Controversia sulla discendenza (e sul mondo astratto)
(Gv 8,51-59)
Il passo di Vangelo si rivolge ai discepoli delle comunità giovannee che ancora esitavano a dichiararsi pienamente di Cristo.
Braccati e ingiuriati dai veterani del sapere giudaico, essi facevano difficoltà a identificare l’immanenza dell’Eterno con un semplice falegname.
La dignità di Cristo non può essere stabilita mediante un paragone con le figure più celebri della storia della salvezza: il suo è un essere eterno, sebbene appaia [in noi] di figura insufficiente.
Ma quanto efficacemente comunica, non esiste solo in un luogo o in un momento determinato del tempo.
Quindi non poteva essere strumento per rivendicazioni culturali artificiose, né mezzo per accentuare tare nazionalistiche elettive.
Il suo Mistero sembra difficile da sondare e descrivere.
Per esprimerlo in breve possiamo riferirlo all’Appello di vita preziosa ma non sofisticata, nel paradossale ribaltamento delle categorie «di lassù» e «di quaggiù» (cf. vv.21-30).
La sua è una spiritualità terrestre, non vuota - fondata sull’Amore creativo della Fede personale che supera il senso religioso comune.
E nel credente diventa fucina vitale, che si fa realtà anche sommaria; però continua, presente.
In chi è a Lui unito, il Mistero implicito diventa Persona nuova, zampillante, maestosa nella sua modestia; creativa di luce, eppure senza pretese.
Come qualcuno che sottilmente non ha principio né fine, ovunque.
Sebbene privi di fama conclamata, intimi al Signore anche noi possiamo diventare ponte fra due mondi - senza troppe appariscenze.
Il che insegna a riconoscere «il suo giorno» (v.56).
Qui Gesù rivendica la condizione divina, ridicolizzando il sapere degli esperti antichi, solo difensori di posizione.
E ignoranti del loro specifico - ossia della vita nello Spirito - a parte qualche vago pensiero concordista; parziale, apodittico ma inadeguato, o stravagante.
I leaders antichi o nuovi si sentono sempre sminuiti dalla spada della Parola in atto.
Seme che in chi la riceve, fa propria e coltiva, trasmette una potenza di rigenerazione indistruttibile.
Verbo che emana una prospettiva, un rallegramento dell’essere; nuovi albori, senza la cappa delle discendenze o delle idee à la page.
Chi vuole svincolarsi dalla terra di schiavitù, custodisce tale Proposta. Essa ci emancipa dal senso di appartenenza a tutti i costi, e non muore.
Né capitola di fronte alle insidie del potere antico o glamour.
Sistema che malgrado le grandi promesse non dona la qualità di vita dell’Eterno; non ci fa Alleati.
Al massimo rinchiude nello smarrimento delle devozioni, delle facciate, degli opportunismi, delle fantasie.
Il Nome di Dio che Gesù attribuisce a se stesso indica che Lui è sacramento d’illuminazione.
Non un’immaginetta da tenere sul comodino, cui mandare bacini [per strappare rassicurazioni o posizioni].
Non è questo il Sigillo che effonde.
«Io Sono» non è neppure l’attributo d’un personaggio da annoverare nella galleria di coloro che pur hanno combattuto e pagato le proprie idee - padri nella fede e profeti.
Il Signore è nostro Liberatore. In Lui possiamo dire: «io» con dignità.
Ciò - sebbene come nel brano di Vangelo gli snob o i vecchi (e logici) furbetti del quartierino mondano considerino i veri fedeli degli squilibrati e demenziali.
Chi li segue, purtroppo rimane a guinzaglio della terra di schiavitù e non riesce a esprimere se stesso; resta una pedina di crepuscoli, di contrade anguste.
Tale seguace non sbaglierà “binario” né “maniere”... solo per opinione fissa e allineata.
Invece l’Amico interiore non muore: ci consente anche di vagare, ma sa dove.
Egli guida infallibilmente a destinazione.
Conduce dall’esperienza di stilemi e cappe dottrinali, tutte nobili e sfasate, alla luminosità di orizzonti aperti, vitali perché ancora grezzi, non sofisticati.
Dice il Tao Tê Ching (xix): «Tralascia la santità e ripudia la sapienza, e il popolo s’avvantaggerà di cento doppie».
Commenta il maestro Ho-shang Kung: «Tralascia il regolare e il creare dei santi [...] torna al non agire [secondo propositi o dirigismi] [...] Le attività dell’agricoltura sviluppano il senso comunitario senza egoismi».
Il Signore benedice e approva. Presenza sempre inedita, dispiegata in ogni scintilla e distratta dalle manipolazioni.
Così spinge a valicare cricche condizionanti, e ogni soglia - per accedere a ulteriori esperienze di sé, di gruppo, di Dio, e del prossimo fuori, che diventa intimo.
Proiettati oltre il recinto sacro ridotto a palude, sull’onda della sua Parola correlata agli accadimenti veniamo introdotti nella conoscenza di Colui che ormai esce dal Tempio (v.59).
Dalla religiosità tradizionale o chic, alla Fede personale.
Con l’ampiezza smisurata di concreta e sovreminente Dimora, sempre successiva, che non pesa sul cuore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi il «Se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte»?
E il tuo rapporto con coloro che si sentono dottori specializzati?
Gioia e Speranza, o mondo astratto
«Nelle due letture» proposte oggi dalla liturgia, ha fatto subito notare il Pontefice all’omelia, «si parla di tempo, di eternità, di anni, di futuro, di passato» (Genesi 17, 3-9 e Giovanni 8, 51-59). Tanto che proprio «il tempo sembra essere la realtà più importante nel messaggio liturgico di questo giovedì». Ma Francesco ha preferito «prendere un’altra parola» che, ha suggerito, «credo sia proprio il messaggio nella Chiesa oggi». E sono le parole di Gesù riportate dall’evangelista Giovanni: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia».
Dunque, il messaggio centrale di oggi è «la gioia della speranza, la gioia della fiducia nella promessa di Dio, la gioia della fecondità». Proprio «Abramo, nel tempo del quale parla la prima lettura, aveva novantanove anni e il Signore apparve a lui e assicurò l’alleanza» con queste parole: «Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre».
Abramo, ha ricordato Francesco, «aveva un figlio di dodici, tredici anni: Ismaele». Ma Dio gli assicura che diventerà «padre di una moltitudine di nazioni». E «gli cambia il nome». Poi «continua e gli chiede di essere fedele all’alleanza» dicendo: «Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza e dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne». In pratica, Dio dice ad Abramo «ti do tutto, ti do il tempo: ti do tutto, tu sarai padre».
Sicuramente Abramo, ha detto il Papa, «era felice di questo, era pieno di consolazione» ascoltando la promessa del Signore: «Entro un anno avrai un altro figlio». Certo, a quelle parole «Abramo rise, dice la Bibbia in seguito: ma come, a cento anni un figlio?». Sì, «aveva generato Ismaele a ottantasette anni, ma a cento anni un figlio è troppo, non si può capire!». E così «rise». Ma proprio «quel sorriso, quel riso è stato l’inizio della gioia di Abramo». Ecco, dunque, il senso delle parole di Gesù riproposte oggi dal Papa come messaggio centrale: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza». Difatti, «non osava credere e disse al Signore: “Ma se almeno Ismaele vivesse nella tua presenza?”». Ricevendo questa risposta: «No, non sarà Ismaele. Sarà un altro».
Per Abramo, dunque, «la gioia era piena» ha affermato il Papa. Ma «anche la moglie Sara, un po’ dopo, rise: era un po’ nascosta, dietro le tende dell’entrata, ascoltando quello che dicevano gli uomini». E «quando questi inviati di Dio dissero ad Abramo della notizia sul figlio, anche lei rise». È proprio questo, ha ribadito Francesco, «l’inizio della grande gioia di Abramo». Sì, «la grande gioia: esultò nella speranza di vedere questo giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E il Papa ha invitato a guardare «questa bella icona: Abramo che era davanti a Dio, che si prostrò con il viso a terra: sentì questa promessa e aprì il cuore alla speranza e fu pieno di gioia».
E proprio «questo è quello che non capivano questi dottori della legge» ha rimarcato Francesco. «Non capivano la gioia della promessa; non capivano la gioia della speranza; non capivano la gioia dell’alleanza. Non capivano». E «non sapevano gioire, perché avevano perso il senso della gioia che, soltanto, viene dalla fede». Invece, ha spiegato il Papa, «il nostro padre Abramo è stato capace di gioire perché aveva fede: è stato fatto giusto nella fede». Da parte loro quei dottori della legge «avevano perso la fede: erano dottori della legge, ma senza fede!». Ma «di più: avevano perso la legge! Perché il centro della legge è l’amore, l’amore per Dio e per il prossimo». Essi, però, «avevano solo un sistema di dottrine precise e che precisavano ogni giorno in più che nessuno le toccasse».
Erano «uomini senza fede, senza legge, attaccati a dottrine che anche diventano un atteggiamento casistico». E Francesco ha proposto anche esempi concreti: «Si può pagare la tassa a Cesare, non si può? Questa donna, che è stata sposata sette volte, quando andrà in cielo sarà sposa di quei sette?». E «questa casistica era il loro mondo: un mondo astratto, un mondo senza amore, un mondo senza fede, un mondo senza speranza, un mondo senza fiducia, un mondo senza Dio». Proprio «per questo non potevano gioire».
E non gioivano neppure se facevano qualche festa per divertirsi: tanto che, ha affermato il Papa, di sicuro avranno «stappato alcune bottiglie quando Gesù è stato condannato». Ma sempre «senza gioia», anzi «con paura perché uno di loro, forse mentre bevevano», avrà ricordato la promessa «che sarebbe risorto». E così «subito, con paura, sono andati dal procuratore a dire “per favore, prendetevi cura di questo, che non ci sia un trucco”». Tutto questo perché «avevano paura».
Ma «questa è la vita senza fede in Dio, senza fiducia in Dio, senza speranza in Dio» ha affermato ancora il Papa. «La vita di questi — ha aggiunto — che soltanto quando hanno capito che non avevano ragione» hanno pensato che rimaneva solo la strada di prendere le pietre per lapidare Gesù. «Il loro cuore era pietrificato». Infatti «è triste essere credente senza gioia — ha spiegato Francesco — e la gioia non c’è quando non c’è la fede, quando non c’è la speranza, quando non c’è la legge, ma soltanto le prescrizioni, la dottrina fredda. Questo è quello che vale». In contrapposizione, il Papa ha riproposto di nuovo «la gioia di Abramo, quel bel gesto del sorriso di Abramo» quando ascolta la promessa di avere «un figlio a cento anni». E «anche il sorriso di Sara, un sorriso di speranza». Perché «la gioia della fede, la gioia del Vangelo è la pietra di paragone della fede di una persona: senza gioia quella persona non è un vero credente».
In conclusione, Francesco ha invitato a far proprie le parole di Gesù: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E ha chiesto «al Signore la grazia di essere esultanti nella speranza, la grazia di poter vedere il giorno di Gesù quando ci troveremo con Lui e la grazia della gioia».
[Papa Francesco, s Marta, in L’Osservatore Romano 27/03/2015]