Mag 7, 2025 Scritto da 

4a Domenica di Pasqua (anno C)

IV Domenica di Pasqua, Domenica del Buon Pastore [11 Maggio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Siamo in una settimana decisiva per la Chiesa e i testi biblici di questa domenica aiutano a comprendere meglio la missione del nuovo pontefice successore di Pietro, chiamato a conservare salda la fiducia del popolo cristiano in Gesù il vero Pastore che conosce e ama tutte le sue pecore. Sì, noi siamo suoi e a lui apparteniamo. I discepoli di Gesù, nel corso della storia, hanno davvero bisogno di poggiarsi sulla certezza che nessuno può strapparli dalla mano del Padre!

 

*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (13, 14.43-52)  

Siamo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (nel cuore dell’Asia Minore, oggi Turchia occidentale) un sabato per la celebrazione dello shabbat. C’è molta gente con alcune differenze: ci sono ebrei di nascita, alcuni proseliti cioè persone non ebree ma convertite alla religione ebraica che Luca chiama “convertiti al giudaismo” e pagani chiamati “timorati di Dio” perché essendo sono stati attratti dalla religione ebraica si recano in sinagoga il sabato per lo shabbat, ma pur conoscendo le Scritture ebraiche non accettano la circoncisione e l’insieme delle pratiche giudaiche. Paolo arrivato in città va in sinagoga e vuole anzitutto parlare di Gesù di Nazaret ai suoi fratelli ebrei. Gli apostoli erano tutti ebrei che riconoscevano il Cristo come il Messia e cercavano di convincere gli altri ebrei a convertirsi a Cristo. Paolo predicando nelle  sinagoghe pensava che quando tutto il popolo ebraico sarà convertito, si passerà alla conversione dei pagani poiché il piano di Dio prevedeva due tappe: la scelta del popolo eletto al quale si è rivelato (è l’elezione di Israele) e al popolo eletto è affidato il compito di annunciare la salvezza ai pagani.  Di questa “logica dell’elezione” del piano di Dio scrive il profeta Isaia: “Ti ho stabilito come luce delle nazioni, perché la mia salvezza giunga fino all’estremità della terra” (Is49,6) e, sempre in questa logica, anche Gesù all’inizio aveva detto agli apostoli: “Non andate fra i pagani… andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5). Fin dal primo sabato, Paolo e Barnaba si recano perciò nella sinagoga dove ricevono un’accoglienza favorevole che fa loro sperare che alcuni diventino cristiani. Il sabato successivo tornano in sinagoga e molte persone vanno per ascoltarli. Questo loro successo comincia però a infastidire i giudeii che “quando videro quella moltitudine, furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo”. Luca chiama “giudei” quegli ebrei che rifiuteranno categoricamente di riconoscere Gesù come il Messia. Al contrario i pagani (cioè i timorati di Dio) sembrano più favorevoli come annota subito dopo: “I pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero”.  Ad Antiochia di Pisidia Paolo decide di modificare i suoi piani: se soltanto alcuni ebrei accettano e va abbandonata per ora la speranza di convertire l’intero popolo ebraico a Cristo, il rifiuto della maggioranza degli ebrei non deve però ritardare l’annuncio del Messia ai pagani. Al riguardo sapeva bene che a salvare Israele e l’intera umanità sarà il “piccolo Resto”, di cui Isaia lungamente parla (cf. cap. 1- 12 del libro del profeta Isaia). Paolo capisce che il piccolo Resto formato da Paolo e Barnaba con quanti vogliono seguirli, deve assumere la vocazione di apostoli di Israele e delle nazioni  pagane e afferma: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani” e da quel momento orientano la loro energia missionaria verso i “timorati di Dio” innanzitutto e successivamente verso i pagani. Come appare chiaramente, qui ad Antiochia di Pisidia c’è stata una svolta decisiva nella vita dei primi cristiani.

 

*Salmo responsoriale (99 (100) 1-3.5) 

Questo salmo è stato composto appositamente per accompagnare un sacrificio di ringraziamento ed è chiamato “salmo per la todah” (in ebraico, “grazie” si dice todah).

Già dai primi versetti si vede chiaramente che è pensato per accompagnare una celebrazione nel Tempio: “Acclamate… Servite… presentatevi a lui con esultanza”. Come spesso all’ingresso delle chiese si trova il libretto dei canti, così il libro dei Salmi è il libro dei cantici del Tempio di Gerusalemme adatti ai vari tipi di celebrazioni. Questo salmo fu composto per un sacrificio di ringraziamento e, in Israele, quando si rende grazie, è sempre per l’Alleanza. Salmo molto breve, ogni riga evoca l’intera storia e la fede di Israele e quasi ogni parola richiama l’Alleanza. Del resto, il cuore della tradizione, della fede e della preghiera di questo popolo, la memoria che si trasmette di generazione in generazione è questa fede comune: l’elezione, la liberazione, l’Alleanza. In fondo tutta la Bibbia è qui. Esaminiamo qualche parola: “Acclamate”, la parola impiegata indica un’acclamazione speciale riservata al nuovo re il giorno della sua incoronazione e quindi significa che Il vero re è Dio stesso. “Acclamate il Signore”: nel testo ebraico la parola Signore è espressa con le quattro lettere YHWH (il Tetragramma), che non sappiamo nemmeno pronunciare né tradurre perché Dio è al di là della nostra comprensione, e Dio si è rivelato con questo nome durante a Mosè nel roveto ardente (Es 3). Mosè scopri in quell’occasione  la grandezza di Dio, il Totalmente Altro. Al tempo stesso Mosè riceve la rivelazione della totale vicinanza di Dio: “Ho visto, sì, ho visto la miseria del mio popolo… Ho udito il suo grido… Conosco le sue sofferenze”. “Tutta la terra”: anticipando un evento futuro, Israele intravede già il giorno in cui tutta l’umanità verrà ad acclamare il suo Signore e il popolo d’Israele ha scoperto che la sua elezione è una vocazione a servizio di tutti. In effetti nei salmi ritroviamo sempre legati i due temi: l’elezione di Israele e l’universalismo della salvezza divina. “Riconoscete che solo il Signore è Dio”: c’è qui la professione di fede di Israele: Shema Israel: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno”. “Servite il Signore nella gioia”: nella memoria di Israele, l’Egitto della schiavitù sarà chiamato la “casa di schiavitù”. D’ora in poi il popolo eletto imparerà il “servizio” come scelta di uomini liberi e per questo si può dire che l’esodo fu per il popolo ebreo il passaggio “dalla schiavitù al servizio”. “Ci ha fatti e noi siamo suoi”: questa formula non è un richiamo alla creazione, ma alla liberazione dall’Egitto: il popolo non dimentica di essere stato schiavo in Egitto e che Dio l’ha reso libero, da fuggitivi ha fatto degli ebrei un popolo. Lungo tutta la traversata del Sinai Israele ha imparato a vivere nell’Alleanza proposta da Dio e l’espressione “Ci ha fatti e noi siamo suoi” è diventata una formula abituale dell’Alleanza. Il primo articolo del «Credo» di Israele non è Credo in Dio creatore, ma Credo in Dio liberatore. 

NOTA: La Bibbia non è stata scritta nell’ordine in cui la leggiamo: non si è cominciato raccontando la creazione, poi gli eventi della vita del popolo eletto, come in un reportage. La riflessione sulla creazione è venuta solo molto dopo. Avendo fatto l’esperienza di Dio come liberatore, Israele ha compreso che quest’opera di liberazione dura fin dalla creazione del mondo e la riflessione sulla creazione nasce dalla fede in un Dio che libera. L’antica formula “Noi, suo popolo” tipica della fede ebraica è un richiamo all’Alleanza, perché Dio, proponendo l’Alleanza, aveva promesso: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio”.  L’espressione poi “Noi, suo popolo e gregge del suo popolo” è tipica d’Israele dove il gregge era la ricchezza del proprietario, il suo vanto, ma anche oggetto della sua sollecitudine e delle sue cure ed è per le esigenze del gregge che il pastore nomade spostava la sua tenda nel deserto, seguendo le zolle d’erba per il nutrimento degli animali. Allo stesso modo Dio si spostava con il suo popolo durante il cammino nel deserto del Sinai. Infine “Il suo amore è per sempre” è un ritornello dell’Alleanza che conosciamo bene perché ricorre in altri salmi e qui si unisce al versetto seguente con un’altra formula tradizionale: “La sua fedeltà di generazione in generazione”: “amore e fedeltà” è uno dei pochi modi per parlare di Dio senza tradirlo

 

*Seconda Lettura, dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (7, 9 -17)  

 Il riferimento alla “moltitudine immensa che nessuno poteva contare” richiama la promessa di Dio ad Abramo di una discendenza innumerevole: “Renderò numerosa la tua discendenza come la polvere della terra: se si potesse contare i granelli di polvere, si potrebbero contare i tuoi discendenti!” (Gen 13,16); e poco più avanti: “Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci… così sarà la tua discendenza!» (Gen 15,5); e ancora: “Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare” (Gen 22,17). L’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, ci fa contemplare il progetto di Dio realizzato: una moltitudine composta da tutte le nazioni, razze, popoli e lingue, quattro termini per indicare l’intera umanità, come aveva annunciato Isaia: “Tutti i confini della terra hanno visto la salvezza del nostro Dio” (Is 52,10). La salvezza di cui parla Isaia è l’eliminazione di ogni fame, sete, lacrima e al capitolo 49 si legge testualmente: “Non avranno più fame né sete; il vento infuocato e il sole non li colpiranno più. Colui che ha compassione di loro li guiderà e li condurrà verso sorgenti d’acqua” (Is 49,10). E, soprattutto, la salvezza è la presenza di Colui che è alla radice della vera felicità: “pieno di compassione”, dice Isaia e Giovanni traduce qui : “Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro”. Quando usa questa espressione, i suoi lettori sanno a cosa si riferisce: da sempre il popolo ebraico aspira a questo – che Dio “pianti la sua tenda” in mezzo a loro cioè che Dio abiti stabilmente in mezzo a loro: è il mistero della vicinanza, dell’intimità, della presenza divina permanente. A questo proposito, notiamo che Giovanni nel vangelo ha usato gli stessi termini per il Cristo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Nel popolo ebraico, alcuni avevano l’onore di vivere già, in un certo modo, un’anticipazione di questa intimità: erano i sacerdoti, che servivano Dio giorno e notte nel Tempio di Gerusalemme, segno visibile della presenza di Dio. Qui l’autore sacro intravede il giorno in cui tutta l’umanità sarà introdotta nell’intimità con Dio: “Vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… tutti stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio”. Per descrivere quest’immensa moltitudine egli usa immagini della liturgia ebraica e della liturgia cristiana: tutto questo arricchisce il testo rendendolo al tempo stesso complesso. Quando fa riferimento alla liturgia ebraica, Giovanni allude alla festa delle Capanne o tende (Sukkot), festa che è memoria del passato e anticipazione del futuro promesso da Dio. Si ricorda il tempo trascorso nel deserto quando si era scoperta l’Alleanza proposta dal Dio vicino e si abitava per otto giorni in capanne costruite appositamente. Allo stesso tempo, gli otto giorni annunciavano il futuro promesso da Dio, la creazione nuova (come ricorda ogni volta la cifra otto, anticipo del trionfo del Messia e con lui il compimento del progetto di Dio che consiste nella felicità per tutti). Tra i riti della festa delle Capanne, Giovanni ricorda le palme portate in processioni attorno all’altare dei sacrifici nel Tempio di Gerusalemme. In realtà in tali processioni ciascuno agitava un mazzo (il lulav) composto da vari rami, tra cui una palma (lulav), un rametto di mirto (Hadas), uno di salice (Aravah) insieme a un cedro (Etrog) frutto simile al limone cantando «Hosanna», che significa sia “Dio dà la salvezza” sia “ti preghiamo, Signore, donaci la salvezza”. Leggiamo il testo dell’Apocalisse senza tagli: “Ho visto: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, vestiti di bianche vesti e con palme in mano. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio che siede sul trono e all’Agnello!”.  Un altro rito della festa delle Capanne era il rito della “Libagione dell’acqua”(Nisuakh haMayim), la processione alla piscina di Siloe, l’ottavo e ultimo giorno della festa recando in corteo dell’acqua per aspergere l’altare, un  rito di purificazione che prefigura la purificazione definitiva promessa da Dio per mezzo dei profeti, in particolare Zaccaria: “In quel giorno, acque vive usciranno da Gerusalemme, metà verso il mare orientale e metà verso il mare occidentale” (Zc 14,8). Fu proprio durante una festa delle Capanne, l’ottavo giorno, che Gesù disse (ed è ancora san Giovanni a riferirlo): “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal suo cuore sgorgheranno fiumi di acqua viva” (Gv 7,37). Qui, in eco, Giovanni predice: “L’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita”. Dalla liturgia cristiana, san Giovanni ha ripreso la veste bianca dei battezzati e il sangue dell’Agnello, segno della vita donata per dirci che tutto ciò che la festa delle Capanne annunciava simbolicamente è ormai compiuto. In Gesù Cristo si compie l’attesa del popolo di Dio di una purificazione definitiva, una nuova Alleanza, presenza perfetta di Dio con noi. Con il Battesimo e l’Eucaristia l’umanità partecipa alla vita del Risorto ed entra così nell’intimità di Dio definitivamente.

NOTA: Nella moltitudine immensa (v. 9) la tradizione identifica la Chiesa anche se alla fine del primo secolo i cristiani non erano molti. C’è però una possibile diversa interpretazione: nei versetti precedenti (v 3-8), Giovanni descrive una prima folla (“i servitori del nostro Dio” la cui “fronte è segnato con il sigillo”) e si ritiene che siano i battezzati cioè la Chiesa. La folla immensa vestita di bianche vesti (la veste nuziale) sarebbe allora la moltitudine dei salvati, nella linea della teologia del Servo (cfr. i quattro canti del secondo libro di Isaia), di cui gli scritti giovannei, e non solo, sono tutti impregnati. Pertanto la folla immensa (vv9 e seguenti) sarebbe la “moltitudine” giustificata dal Servo: “Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Confrontati allora con la persecuzione, i cristiani trovavano qui un motivo per resistere perché sapevano che il loro sacrificio era seme di salvezza per la moltitudine.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (10, 27-30)

Giusto dopo il testo che ci propone la liturgia di questa domenica, san Giovanni scrive: “I giudei raccolsero di nuovo delle pietre per lapidarlo” (v.31). Perché reagirono così fortemente e che aveva detto di così straordinario Gesù? In realtà, non è stato lui a prendere l’iniziativa ma si è limitato a rispondere a una domanda.L’evangelista narra che si trovava nel Tempio di Gerusalemme, sotto il portico chiamato “Portico di Salomone”, e i giudei per metterlo alle strette gli chiesero: “Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”(v24). Insomma, siamo davanti a una sorta di ultimatum, del tipo: Sei tu il Cristo (cioè il Messia) oppure no dillo chiaramente una volta per tutte. Invece di rispondere “sì, sono il Messia”, Gesù parla delle  pecore “sue”, ma è la stessa cosa perché il popolo d’Israele si paragonava volentieri a un gregge: “Siamo il popolo di Dio, il gregge che egli conduce”, quest’espressione ricorre spesso nei salmi, in particolare, nel salmo di questa domenica: “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”; un gregge spesso maltrattato, trascurato, o mal guidato dai re succedutisi sul trono di Davide. Si sapeva però che il Messia sarebbe stato un pastore attento per cui Gesù si presenta veramente come il Messia. I suoi interlocutori lo capirono benissimo e Gesù li porta molto oltre perché parlando delle pecore “sue” osa affermare: “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (v. 28). Ma chi può mai dare la vita eterna? L’espressione “essere nella mano di Dio”, era abituale nell’Antico Testamento come troviamo ad esempio in Geremia: «Come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele!» (Ger 18,16, oppure nel libro del Qoelet (Ecclesiaste): «I giusti, i saggi e le loro azioni sono nelle mani di Dio» (Qo 9,1) e anche nel Deuteronomio: «Io faccio morire e vivere, io ferisco e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano» (Dt 32,39), e poco più avanti: «Tutti i santi sono nella tua mano» (Dt 33,3). Gesù fa riferimento a tutto questo e aggiunge: “Nessuno può strapparle dalla mano del Padre” (v.29) mettendo sullo stesso piano “la mia mano” e “la mano del Padre”. E non si ferma lì perché  afferma: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (v.30) che è dire: “sì, sono il Cristo, cioè il Messia” facendosi uguale a Dio, egli stesso Dio. Per i suoi interlocutori, questo era inaccettabile perché si aspettava un Messia che fosse un uomo ma non si poteva immaginare che potesse essere Dio: la fede nel Dio unico era affermata con tale forza in Israele che era praticamente impossibile per dei giudei ferventi credere nella divinità di Gesù. Professando ogni giorno la la fede ebraica: «Shema Israel», «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è il Signore uno solo», non potevano tollerare di sentire Gesù affermare: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Questo spiega perché l’opposizione più accanita a Gesù venne proprio dai capi religiosi. La reazione fu immediata e mentre si preparavano a lapidarlo, lo accusarono di aver bestemmiato facendosi Dio. Ancora una volta, Gesù si scontra con l’incomprensione di coloro che pure attendevano il Messia con maggiore fervore e questo è  una riflessione costante in Giovanni: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto». Tutto il mistero di Cristo è racchiuso in questo, e anche, in filigrana, il suo processo. Eppure, non tutto è perduto; Gesù ha affrontato l’incomprensione, perfino l’odio, è stato perseguitato, eliminato, ma alcuni hanno creduto in lui; lo stesso Giovanni lo dice  nel Prologo del suo vangelo: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto… ma a quanti lo hanno accolto, a quelli che credono nel suo nome, ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,11-12). E sappiamo bene che è grazie a questi che la rivelazione ha continuato a diffondersi. Da quel piccolo Resto è nato il popolo dei credenti: «Le mie pecore ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna». Nonostante l’opposizione che Gesù incontra qui, nonostante l’esito tragico già prevedibile, c’è indubbiamente in queste parole un linguaggio di vittoria: «Nessuno le strapperà dalla mia mano»… «Nessuno può strapparle dalla mano del Padre»: si percepisce qui come un’eco di un’altra frase di Gesù riportata dallo stesso evangelista: “Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv16,33). I discepoli di Gesù, nel corso della storia, hanno davvero bisogno di poggiarsi sulla certezza che nessuno può strapparli dalla mano del Padre.

+Giovanni D’Ercole

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don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

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What does bread of life mean? We need bread to live. Those who are hungry do not ask for refined and expensive food, they ask for bread. Those who are unemployed do not ask for enormous wages, but the “bread” of employment. Jesus reveals himself as bread, that is, the essential, what is necessary for everyday life; without Him it does not work (Pope Francis)
Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona (Papa Francesco)
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]
Jesus, the true bread of life that satisfies our hunger for meaning and for truth, cannot be “earned” with human work; he comes to us only as a gift of God’s love, as a work of God (Pope Benedict)
Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio (Papa Benedetto)
Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper [Pope Benedict]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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