(Gv 13,21-33.36-38)
«Darò la mia vita per te» - pur di comandare.
Gli apostoli darebbero tutto per vincere, non per perdere; per trionfare, non per farsi beffeggiare o darsi in alimento, e curare il mondo.
Meglio negoziare. Altro che lavarsi i piedi a vicenda!
Perciò il Signore desidera che ciascuno di noi commensali si ponga il quesito se per caso non siamo implicati in qualche tradimento.
Non per colpevolizzare e piantarsi lì, ma per incontrarci: ciascuno è ammiratore e avversario del Maestro.
Siamo fulgore e tenebra - fianchi compresenti, più o meno integrati, anche competitivi.
È la Risurrezione che si annida nell’effervescenza della vita, a riscattare poi le motivazioni egoistiche, e trasfigurare in energie collimanti altrove i lati oscuri e in attrito.
Aspetti che diventano come cibi da neonato, per ogni nuova genesi - i quali una volta emersi [piantati sulla terra e accostati alle radici] possono diventare punti di forza.
La strada si blocca solo davanti alla persona che continua a farsi condizionare l’anima da opinioni e mali antichi o à la page.
Lì non si rivela nulla; non avverrà il prodigio della trasmutazione del nostro abisso.
La liturgia della Parola ci mette a contatto con un Gesù pervaso dal senso di debolezza; la sua solitudine si fa acuta.
In missione, anche noi siamo talvolta in balia dello sconforto: forse Dio ci ha ingannati, trascinandoci in una impresa assurda?
No, non siamo ingaggiati e abbandonati a una logica ignobile, a una generazione perversa: la stessa forza della vita è disseminata di pietre tombali ed ha varie facce. Influssi benefici.
Il cammino favorevole è spoglio di prestigio, di mansioni riconosciute e maestà: esse tendono a placarci, e non scavare.
Spesso sono proprio i disturbi che migliorano la capacità di giudizio.
Lo stillicidio può suscitare la voce della parte più autentica di noi stessi, farsi eco incisivo per ritrovarsi, e completarsi - portando avanti il cuore pioniere, invece di trattenerlo.
La strada della prova e dello squilibrio ci desta dall’invecchiamento nocivo dello spirito.
Essa recupera le energie contrarie, i versanti opposti, e i desideri incompatibili, le passioni (alleate) cui non abbiamo dato spazio.
Anche nell’esperienza torturante del limite, Dio vuole raggiungere la nostra semente variegata, affinché essa non si lasci depredare - neppure dallo sgomento di aver attinto insieme il boccone ed essere stati noi i traditori.
Nulla è invalidante.
C’è un solo ambito tossico, cronico, di morte, che annienta tutto e non ha insito nessun germe attivo: quello che offusca e detesta il cambiamento primario.
Lì l’orizzonte si stringe e rimane solo un baratro - o il blando che contagia per farci mollare, e arretrare senza posa, rinnegare e regredire ancora.
Restano infine solo le paure, le mezze scelte, le nevrosi tacitate dal compromesso che tenta di colmare il prezioso senso di vuoto.
Siamo davanti a un Signore ridotto a niente, affinché anche noi ci comprendiamo nelle nostre defezioni; negli episodi in cui accampiamo inutili e devianti artifici, tutti misurati, che affaticano invano.
La storia dell’incomprensibile solitudine del Cristo accanto al traditore e al rinnegato ci sta scritta nel cuore.
È tutta realtà, ma per la salvezza, per una rinnovata intimità e convinzione.
La vocazione missionaria si spegne e ristagna solo per zavorre di calcolo e mentalità comune - ove non si scuote (né tintinna) la nuda povertà dell’essere discorde che siamo.
Senza l’abbandono subìto, l’uomo non diventa universale, anzi tende ad attenuare i migliori strumenti della potenza di Dio.
Su quel terreno stepposo Egli ci sta donando l’amicizia di uno spostamento di sguardo.
Senza l’inquietudine del turbamento profondo e umiliante - senza la consegna della propria umanità nell’estrema debolezza - la nostra marionetta insoddisfatta indugia, accontentandosi.
Malgrado l’ammirazione per i valori, diviene anch’essa larva residuale. Una caricatura dell’essere che potevamo: donne e uomini dall’occhio contemplativo.
Compiuti a partire da dentro, come Gesù.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa tramo quando il Signore mi chiede di rischiare?
Cos’hanno significato per te i gesti non amici, e il rigetto, negli esiti paradossali?
Amare è creare: Gloria che volta pagina
Comandamento Liberazione. Causa Fonte
(Gv 13,31-35)
L’unione vicendevole è l’ultima volontà del Signore. Gesù affida ai discepoli il suo testamento, con una novità radicale.
L’amore al prossimo figurava già fra le prescrizioni antiche, e Cristo sembra ricalcarne la formulazione stessa (Lv 19,18).
Ma il Figlio di Dio non allude solo a compatrioti e proseliti della medesima religione. Egli abbatte le barriere sinora considerate ovvie.
Eppure la grande novità è nelle motivazioni fondamentali.
L’amore reciproco è sulla stessa linea dell’incontro con se stessi - dove per grazia e vocazione si annida un possesso di ricchezze, perfezioni crescenti, che vogliono affiorare.
Da tale scrigno, conoscenza, piattaforma solida, sorge l’afflato del poter donare la vita: ma per accrescerla, renderla piena e rallegrarla - a partire non da condizionamenti esterni e mansioni da espletare o sfruttare.
Infatti il comandamento è «nuovo» non solo perché edificante e di stimolo, ma anzitutto perché rivelatore della propria vocazione e della vita intima di Dio, del rapporto fra il Padre e il Figlio, assunto.
È un legame manifestativo, che diviene fondamento, motivo crescente e motore; energia lucida, che ci dà la capacità di spostare lo sguardo e voltare pagina: introduce una nuova età, un nuovo regno.
Il comandamento «nuovo» dell’amore - unica consegna del Cristo - è cifra della vittoria di Pasqua, teofania e testimonianza del suo popolo autentico: «non con misura» (Gv 3,31-36: 34).
Il «senza misura» è quello delle nozze mistiche fra le due “nature”, dell’amicizia intima che penetra la vita del Padre.
Anche nell’attesa, il senza-confini vivifica l’esistenza e la compie, provenendo dall’esperienza della sostanza e della vertigine - già in se stessi.
È la vita del Figlio in noi: percezione di un poter “stare” costitutivo. Quindi senza perdere interesse nel tempo dell’assenza.
E di poter cambiare; intuizione d’una differente «gloria» (irriducibile) dalle caratteristiche speciali.
Ora non vale più la morale delle religioni: la nostra è un’etica vocazionale e pasquale, nello Spirito che rinnova la faccia della terra.
Ogni proposito, ciascun ruolo, qualsiasi ministero, viene illuminato dalla vittoria della vita sulla morte.
In tal guisa, il comportamento va configurato al Mistero.
Viviamo in Cristo, uomo nuovo: non siamo più sotto doveri “a posto” e prescrizioni. L’attitudine battesimale non può venire misurata.
L’unzione e l’appello ricevuti rispondono all’intima passione, al senso di reciprocità e Pienezza personale, che trasbordano.
Così smuovono mète eminenti: nella partecipazione alla vita colma, eccesso non assimilabile a conformismi e orizzonti medi.
Per un pio israelita avere gloria è dare peso specifico alla propria esistenza, e rivelare il suo completo valore - ma in senso elettivo.
«Fu vera gloria?» - si chiede Manzoni: dalla gloria-vana e vanesia si rotola giù. Tutt’altra la Gloria quale Presenza reale di Dio.
Ecco i dissidi fra comunità e umanità (persone in pienezza); liturgia e realtà, preghiera e ascolto, teologia e vita, proclami e dietro le quinte.
Mentre i Sinottici annunciano Amore universale, l’autore del quarto Vangelo è preoccupato che la testimonianza inespressa dei figli non sia una clamorosa smentita della santità predicata agli altri [dagli “eletti”].
Come diceva Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Non solo per un’opportuna e dovuta valutazione di coerenza morale, ma perché rimandano al Mistero, all’Oro divino.
Solo se collocati sulla medesima onda di bellezza e fascino del «Figlio dell’uomo» contribuiamo a non farlo tramontare o escludere: quanto più si è umani senza doppiezze, tanto più si manifesta il Cielo che è in noi.
Certo, sembra impossibile amare «come» Lui (v.34), ma qui l’espressione greca ha un’altra possibilità di lettura. Il termine originario non indica solo un orizzonte ideale o la misura alta - irraggiungibile per sforzo.
«Kathòs» [avverbio e congiunzione] è dotato di valore generativo, oltre che comparativo.
L’espressione chiave del brano si può intendere: «Amatevi gli uni gli altri per il fatto che Io vi ho amati senza condizioni» ovvero «Perché Io vi ho amati gratuitamente, proprio su tale onda di vita, ora potete amarvi».
Vuol dire: far sentire il prossimo già abilitato - adeguato e libero - è l’unico contrassegno non ridotto della Fede in Cristo.
Insomma, il Padre non è il Dio delle prescrizioni: non assorbe le nostre energie, ma le genera e dilata.
Non pretende di soffocare e sfiancarci.
Il distintivo, l’emblema della testimonianza piena dei figli e delle comunità schiette non è produzione propria.
Conserva una qualità indistruttibile di elasticità e Relazione che non sgomenta, né lascia cadere le braccia: dona respiro.
Non è opera di fanatici spartiacque pro e contro, né d’un individualismo devoto che predica la “salvezza della propria anima” - esasperazione della pietà religiosa e della pedestre morale retributiva dei «meriti».
È il dispiegarsi dell’azione del Figlio dell’uomo (v. 31) che rende potente il calpestato e meschino.
Il Maestro non s’accontenta di fare il gregario accodato, come l’eterodiretto Giuda, apostolo zelante in apparenza.
«Figlio dell’uomo» indica Gesù che manifesta il Padre, l’uomo che rende palese la condizione divina.
La Persona che nella sua pienezza umana riflette il disegno sano delle Origini - possibilità per tutti i rinati in Cristo.
Il sentimento carnale ha fretta di regolarsi sulla base di traguardi e titoli; delle imprese e del successo, o di perfezioni e prestigio dell’amato.
Stabilisce confini.
L’Amore divino (e quello dei figli) è sproporzionato, ha un’altra condotta: previene, recupera; non rompe l’intesa, aiuta.
L’Amore non vagabondo conosce il piccolo, l’incerto e il debole. Sa che essi crescono solo attraverso l’esperienza del Dono, altrimenti si bloccano.
Se il Gratis non soppianta il merito, nessuno si rafforza; anzi, tutti - anche gli energici - rattrappiscono. Condannati a una cappa esterna di norme e dottrine, o di astrazioni e sofisticazioni disincarnate.
Per questo il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo genuino e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato da pubblici peccatori, bensì da coloro che suppongono di sé e avrebbero il ministero di farlo conoscere!
La Gloria divina non ha a che fare con divise, paltò, coccarde o distintivi epidermici; si palesa nella Comunione senza previe interdizioni, nel servizio che si porge agli insufficienti e non ammanicati - da cui sperare... zero.
Nulla che possa essere integrato poi, aggiungendo qualcosina - un semplice “completamento” - alle norme della Prima Alleanza [che non insisteva sulla somiglianza con Dio ma sull’obbedienza di massa].
Le inclinazioni di natura fondamentalista, o le maniere di circostanza e à la page, la brama di prestigio mondano - in realtà - dividono.
La convivialità delle differenze comprende, dilata, accentua l’amalgama e unisce, arricchendo. Apre all’inconsueto e inimmaginabile.
I fondatori di religioni propongono una visione del mondo e sono modelli statici di comportamento.
Non prospettano un’offerta crescente (Gv 14,12: «opere più grandi»). Invito diffusamente personale - profondo e nitido, più del loro.
Gesù non è un “modello” prevedibile da imitare.
È anzitutto - ribadiamo - un Motivo e un Motore: amiamo come e perché Cristo. Vivendo di Lui, ciascuno.
Rischiamo tutto perché siamo all’interno d’un Evento che abbiamo visto, d’una Relazione che non solo persuade, ma ci porta e genera oltre; non in calando.
Non siamo più sotto una Legge che nomina Dio per obbligo, ma nella sfida d’un gesto che ri-crea e via via realizza, rendendo forte la nostra debolezza.
Tanto da stupire dei lati in ombra divenuti risorse e sbalordimento. Tutto senza spersonalizzare; anzi, sottolineando l’unicità.
Questo il comandamento «nuovo».
«Kainòs» è un termine greco che marca differenza, eclissa il resto - nel senso che riassume, supera e sostituisce. Soppianta tutti i comandamenti: ovvi e sotto condizione.
E non ce ne sarà uno migliore, perché la nostra speranza non è il Cielo (già pronto), ma il Cielo sulla terra.
Più del troppo in là del vecchio Paradiso finale a tariffa invariabile e compimento prevedibile. Modico, conformista, a settori; perfino lì articolato secondo ruoli.
E piramidale.