17; Lc 5,37-38).

 

Il Maestro non era per sé avversario dello spirito dell’antico, ma combatteva le sue scorze, le quali impedivano di fatto la manifestazione d’un inedito Volto di Dio, d’una più genuina idea di uomo riuscito - germe di società alternativa, fraterna.

Realtà ben separate da quelle intimiste o autoreferenziali tipiche dei culti ufficiali o fai-da-te. Tutte innovazioni che dovevano manifestarsi.

Il gusto e i retrogusti del vino vecchio ammantano i riti devoti e le usanze stagionate con arte, leziosità e fascino evocativo, ma ci piantano lì e non graffiano la vita; ricordano ricordano, ma non fanno memoriale - ossia non riattualizzano per noi.

Nella pratica dei molti culti di provincia, nelle sue imprese di catechesi senza nerbo pastorale, notiamo da decenni un rigurgito pre-conciliare meccanico, che si ferma alle grandi icone.

Meraviglie e memorie della Storia della Salvezza... tutto lì. Ai responsabili locali è sembrato più facile tornare alle usanze e catechismi abbreviati che affrontare il rischio educativo (che lo stesso Magistero imporrebbe).

Il risultato immediato è stato valutato appetibile e redditizio, per il settore (sotto sotto) fondamentalista e astuto - volentieri soppiantando l’effervescenza sconosciuta del vino novello.

Infatti, da parte di coloro che sanno “come si sta al mondo”, bisogna ancora subire tutta una superficialità di ripieghi e accomodature abitudinarie, le quali non riscattano nessuno e non recano gioia, perché non entrano nelle vicende umane.

Accontentandosi poi del menu di pesce il venerdì. Autentico superfluo.

Ma chi si ferma al passato di mortificazioni e cartapesta non potrà mai comprendere la Riforma che lo Spirito propone per edificare ogni anima nell’appagamento (autentico) che ci stringe meglio gli uni gli altri.

Così i vecchi contenitori non vanno più accoppiati al nuovo fermento.

 

La pratica delle rappezzature può da un lato danneggiare le usanze, perché esse hanno un loro gusto rifinito e spiccato (pertinente in sé) - dall’altro distogliere e attenuare la vita nel mutamento, nella Novità di Dio.

 

Insomma, il Signore non pensa per noi una pratica di rammendi e delimitazioni che rinchiudono: piuttosto, vuol rompere le gabbie.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Tieni al digiuno? Da cosa? E per quale scopo? Rompe le gabbie? È o no in ordine al conoscersi, ritrovarsi, e ascoltare, curare, condividere, abbracciarsi, stringersi meglio gli uni gli altri?

Quali conflitti interiori sperimenti attorno a pratiche religiose che ritieni rechino ancora sofferenza alle persone e non sono espressione sponsale o motivo di emancipazione per la donna e l’uomo?

Quale immagine di Dio e dell’umanità credente soggiace a preconcetti e proibizioni? Come dimostri il primato di Gesù in ogni settore della vita?

Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale "vede nel segreto, e ti ricompenserà" (Mt 6,18). Egli stesso ne dà l'esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che "non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il "vero cibo", che è fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34). Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore "di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male", con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.

Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr At 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del "vecchio Adamo", ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio. Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca. Scrive san Pietro Crisologo: "Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica" (Sermo 43: PL 52, 320. 332).

Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una "terapia" per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio. Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a "non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e ... anche a vivere per i fratelli" (cfr Cap. I). La Quaresima potrebbe essere un'occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr Mt 22,34-40).

La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore. Sant'Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva "nodo tortuoso e aggrovigliato" (Confessioni, II, 10.18), nel suo trattato L'utilità del digiuno, scriveva: "Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio.

Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (3,17). Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr Enc. Deus caritas est, 15). Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina. Questo è stato, sin dall'inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr Didascalia Ap., V, 20,18). Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.

Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine, i cui effetti negativi investono l'intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia - Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".

Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr Enc. Veritatis splendor, 21).

[Papa Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2009]

1. “Proclamate il digiuno!” (Gal 1,14). Sono le parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura del Mercoledì delle Ceneri. Le ha scritte il profeta Gioele e la Chiesa conformemente ad esse stabilisce la pratica di Quaresima, ordinando il digiuno. Oggi la pratica della Quaresima, definita da Paolo VI nella Costituzione Paenitemini, è notevolmente mitigata rispetto a quelle di una volta. In questa materia il Papa ha lasciato molto alla decisione delle Conferenze Episcopali dei singoli paesi, alle quali, pertanto, spetta il compito di adattare le esigenze del digiuno secondo le circostanze in cui si trovano le rispettive società. Egli ha ricordato pure che l’essenza della penitenza quaresimale è costituita non soltanto dal digiuno, ma anche dalla preghiera e dall’elemosina (opera di misericordia). Bisogna quindi decidere secondo le circostanze, in quanto lo stesso digiuno può essere “sostituito” da opere di misericordia e dalla preghiera. Lo scopo di questo particolare periodo nella vita della Chiesa è sempre e dappertutto la penitenza, cioè la conversione a Dio. La penitenza, infatti, intesa come conversione, cioè “metànoia”, forma un insieme, che la tradizione del Popolo di Dio già nell’antica alleanza e poi Cristo stesso hanno legato, in un certo modo, alla preghiera, all’elemosina e al digiuno.

Perché al digiuno?

In questo momento ci vengono forse in mente le parole con cui Gesù ha risposto ai discepoli di Giovanni Battista quando lo interrogavano: “Perché i tuoi discepoli non digiunano?”. Gesù rispose: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto, mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno” (Mt 9,15). Difatti il tempo di Quaresima ci ricorda che lo sposo ci è stato tolto. Tolto, arrestato, imprigionato, schiaffeggiato, flagellato, incoronato di spine, crocifisso... Il digiuno nel tempo di Quaresima è l’espressione della nostra solidarietà con Cristo. Tale è stato il significato della Quaresima attraverso i secoli e così rimane oggi.

“L’amore mio è stato crocifisso e non c’è più in me la fiamma che desidera le cose materiali”, come scrive il Vescovo di Antiochia Ignazio nella lettera ai Romani (S. Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, VII, 2).

2. Perché il digiuno?

A questa domanda bisogna dare una risposta più ampia e profonda, perché diventi chiaro il rapporto tra il digiuno e la “metànoia”, cioè quella trasformazione spirituale, che avvicina l’uomo a Dio. Cercheremo quindi di concentrarci non soltanto sulla pratica dell’astensione dal cibo o dalle bevande – ciò infatti significa “il digiuno” nel senso comune – ma sul significato più profondo di questa pratica che, del resto, può e deve alle volte essere “sostituita” da qualche altra. Il cibo e le bevande sono indispensabili all’uomo per vivere, egli se ne serve e deve servirsene, tuttavia non gli è lecito abusarne sotto qualsiasi forma. La tradizionale astensione dal cibo e dalle bevande ha come fine di introdurre nell’esistenza dell’uomo non soltanto l’equilibrio necessario, ma anche il distacco da quello che si potrebbe definire “atteggiamento consumistico”. Tale atteggiamento è divenuto nei nostri tempi una delle caratteristiche della civiltà e in particolare della civiltà occidentale. L’atteggiamento consumistico! L’uomo orientato verso i beni materiali, molteplici beni materiali, molto spesso ne abusa. Non si tratta qui unicamente del cibo e delle bevande. Quando l’uomo è orientato esclusivamente verso il possesso e l’uso di beni materiali, cioè delle cose, allora anche tutta la civiltà viene misurata secondo la quantità e la qualità delle cose che è in grado di fornire all’uomo, e non si misura con il metro adeguato all’uomo. Questa civilizzazione infatti fornisce i beni materiali non soltanto perché servano all’uomo a svolgere le attività creative e utili, ma sempre di più... per soddisfare i sensi, l’eccitazione che ne deriva, il piacere momentaneo, una sempre maggiore molteplicità di sensazioni.

Alle volte si sente dire che l’incremento eccessivo dei mezzi audio-visivi nei paesi ricchi non sempre giova allo sviluppo dell’intelligenza, particolarmente nei bambini; al contrario, talvolta contribuisce a frenarne lo sviluppo. Il bambino vive solo di sensazioni, cerca delle sensazioni sempre nuove... E diventa così, senza rendersene conto, schiavo di questa passione odierna. Saziandosi di sensazioni, rimane spesso intellettualmente passivo; l’intelletto non si apre alla ricerca della verità; la volontà resta vincolata dall’abitudine, alla quale non sa opporsi.

Da ciò risulta che l’uomo contemporaneo deve digiunare, cioè astenersi non soltanto dal cibo o dalle bevande, ma da molti altri mezzi di consumo, di stimolazione, di soddisfazione dei sensi. Digiunare significa astenersi, rinunciare a qualcosa.

3. Perché rinunciare a qualcosa? Perché privarsene? Abbiamo già in parte risposto a questo quesito. Tuttavia la risposta non sarà completa, se non ci rendiamo conto che l’uomo è se stesso anche perché riesce a privarsi di qualcosa, perché è capace di dire a se stesso: “no”. L’uomo è un essere composto di corpo e di anima. Alcuni scrittori contemporanei presentano questa struttura composta dell’uomo sotto la forma di strati e parlano, ad esempio, di strati esteriori in superficie della nostra personalità, contrapponendoli agli strati in profondità. La nostra vita sembra esser divisa in tali strati e si svolge attraverso di essi. Mentre gli strati superficiali sono legati alla nostra sensualità, gli strati profondi sono espressione invece della spiritualità dell’uomo, cioè: della volontà cosciente, della riflessione, della coscienza, della capacità di vivere i valori superiori.

Questa immagine della struttura della personalità umana può servire a comprendere il significato del digiuno per l’uomo. Non si tratta qui solamente del significato religioso, ma di un significato che si esprime attraverso la cosiddetta “organizzazione” dell’uomo come soggetto-persona. L’uomo si sviluppa regolarmente, quando gli strati più profondi della sua personalità trovano una sufficiente espressione, quando l’ambito dei suoi interessi e delle sue aspirazioni non si limita soltanto agli strati esteriori e superficiali, connessi con la sensualità umana. Per agevolare un tale sviluppo, dobbiamo alle volte consapevolmente distaccarci da ciò che serve a soddisfare la sensualità, vale a dire, da quegli strati esteriori superficiali. Quindi dobbiamo rinunciare a tutto ciò che li “alimenta”.

Ecco, in breve, l’interpretazione del digiuno al giorno d’oggi. La rinuncia alle sensazioni, agli stimoli, ai piaceri e anche al cibo o alle bevande, non è fine a se stessa. Essa deve soltanto, per così dire, spianare la strada per contenuti più profondi, di cui “si alimenta” l’uomo interiore. Tale rinuncia, tale mortificazione deve servire a creare nell’uomo le condizioni per poter vivere i valori superiori, di cui egli è, a suo modo, “affamato”.

Ecco, il “pieno” significato del digiuno nel linguaggio di oggi. Tuttavia, quando leggiamo gli autori cristiani dell’antichità o i Padri della Chiesa, troviamo in loro la stessa verità, spesso espressa con linguaggio così “attuale” che ci sorprende. Dice, per esempio, San Pietro Crisologo: “Il digiuno è pace del corpo, forza delle menti, vigore delle anime” (S. Pietro Crisologo, Sermo VII: “De Jejunio”, 3), e ancora: “Il digiuno è il timone della vita umana e regge l’intera nave del nostro corpo” (Ivi, 1).

E Sant’Ambrogio risponde così alle eventuali obiezioni contro il digiuno: “La carne, per la sua condizione mortale, ha alcune sue concupiscenze proprie: nei loro confronti ti è stato concesso il diritto di freno. La tua carne è sotto di te: non seguire le sollecitazioni della carne fino alle cose illecite, ma frenale alquanto anche per quanto riguarda quelle lecite. Infatti, chi non si astiene da nessuna delle cose lecite, è prossimo pure a quelle illecite” (S. Ambrogio, Sermo de utilitate jejunii, III. V. VII). Anche scrittori non appartenenti al cristianesimo dichiarano la stessa verità. Questa verità è di portata universale. Fa parte della saggezza universale della vita.

4. È ora certamente più facile per noi comprendere il perché Cristo Signore e la Chiesa uniscano il richiamo al digiuno con la penitenza, cioè con la conversione. Per convertirci a Dio, è necessario scoprire in noi stessi quello che ci rende sensibili a quanto appartiene a Dio, dunque: i contenuti spirituali, i valori superiori, che parlano al nostro intelletto, alla nostra coscienza, al nostro “cuore” (secondo il linguaggio biblico). Per aprirsi a questi contenuti spirituali, a questi valori, bisogna distaccarsi da quanto serve soltanto al consumismo, alla soddisfazione dei sensi. Nell’apertura della nostra personalità umana a Dio, il digiuno – inteso sia nel modo “tradizionale” che “attuale” – deve andare di pari passo con la preghiera perché essa ci dirige direttamente verso lui.

D’altronde il digiuno, cioè la mortificazione dei sensi, il dominio del corpo, conferiscono alla preghiera una maggiore efficacia, che l’uomo scopre in se stesso. Scopre infatti che è “diverso”, che è più “padrone di se stesso”, che è divenuto interiormente libero. E se ne rende conto in quanto la conversione e l’incontro con Dio, attraverso la preghiera, fruttificano in lui.

Da queste nostre riflessioni odierne risulta chiaro che il digiuno non è solo il “residuo” di una pratica religiosa dei secoli passati, ma che è anche indispensabile all’uomo di oggi, ai cristiani del nostro tempo.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 21 marzo 1979]

Ma quale penitenza e quale digiuno vuole dall’uomo il Signore? Il rischio, infatti, è di «truccare» una pratica virtuosa, di essere «incoerenti». E non si tratta solo di “scelte alimentari”, ma di stili di vita per i quali si deve avere l’«umiltà» e la «coerenza» di riconoscere e correggere i propri peccati.

È questa in sintesi la riflessione che, all’inizio del cammino quaresimale, il Pontefice ha proposto ai fedeli durante la messa celebrata a Santa Marta la mattina di venerdì 16 febbraio.

Parola chiave della meditazione, suggerita dalla liturgia del giorno, è stata “digiuno”: «Digiuno davanti a Dio, digiuno che è adorazione, digiuno sul serio», perché «digiunare è uno dei compiti da fare nella Quaresima». Ma non nel senso di chi dice: «Mangio soltanto i piatti della Quaresima». Infatti, ha commentato Francesco, «quei piatti fanno un banchetto! Non è cambiare dei piatti o fare il pesce in un modo, nell’altro, più saporito». Altrimenti non si fa altro che «continuare il carnevale».

È la parola di Dio, ha sottolineato, ad ammonire che «il nostro digiuno sia vero. Vero sul serio». E, ha aggiunto, «se tu non puoi fare digiuno totale, quello che fa sentire la fame fino alle ossa», almeno «fai un digiuno umile, ma vero».

Nella prima lettura (Isaia, 58, 1-9), a tale riguardo, «il profeta sottolinea tante incoerenze nella pratica della virtù». E proprio «questa è una delle incoerenze». L’elenco di Isaia è dettagliato: «Voi dite che mi cercate, parlate a me. Ma non è vero», e «nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari»: ossia, mentre «digiunare è un po’ spogliarsi», ci si preoccupa di «fare dei soldi». E ancora: «Angariate tutti i vostri operai»: Ovvero, ha spiegato il Papa, mentre si dice: «Ti ringrazio Signore perché io posso digiunare», si disprezzano gli operai che oltretutto «devono digiunare perché non hanno da mangiare». L’accusa del profeta è diretta: «Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui».

È una doppia faccia inammissibile. Ha spiegato il Pontefice: «Se tu vuoi fare penitenza, falla in pace. Ma tu non puoi da una parte parlare con Dio e dall’altra parlare con il diavolo, invitare al digiuno tutte e due; questa è una incoerenza». E, seguendo sempre le indicazioni della Scrittura — «Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso» — Francesco ha messo in guardia dall’esibizionismo incoerente. È l’atteggiamento di chi, ad esempio, ricorda sempre: «noi siamo cattolici, pratichiamo; io appartengo a quella associazione, noi digiuniamo sempre, facciamo penitenza». A loro ha idealmente chiesto: «Ma, digiunate con coerenza o fate la penitenza incoerentemente come dice il Signore, con rumore, perché tutti la vedano, e dicano: “Ma che persona giusta, che uomo giusto, che donna giusta”?». Questo, infatti, «è un trucco; è truccare la virtù. È truccare il comandamento». Ed è, ha aggiunto, una «tentazione» che tutti qualche volta abbiamo sentito, «di truccarci invece di andare sul serio sulla virtù, su quello che il Signore ci chiede».

Al contrario, il Signore «consiglia ai penitenti, a quelli che digiunano di truccarsi, ma sul serio: “Digiunate, ma truccati perché la gente non veda che stai facendo penitenza. Sorridi, stai contento». Di fronte a tanti che «hanno fame e non possono sorridere», questo è il suggerimento al credente: «Tu cerca la fame per aiutare gli altri, ma sempre con il sorriso, perché tu sei un figlio di Dio e il Signore ti ama tanto e ti ha rivelato queste cose. Ma senza incoerenze».

A questo punto, la riflessione del Pontefice è scesa ancora più in profondità, sollecitata dalla domanda: “quale digiuno vuole il Signore?”. La risposta giunge ancora dalla Scrittura, dove innanzitutto si legge: «Piegare come un giunco il proprio capo». Cioè: umiliarsi. E a chi chiede: «Come faccio per umiliarmi?», il Papa ha risposto: «Ma pensa ai tuoi peccati. Ognuno di noi ne ha tanti». E «vergognati», perché anche se il mondo non li conosce, Dio li conosce bene. Questo, quindi, «è il digiuno che vuole il Signore: la verità, la coerenza».

C’è poi un’aggiunta: «Sciogliere le catene inique» e «togliere il legame del giogo». L’esame di coscienza, in questo caso punta l’obbiettivo sul rapporto con gli altri. Per farsi meglio comprendere, il Papa ha fatto un esempio molto pratico: «Io penso a tante domestiche che guadagnano il pane con il loro lavoro» e che vengono spesso «umiliate, disprezzate». Qui la sua riflessione ha lasciato spazio al ricordo personale: «Mai ho potuto dimenticare una volta che andai a casa di un amico da bambino. Ho visto la mamma dare uno schiaffo alla domestica. Ottantuno anni... Non ho dimenticato quello». Da qui una serie di domande rivolte idealmente a chi ha delle persone a servizio: «Come li tratti? Come persone o come schiavi? Le paghi il giusto, dai loro le vacanze? È una persona o è un animale che ti aiuta a casa tua?». Una richiesta di coerenza che vale anche per i religiosi, «nelle nostre case, nelle nostre istituzioni: come mi comporto io con la domestica che ho in casa, con le domestiche che sono in casa?». Qui il Pontefice ha aggiunto un’altra esperienza personale, ricordando un signore «molto colto» che però «sfruttava le domestiche». e che, messo di fronte alla considerazione che si trattava di «un peccato grave» contro persone che sono «immagine di Dio», obbiettava: «No, Padre dobbiamo distinguere: questa è gente inferiore».

Bisogna perciò «togliere il legame del giogo, sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo». E, commentando il profeta che ammonisce: «dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, i senzatetto», il Papa ha contestualizzato: «Oggi si discute se diamo il tetto o no a quelli che vengono a chiederlo...»

E le indicazioni continuano: «Vestire uno che vedi nudo», ma «senza trascurare i tuoi parenti». È il digiuno vero, quello che coinvolge la vita di ogni giorno. «Dobbiamo fare penitenza, dobbiamo sentire un po’ la fame, dobbiamo pregare di più», ha detto Francesco; ma se «noi facciamo tanta penitenza» e non viviamo così il digiuno, «il germoglio che nascerà da lì» sarà «la superbia», quella di chi dice: «Ti ringrazio, Signore, perché posso digiunare come un santo». E questo, ha aggiunto, «è il trucco brutto», e non quello che Gesù stesso suggerisce «per non far vedere agli altri che io digiuno» (cfr. Matteo, 6, 16-18).

La domanda da porsi, ha concluso il Pontefice, è: «Come mi comporto con gli altri? Il mio digiuno arriva per aiutare gli altri?». Perché se ciò non accade, quel digiuno «è finto, è incoerente e ti porta sulla strada di una doppia vita». Bisogna, perciò, «chiedere umilmente la grazia della coerenza».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 17/02/2018]

‘Pescare’, portare alla vita. Attrazione e attenzione (feriali)

(Lc 5,1-11)

 

L’episodio della Chiamata dei discepoli in Lc indica l’attrazione della Parola di Gesù - che agisce in noi, come una sorta di Sé eminente.

Nella relazione di Fede, l’Amicizia e il fidarsi sponsale diventa più determinante di ciò che la mentalità comune e i convincimenti normali suggeriscono all’io inferiore.

Pertanto chi guida la Chiesa deve scostarsi dalla “riva” che sa, e ha l’obbligo di condurre «nel profondo» [v.4 testo greco] anche dei marosi.

Nella cultura semitica il mare è simbolo del caos, della morte, del demoniaco, delle forze contrarie alla vita. È il contesto in cui si affoga.

La Missione è «tirar fuori vivi» [v.10 testo greco] gli uomini sopraffatti da liquami putridi, sommersi da onde impetuose, trascinati sul fondo, a profondità abissali, dalla violenza di forze inumane.

Il verbo greco non indica un “pescare” bensì un «catturare vivi», il «prendere per mantenere in vita», dunque «portare alla vita»: recuperare alla luce, al respiro; essere tirati fuori da abissi inquinati e soffocanti.

 

Portare avanti l’opera del Maestro significa aiutare le persone coinvolte in contesti mortiferi, travolte da gorghi e onde che trascinano in basso, affinché possano tuffarsi in un’acqua non più torbida, ma sana.

Opera che si configura nella sinergia plurale delle ‘chiese’, perché nessuna di esse riesce a farsi completa da sola (v.7).

Malgrado le incertezze e l’ora forse inadatta, credere che la Parola di Cristo possa realizzare l’impossibile vale più dell’abilità e delle opinioni. 

Pronti o meno, quel Logos farà succedere ciò che afferma.

Ecco manifestarsi la forza e l’azione della Fede, rispetto alla logica comune - quando nelle scelte diventa determinante l’Appello di Dio. 

Richiamo che irrompe nel caos, con una carica umanizzante e di totale novità: consente di far entrare nel mondo un’altra ‘potenza’; discreta, ma che fa quel che dice.

 

Qui la soluzione dei problemi non rinnega il portato umano, bensì tenta di farlo parlare - nei disagi di tutti, nell’ascoltarne i sintomi, nel dargli piena voce: sono spie che già sanno in se stesse cosa non va (v.8).

Così coinvolti, capiremo per quale motivo il Signore non disdegna le stravaganze dei trasgressivi.

 

Se anche per noi tutti i giorni sembrano uguali, inserendo nelle frustrazioni e nella fatica questa Novità di Luce non conformista, daremo respiro e renderemo nitido, marcato e fecondo qualsiasi lavoro. 

Comprenderemo la Vocazione di Gesù, che insegna in ogni luogo e a ciascuno - operando recuperi inspiegabili.

Da «Maestro» (v.5) a «Signore» (v.8): l’Amico interiore si fa presenza, relazione intima, sistema di riconoscimento e autostima; appoggio non esterno, e trampolino.

Principio e Motore di Pace, pienezza d’essere, temerarietà e sequela (vv.10-11) - quindi Annuncio, fantasia, incisività e conciliazione.

Senza sforzo, riusciremo a far scivolar via le opinioni condizionanti la ‘natura’ e la stessa Chiamata.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è stato l’impulso che ti ha incalzato, e dato frutto?

Qual è stata la tua esperienza di prospettive allargate sul mondo, e di recupero inspiegabile?

Credi che tutto ciò possa avvenire anche nel tempo della crisi globale?

 

 

[Giovedì 22.a sett. T.O.  4 settembre 2025]

Ago 27, 2025

Da «Maestro» a «Signore»

Pubblicato in il Mistero

«Pescare», portare alla vita. Attrazione e attenzione (feriali)

(Lc 5,1-11)

 

L’episodio della Chiamata dei discepoli in Lc indica l’attrazione della Parola di Gesù - che agisce in noi, come una sorta di Sé eminente.

La Vocazione si manifesta in un luogo e giorno feriale, non all’interno d’un recinto sacro, né in data stabilita (di rito ufficiale e pubblico).

Il Messaggio di Cristo non collima con quello esclusivo dei soliti maestri di sinagoga, che si rivolgevano a una platea di persone scelte.

Il Signore è per qualsiasi luogo, e dove c’è gente non selezionata - che desideri ascoltarlo.

Poi è interpellato proprio il responsabile della Chiesa: primo a farsi esempio di affidamento. Se così, tutti gli altri seguiranno.

La Barchetta è simbolo della comunità, da cui ci si deve attendere proclamazione e attenzione verso la Parola.

Forza che si fa evento - malgrado sembra che il Signore chieda gesti inutili e insensati.

Nella relazione di Fede, l’Amicizia e il fidarsi sponsale diventa più determinante di ciò che la mentalità comune e i convincimenti normali suggeriscono all’io inferiore [con aggiunta di riunioni, assemblee, consigli, progetti, schemi, sussiego alla catena di comando, obbedienza conformista estranea alla nostra quintessenza; e propaganda, carta, avvisi].

Per fare il balzo e dare un colpo d’ali alla realtà e all’uomo spento, meglio dell’organizzare e pianificare vale il consegnarsi alla Parola, che vibra all’unisono con l’anima.

L’esperienza del recupero altrui, della vicinanza - prossimità della condizione divina in Gesù, nella potenza del suo Verbo - ci fa comprendere chi siamo, e incontrare noi stessi in verità (v.8).

Qui la soluzione dei problemi non rinnega il portato umano, bensì tenta di farlo parlare, nei disagi di tutti, nell’ascoltarne i sintomi, nel dargli piena voce - perché sono spie che già sanno in se stesse cosa non va (v.8).

È il frutto interiore dell’esperienza della missione: una nuova e più lucida consapevolezza di sé, ormai senza rimozioni, che ridona naturalezza, e a sua volta apre nuovi canali di comunicazione.

Il rispetto del buonsenso, e di pareri comuni, dei giudizi conformisti, meccanismi, propositi più logici… non ha la molla della rigenerazione. Vale anche nel tempo della crisi globale.

La nuova nascita si attua nel trasformare ciò ch’è oscuro o incompiuto in quel che fa intuire e conoscere noi stessi e la vita intima dell’Eterno, aiutando i fratelli, vivendo in simbiosi coi guai della gente.

Pertanto chi guida la Chiesa deve scostarsi dalla “riva” che sa, e ha l’obbligo di condurre nel «profondo» [v.4 testo greco] anche dei marosi.

 

Nella cultura semitica il mare è simbolo del caos, della morte, del demoniaco, delle forze contrarie alla vita. È il contesto in cui si affoga.

I pesci stanno benone nell’acqua, e non son contenti di essere tratti fuori. Però nell’acqua gli uomini non si trovano altrettanto a loro agio, in specie quando si tratta di mare cupo e agitato.

La Missione è «tirar fuori vivi» [v.10 testo greco] gli uomini sopraffatti da liquami putridi, sommersi da onde impetuose, trascinati sul fondo (a profondità abissali) dalla violenza di forze inumane.

Il verbo greco non indica un “pescare” bensì un «catturare vivi», il «prendere per mantenere in vita», dunque «portare alla vita»: recuperare alla luce, al respiro; essere sospinti oltre gli abissi inquinati che soffocano gli indigenti in attesa di compassione.

Un venire innalzati dal contesto tenebroso degl’impedimenti interiori e a contorno, che imbrigliano l’esistere e smorzano lo sviluppo.

Esser guidati dove la vita non attenua né annega: afferrati e sollevati a libertà e compiutezza; emancipati, collocati in ambito puro, qualitativamente relazionale, animato da spirito di benessere integrale.

 

Portare avanti l’opera del Maestro significa aiutare a esistere intensamente; recuperare le persone coinvolte in contesti mortiferi, travolte da gorghi e onde che trascinano in basso - affinché possano tuffarsi in un’acqua non più torbida ma sana.

Accanto all’adesione alla Chiamata che corrisponde alla nostra essenza profonda, è questa attività di recupero che consente di superare il senso d’inadeguatezza, producendo sovrabbondanza di libertà e virtù.

Opera che si configura nella sinergia plurale delle chiese, perché nessuna di esse riesce a farsi completa da sola (v.7).

L’obiettivo comune della missione in favore degli uomini fa superare alle denominazioni particolari qualsiasi distinguo o ripartizione, ogni conflitto tra fraternità di fede.

Malgrado le incertezze e l’ora forse inadatta, credere che la Parola di Cristo possa realizzare l’impossibile val più dell’abilità e delle opinioni. 

Pronti o meno, in orario o fuori dei tempi giusti (e forse già inappagati per l’insuccesso: v.5) quel Logos rimane il cardine della comunione tra differenti realtà - e farà succedere ciò che afferma.

Ecco infatti manifestarsi la forza e l’azione della Fede in avanti, col suo differente portato rispetto alla logica comune - quando nelle scelte diventa determinante il cedere all’Appello di Dio, e lanciarsi. 

Richiamo che irrompe nel caos, con una carica umanizzante, di totale novità: consente di far entrare nel mondo un’altra potenza, discreta ma che infine realizza quel che dice.

Essa non appartiene alla sfera dei programmi o dei successivi “rimedi”! Capiremo allora per quale motivo il Signore non disdegna le stravaganze dei trasgressivi.

 

Se anche per noi tutti i giorni sembrano uguali, inserendo nelle frustrazioni e nella fatica questa Novità di Luce non conformista, daremo respiro e renderemo nitido, marcato e fecondo qualsiasi lavoro. 

Comprenderemo la Vocazione di Gesù, che insegna in qualsiasi luogo e a ciascuno - operando recuperi inspiegabili.

Egli continua a rivolgersi non solo al “suo” pubblico di eletti, predestinati al sacro; apparentemente tutti d’un pezzo, imperterriti e scelti. Ma che talora covano di ripescare e innalzare solo se stessi.

Lasciamo dunque scivolar via le opinioni condizionanti la nostra natura e vocazione, da parte di false sirene: è stato ben altro l'impulso che ci ha incalzati, allargando le prospettive sul mondo - e dato frutto.

Senza sforzo, riusciremo a far scivolar via le opinioni condizionanti la natura e la stessa Chiamata.

 

 

Sulla Tua Parola, e i sintomi

(Mt 5,5)

 

L’uomo comune si compiace dei suoi traguardi, il religioso dei suoi meriti, ma la persona di Fede della sua debolezza redenta.

Proprio quando ci si percepisce insufficienti, l’esperienza del Gratis risulta impareggiabile fonte di Felicità.

Se dobbiamo affrontare una sconfitta, lo sguardo della Fede ricupera l’umiliazione in occasione di fioritura e migliore Ricchezza.

Una spiritualità cresciuta lontano dall’equilibrio della Parola di Dio faceva leva sulle virtù attive e sul volontarismo personale.

Il Sogno del Padre è viceversa quello di uno sviluppo armonioso dei suoi figli, creature insufficienti per natura, non per colpa.

Non dobbiamo annientarci per superare continuamente i limiti, distruggendo le linee portanti della nostra personalità - con lo sforzo di valicare continuamente gli steccati.

A volte non riusciamo a capire le situazioni, talora non siamo in grado di comprendere fini e mezzi adeguati a conseguire un buon risultato.

Spesso, quand’anche capissimo il da farsi, proprio non ce la facciamo a imporci una disciplina; e siamo tutti qui (non geni forzuti).

San Tommaso affermava: «Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu». Ciascuna creatura ha bisogno di aiuto - non siamo onnipotenti nel bene.

Comprendere e attuare tutte le correlazioni e gli equilibri valutativi è fuori dalla nostra portata: scampare da voragini e incertezze è puro Dono.

«Tirare su gli uomini alla vita» [Lc 5,10: «catturare vivi», testo greco] - persone sommerse da flutti soffocanti in acque velenose - verso la luce e il respiro: palesa il Progetto e l’Azione liberante di Dio sull’intera umanità.

Per affacciarsi all’essere proprio e altrui con piglio battesimale, conviene allora trascurare il dolorismo e la mistica del patire, che nel passato ha soppiantato il senso dell’accoglienza di sé, del prossimo e degli eventi, contenuto nella Parola.

Jacopone da Todi poteva esprimersi in modo paradossale nella lauda «O Segnor, per cortesia, manname la malsania» [Signore per cortesia mandami la malattia].

Nel suo poema il rigorista elenca decine d’infermità comuni, e (malgrado ciò) non le considera una espiazione sufficiente, per la nostra stolta irriconoscenza - come se fossimo noi a dover consolare l’Eterno almeno con uno zuccherino:

«Signor mio, non è vendetta/ tutta la pena c’ho ditta:/ ché me creasti en tua diletta/ e io t’ho morto a villanìa».

 

Termini come ingratitudine nostra, penitenza, mortificazione… sono sconosciuti ai Vangeli; hanno costituito viceversa la trama della religiosità che ancora stordisce alcune folle praticanti.

Purtroppo parliamo della più diffusa piattaforma di spiritualità popolare.

Noi preti sentiamo spesso persone di preghiera chiedersi per quale motivo sono state punite con un tonfo particolare della vita, che altri non subiscono in tal guisa.

I farisei avrebbero sottolineato (proprio così): «Benedetto il Giudice Giusto!». Come dire: «imprudenti e peccatori hanno avuto la punizione spettante».

«Lasciamoli al loro destino, intanto si purifichino. Non solo gli fa bene, evitiamo pure di contaminarci!».

Solo con Gesù tutto questo è finito.

Di fronte agli smacchi, Egli non ha mai sottolineato la volontà di Dio, né ha detto: «È la tua croce...».

Non si è neppure immaginato che qualcuno in un tempo futuro potesse giungere a mettergli in bocca il consiglio devoto di “offrire” al Cielo le proprie umiliazioni (divagazione incredibile!).

È il Creatore stesso che negli accadimenti e nell’aiuto dei fratelli si porge a noi per dare senso alla crescita, persino su territori ardui; anche nei momenti dello sconforto, dell’indifferenza, dell’insuccesso.

Il Disegno del Padre non è quello di cristallizzare eroi indifferenti ai traumi; irriducibili i quali perfezionano se stessi esercitando resilienza.

Tutto nelle difficoltà, giungendo a una santità sterilizzata - e sconfortante, che distacca questi “fenomeni” dalla famiglia terrena cui siamo accomunati in carne e sangue.

Il Progetto di redenzione è che diventiamo Figli attraverso una pratica gratuita di Amore simile al suo; unico che non scarta nulla del nostro essere, anzi lo ricupera e dilata.

Non c’è religiosità o tattica paragonabili all’Incarnazione; affinché si soccorra e trasmetta respiro vitale - prossimo e famigliare - a chi è sommerso da onde di morte.

Col carico della sua straordinaria esperienza, Annalena Tonelli designava gli emarginati e disagiati con l’epiteto eccentrico di «Mozart assassinati».

 

Qui la soluzione dei problemi non rinnega il portato umano, bensì tenta di farlo parlare; negli squilibri di tutti, nell’ascoltarne i sintomi, nel dargli piena voce - perché sono spie che già sanno in se stesse cosa non va (v.8).

Solo sulla Parola di Gesù riusciremo ad attuare recuperi inspiegabili - sperimentando noi stessi autenticamente.

E faremo sbocciare futuro, «tirando su» quelle scorze (e i lati cui non abbiamo dato spazio) che nascondono Perle.

 

Da «Maestro» (v.5) a «Signore» (v.8): l’Amico interiore si fa presenza, relazione intima, sistema di riconoscimento e autostima; appoggio non esterno, e trampolino.

Principio e Motore di Pace, pienezza d’essere, temerarietà e sequela (vv.10-11) - quindi Annuncio, fantasia, incisività e conciliazione.

Come sottolineato da papa Benedetto (Angelus 10 febbraio 2013):

«Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo “Maestro” (v. 5), mentre dopo lo chiama “Signore” (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: “Sulla tua parola getterò le reti” (v. 5)».

«Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto».

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali opinioni condizionanti la tua natura e vocazione devi ancora far scivolare via?

Qual è stato invece l’impulso che ti ha incalzato, e dato frutto?

Qual è stata la tua esperienza di prospettive allargate sul mondo, e di recupero inspiegabile?

Credi che tutto ciò possa avvenire anche nel tempo della crisi globale?

Pagina 1 di 38
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
These words are full of the disarming power of truth that pulls down the wall of hypocrisy and opens consciences [Pope Benedict]
Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze [Papa Benedetto]
While the various currents of human thought both in the past and at the present have tended and still tend to separate theocentrism and anthropocentrism, and even to set them in opposition to each other, the Church, following Christ, seeks to link them up in human history, in a deep and organic way [Dives in Misericordia n.1]
Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda [Dives in Misericordia n.1]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.